L’ABBRACCIO DELL’ANIMA




IL POTERE INARRESTABILE DELLA COMUNICAZIONE.

Quando nel 1971 Paul Watzlawick scrisse insieme a Janet Helmick Beavin e a Don D. Jackson “La pragmatica della comunicazione” il messaggio dirompente che veicolò fu che i rapporti interattivi tra individui fossero determinati essenzialmente dai tipi di comunicazione adoperati.

In quest’opera fondamentale vennero stilati cinque assiomi della comunicazione, il primo dei quali afferma che sia impossibile non comunicare.

Questa premessa ci porta a riflettere sulla infinità d messaggi che possiamo produrre in ogni momento e in maniera più o meno consapevole.

Nel 1978 il fotografo Ricardo Osvaldo Alfieri colse un’immagine rimasta poi nella memoria storica di un campionato del mondo complicatissimo e dai sapori ancora incredibilmente contraddittori.

La nazionale di calcio Argentina si era appena laureata campione del mondo, dopo aver battuto l’Olanda in una partita sanguinosa (chiedere a Neeskens e Luque) e il portiere Fillol al fischio finale si accasciò a terra abbracciandosi da solo, raggiunto poi dal compagno Tarantini.

I due giocatori si avvinghiarono in una stretta quasi fusionale, inginocchiati sul campo che li aveva visti vincitori e a cui potevano abbandonarsi senza più temere sconfitta.

In quel momento furono raggiunti da un tifoso, Victor Dell’Aquila, che voleva condividere con i suoi eroi un momento unico nella storia del calcio argentino e, per farlo, usò tutto il suo potenziale comunicativo.

Il titolo che si meritò, in maniera quasi naturale, quella fotografia fu “El abrazo del alma”, una sinestesia che avvicinò il contatto tattile delle braccia con il sentire più profondo dell’anima umana.

La caratteristica fisica di Victor era quella di non avere le braccia da quando aveva 12 anni, perciò, il suo abbraccio dovette inevitabilmente far conto su altri aspetti della comunicazione, la sua postura prona, l’espressione mista tra urgenza e commozione.

Tutto questo prima di fondersi in una matassa umana che fondeva giocatori con tifosi senza aver bisogno di aggrapparsi ad alcun confine di alcun tipo.

Probabilmente il campionato del mondo argentino del 1978 è stato uno di quelli più chiacchierati, controversi, indecifrabile ed irrisolvibile.

Tante volte il calcio si è mescolato alla politica e altrettante volte ne è diventato un suo strumento potentissimo, rimanendoci inevitabilmente appiccicato per sempre negli almanacchi.

Quante volte abbiamo sentito etichettare quella competizione come i mondiali della vergogna, quanti di noi ritengono che la nazionale argentina sia stata aiutata dagli arbitri in occasioni determinanti?

Nell’ascoltare le interviste di molti dei giocatori presenti alla manifestazione parecchie persone continuano a storcere il naso e ad interrogarsi come fosse possibile non accorgersi di nulla o, ancor peggio, convincersi di farlo.

La complessità di quel mondiale risiede proprio nel fatto di dover metter insieme, per poterne dare la visione più coerente possibile, tutti questi aspetti di cui è stata imbevuta quella manifestazione.

I papelitos sui manti erbosi, definizioni definitive come “desaparecidos”, le braccia esultanti tese verso il cielo di Mario Kempes e i fazzoletti che fasciavano i volti corrosi dal dolore delle madri della Plaza de Mayo.

Recuperiamo il primo assioma della comunicazione secondo cui sia impossibile non comunicare perciò, anche tacendo, omettendo, soffocando nel silenzio, sappiamo che non si può impedire alla nostra natura comunicativa di emergere.

L’ESMA, luogo in cui avvenivano le torture ai dissidenti di quel folle regime, e lo stadio Monumental di Buenos Aires distavano solo poche centinaia di metri ma emotivamente erano su galassie siderali diametralmente opposte.

Urla di gioia che cercarono di ammutolire quelle di dolore, l’euforia che tentava di riequlibrare il terrore, l’unione collettiva che voleva scordarsi per pochi minuti da una solitudine abissale, probabilmente la sfida nel raccontare quel campionato del mondo sta proprio nel dover accettare un elenco di parole incredibilmente incompatibili.

Ma è possibile che i giocatori non sapessero nulla?

E se sapevano, perché non hanno fatto nulla?

Sapevano ma non potevano (o non volevano) fare nulla!

Difficile da accettare? Moltissimo! Ma se approcciamo un avvenimento così complesso con semplicità commettiamo un grave errore.

Quella fotografia ha invece il potere unico di rappresentare quel mondiale in tutte le sue contraddizioni, un abbraccio apparentemente incompleto che, invece, riesce a farsi sentire senza toccare a trasformare una limitazione in una vicinanza inarrestabile.

Nel raccontare lo sfondo terrificante di quella manifestazione si è sempre cercato di trovare paladini sportivi che, in realtà, non hanno mai avuto interesse a vestire quei panni, come il portiere svedese Ronnie Hellström a cui per anni era stata attribuita una presenza, poi smentita da lui stesso, al fianco delle madri della Plaza de Mayo.

Anche Cruijff venne indicato come difensore dei diritti umani per la sua assenza volontaria dalla competizione, salvo poi smentire lui stesso una motivazione che, invece, era legata a dei tentativi di rapimento subiti dalla sua famiglia.

Insomma… un mondiale che sembra non piacere a nessuno, salvo ai giocatori argentini che hanno sempre difeso con veemenza il loro diritto alla possibilità d’inseguire la vittoria o, forse, di poter credere nella neutralità dello sport.

È successo anche che, nella smania di trovare potenziali eroi tra le fila degli avversari, sia passato sotto traccia il saluto di Tarantini condito d’irriverenza e autopalpazione genitale prima di stringere la mano al generale Videla.

Forse il più vicino ad incarnare il paladino che tanto abbiamo cercato, per contrastare le brutture della giunta militare, è Jorge Carrascosa, capitano di quella Selección fino all’autoesclusione avvenuta in prossimità dei mondiali.

“El Lobo”, questo il suo soprannome, non ha seguito la sua natura solitaria e ha mandato un messaggio a tutti noi che sopravvivrà per sempre, le nostre scelte non ci identificano ma spesso ci rivelano.

E cosa c’entra un ragazzo senza braccia con l’immagine di un regime che, attraverso il calcio, voleva esportare al mondo un’immagine di forza ed efficienza?

La risposta sta nella scarsa reattività di un fotografo sessantaseienne che, rispetto ai suoi colleghi ventenni, ha dovuto rispettare gli acciacchi di un corpo più appesantito cogliendo immagini apparentemente più marginali.

In realtà quella fotografia ha colto tutto, dolore, gioia, imperfezione, eccellenza ed eternità.

Victor Dell’Aquila ha restituito, per un attimo, umanità ad un contesto che non ne aveva più e lui, che dalla natura non aveva avuto come tutti, come pochi ha trasmesso emozioni grandissime.


BIO: Davide Bellini

Sono nato a Sanremo nel 1973 e vivo a Ospedaletti con mia moglie Yerlandys e i nostri due figli, Filippo e Santiago.
Dopo la maturità classica al Cassini di Sanremo, in mancanza di alternative significative, mi iscrivo alla statale di Milano, facoltà di lingue. Galleggio per un quadriennio (in realtà è stata piuttosto un’apnea!) mentre nel frattempo la mia passione per la musica spazza via tutto e mi porta e mettere su una band di glam rock (idea geniale da avere a metà anni 90 mentre il mondo è incantato dal Grunge!). Il tempo e il talento non dirompente (diciamola così per salvaguardare l’autostima…) mi hanno aiutato a capire che il sogno della rockstar sarebbe rimasto tale. In nome di quel sogno ho passato 8 mesi a Londra e in quel periodo ho recuperato l’amore per la lettura, in particolare per la psicologia e la filosofia. Dai sogni infranti rinasce la voglia di studiare e d’iscrivermi alla facoltà di psicologia a Pavia dove mi laureo con una tesi sulla delfino terapia applicata all’autismo. Inizio a lavorare nelle scuole all’interno degli sportelli di ascolto e in centri di aggregazione giovanile. In seguito, per 5 anni, ricopro il ruolo di vice direttore di una comunità educativa per minori. Col tempo mi specializzo in psicoterapia a orientamento sistemico-relazionale. Riesco a mescolare la mia passione per lo sport con la mia professione conseguendo un master in psicologia dello sport. Dal 2011 mi dedico esclusivamente all’attività privata di libero professionista come psicologo psicoterapeuta.

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