Vito Di Tano e la danza nella melma


Campionato del mondo ciclocross dilettanti, Saccolongo 1979


di SIMONE BASSO ©

Parenti "straccioni" della strada, quelli del ciclocross vissero l’ultimo spensierato decennio del loro masochistico esercizio, in attesa del rampichino (borghese, chic e assai meno atavico), che avrebbe prima scippato molte vocazioni agonistiche, poi (con l’evoluzione di oggi) beatificato la specialità, e con il conforto della partecipazione attiva di ancora tanti fusti delle classiche e dei Giri. 

Orgogliosa, la danza nella palude non ha mai regalato paesaggi consolatori, ritagliata in spazi claustrofobici e infidi che fanno tanto Woodstock immersa nella birra. 

Finito il regno del De Vlaeminck "sbagliato", l’Eric artista tossico della specialità, convisse allegramente con la schizofrenia allora consueta: i pro’, allineati in truppe disomogenee con l’esempio zingaro di assi come Roland Liboton, Albert Zweifel, Klaus-Peter Thaler; gli amatori, contadini del cross country, ultimi baluardi di un dilettantismo degno della vita spessa dei Malavoglia. 

L’Italia, a cucire la generazione dei Franco Vagneur con gli specialisti che verranno, vantò la vicenda deamicisiana di Vito Di Tano, due volte campione mondiale nei puri. 

Pedalatore e uomo che avrebbero affascinato Luciano Bianciardi, evitò la pecunia selvaggia dei professionisti per la sicurezza di un lavoro come ferroviere. Manovratore sulla linea Treviglio-Bergamo, il trampoliere pugliese fu l’ennesimo miracolo meridionale a dispetto della sobrietà di mezzi economici. 

Il suo fu un percorso durissimo.  

Il padre lasciò troppo presto la famiglia, moglie e tre figli, quando Vito era undicenne: ai tempi, per sbarcare il lunario, il nostro si adattò a qualsiasi lavoro (agricoltore, fattorino). 

Il destino beffardo di chi lo portò all’agonismo, Vito Ancona, che perse un nipote in corsa e, qualche anno dopo, fu colpito da una paresi mentre Vito Di Tano trionfava in una gara juniores.  

E poi l’iride, inattesa, nella melma di Saccolongo nel 1979, fiaccando la resistenza dello svizzero Heinz Müller. 

In diretta nazionale, travolto dalle emozioni, pronunciò una frase che riassunse tutta l’umiltà del personaggio: «Un meridionale campione del mondo. È possibile?». 

Jack London dei sentieri rovinosi, andò sempre a nozze nelle condizioni estreme e più sconce. 

Bissò l’iride sette anni dopo a Lembeek, in Belgio, in un tranquillo pomeriggio da cani; assistito da un clima degno delle previsioni più fosche del colonnello Edmondo Bernacca. 

La settimana seguente, come nulla fosse, si presentò a Verdello di Dalmine (Bergamo) per svolgere la sua professione autentica. 

Vito appartenne per intero a un immaginario oggi nemmeno pensabile, logorato e ormai cancellato da un’altra concezione dello sport. 

Oltre il ciclismo, che – essendo soprattutto un lavoro – è una storia a sé, l’idea di una catena di montaggio fordista, implacabile nella serialità quanto nel conformismo dei modelli proposti, ha talvolta sostituito la possibilità di avere uomini oltre che atleti. 

Il ciclocross continua a regalarci la visione fotogenica, tolstoiana, di una competizione primitiva. 

Quei visi sporcati dalla terra sono un patrimonio insostituibile della fisiognomica sportiva, lontani dalle sfilate di moda imposte dal campionismo.

SIMONE BASSO

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