Totò Schillaci - Lui e la Signora istinto selvaggio


Zoff, Maifredi e Trap i suoi tecnici in bianconero: buona la prima stagione, opache le altre due 
A Boniperti ricordava Anastasi 
Le prime due reti a Verona nel giorno della morte di Scirea 
La lite con Baggio e il guantone

19 Sep 2024 - Corriere dello Sport
di Roberto Beccantini 
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Salvatore Schillaci detto Totò è stato tutti noi nell’estate del 1990, l’estate delle notti magiche meno una, quella con l’Argentina di Diego Armando Maradona, il Mondiale del bronzo, dei sei gol e dello scettro di capocannoniere; del secondo posto nella classifica del Pallone d’oro, dietro a Lothar Matthaeus e davanti ad Andreas Brehme; delle Coppe Italia e UEFA con la Juventus.

È stato sempre, in compenso, uno di noi, siciliano di Palermo, tanta gavetta e quella lingua un po’ così, brada e mai vaga, figlio di amori e sudori, il calcio passione e strumento di rivalsa. Si formò all’Amat, la società dei trasporti cittadini. Crebbe ed esplose nel Messina, dove trovò, come maestri, Franco Scoglio, il professore, e Zdenek Zeman, il missionario.

Centravanti di ruolo, dall’istinto selvaggio, i fondamentali stampellati, la pupilla bramosa. La Juventus lo arruolò nel 1989, quando l’allenatore era Dino Zoff. Dicono che Giampiero Boniperti avesse scorto nel suo stile naïf, legato ai momenti e slegato dagli schemi, tracce di Pietro Anastasi, il Pelé bianco di Catania, i cui «stop a inseguire» sarebbero diventati il manifesto dei migranti.

Tre stagioni a Torino, e tre tecnici: dopo Zoff, Gigi Maifredi e Giovanni Trapattoni. Con Dino conquistò Coppa Italia e Coppa UEFA. Il nove era di Pierluigi Casiraghi, l’undici di Totò e l’otto di Rui Barros, il nano portoghese che sfuggì persino al Milan di Sua Intensità Arrigo, come documenta la doppietta dell’11 marzo 1990. Trenta partite, Schillaci, 15 gol: i primi due, il 3 settembre 1989, a Verona. La domenica dell’annuncio di Sandro Ciotti: «Gaetano Scirea è morto in un incidente d’auto in Polonia». Millenovecentonovanta: il suo anno santo. Opportunista di scuola ruspante, capace di mangiarsi gol che, per Boniperti, «un giocatore normale realizzerebbe dieci volte su nove», cominciò a declinare in fretta. Maifredi aveva portato la zona, e da Firenze era arrivato Roberto Baggio, compagno-rivale in Nazionale, al netto dei ruoli. Precipitò, Madama, al settimo posto, senza Europa e senza ma. E lui, non più di 5 reti in 29 gare. Era schietto oltre ogni ragionevole gaffe e un pomeriggio a Bologna, sull’onda dell’1-0 sancito dal rigore del Codino, litigò con Fabio Poli: «Ti faccio sparare». Era l’11 novembre ’90. Due turni di squalifica a Poli, perché nel referto era spuntato improvvisamente un pugno, uno a Totò.

E lo scherzo di Roby Baggio, ma sì. Spogliatoio, Totò sta leggendo un quotidiano. Il Codino ne disturba e scompagina il rito. Il «proprietario» non gradisce e gli molla una manata in faccia. Attimi di tensione. E quindi armistizio pubblico, se non proprio pace ad usum taccuini. Passa un giorno e i due si vedono recapitare un guantone da boxe. «Perché così potrete regolare meglio i vostri conti». Firmato, Boniperti.

Con il Trap non scocca la scintilla: 31 gettoni, 6 gol. Il primo al Foggia (di Zeman) sul neutro di Bari, l’ultimo all’Inter. E proprio all’Inter, si trasferisce, dal 1992 al 1994, ma pure lì non tornerà più l’infallibile cowboy del rodeo mondiale: 30 presenze, 11 gol. Curiosamente, chez Madama era sbarcato, intanto, Gianluca Vialli, un altro che aveva sfidato, con Andrea Carnevale e Baggino, al Mondiale intitolato alla sua cazzimma e ai suoi guizzi.

Spiccioli di Giappone, da apri-pista, e il ritiro, sofferto, tra scuole calcio, isole dei famosi, fiction anti-mafia, pruriti politici e quel privato difficile da domare perché fin troppo pubblico. Scrivere che ha ballato una sola estate è forse sbrigativo. Diciamo, allora, specialmente una: «quella». Viveva per il gol: «il resto è folclore», ha dichiarato Ruud van Nistelrooy riferendosi ai cecchini di professione.

Mi piace immaginarlo mentre corre verso la porta, la palla al piede ma non palla al piede, grezzo, sordo ai moccoli di compari e avversari, roba da ridere per uno venuto su tra i casermoni del quartiere Cep, il chiodo fisso del gol e l’ossessione che qualcuno glielo rubi, non importa chi. In campo, non ha mai contato fino a dieci. Di destro, in agguato, dal limite, persino di testa o di sinistro: tutto e subito. Se bastava, evviva. Se non bastava, giù labiali da bettola. Totò è stato questo. Uno che si è fatto notare per poco, ma che ricorderemo per sempre.

Commenti

Post popolari in questo blog

Dalla periferia del continente al Grand Continent

Chi sono Augusto e Giorgio Perfetti, i fratelli nella Top 10 dei più ricchi d’Italia?

I 100 cattivi del calcio