Il campione in bici e lo scrittore


«Caro Cuore matto, tu sei stato il mio idolo»
«Quella volata in cui persi non volevo rivederla più»

Secondo all’arrivo
Ero solo in testa, toccavo il traguardo con le mani, ma volevo vedere dietro che cosa facevano 
Due auto mi ostruivano la visuale e mi sono spostato in mezzo al vento

Con le biglie al mare

In spiaggia da solo facevo la pista e cercavo di farti vincere. 
Però ogni tanto fermavo la tua biglia per due o tre tiri, 
perché come nella realtà aveva problemi cardiaci...

L’amore per la Juventus
Io e mia moglie eravamo all’heysel, i biglietti ce li aveva procurati Merckx. 
All’ingresso mi hanno tolto una bottiglietta d’acqua, poi ho visto gli inglesi con le casse di birra

27 Jan 2025
Corriere della Sera
Dal nostro inviato a Empoli Roberto De Ponti

Gigio Bellandi aveva 12 anni nel 1972. Il 6 agosto, mescolato tra una popolazione variopinta di bagnanti, tifosi, avventori, tabagisti, Gigio Bellandi sta a Fiumetto, in Versilia, al Bagno Stella davanti a una televisione in bianco e nero cercando di ritagliarsi lo spazio vitale per intravvedere gli ultimi chilometri del Mondiale di ciclismo. Gap, Francia, la voce inconfondibile di Adriano De Zan a raccontare la corsa.

Gigio Bellandi è tifoso di Franco Bitossi, detto "Cuore matto".

Gigio Bellandi trattiene il respiro quando scorge Bitossi in testa alla corsa a una manciata di metri dal traguardo. E ancora oggi, a 64 anni compiuti, riesce a raccontare nei minimi dettagli quella volata che non ha mai più voluto rivedere.

Bitossi che si presenta da solo sull’interminabile rettilineo finale, col gruppo cento metri dietro che si agita e sbanda, ferito, furioso, come fosse un unico mostro a cento teste. Bitossi che insiste. Il gruppo che rimonta. Bitossi che resiste. Il rettilineo finale non finisce più, finiscono prima le forze di Bitossi, e c’è Merckx, in testa al gruppo. Bitossi si gira, sa che non dovrebbe girarsi ma lo fa, si gira e vede il gruppo lanciato verso di lui, e si pianta — ma il traguardo è lì, a due pedalate, a una pedalata — e mentre il gruppo lo divora, lui e il gruppo piombano insieme sulla linea bianca.

Alla fine vincerà Marino Basso, veneto di Caldogno come Roberto Baggio. Bitossi è soltanto secondo, o se preferite miracolosamente ancora secondo. Il francese Cyrille Guimard terzo. Il grande Eddy Merckx, il Cannibale, appena quarto.

Gigio Bellandi è il protagonista di Settembre nero, il romanzo di Sandro Veronesi. Franco Bitossi, nel libro, è l’eroe sfortunato. Gigio Bellandi, anche se l’autore tende a minimizzare, è un po’ Sandro Veronesi. E Sandro Veronesi ora è seduto, quasi inginocchiato, davanti all’idolo di Gigio, e quindi anche il suo, Franco Bitossi, nell’appartamento dal decoro e dalla severità d’altri tempi che l’ottantaquattrenne campione divide con la moglie Annamaria. Pensi di trovarci trofei dei tempi del ciclismo e in effetti ci sono anche, nascosti in uno studio. Il soggiorno invece è affollato di foto, sciarpe, cuscini e calendari bianconeri, un autografo di Del Piero in bella vista: Bitossi è tifosissimo della Juventus. «La vede quella coperta con il logo della Juve? È di mia moglie, ne è gelosissima», rivela. E dalla cucina arriva chiaro e forte un «guai a toccarmela!»: è la signora Annamaria, più tifosa del tifosissimo marito. Anche Sandro Veronesi è tifoso della Juve. Anche Gigio Bellandi. Siamo in un covo bianconero.

Eppure, per uno strano contrappasso, a Veronesi tocca sedersi, quasi inginocchiarsi appunto, su un pouf color granata. Ma sono sottigliezze. È il tifoso che incontra il suo campione. Basta innescarli, e parte uno scambio di ricordi e di emozioni.

Gigio Bellandi, racconta nel libro, quella volata non l’ha mai più voluta rivedere.

«Io invece sì, ho dovuto rivederla per documentarmi», quasi si giustifica Veronesi. «Ma non serviva, l’avevo stampata in mente come fosse ieri».

E lei, Bitossi, quante volte l’ha vista? «Mi viene da ridere...».

Troppe?

«All’inizio anch’io non volevo rivederla. Poi, ogni volta che mi invitavano a qualche serata, me la sono ritrovata sullo schermo. Ma io ricordavo comunque ogni centimetro di quella corsa».

«Anche noi che tifavamo per te. Ripensarci è sempre una sofferenza».

Come lo ha perso, quel Mondiale?

«Ho commesso degli errori. Diversi errori. Oggi quello che è successo nel finale non succederebbe».

E che cosa è successo?

«Per capire quel finale bisogna andare indietro di un anno, al Mondiale di Mendrisio».

Addirittura? E che cosa è successo a Mendrisio 1971?

«Siamo andati in fuga in quattro, abbastanza presto, perché un corridore belga aveva forato e ho pensato: diamo un po’ di battaglia. Ci siamo ritrovati con 5 minuti di vantaggio. Nei quattro però c’era un altro belga, che non tirava, e noialtri tre abbiamo pensato che portarlo al traguardo e farci battere da lui non era una grande idea, così alla fine ci siamo lasciati riprendere. E nell’ultima discesa sono andati via in diciassette mentre io sono rimasto intruppato. Peccato, perché ne avevo ancora».

«Alla fine, se ricordo bene, vinse Merckx in volata su Gimondi».

«Sì. Vinse Merckx, come al solito».

E così l’anno dopo non ha voluto ripetere lo stesso errore.

«A Gap la gamba non è che fosse il massimo ma non mi sentivo poi così male, e qualche giorno prima ho chiesto al c.t. di lasciarmi fare un allenamento da solo su quel percorso che aveva tanti saliscendi». «Era già Alfredo Martini?».

«No, Martini arrivò tre anni dopo. Non ricordo il nome, era un lombardo...».

«Mario Ricci». Sandro Veronesi è un vademecum vivente dello sport.

«Sì, Ricci. Gli dissi: guarda, devo provare il percorso a modo mio. Sono partito senza spingere, poi su una salita vedevo davanti uno che andava, andava e non riuscivo a prenderlo. Mi sono messo a pedalare forte e quando finalmente l’ho raggiunto mi sono accorto che aveva una gamba sola. Ho pensato: non riesco nemmeno a superare uno senza una gamba, figuriamoci se posso battere Merckx...».

E invece, il giorno della corsa...

«Il giorno della corsa è successo che il primo attacco l’ha fatto proprio Merckx. Appena dopo il traguardo, la strada continuava a salire ed è partito. Io lo controllavo, così l’ho ripreso subito. Eddy era un amico, mi ha chiesto il cambio, mi ha detto “da solo non ce la faccio”. Poi a noi due si è aggiunto Zoetemelk. Ho detto a Merckx: guarda, se in cima alla salita siamo ancora noi tre comincio a tirare, ora no perché dietro ci sono quattro italiani».

Classico gioco di squadra.

«Io pensavo a correre per il gruppo, tanti invece pensavano a correre per sé e basta, e abbiamo perso Mondiali così. A Mendrisio, Gimondi era in fuga con Merckx e sapeva che avrebbe perso, ma ha tirato lo stesso. Io con Gimondi e con Adorni avevo collaborato per farli vincere».

«Ma te hai vinto di più che Adorni, molto di più. In realtà Bitossi ha vinto tantissimo, è uno che vuole vincere sempre. Gare importanti e gare più piccole. Te lo ricordi quante ne hai vinte?». «Centosettantuno».

«E che gare... hai vinto 21 tappe al Giro, 4 al Tour, 2 Giri di Lombardia, 3 Campionati italiani. Sei sempre stato molto competitivo». Un vademecum vivente, appunto.

«Ho sempre gareggiato per vincere. Quando ho smesso di correre in bicicletta, ho cominciato a giocare a bocce con gli amici: mi ha preso la passione e sono diventato campione italiano senior».

Ok, però adesso torniamo a Gap. Nel frattempo il gruppo è arrivato?

«Sì, ma il giro dopo ci siamo ritrovati di nuovo in quella situazione là. Basso doveva curare Merckx, Gimondi invece non c’era, era dietro, e alla fine al traguardo si è lamentato: perché non mi avete aspettato?».

Risata. E puntualizzazione di Veronesi: «Eravate in tre italiani nei sei in fuga, come facevate ad aspettarlo?...».

«Così siamo andati via. Basso marcava Merckx, io Guimard. Guimard parte, gli altri mi urlano di andare a riprenderlo e io vado. Aveva appena vinto il Tour, era in condizione. Penso: se io collaboro, questo in volata mi batte. Mi ha chiesto due o tre volte il cambio e io gli ho detto di no. Allora si è rialzato e gli altri ci hanno raggiunto. Se collaboravo si arrivava da soli noi due». «Però vinceva lui...».

«Al 99 per cento».

E poi lo scatto a sorpresa.

«Non appena siamo tornati in sei io sono scattato di nuovo. Gli altri non si aspettavano che ripartissi subito. Riparto io e gli altri mi mollano. Merckx è un amico e non mi attacca, Guimard stava tirando il fiato, gli altri non avevano interesse a venirmi a prendere. Insomma, ero convinto di avercela fatta, all’ultimo chilometro avevo 300 metri di vantaggio. Si scendeva giù e poi si risaliva, tutto dritto. Vento trasversale forte. Io a destra ero coperto da una siepe di persone, quindi tutto perfetto».

Che cosa è andato storto allora?

«A un certo momento, quando la strada ha cominciato a salire, ho messo rapporti più agili. Mi sembrava di non andare troppo agile, il traguardo mi sembrava di toccarlo con le mani, mi sono alzato sui pedali, e le gambe dopo cento metri “trac”». «Bloccato».

«Sono andato in acido lattico».

«E poi hai cominciato a spostarti in mezzo alla strada. Perché?».

«Volevo continuare a destra, riparato dal vento, però dietro di me c’erano due macchine che mi coprivano la visuale. E io ero in debito d’ossigeno, volevo vedere se gli altri arrivavano o rimanevano lì, e ho visto che facevano un po’ di “biscia”, come succede quando qualcuno attacca. Per vederli però mi sono dovuto spostare e sono andato a finire in mezzo alla strada. Se non ci fossero state quelle macchine, sarei rimasto a destra coperto e avrei vinto».

«Se la corsa finiva cinque metri prima vincevi comunque te».

«Sarebbe bastato che Merckx non partisse lungo. Hanno fatto la volata per il secondo posto, soltanto che io ero fermo...».

Non poteva essere felice, perché le avevano appena scippato una maglia iridata. Ma non poteva neppure lamentarsi, perché aveva vinto un suo compagno di squadra. Situazione difficile.

«È stato un periodo complicato, avevo appena fatto secondo al Campionato italiano, ora secondo al Mondiale. E prima, al Giro era successa una cosa strana, avevano mandato a casa me, Motta e Zandegù per spinte sulla salita dello Jafferau, ma...».

Belloooo, bello e impossibile. Con gli occhi neri e il tuo sapor mediorientale... Quando la voce di Gianna Nannini irrompe in salotto, la suoneria del cellulare di Bitossi appare vagamente improbabile per un uomo di 84 anni. Poi però realizzi che, quando la Nannini la cantava, Bitossi di anni ne aveva 44. E la Gianna è toscana come lui, come la signora Annamaria. E come Sandro Veronesi e Gigio Bellandi.

«Chi è?! Sì, sono a casa. Ora sono qui con due persone che devono scrivere qualche cosa». Clic. «Era mio cugino in pensione, ora fa l’idraulico».

Scelta interessante, la Nannini come suoneria.

«Mi è sempre garbata...».

Ma invece lei, Veronesi, quella volata come l’ha vissuta?

«Noi s’era in tanti a vedere la corsa, e quindi non si sentiva la voce del telecronista. S’era tutti lì a urlare, a incitare: vai, vai, non ti girare! Sembrava proprio che ti si stesse parlando, e quando è arrivato tutto insieme il gruppo, noi non s’è sentito — perché De Zan lo disse subito che aveva vinto Basso — ma noi si vide un italiano con le braccia alzate e si disse “ha vinto, ha vinto!”, e per un minuto o due noi si credeva che avessi vinto te. Poi s’è visto che Basso rideva e te piangevi... non s’è sentito l’audio della televisione perché si vociava troppo noi. Quindi lì è stato addirittura peggio, perché te ti sei accorto che avevi perso. Noi no! Noi si pensava che te avessi vinto».

«Una delusione ancora peggiore», sorride Bitossi quasi sorpreso.

«S’era capito che te eri piantato e quest’altri arrivavano come treni, però sul traguardo alza le mani, ha vinto, lo saprà. E invece era un altro. E guarda, era italiano, nessuno ce l’aveva con Basso, che aveva fatto di male Basso nella vita?... Fu un dolore vero, per noi in Toscana... però adesso che ho scritto questo libro, con questa pagina dedicata alla volata, mi sono accorto che non è più una questione toscana, ma tutti hanno avuto una ferita quel giorno».

Bitossi arrossisce: «Forse sono quegli eventi... un po’ come accadde a Dorando Pietri».

«Sì ma qui tu eri amato già prima. Perché eri combattivo, perché eri sempre all’attacco, perché ci avevi il cuore matto. Basso era uno che lo portavi all’ultimo chilometro e poi piazzava la volata. Era un velocista...».

«...ed era un birbantello anche...». Risatina furba.

Però quel Mondiale non è passato alla storia del ciclismo come il Mondiale di Basso ma come il Mondiale di Bitossi.

«E io ho una curiosità», aggiunge Veronesi: «Tra arrivare primo e arrivare secondo quanti soldi correvano?».

«Poca roba, c’era un premio normale. Poi però la vittoria incideva, perché se io andavo a fare un circuito mi davano centomila lire, da campione del mondo me ne davano duecento».

«E col secondo posto no?»

«Il secondo posto conta nulla». Altra risata, questa volta un po’ amarognola.

Ovviamente lei non ha cominciato ad andare in bicicletta per guadagnare.

«Macché. Il babbo mi comperò la bicicletta da uno di Montelupo, di quelle vecchie con il cambio dietro, per farmi andare a lavorare, perché dovevo fare 3 chilometri per quattro volte ogni giorno. Così mi prese la passione della bicicletta. E andavo forte. Un giorno un mio amico che lavorava con me mi disse: c’ho un mio amico che lavora dai Bitossi delle ceramiche, che conosce una persona che lavora da lui che è dirigente di una società sportiva. Alla fine mi hanno tesserato».

«Ma una visita per l’idoneità sportiva te la fecero?».

«La fecero sì. A Firenze, al centro medico alle Cascine».

«E lì andava bene il cuore?».

«Ma al cuore non s’è mai visto nulla, neanche dopo, perché avevo un’extrasistole. Ho scoperto che cos’era solo nel ’67, perché in gara a Carmignano, all’inizio di una salita, mi sono bloccato. Resto in coda al gruppo, mi avvicino alla macchina del dottore e gli dico: “dottore, senta un po’ questo polso”. Mi ha guardato allibito: “Hai 220 battiti”. Andavo in tachicardia parossistica. E mi prendeva anche dove non c’era motivo. Sempre in corsa, mai in allenamento. Di solito ai piedi dell’ultima salita».

Così è diventato Cuore matto.

«Come la canzone di Little Tony. Andava di moda e mi hanno chiamato così. Quando avevo gli attacchi, appoggiavo la testa al manubrio e mi spingevo le pupille con le dita, e i battiti mi tornavano normali».

Mai avuto paura di morire in corsa?

«Non ci ho mai pensato... Certo, uno come me oggi non lo fanno mica correre».

Il suo cuore matto l’ha resa ancora più amato dai tifosi.

«Non lo so, può darsi...».

«Te lo dico io: sì! Te non hai idea di quanto ti si voleva bene. Sai che da ragazzino, quando giocavo a biglie da solo in spiaggia, ti facevo sempre vincere? Con la biglia di Bitossi tiravo un po’ meglio che con le altre. Però era Bitossi, e allora ogni tanto la fermavo per due o tre tiri, perché aveva il cuore matto. Vincevi le tappe ma i Giri non li vincevi mai, come nella realtà».

A proposito di tifo, mi pare che ne abbiate uno in comune.

«La Juve», confessa Veronesi. «Ma nel contado di Firenze ce n’è tanti di juventini».

«Io tifoso della Juve da sempre», conferma Bitossi. «E alla Juve tifavano per me. Una volta vado in ritiro a trovare la squadra, chiacchiero con Boniperti e dalla portineria arriva uno: presidente, c’è al telefono l’avvocato per lei. E Boniperti: “Digli che ora sono impegnato e lo richiamo io più tardi”. Ha fatto aspettare Agnelli per me».

Trattamento da tifoso VIP.

«Io ho sempre tifato Juve nel bene e nel male. Con il mio figliolo Massimiliano eravamo ad Atene alla finale di Coppa Campioni nel 1983».

«Ahia...», si lascia sfuggire Veronesi.

Certo, quella dell’amburgo e del gol di Magath...

«Quella. E purtroppo... purtroppo io e la mi’ moglie siamo stati anche all’heysel nel 1985. Aveva pensato a tutto Merckx: ci aveva preso i biglietti, l’albergo, il volo, tutto. Ricordo che entrando allo stadio avevo una bottiglietta di plastica e me la levarono subito. Vietata. Poi ci fanno passare davanti alla curva Z per raggiungere il nostro posto in tribuna, e gli italiani sono tranquilli. Passiamo davanti agli inglesi, e vedo cassoni di birre, le reti di protezione che già non c’erano più e gente che entrava senza controllo negli altri settori. Allora più avanti trovo dei poliziotti e li avviso: guardate che là non c’è più la recinzione. “Vai tranquillo, vai tranquillo” mi dicono. E poi è successo quello che è successo».

Un’ultima domanda: che cosa ha fatto dopo il ritiro e prima della pensione?

«Ho coltivato ulivi. Non è mica facile come uno può pensare, anzi».

Veronesi sobbalza sul pouf granata: «Che coincidenza, sai che anche il mio libro si chiude con gli ulivi?».

Sono nel mio oliveto, col telefonino all’orecchio, e dentro al telefonino c’è mia sorella.

Il sessantaquattrenne Gigio Bellandi ha molto in comune con Sandro Veronesi, sì. Ma forse anche con Franco Bitossi.


CHI SONO

Franco Bitossi è nato a Carmignano (Prato) il 1° settembre 1940. 
È stato vice campione del Mondo di ciclismo nel 1972

Sandro Veronesi è nato a Firenze il 1° aprile 1959. 
Due volte premio Strega, quest’anno ha pubblicato Settembre nero, con Bitossi tra i protagonisti




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