El Abrazo del Alma (Argentina '78)
Marco Dellamula - Calcio-nostalgia
12/10/2018
È difficile per chi non sia un sudamericano capire che cosa rappresenti il calcio in quell’universo sociale e culturale. Esso è molto più di uno sport, è praticato come se fosse un’arte e specialmente viene vissuto quale una religione in cui la partita è un rito sacro di amore e morte. Le violente inimicizie personali e nazionali, le sparatorie, la proibizione esistita di matrimoni fra persone tifose di squadre differenti, la divinizzazione dei campioni, circondati da un’aureola mitica come i vincitori di Olimpia nell’antica Ellade, si comprendono soltanto ricordando che un torneo di calcio in Sud America è una guerra santa.
L’ immaginario collettivo vuole che sia il Brasile il paese colpito dal mal di football per eccellenza e la tragedia vera del 1950, quando la sconfitta alla finale della Coppa del mondo gettò l’intera nazione in lutto (proclamato ufficialmente dal governo) con un’epidemia di suicidi, sembra confermarlo. Ma è possibile smaniare per il calcio ancora di più dei brasiliani e gli apici della passione lo toccano argentini e uruguagi.
Le vittorie dell’arci-rivale Brasile e del fratello rivale Uruguay nelle Coppe del mondo erano (sono in verità) ferite all’ orgoglio argentino ed esacerbavano il rammarico dei gauchos, convinti di essere i migliori al mondo nel culto al dio calcio, ma incapaci di essere riconosciuti come tali e poter finalmente portare l’alloro dei campioni del mondo. I tornei mondiali dal 1930 al 1974 erano stati per l’Argentina una successione ininterrotta di amarezze e rimpianti: sconfitti con qualche sfortuna dall’Uruguay nel ’30; assenti nel ’34 e ’38 per scelta politica (nel '34 fu inviata una rappresentativa minore) ; il vuoto degli anni della seconda guerra mondiale, quando il River Plate schierava una prima linea di cinque autentici fuoriclasse; i contrasti nella federazione che portarono al fallimento del 1950 etc. etc. etc.
Quando al Paese sudamericano fu assegnata l’organizzazione dei mondiali del 1978, la nazione intera si preparò con uno stato d’animo particolare. Era l’occasione, forse unica e irripetibile, di vincere finalmente un mondiale.
L’ Argentina in quegli anni era sotto il regime militare di Videla, giunto al potere con il colpo di Stato del 1976, e divisa fra i suoi sostenitori e i peronisti in una situazione di guerra civile strisciante, che assisteva allo scontro armato fra la violenza dei militari e quella di terroristi. Eppure, la preparazione al mondiale coinvolse tutto il popolo argentino, che, spaccato in due politicamente, era però unito nel calcio e nell’impegno sia di preparare degnamente la manifestazione, sia di vincerla. La stessa scelta del tecnico, Cesar Luis Menotti, era caduta su chi era ostile alla giunta militare, ma che era ritenuto l’uomo adatto a rimediare all’individualismo estremo dei giocatori argentini e dare una tattica alla squadra. La formazione albiceleste era naturalmente ottima, ma non si potrebbe certo definire come la migliore della storia dell’Argentina. Quel che fece la differenza fu la coesione insolita dei suoi giocatori, che accettarono le prescrizioni dell’allenatore, mettendo da parte gli atteggiamenti da primadonna che spesso in passato avevano danneggiato la Selección.
Il Paese intero sospinse e sostenne i suoi calciatori, sino alla finale contro un’Olanda brava e fortunata. Buenos Aires era imbandierata con i colori nazionali e pareva, di casa in casa, un unico stadio. Tranne chi era impossibilitato a seguire la gara, tutti gli argentini finirono davanti allo schermo televisivo o all’ ascolto della radio quando l’arbitro italiano Sergio Gonella fischiò l’inizio della finale nel Monumental (la casa del River Plate), ovviamente stracolmo.
La gara incominciò in lieve ritardo, perché i beniamini di casa entrarono nell’arena bollente con qualche minuto in più rispetto all’ orario prestabilito: avevano avuto bisogno di caricarsi ancora oppure era pretattica per innervosire gli avversari? La partita non fu bellissima sul piano tecnico, ma intensa e drammatica su quello agonistico. Gli arancioni, muscolari ed aggressivi, contro gli arcigni argentini, un match molto "maschio" tenuto a freno da Gonella che seppe impedire che finisse in rissa. Il portiere argentino Fillol con i suoi voli ed il feroce libero Passarella, vero mastino, frenarono l’orchestrale manovra olandese. L’ Argentina segnò con il suo centroavanti Kempes al 38’, innescando una gioia irrefrenabile. Nel secondo tempo la pressione olandese si fa asfissiante e gli artisti argentini hanno qualche difficoltà dinanzi al dinamismo ed alle doti tattiche degli avversari, ma la loro difesa regge, finché all’81’ il gelo scende su tutto il paese sudamericano. Nanninga approfitta di un errore dei difensori biancocelesti ed incorna una palla imprendibile per Fillol. Quando ormai l’orologio tocca il 90’ ed i tempi regolamentari sono pressoché chiusi, l’arancione Rensenbrink dopo lungo fraseggio dei compagni s’infila nell’area piccola e calcia con precisione e scelta di tempo: era un tiro che avrebbe potuto far arrivare la coppa nella terra dei tulipani. La palla taglia fuori il portiere proteso nel suo gesto disperato di protezione e lo supera, avvicinandosi all’indifesa linea di porta, tutta vuota e spalancata. La diabolica pelota, proprio mentre sembra destinata a cadere nel sacco ed a gonfiare la rete, nel terror panico di tutti gli argentini nello stadio e davanti al televisore che assistono inorriditi ed impotenti alla scena da incubo, cade beffardamente sul palo e rimbalza via. Si andò ai supplementari, con la stanchezza che appesantiva le gambe di tutti. Il calcio totale olandese, così dispendioso di energie, non riesce più ad esprimersi con la brillantezza di prima, mentre gli argentini possono puntare sulla loro arte migliore. È ancora Kempes a segnare al 104’, festeggiando con le braccia alzate al cielo. Come avviene di solito in questi casi, l’Olanda si abbatte e l’Argentina segna ancora con Bertoni. Il fatidico triplice fischio di Gonella è per il popolo argentino non solo la vittoria in una coppa del mondo, ma la fine di una maledizione che gravava sul suo calcio. Da Buenos Aires alle Ande, passando per la pampa sterminata, tutti gli argentini fanno festa freneticamente.
Ma è un’immagine ad essere destinata ad immortalare la vittoria dei gauchos, passata alla storia come ‘El abrazo de alma‘, ‘L’abbraccio dell’anima’. Appena finita la partita, il portiere Fillol si buttò a terra davanti alla mezzaluna dell’area e si strinse le braccia sul corpo, come a voler abbracciare l’intero popolo argentino. Sopraggiunse il terzino Tarantini ed abbracciò il suo compagno. In quel momento, arrivò un terzo uomo, che però non era un calciatore ma uno spettatore. Era Victor Dell’Aquila, un giovane privo di entrambe le braccia, che portava un maglione le cui maniche ciondolavano vuote nell’aria. Dell’Aquila era un calciatore dilettante, che perse entrambe le braccia all’età di 12 anni in un incidente. Era rimasto però un grande appassionato di calcio, del Boca Juniors nel campionato argentino ed ovviamente della sua nazionale. Egli si gettò sui due calciatori, quasi cercando di abbracciarli senza poterlo fare fisicamente ma guardandoli intensamente, come se lo stesse facendo davvero. La scena, ripresa da un fotografo con vari scatti e pubblicata sulla copertina di una rivista, divenne conosciuta proprio col nome di "El abrazo del alma". "Toqué el cielo, amigo. Te puedo asegurar que gracias al fútbol toqué el cielo con las manos...", dichiarò poi Dell’Aquila. Quest’uomo, monco da entrambe le braccia, era (è, perché ancora vivo) così appassionato di calcio che aveva imparato a giocarlo e bene, dovendo rieducare tutto il corpo al complesso equilibrio dei diversi movimenti senza l’aiuto delle braccia perdute. La sua casa è un sacrario di fotografie ed immagini calcistiche. Poche persone possono dire di aver rappresentato la passione estrema e sincera degli argentini per il calcio quanto Victor Dell’Aquila. A distanza di 36 anni, la Coca Cola ha deciso di far ritrovare i protagonisti di quell’abbraccio ed i due calciatori hanno fatto (simbolicamente, causa la sua invalidità) sollevare il trofeo della coppa del mondo ad un sorridente e felicissimo Dell’Aquila.
Marco Dellamula
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