Gianni Bugno, un bel dì Vedremo (2018)


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Dopo un lungo inseguimento e vari rinvii, l’appuntamento è a Monza per un caffè nella sua pasticceria preferita. Ci vedremo “da Viganò, alle quattro”. Tra me e me sorrido, perché è così che lo chiamava Gianni Mura: “Vedremo”. «Perché – ha spiegato lo stesso Mura a Giacomo Pellizzari, autore de Il carattere del ciclista – non sapevi mai cosa ti potevi aspettare da lui». L’appuntamento è a ridosso al mio turno in redazione, ma dopo diversi rinvii finalmente “avevo” Bugno e non sto lì a sottilizzare. Per sicurezza però, cinque minuti prima lo chiamo per conferma e per avvertirlo che io sono già lì davanti. «Ah, io stavo andando a tagliarmi i capèèèèlli», mi fa con una lombardissima “e” aperta. “Gianni, ma mi avevi detto alle quattro”. «Va be’, dai. Cinque minuti e son lì. Arriva in moto («la macchina non ce l’ho»), e ci sediamo per quel caffè. Lì, è solo Gianni. Forse anche l’elicotterista, mestiere che esercita dal 1998. Certo non il bicampione del mondo, vincitore di Giro (sempre in rosa), Sanremo e Fiandre (e piazzato a Liegi e Lombardia). E nemmeno il presidente della CPA, l’Asso-corridori professionisti, prossimo al terzo mandato, poi ottenuto battendo l’altro candidato David Millar: 379 voti a 96. Nel ciclismo attuale non ha interessi di bottega, solo quelli della categoria che lui presiede. Ovvio che a uno così nessuno lasci le leve del potere. Gianni però sa che a volte, per arrivare, serve volare basso. Come in elicottero.

"Pasticceria Viganò"
Monza, martedì 30 gennaio 2018

- Gianni Bugno, che ricordi hai del Giro ’87? Se ti dico “Sappada” che cosa ti viene in mente?

«L’affare Visentini-Roche. Quello mi viene in mente, come fatto eclatante, poi il resto non è che… So che siamo arrivati molte volte su a Sappada ma non ricordo più come-quando-e-perché».

- Tu eri all’Atala ed eri ancora molto giovane.

«Sono passato nell’85, era il mio terzo anno di professionismo. Però era il secondo Giro d’Italia che facevo».

- Che ricordi hai di quella squadra con Franco Cribiori diesse?

«Cribiori non aveva la squadra per fare classifica. Era una squadra fatta sui velocisti, c’erano Urs Freuler e Pierino Gavazzi [che però non disputò quel Giro, nda], quindi era una squadra di outsider. Io ho sempre cercato di puntare alla classifica, di puntar le tappe. Però ero giovane, quindi era una squadra un po’ anomala per quelli che erano i miei obiettivi. L’anno dopo ho cambiato squadra, però con Cribiori son sempre andato bene. Ho imparato tante cose che poi mi son servite».

- Quel giorno di Sappada avevi sentore di quello che in corsa stava succedendo?

«No, perché era una cosa che è successa davanti, quindi lo sapevi sempre dopo. In più eri giovane, quindi lottavi per arrivare, per imparare. Non è che eri sempre tra i migliori, quindi le cose venivi a saperle tutte dopo». 

- Con Roche e Visentini, tuo compagno di nazionale, che rapporto avevi?

«Con Roche e Visentini ho sempre avuto un rapporto buono, ottimo. Son loro che han da dire se hanno avuto un rapporto ottimo o negativo con me. Con loro mi son sempre trovato bene, sia con l’uno sia con l’altro». 

- Da corridore, me li tratteggi dal punto di vista tecnico?

«Visentini è stato un grande corridore, che ha ottenuto meno di quello che poteva ottenere. Uno ostinato, caparbio, sicuro di sé, con ottime qualità di scalatore e di cronoman, più di scalatore che di cronoman; magari un po’ fragile come carattere, perché con l’affare-Roche s’è un po’ demoralizzato. Roche era un corridore più scaltro, completo e che sapeva cogliere le opportunità. Molto più freddo rispetto a Visentini. E quindi, forse, “meno italiano”. Visentini era un corridore… è un italiano. È un carattere che non te la lascia perdere, non te la perdona. Roche invece era molto più freddo, determinato, distaccato. A Visentini il Giro d’Italia interessava, a Roche magari poteva interessare meno perché lui non è italiano. Da lì poi è nata tutta la diatriba, che ancora adesso non si è risolta».

- Si può parlare di tradimento o l’azione di Roche è stata solo una scelta, un evento, di corsa?

«Un evento di corsa. Uno ne ha approfittato e l’altro è rimasto fregato, parliamoci chiaro. È come quando, qualche anno fa, il colombiano Nairo Quintana ha vinto il Giro d’Italia e la tappa sembrava sospesa-non sospesa…» [era la Ponte di Legno-Val Martello, con il Passo Gavia e lo Stelvio; il profilo del Giro d’Italia fu pubblicato questo tweet: «Comunicazione sbagliata: nessuna neutralizzazione della discesa dallo Stelvio. Scusateci per l'informazione sbagliata. Grazie.», nda].

- Lì forse ha sbagliato anche la RCS Corse, se non altro come comunicazione, no? 

«Sbagliato… Il corridore ha colto l’opportunità e ha vinto. La ragione va sempre a chi ha vinto, mai a chi ha perso. Mi dispiace per Roberto. Per me è stato un corridore di riferimento. L’ho sempre apprezzato fin da quando ero piccolo. Era uno dei miei idoli. Mi dispiace per lui perché in quel momento ha perso un po’ le staffe, quando invece poteva tranquillamente competere con Roche. Quel “tradimento”, tra virgolette, quel colpo basso da parte di un suo compagno di squadra, certamente non gli ha giovato. Però bisogna dire anche che la corsa è corsa quindi ognuno fa la propria. Purtroppo si son trovati due caratteri contrapposti, e Roche ha avuto la meglio». 

- Tu come la vedi quando ci sono due galli nel pollaio, due capitani che possono entrambi far classifica? Ti è mai capitata una situazione di questo tipo nelle tue squadre?

«Sì. Basta avere l’intelligenza di capire chi è più forte e dargli una mano. Se si è in due, è meglio, no? Se si è da soli, è peggio. Se si è in due e si va d’accordo, è la cosa migliore». 

- Che ricordi hai di Roberto, magari in nazionale, dove avevate modo di conoscervi meglio?

«Era simpatico, un po’ introverso, però è sempre stato un corridore con cui mi son sempre trovato bene, perché era sincero, leale. Di lui ho sempre avuto questa sensazione: per me era un corridore sincero e leale». 

- È vero che correva sempre in decima posizione a destra? Prendeva tanto di quel vento in faccia…

«Lo facevo anch’io».

- Infatti: te lo chiedo perché in tanti hanno visto delle analogie fra te e Visentini, e non solo caratteriali.

«Ho sempre fatto anch’io così». 

- Il motivo qual era? 

«Eviti tante cadute. Io non son mai stato capace di andare in bicicletta, quindi…».

- Dici, eh?

«Sì-sì. Non son capace di andare in bicicletta. Sono uno che soffre di vertigini, non sono capace di andare in bicicletta e sono concentrato su quello che devo fare».

- Le vertigini sono una conseguenza di quella tua caduta a Rodi Garganico, la labirintite, o non c’entrano?

«Nooo. Non ho le vertigini. Non mi piacciono le cose che “scivolano”. A me piace restare attaccato per terra».

- Strano per uno che ha preso il brevetto di pilota e per mestiere da vent’anni guida gli elicotteri. Dal punto di vista tattico, Roche era più bravo a leggere le corse e Visentini era più istintivo? 

«Roche era tattico, Visentini era molto più creativo. Però il vantaggio che Roche aveva è che era più freddo nel saper reagire nelle situazioni negative. Visentini era un istintivo. Faceva quello che doveva, poi, se le cose non andavano come dovevano andare, aveva il crollo psicologico. Ti ripeto, è un corridore che ho sempre ammirato. Secondo me è stato uno dei più grandi. Mi è dispiaciuto per come ha lasciato il ciclismo, perché lui era uno che poteva fare bene al nostro mondo, molto più di tanti altri. Mi piacerebbe che tornasse e potesse rivestire qualche carica. O perlomeno, che potesse tornar dentro e insegnare qualcosa a corridori che ancora non han capito come si corre in bicicletta».

- Tu hai provato a coinvolgerlo in qualche modo?

«No».

- Perché sai già che la risposta sarebbe no?

«No, non ci ho mai provato perché non ne ho mai avuta l’occasione. Però so che non è neanche facile dirgli: vieni. Perché se guardi la gerarchia, la dirigenza, è quella che c’era anche trent’anni fa. Nessuno molla il cadreghino». 

- Ho visto i giornali dell’epoca. Qualche capello bianco in più, o niente più capelli, ma le facce son quelle…

«Le facce son quelle. Se cambiasse un po’ la situazione, non sarebbe male. Sarebbe meglio. Io come presidente della CPA [Cyclistes Professionnels Associés, l’Asso-corridori internazionale, nda], come nuovo presidente federale, se non si ricandida Renato Di Rocco, di cui ho molta stima, mi piacerebbe che fosse l’Argentin della situazione. Un ex corridore, uno che ha fatto la corsa ed è molto intelligente. Sempre che lui accetti. Però quando lo vai a proporre mettono sempre davanti problemi, mai delle soluzioni. Per me un Argentin, o adesso c’è anche Cordiano Dagnoni, presidente del comitato lombardo, cioè vorrei che uno di questa generazione – che è la mia generazione – prendesse in mano il ciclismo, perché qualcosa di positivo potrebbe imporre».

- Tu sei presidente dell’Asso-corridori. Per te sarebbe il terzo mandato consecutivo.

«Io mi son proposto. Se mi riconfermano sì, altrimenti vorrà dire che anch’io, come Visentini, dovrò lasciare il mondo del ciclismo. Perché il mondo del ciclismo è in mano a quegli stessi dirigenti da più di cinquant’anni».

- Col tuo carattere, con le tue idee, che difficoltà da dirigente?

«Nessuna difficoltà ho trovato, io. Ho lavorato per la Shimano…». 

- …grazie al tuo storico legame con Amedeo Colombo?

«Esatto, poi Colombo ha lasciato e ho lasciato anch’io. Io non ho interessi nell’ambito del ciclismo, quindi se dico che questo è bianco è perché è bianco, se dico che è nero è perché è nero. Perché non ho nessun interesse, mentre nell’ambiente, chi in un modo, chi in un altro, son tutti… Però è ovvio che quando vai a parlare con loro, tu sei una mosca bianca, perché loro sono più esperti di te, conoscono la materia. Tu non la conosci e ti devi mettere a studiare i manuali».

- A proposito: è vero che vi arrivano faldoni in inglese, magari pochi giorni prima delle votazioni e non avete neanche il tempo materiale per leggere tutte le documentazioni?

«Che arrivino il giorno prima, quello sì. Sai, quando vai lì, fai le votazioni, tu puoi anche dire no. Però il tuo “no” non viene messo agli atti e allora si rifà: tre son “no” e cinque son “sì”, e quindi è sì. Però questo è il sistema».

- Oltre al sistema che cosa si può cambiare per dare più peso politico alle componenti tecniche?

«Tu non è che vai lì, decidi una cosa e la discuti. La cosa è già discussa dalle commissioni e poi proposta alla CPA, che poi fa la votazione. Ma è già stata discussa, quindi arriva già quasi decisa. Poi c’è chi può essere d’accordo e chi no, ma la maggioranza vince».

- Rispetto a quando correvi tu, che analogie e differenze trovi? In cosa il ciclismo è migliorato o peggiorato?

«Per me è peggiorato. Quando c’era Hein Verbruggen [alla presidenza UCI, nda] l’idea di fare il sistema-Ecclestone poteva essere valida, perché davi un mondo, un prodotto, a un numero di sponsor limitato che reclamizzavano i propri prodotti con un prodotto, il ciclismo, che ha un’audience superiore alle altre discipline, a parte olimpiadi e mondiali, che si fanno ogni quattro anni. Quindi, quella è stata un’ottima idea. Però è sbagliato che non ci siano 18 squadre che abbiano quelle cifre per quattro anni, e che se non hai uno sponsor grosso, non puoi entrare. Il Team Sky ha un budget di 30-35 milioni di euro, mi dici come posso competere io con una squadra da 7-8 milioni? Io son sempre un Pro Tour ma non posso competere con una squadra come la Sky. È giusto che i corridori guadagnino, però così… Tu mi puoi dire: sì, ma anche il Milan ha un budget della madonna e l’Atalanta ha un budget diverso… Non so, la formula potrebbe essere: ok, alle corse a tappe il budget deve essere uguale, per tutti. Cioè: se Froome costa tot, la squadra deve avere un budget massimo di dieci milioni di euro, e in dieci milioni di euro ci devono star dentro tutti i corridori della squadra».

- Bruno Reverberi, per fare un esempio, batte invece su un altro tasto: i punti invece del tetto agli ingaggi, peraltro facile da aggirare magari facendoti un contratto di sfruttamento dell’immagine…

«Son loro che lo fanno, con i “loro” procuratori, che è la cosa che mi fa girare i coglioni». 

- Allora una soluzione potrebbe essere quella di agire sui punti. Perché ormai si corre per i punteggi, no?

«E come fai? Se un corridore vince una corsa a tappe, anche i suoi compagni dovrebbero avere i punti che ha il corridore che l’ha vinta. Solo che l’UCI non lo fa, perché sarebbe un lavoro della madonna. Però il gregario dovrebbe guadagnare gli stessi punti del suo capitano. Dovrebbero essere valorizzati sia i capitani sia i gregari perché sennò si perdono uomini importanti». 

- E come fai a quantificare se il gregario A ha lavorato così e il gregario B cosà? Come li distribuisci i punti?

«Beh, lì ci son le squadre. Se io sono una squadra, do il punteggio al primo, secondo e terzo, e tutti gli altri compagni che possono arrivare solo quarto, quinto, sesto, settimo, aiutano quelli che arrivano primo, secondo e terzo e di conseguenza loro prendono i punti. È inutile che io dia i punti dal primo al sessantesimo. Perché trovo sempre in squadra qualcuno che fa il furbo per arrivare magari sessantesimo. Allora: io do il punteggio solo al primo, al secondo e al terzo. Tutti gli altri devono aiutare i più forti ad arrivare primo-secondo-terzo. Basta. Se il primo mi prende cento punti, quello che ha aiutato mi prende dieci punti. Vedi che alla fine viene premiato chi aiuta? Allora: io aiuto per cento chilometri, poi mi ritiro e oltre a ritirarmi, oltre ad aver lavorato, mi son anche perso il posto in squadra? Poi vai a spiegarglielo tu a…».

- Perché questa cosa non passa?

«Perché non c’è interesse, e poi diventerebbe un calcolo troppo oneroso. Io ridurrei i punti. Poi c’è il punteggio di squadra, di classifica. Le squadre prendono i punti in funzione di quelli che hanno vinto le corse. Ridurrei i punti. Basta. Allora vedrai che han più valore. I corridori che fan punti son pochi. Dopo, certo, avere 700 corridori che hanno non so quanti punti… Invece avrai 100 corridori che hanno i punti, gli altri sono messi nella stessa maniera. Però, degli altri 600 corridori che hanno aiutato, una parte ha guadagnato dei punti, quelli che non hanno aiutato vanno in fondo alla classifica. E quindi staranno a spasso».

- Per fare un confronto: tu nell’87 eri all’Atala, una bella squadra ma certo non uno squadrone. 

«Era una bella squadra. Dignitosa, condotta bene. Mai avuto problemi». 

- Che differenza c’era con la Carrera dell’epoca?

«La Carrera puntava alle corse a tappe. L’Atala era una squadra piccola che puntava alle corse di un giorno». 

- E come budget, che forbice c’era?

«Non c’era la distanza che c’è oggi. Sky viaggia con “ventiquattro” pullman. Hanno un pullman solo per i materassi, una lavatrice per corridore. Poi, per parlare con un loro corridore, devi andare da “ventiquattro” addetti stampa. Io ho fatto il corridore, ho mangiato merda come mangian merda loro. Una volta, quando uno veniva da me o da un altro corridore, ci si sedeva a fianco e ci parlavi. Adesso, per avvicinarti a un corridore, devi superare “venti” cordoni. Prima devi avere il badge. Poi devi chiedere: scusa, posso parlare con quello là? È per quello che non vado più alle corse. E io [dei corridori] sono il presidente. Ma non vado alle corse perché mi sono rotto i coglioni di veder ’sto sistema qua. Tutti ’sti pullman, corridori che scendono, occhiali, casco, quando ti guardano non ti guardan neanche. Giustamente, perché son concentrati sulla corsa. È cambiato il sistema. Non si trovan più la sera a parlare tra di loro. Tutti col loro telefonino e tutto quanto, vabbè, ci sta anche…». 

- Insomma quel famoso costume da re oggi non lo indosseresti. Te lo impedirebbero gli addetti stampa, o magari sarebbero loro stessi a importi di indossarlo…

«Ah, sì, sì. No, io non trovo corretto ’sto sistema. Io ho fatto il corridore, so cos’è correre in bicicletta. Sembra che noi siamo dei delinquenti, poi vedi che loro son uguali a tutti gli altri. Fanno sport come abbiam fatto sport noi. Il ciclismo è dipinto come se chissà cosa abbia fatto. Invece il ciclismo è una disciplina come le altre».

- Qui ti riferisci ad altro.

«Ad altri problemi. Il ciclismo ha pagato lo scotto che gli altri sport non hanno mai pagato». 

- Questo è imputabile anche al fatto che voi corridori, intesi come categoria – proprio per come questo sport è strutturato, una realtà professionistica in cui magari il primo interesse è trovare il contratto (o lo sponsor) per l’anno seguente – siete poco uniti, e quindi molto deboli?

«I corridori sono i più forti, però son deboli perché sono disuniti. Non riescono a capire che se fossero tutti insieme… Froome pensa ai cazzi suoi, l’altro che vive in Australia pensa ai cazzi suoi... I corridori che contano sono dieci-quindici, gli altri saranno cento gregari che gli stanno dietro e tutto il resto va dietro a questi qua. Però chi fa la voce grossa viene accontentato e via andare. Poi ci mettiam di mezzo i procuratori, che guadagnano la percentuale solo per fargli il contratto, e spostarli da un’altra parte, che è un costo in più, perché alla squadra il corridore costa il 5-10 percento in più, solo per farlo spostare da una parte all’altra. Poi ci son delle leggi da rispettare, e nessuno le conosce. A me piacerebbe poter parlare con un corridore normalmente. Con qualcuno parlo, con qualcuno riesco a parlare, tranquillamente».

- Quindi dei corridori a dimensione umana ci sono ancora…

«Ci sono ancora corridori con cui riesci a parlare. Io vorrei ritornare a poter parlare. “Oh Gianni, ciao, come stai?”. Prova ad avvicinarti a Froome, se ci riesci. Non ci riesci. Io adesso Froome l’ho difeso per quello che è successo, potevo anche fregarmene. Ho detto solo che, finché non è dimostrato che è colpevole, per me lui è innocente. Punto. Io non posso dare ragione a uno o all’altro. Son tutti corridori e son tutti da difendere. Però mi piacerebbe che il nostro sport – uno sport che è vicino al pubblico – diventasse un po’ più umano. E che ci fosse anche una “sinergia” tra gli ex corridori e i nuovi campioni. Non vorrei che ci fosse questa “scissione”, che loro sono gli idoli e noi siamo delle merde. Capito? Noi facciam parte di un ambiente, noi siamo cresciuti e abbiam fatto crescere anche loro. Noi siamo venuti da Coppi, il ciclismo è cresciuto. Invece vedo che c’è questa differenza, questa distinzione, dettata anche dai dirigenti del Team Sky, che pensano che loro siano il mondo perfetto e tutti gli altri il mondo imperfetto. Non è così. Siamo tutti sulla stessa barca e tutti lottiamo per vincere una corsa, che poi – alla fin fine – è una riga che passi prima degli altri». 

- Questa cosa l’hai vissuta sulla tua pelle? Quando eri tu un giovane campione, i veterani ti facevano capire che…

«Io vedevo Bartali. Bartali veniva lì con la sua Golf. Sapevamo che era Bartali, lo rispettavamo e gli davamo del lei. Ti sto parlando di Bartali, non di me. Bartali ha fatto la storia del ciclismo. Froome ancora non l’ha fatta».

- Torniamo a Sappada ’87. Come valuti l’operato di Boifava in quella situazione? E ne hai viste o vissute altre di situazioni così, con altri direttori sportivi? Ti faccio due esempi in casa Team Sky al Tour: Froome e Wiggins nel 2012, Landa e Froome nel 2017, cioè quando c’è un co-capitano va più forte dell’altro e deve piegarsi agli ordini di scuderia.

«È il lavoro loro. Devo dire io cosa devon far loro? Innanzi tutto non si deve arrivare in quella situazione. Il direttore sportivo deve sapere a priori quali sono le condizioni, com’è la situazione. Non voglio vedere situazioni tipo Wiggins-Froome. Io di Wiggins sono un grande ammiratore, m’è sempre piaciuto come corridore. Anzi, se ti capita di sentirlo digli: c’è Gianni che è un tuo estimatore. Mi è sempre piaciuto, fagli i miei complimenti. Anche a Froome, naturalmente. Però, sai, non deve arrivare alla situazione che Froome si volta indietro…». 

- Gianni Mura, più che un attacco, quell’azione la definì «uno sgarro».

«Esatto. Non è bello per il pubblico. Difatti, Froome non ha raccolto le simpatie del pubblico su queste cose qua. Perché anche lui vive in quell’ambiente asettico, in cui non ha contatti col pubblico, e il pubblico questa cosa la percepisce. Te lo dice uno che non gliene frega niente. Io non vado alle corse perché mi rompe i coglioni dover andare a chiedere il permesso, per favore, a uno che fa il buttafuori, o l’addetto stampa. Io vado a parlare con un corridore, so quando lui può parlare, so quando è il momento, so quando non è il momento. Ho un pass che mi permette di andare dove voglio e quindi, di conseguenza, vado e parlo con chi dico io. E so quandodevo parlare. Non ho bisogno che tu mi dica: no, non puoi entrare. Se il corridore deve fare una cronometro e si sta preparando, non vado a rompergli i coglioni. Oppure, non mi conosce. Se non mi conosce, prendi e leggiti un libro e capisci un po’ come funziona il ciclismo, qual è la storia del ciclismo. Allora poi ne possiam parlare». 

- A proposito di filtri, al Giro ’87 hai visto in corsa pessimi comportamenti di certi pseudotifosi italiani che ce l’avevano con Roche? 

«Ma sì, è normale. Quando c’erano Moser e Saronni, stessa roba. È normale, è quello che la gente vuole. È vero che non è bello, però fa parte del ciclismo. Se non ci fosse… Non dico di arrivare a quegli eccessi, però la gente è così, cioè la passione che il pubblico vive».

- Io all’inciviltà non riesco a rassegnarmi. Scusami, sarà un mio limite…

«Io non sto dicendo l’inciviltà».

- No, perché li successero cose brutte.

«Beh, a Froome han tirato addosso il piscio».

- Ecco: il livello è quello.

«A quel livello lì, no, però ci vuole anche… Posso anche fischiare uno che mi sta antipatico, no? È successo anche a Froome, che, poverino, stava difendendo la sua maglia gialla contro un francese. Però lì il fischio ci sta, è normale». 

- Non ci sta è che ti sputino addosso riso e vino rosso, che ti lancino brandelli di carne come per dirti ti facciamo a pezzi, che ti colpiscano, o provino a buttarti a terra. Tutte cose che Roche ha vissuto, per colpa – anche – di una certa campagna mediatica.

«Quello non deve succedere». 

- Volevo sapere se quelle cose le avevi viste di persona.

«No, no. Quello del ciclismo è un pubblico educato. Poi, certo, nella moltitudine c’è anche il cretino». 

- Con quali direttori sportivi ti sei trovato meglio? 

«Corti, Ferretti. Ferretti l’ho trovato gli ultimi anni, e mi è dispiaciuto non averlo trovato prima perché mi avrebbe fatto più che bene». 

- Stanga?

«Stanga era più team manager che direttore sportivo. Con Cribiori ero agli esordi. In Mapei c’era Fabrizio Fabbri ma ero a fine carriera». 

- Del tuo Ct Alfredo Martini cosa mi dici? Per te stravedeva.

«Con Alfredo ho sempre avuto un ottimo rapporto. Lo vedevi tutto l’anno però purtroppo ci facevi solo una corsa all’anno e quindi già è difficile. Era un ottimo politico, sapeva gestire una nazionale “vera”, perché era fatta di corridori che potevano vincere. Non era come quella di adesso, e anche quella di adesso si potrebbe gestire se si corresse in maniera diversa». 

- Perché quello là, Peter Sagan, non va portato in carrozza all’arrivo?

«Allora; ci sono tre mondiali di merda, no? Uno [Richmond 2015] sapevan tutti che lo vinceva lui perché… uno strappettino... il secondo [Doha 2016], non ne parliamo, là nessuno sapeva neanche che esisteva un mondiale. La fortuna ha voluto che son arrivati con un podio della madonna [Sagan, Mark Cavendish, Tom Boonen; nda]. Tanto di cappello. Però a “correre” erano solo quelli, non c’era altra gente». 

- Sagan fu anche fortunato: in mezzo a tutti quei ventagli, stava per perdere il treno buono.

«Comunque, era un mondiale fatto ad hoc. Tutti volevano arrivare in volata e in volata sono arrivati. Il terzo: ma che cazzo me ne frega a me che arriva quarto Trentin in volata. Trentin mi deve partire all’ultimo chilometro, fa la sparata, arriva ai quattrocento metri, prende la bicicletta e deve sdraiarsi per terra». 

- Non era quello il piano? Forse più di così non si poteva fare.

«Ma vuoi battere Sagan in volata? Porti Sagan in volata?». 

- No, ma forse gli azzurri non avevano le forze per fare quello che dici tu.

«E allora per chi tiri? Se metto un Ferretti, sta’ tranquillo che dice: non ho il campione? Ho una buona squadra, che può giocar le sue carte, ho Trentin che va forte; dall’altra parte chi ho? Sagan, quella gente lì. Ma io questi qua non me li porto. Se questi vogliono arrivare in volata, arrivano loro in volata. Sennò io gli spacco il culo, a costo di far tirare tutta la squadra. E quando arrivo, alla fine, alla stampa dico: io ho giocato le mie carte, le mie carte erano queste, ha vinto il più forte, che è Sagan, perché ha saputo chiudere i buchi. Non che io metto un mio corridore l’ultimo chilometro a tirare la volata… Hanno tirato l’ultimo chilometro! Per arrivare in volata. Ma ti sembra normale?! Per arrivare quarto con Trentin...». 
CHRISTIAN GIORDANO

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