DIARIO DEL GIRO 2025
https://www.sport-e-cultura.com/2025/06/03/diario-del-giro-2025/
Pubblicato il giugno 3, 2025
da Simone Basso

9 maggio, Durazzo-Tirana
Il Natale di maggio (ri)comincia dall’Albania, venerdì alle ore 13.
Un segno dei tempi.
C’è un discreto rebelot, per un evento esotico (...), e il colpo d’occhio è quasi rassicurante.
Da eoni ascoltiamo (?) le lamentele sul Giro che parte dall’estero.
È la quindicesima volta che accade e certifica il Giro come un marchio globale.
Ci racconta, come strapaese, benissimo: per la Grande Partenza, necessitano voglia e sghei.
Il percorso, quest’anno sbilanciato verso la terza settimana, è sempre un compromesso tra finanza ed esigenze agonistiche.
Non è un caso che Milano, la città che inventò la manifestazione, la snobbi o ne sia evitata dal menu.
Il ciclismo, nell’ex Bel Paese, anni Duemilaventi, è una riserva indiana col casinò e il supermercato al suo interno.
Nel 2025, lo sport nazionale è straniero. Non è mica colpa di Mauro Vegni.
Il Giro però, il prodotto di un’azienda privata (scambiato dagli ignoranti come un bene pubblico, forse solo per il rifacimento degli asfalti), incorpora una memoria storica collettiva.
Non è mica il calcio o il tennis.
L’edizione 108, per esempio, non propone il dorsale 108.
È così dal 2012.
Wouter Weylandt ci lasciò, cadendo nella discesa del Passo del Bocco, il 9 maggio 2011.
...
Non sappiamo se Radio Tirana trasmette musiche balcaniche, ma basta bissare il GPM di Surrel, a manetta, per vedere il plotone rimpicciolirsi in un gruppetto; che su una tirata di Giulio Ciccone – pro Mads Pedersen – si stacchino già Derek Gee e Thymen Arensman, ci racconta la fatica della tappa.
Il polmone verde del parco di Tirana rompe il disegno brutalista dei palazzoni dell’hinterland e la Lidl-Trek mena tutti i velocisti.
Ai -5 chilometri, nella baraonda cittadina, si schianta – contro un palo segnaletico – Mikel Landa.
Paperinesco, ahilui, da sempre – una TAC rivelerà una frattura stabilizzata all’undicesima vertebra lombare – quanto Wout Van Aert che tenta la rimonta, in volata, su uno strapotente Pedersen.
Wout fa 1340 watt di punta massima e 68 km orari (sulla fettuccina), Mads indossa il primo rosa-chic del Giro, mezza bici sul ciclocrossista.
Un macinasassi, il Pedersone.
Gli scassano le scatole sulla monumento mancante, categoria di fantasia inventata da un paio di telecronisti Brit di Eurosport, ma l’iridato di Harrogate 2019 (nel diluvio, con un Mathieu van der Poel bimbo che forò le gambe...) è un grande campione.
La Gand-Wevelgem di quest’anno, la sua Gioconda.
Lui che è persino rotondetto (sigh) per gli standard fachireschi di questo ciclismo e che l’alta quota, i ritiri monastici (allenanti e alienanti) li evita come la peste.

15 maggio, Potenza-Napoli
226 chilometri di cattivi pensieri ci accompagnano dalla città verticale potentina al Lungomare di Napoli.
Piove il giusto (...) per provocare una scena già vista da queste parti.
L’asfalto saponato, a 70 chilometri dal traguardo, su un rettilineo filante (un falsopiano all’ingiù), fa cadere una trentina di girini: Paul Magnier, Richard Carapaz, Jai Hindley, Jan Hirt, la maglia rosa Pedersen eccetera.
Quello del ciclista è anche un mestiere di sopravvivenza.
Commozione cerebrale e trauma cranico per Hindley, che sbatte a un metro dal capitano Primož Roglič.
La corsa viene neutralizzata per una dozzina di chilometri e alla frazione vengono tolti abbuoni e distacchi all’arrivo.
Taco van der Hoorn ed Enzo Paleni – davanti – fanno un Trofeo Baracchi lungo 192 chilometri.
Van der Hoorn vinse al Giro 2021, a Canale, e alla Ronde ’23 fece l’ultimo tratto in ambulanza.
Lui che sarebbe da pietre, dopo quella caduta, l’ospedale e la riabilitazione, per qualche tempo aveva pensato al ritiro.
Problemi di equilibrio sulla bici e una paura fottuta – una nebbiolina nel cervello – che l’assaliva quando doveva limare, sgomitare.
Quello del ciclista è anche un mestiere di sopravvivenza.
Alla teoria del caos si aggiunge una scena inedita, non inquadrata in diretta dalle telecamere.
Ai meno 3 km, imboscata di due scimuniti, in mezzo alla strada, con un nastro, una corda e una bandiera: l’olandese e il francese li scansano deviando e frenando, dietro alcuni corridori li sfiorano a 60 km l’ora.
In questi dì, per far capire l’aria (fritta e brutta) che tira, su L’Espresso una Diletta Bellotti ha definito la Israel Premier Tech “Team Genocidio”. Invitando al boicottaggio del Giro: come se al Likud e ad Hamas fregasse qualcosa di una corsa ciclistica. Ci (vi) racconta di propaganda sionista, con un linguaggio che la propal invasata – essendo giovinastra – non sa essere ordinovista.
“Sul ciclismo, commenta un’attivista di BDS (Bojcott Disinvest Sanction: aggiungete una M e si vola... NdR) ai microfoni di Radio Onda Rossa, la tifoseria è meno solida e compatta, dunque lo sforzo di diffusione della protesta sul Giro d’Italia deve essere più significativo.”
Andando al di là della lingua (sporca) utilizzata, alla dolce Diletta sfugge l’idea che si possa partecipare a un avvenimento, senza tifare per una fazione.
Ma non c’è nulla che possa far arrossire chi, col grecale a favore, si mette la maglietta dell’iper-oggetto UNWRA: con 1,3 miliardi di dollari di budget sai quante squadre World Tour potremmo fare, senza scavare gallerie, rubare cibo alla popolazione e comperare armi e razzi.
Nel bailamme, ripresi van der Hoorn e Paleni, constatiamo un Wout Van Aert – avanti (dopo un buco) per sbaglio – troppo mogio per essere vero e, in quel che rimane del gruppo, 100 metri di buio morale estesi ad almeno 1000.
Mentre Matteo Moschetti chiude alle transenne Olav Kooij, l’italiano sarà ammonito e declassato, l’Aussie Kaden Groves esplode in uno sprint vincente. Milan Fretin e Magnier, secondo e terzo, beccano più di due bici di distanza.
Anche stavolta abbiamo (hanno) portato in albergo la pellaccia.
Quello del ciclista è anche un mestiere di sopravvivenza.

18 maggio, Gubbio-Siena
Domenica pepatissima, polverosa, di un Giro in trasformazione.
Diego Ulissi, 35 anni, indossa un rosa provvisorio quanto meritato, un premio alla carriera.
“È il sogno di qualsiasi bambino, specialmente italiano, che si affaccia al ciclismo e realizza il sogno di diventare professionista. Appena prima di vestirla, pensavo ai pomeriggi passati coi miei nonni quando ero ragazzino a vedere il Giro.”
Si parte dall’Umbria, selva oscura verdissima, e si arriva a Siena, ghibellina, in una replica-bonsai (ma non troppo) della Strade Bianche marzolina.
Oggi, ma pure ieri e dopodomani, sulla carovana aleggia il fantasma giocherellone di Tadej Pogačar.
Gli agonisti da divano che si lamentavano dell’eccezionalità del freak sloveno, sono gli stessi che si lagnano perché – nello standard classico dei grandi Giri – nessuno dei favoriti si è ancora mosso.
Regola numero 1 del ciclismo: la corsa incerta è più bloccata di una soggiogata da un fuoriclasse, finché accade qualcosa.
Su 181 chilometri, gli ultimi 70 sono terreno minato.
La miccia viene accesa da Pedersone, che fa saltare tre quarti di corteo dalle parti di Serravalle, con una tirata violentissima.
Ai -51,2 km, secondo settore di sterrato, cadono – tra gli altri – Tom Pidcock e Roglič.
Dei favoriti si isolano, davanti, in sette.
Isaac Del Toro scatta, cattivo, fregandosene di Juan Ayuso nelle terre.
Una foratura di Rogla, a disagio sulle mulattiere, aggiunge paura al panico.
Il Giro si potrebbe perdere qui, nel Chianti.
Sole, nuvoloni neri verso Siena, indiani assiepati ovunque (il Granducato di Toscana sono le nostre Fiandre...), terriccio che vola in faccia ai ciclisti, agli spettatori, sulle macchine, sulle moto.
Per un po’, l’Ineos Grenadiers comanda: Egan Bernal, di ritorno dall’inferno, Brandon Rivera, Arensman.
L’olandese ha un problema meccanico e rimane lì, a bordo strada, nel casino, per minuti.
Regola numero 2 del ciclismo: fanno più selezione e spettacolo cinque segmenti di sterrato, rispetto a dozzine d’arrivi garagisti.
Bernal, dei tappisti, è stato il tassello mancante nel pokerissimo generazionale.
Pogačar, lui, Jonas Vingegaard, Remco Evenepoel.
Il primo inseguitore, che vede (a 15 secondi) quelli in testa, è quell’energumeno di Mathias Vacek.
Il ceco, quattro giorni fa, è stato protagonista di un numero d’altissima scuola.
Si arrivava a Matera, tra i Sassi, e ha tenuto cucito insieme il plotoncino, per guidare il capitano Pedersen al terzo sigillo (in cinque tappe), scandendo un passo (sincopato) inesorabile.
No Mathias, no party per la Lidl-Trek.
Nelle altre due frazioni vinte da Mads, Vacek da pesce-pilota ha capeggiato e condotto, per 16 secondi a Tirana (media 52,7 orari, velocità massima 59, 1120 watt di potenza media, 1310 al top) e 15 a Valona (media 61,2 all’ora, massima 63,6 km/h, 1100 watt medi, 1240 watt max). Una belva; che rientra, accidenti, quando Del Toro apre il gas con Van Aert incollato a ruota, finalmente bello come il sole.
L’ormai classico Colle Pinzuto, KM Red Bull con una punta al 20 percento, è il giudice della contesa.
Seconda “aperta” del messicano in maglia UAE Emirates-XRG, solo il Van gli resiste.
Roglič intanto naviga nel quarto gruppettino, nel secondo tira Ayuso: la baruffa ci regala un’ora di epica a due ruote.
Da un tot sosteniamo che Del Toro è un predestinato: 21 anni, il vitino da vespa, il motorino incorporato, la frequenza quasi frullata, il cambio di ritmo e un controllo del mezzo da motocrossista.
Regola numero 3 del ciclismo: al Giro, dalla costola di un capitano nasce un altro capitano.
Tempi antichi, Legnano 1940 (Bartali e Coppi).
Tempi moderni, Saeco 2004 (Simoni e Cunego).
Via Santa Caterina, Siena, val bene un Palio fendendo la folla urlante.
Wout nel 2018 da matricola alle Strade Bianche, con l’acido lattico nelle orecchie, dovette scendere di bici.
Il fiammingo somma due volate in una e sorpassa Isaac, ai 400 metri, baciando le transenne sull’ultima curva.
Nel 2021 Mathieu van der Poel sulla rampa fece 1’22”, per staccare Julian Alaphilippe, a 27,6 km/h.
Van Aert la completa in 1’19”, ai 27 e 8 orari.
Nove mesi di astinenza, cadute e sfortune in serie, una primavera a guardare la schiena degli altri mostri.
Vince dove è (stato) il Re, sotto la Torre del Mangia.
Gli ultimi (due) anni, veloci come macchine impazzite, fanno dimenticare chi è (stato) Wout.
Prima di Pogastar, il corridore più universale in questo evo fortunato.
Un motorone a pedali, un Van Steenbergen tendente al Bugno, che a un Tour (2021) fece una (rara) tripla doppia.
La tappa di montagna col doppio Ventoux, la crono lunga a Saint-Émilion e il volatone sui Campi Elisi.
L’anno dopo fu l’MVP della Jumbo-Visma che fece abdicare il patron Pogačar, correndo nelle tre settimane a un livello inedito per un classicomane.
Quel Van Aert, che regalò (...) almeno un oro olimpico (Tokyo 2021) e una Ronde (2020), potrebbe contendere al Freddy Maertens 1976-77 la palma del più forte flahute (e fuoriclasse) a non aver mai vinto il Giro delle Fiandre e la Parigi-Roubaix.
Quel Van Aert, rivale dell’altro ciclocrossista-freak van der Poel, finisce – in una macchinazione della sorte – alla Roubaix 2023.
Uscendo in testa dal Carrefour de l’Arbre, con MVDP in scia: il belga forò e l’olandese si involò verso il Velodromo.
Da quel momento, il duello ha un unico vincitore e basta.
La ripartenza di Wout è dalla Contrada dell’Oca, mentre tutti hanno la pelle d’oca per l’emozione, in un pomeriggio spaghetti-western.
Del Toro è il primo messicano a indossare la maglia rosa.
Ayuso, sanguinante al ginocchio dopo il tombolone, si lecca le ferite e fa quantità – per gli emiratini – in GC con Adam Yates e Brandon McNulty.
Alla spicciolata, in Piazza del Campo, arrivano i big.
A un minutino, in fila per tre col resto di due, Giulio Ciccone, un Carapaz tosto, il gemello Simon della Visma, Antonio Tiberi, Bernal.
Roglič becca 2’22”, salvato da Giulio Pellizzari che sembra – a osservarlo bene – prossimo a un ruolo (rosa) più ambizioso, in una Red Bull Bora-hansgrohe sguarnita, poverella rispetto alle altre corazzate.
Il mosaico del Giro ’25 è sul tavolo da gioco.
Regola numero 4 del ciclismo: una corsa a tappe senza faro, se si allineano gli astri, è molto divertente.

23 maggio, Rovigo-Vicenza
“Grazie Giro, ho saltato la verifica.”
Profondo Veneto, Polesine, e la folla risponde in massa: luoghi tosti, pianure con l’orizzonte che pare un muro invece è cielo, zeppi di storie e Storia.
All’una del pomeriggio si parte da Rovigo, che è bella e ricca.
Nel 1951, quando queste zone furono alluvionate, semidistrutte dalle acque del Po che rinculavano e si mangiarono tutto, i rodigini erano contadini e poveri.
La piena sommerse strade, villaggi, campi, persone, animali.
Centomila persone fuggirono dalle loro case, dalla miseria nera: quando oggi leggete un cognome veneto, a Milano, Torino, Genova, forse è quello di uno sfollato di Occhiobello, Frassinelle, Ceregnano, Canaro.
Il Veneto lavora, i veneti pedalano.
Dalla Graziella della signora che va a far la spesa, alla specialissima in carbonio dell’imprenditore che fa il giro la domenica.
Si punta verso nord, si passa a Lonigo, e il pensiero silenzioso (come era lui) è per Davide Rebellin.
Andavamo alle gare, le facevamo, si apriva Tuttociclismo, e il suo nome c’era sempre.
È (era) un ’71 come noi, classe di ferro del ciclismo, fortissima e fragilissima, cascata con entrambi i piedi in un’èra-pop (l’ultima di sentimento popolare per questo sport?) col fango sopra le caviglie.
Rebellin aveva attraversato, da bimbo prodigio a Matusalemme, tutte le variazioni del mestiere del ciclista.
Monacale, testardo, serafico, vincente.
Ha finito la vita nel modo più assurdo, travolto su una rotonda da un camion, appena finita la professione, lui che aveva percorso centinaia di migliaia di chilometri in allenamento, nel traffico scriteriato di tutti i giorni.
Siamo alla tredicesima tappa e gli italiani ancora non hanno vinto: il primato negativo risale al 2017, quando Vincenzo Nibali (mica un caso...) si aggiudicò la numero 16, la Rovetta-Bormio.
La statistica è solo una statistica, a questo Giro mancano i due tricolori (Pippo Ganna e Jonathan Milan) più spendibili per le affermazioni parziali (crono e volate), ma il panorama non è rassicurante.
Scrivemmo delle particolarità nelle sponsorizzazioni del nostro Paese, e vedemmo alla distanza il (nostro) declivio.
Fatta fuori la piccola (/media) imprenditoria, dai budget richiesti dal World Tour (la media è 32 milioni di euro), mancano gli investimenti di quelli che potrebbero permetterselo.
Ma se ne fregano, del ciclismo e di uno sport sostenibile e redditizio (per i feedback che genera...), e preferiscono mettere i soldi nelle bolle (speculative).
Meglio le cinesate (col marchio appiccicato), la curva comperata dello stadio, prima di discutere di un nuovo impianto, una triangolazione in Kirghizistan.
Come scritto da Marco Bellinazzo su Il Sole 24 Ore, le 18 squadre del circuito maggiore nel 2025 hanno stanziato 570 milioni, quasi 200 in più rispetto al 2021.
Il ciclismo su strada è un veicolo pubblicitario unico: l’avevamo inventato noi, les italiens, con i francesi, ci siamo talmente rincretiniti da non saperlo più.
Idan Ofer del Quantum Pacific Management si è preso il 43 percento di Abarca, quindi la spagnola Movistar.
I cinesi di XdS sono entrati nel Team Astana, il gigante transalpino Total Energies potrebbe unirsi all’Ineos per formare uno squadrone (e firmare Remco Evenepoel).
...
San Giovanni in Monte è la collina aspra che spezza il pianoro, ci arrivano a mo’ di schegge (48 e 8 di media).
Sul traguardo a Vicenza, il bimbo in rosa Del Toro si esprime così: “Non so neanche dove arriviamo..”
A un chilometro dalla fine, la Rotonda di Palladio (1564) e poi si sale diritti – 7,5 % la pendenza media sui 1100 metri, 12 la massima – verso il santuario di Monte Berico.
Dieci anni fa (2015), stesso epilogo: vinse per dispersione – sotto un acquazzone – il principe vallone Philippe Gilbert, secondo Alberto Contador.
Alla campana, guidano Lorenzo Germani e Christian Scaroni, che vengono puntati, col mirino, dal gruppone.
Sullo strappo di Arcugnano, col KM Red Bull e relativi abbuoni, l’UAE Emirates detta il ritmo (alto) e Germani viene saltato.
Sul cucuzzolo Scaroni viene ripreso da Ayuso (4″) e Del Toro (2″).
Un buco in discesa, si isolano Bardet e l’onnipresente Vacek; 20 secondi, poi 15, la Alpecin e la Visma pancia a terra a inseguirli.
Un’altra frazione intermedia (si fa per dire...) ad andature folli.
Al cartello dei -500 metri, col portico sulla destra, i due vengono travolti dal serpentone che si spezza.
Pedersen parte ai 225 metri, dalla quinta posizione, e riga l’asfalto: 26 km orari e 970 watt, 28,7 km/h (1070 watt) mentre affianca Van Aert, balza in testa ai 30 km/h e 1080 watt.
Ringraziando Velon, gli ultimi 650 metri (al 9,6 %) sono il festival della potenza – bruta – scaricata sulla strada. Mads e Wout a 1’20”, Del Toro a 1’22”.
Gli altri rimbalzano, Roglič e Ayuso pallidissimi.
Il poker di Pedersone sul freak Van Aert si spiega con 10 watt di differenza – 850 a 840: per alcuni, la presa bassa sulla curva del manubrio, del danese, contro quella ai manicotti dei freni del belga.
Il ciclismo postmoderno – cyber, tecnologico, tecnico, esasperato, glicemico, superomistico – avrebbe messo d’accordo Ernst Junger e J.G. Ballard.

27 maggio, Piazzola sul Brenta-San Valentino
Dopo l’ultimo riposino, dal Brenta all’Adige, dal Veneto al Trentino, una tappaccia per leggere le viscere del Giro ’25.
Alla partenza piove, a dirotto, e quasi 6 ore di massacro alla catena sono servite; 203 chilometri, 5 salite, 4 GPM.
Vanno via in 25, in due momenti distinti sui falsipiani vicentini, e sono ben distribuiti: 18 squadre dentro, mancano solo UAE, Red Bull-Bora, Alpecin, Israel e Lidl-Trek.
L’XDS Astana ne piazza tre, uno che tira (Fausto Masnada) per due (la maglia azzurra Lorenzo Fortunato e Scaroni), la Polti-VisitMalta inserisce i fratelli Davide e Mattia Bais; ci sono un Van Aert sempre più in palla e un Pello Bilbao quest’anno a scartamento ridotto.
Mantelline, luci delle ammiraglie e cadute.
Bici che rotolano via, la carne che si gratta, brucia, sanguina.
Joshua Tarling, là davanti, a una rotonda sbatte su un guard rail: è il diciottesimo ritiro della corsa.
Nella discesa dopo Carbonare, ancora tra i fuggitivi, Alessio Martinelli scivola per metri e metri, nell’erba, in una selva. Lo portano all’ospedale di Trento.
Prima del mezzo Bondone, il GPM di Candrini, Roglič sale in ammiraglia. Ad Asiago si era capito che lo sloveno stava male. Le cadute si sommano ai 35 anni.
Ore 15, c’è puzza di bruciato: nel gruppo maglia rosa, alcune facce sono così così.
Dalle parti di Cavedine, una discreta beffa, spunta un sole estivo.
Le Marocche di Dro annunciano il Passo di Santa Barbara, quasi 13 chilometri feroci, 1050 metri di dislivello, nascosti nel bosco.
Ayuso, con Roglič l’altro favorito in Albania, affonda.
Le Vueltine spesso ingannano, il Giro misura meglio lo chassis dei tappisti.
Quando Simon Yates allunga, il plotoncino di Del Toro conta dieci unità più una: Bernal – che è caduto anche oggi – fa l’elastico ma non molla.
Il Santa Barbara se lo aggiudica Fortunato, Claudio Bortolotto in divenire, in casacca azzurra invece che verde.
In sette, sopravvissuti, si giocheranno la gloria pomeridiana.
Yannis Voisard plana in picchiata, alla Paolo Savoldelli, per guadagnare margine prima di Brentonico, del Monte Baldo.
Su 18 chilometri d’ascesa, il tratto centrale dal bivio di Polsa fino quasi a San Giacomo fa il 9,2 di pendenza media per 4 km e mezzo.
Quelli della maglia rosa attaccano il San Valentino in 17 e Van Aert, reduce dalla fuga, scandisce un ritmo bailado che cuoce a fuoco lento (510 watt, 95 pedalate il minuto).
Si dice – fonte pullman della Visma-Lease a Bike – che Wout abbia bruciato 7300 calorie in quasi 6 ore di sforzo.
Passiamo dai vitigni del Marzemino e un po’ di girini, a osservarli bene, sembrano ubriacati dalla fatica.
Ai meno 12 km, il Van si rialza e scatta Pellizzari, libero da vincoli di gregariato; 2’24” d’attacco, 23,3 km/h di media sul 7,4%, ovvero 30,2 km/h di velocità massima e 460 watt di potenza all’apice: il marchigiano, come si intuì nel ’24 sul Monte Grappa, ha potenzialità da campione dei grandi Giri.
Tre minuti e 40 secondi sopra, Scaroni – in tandem con Fortunato – mette in mezzo, simil-tramezzino, Jefferson Cepeda.
Sotto, Adam Yates e Rafal Majka scortano Del Toro addormentando l’andatura.
Ai 7 km, nelle vigne, i due ras più intelligenti comprendono la situazione: sassata del gemello Simon, rispondono Carapaz (fino a lì, sottocoperta) e Del Toro.
Bernal rimbalza, Tiberi precipita, Derek Gee torna in scia.
Quando Carapaz piazza la botta, con una scelta di tempo perfetta, un Professore l’ecuadoriano, gli altri rimangono sul posto.
Valle dell’Adige seminata di corridori, che vanno di spalle e di schiena.
Tra i -4 e i -3 km, Del Toro non riesce più a seguire lo Yates della Visma.
Carapaz, locomotora del Carchi, raggiunge Pellizzari.
Gli XDS Astana italiani ci regalano un successo tricolore in parata: Fortunato lascia vincere Scaroni (stremato e commosso).
Pellizzari, dopo il gonfiabile dell’ultimo KM, si permette il lusso di staccare Carapaz.
Gee, un cagnaccio, a 1’23”. Michael Storer e Simon Yates a 1’52”. A 2’31” Voisard, Bernal e Damiano Caruso (a quasi 38 anni, di nuovo capitano della Bahrain-Victorious...) saltano un Del Toro al lumicino delle forze, e che salva la rosa per 26″ su Yates e 31″ su Carapaz.
Col canadese Gee a 1’31”, la Generale diventa un mikado.
Ayuso, ginocchio e cabeza dolenti, becca 14’47”: quel che resta dell’UAE Emirates farà l’all-in sul ragazzino messicano.
La terza settimana è un altro sport.

30 maggio, Biella-Champoluc
Siamo all’uno-due del Giro 108.
A 42 e mezzo km/h di media generale, una pazzia agonistica, con tre frazioni ancora da disputare, in una corsa rosa senza un (vero) padrone.
Venerdì di passione in Valle d’Aosta, 166 chilometri, 5 GPM, 3 salite alpestri vere, lunghe, estenuanti.
Fa caldissimo, si rincorrono le borracce, i cubetti di ghiaccio, le magliette con la cerniera lampo sono aperte.
Mercoledì, in Svizzera, è crollato il ghiacciaio del Birch, cancellando Blatten.
Lo Stato maggiore regionale sta già pianificando l’evacuazione di Gampel e Steg, nel fondovalle, se la piena del Loetschental assumesse proporzioni catastrofiche.
Le Alpi che vedevamo negli anni ’80 non esistono più, si stanno “tibetizzando”.
Queste lande ci ricordano una gara storica, importante, iconica, il Giro della Valle d’Aosta, che – dal 1962, da Gianni Motta a Isaac Del Toro – ci mostra un po’ del futuro prossimo di questo sport.
Dal Col Saint-Pantaléon si vede il Monte Cervino, la strada è tutta al sole.
La selezione, naturale, comincia dalla coda del plotone.
A 1664 metri, in cima, 21 gradi all’ombra.
Da Saint-Vincent si infila il Col de Joux, 15 km e 100 mt, pendenza media 6,9 %: nella fuga, pronti-via, ha avuto il permesso di licenza il deluso Tiberi.
Carlos Verona (vincitore ad Asiago) e Nicolas Prodhomme sono rimasti con lui.
A vederla col risiko, la partita è Visma contro UAE, con Carapaz da sentinella.
20 km orari, 10 percento, tira Wilco Kelderman, cammello da grandi Giri.
Ai meno 10 km dalla vetta, Tiberi alza bandiera bianca, nel gruppo maglia rosa l’UAE Emirates si ritrova Igor Arrieta dalla fuga, oltre ai pretoriani di Torito rimasti (Majka, McNulty), dopo il lavoro di Adam Yates e dell'eccellente Filippo Baroncini. Della truppa manca Ayuso, capitano deposto, ieri rincasato dalla puntura (all'occhio destro, ndr) di un calabrone.
Ai 5 km dal GPM, scatto delle 33 pedalate di Pellizzari, Majka ricuce e spegne e sfinisce la compagnia (ristretta). Il polacco ha il gambone ed è il regista, in corsa, degli emiratini.
Rosola (e rotola), attaccato con lo scotch ai big, Davide Piganzoli: è uno dei quattro inquilini di un appartamento, a San Marino. Gli altri sono Del Toro, Pellizzari e Tiberi.
Il francese Prodhomme, un mastino da montagna, si prende solo soletto il colle.
Ai -1500 metri dal Gran Premio, tentativo di Carapaz, stoppato subito da Del Toro.
La Val d’Ayas si sviluppa nei prati, col lago di Brusson, i bovini al pascolo: mancano Heidi e il nonno, ma la cottura dei girini è evidente.
Drappello di 12, in fila indiana, 30 km l’ora facili.
Ai -7 km da Champoluc un’altra fiondata di Carapaz, con il messicano in rosa nella scia: ah, Sud America, Sud America, Sud America.
L'Antagnod chiude i 4908 metri di dislivello della giornata, i due prendono 30 secondi in 1800 metri, con Tiberi che insegue per Caruso.
Nel budello di Champoluc, sui lastroni, il normanno Prodhomme si prende lo scalpo.
Del Toro, che sulle chicane (come abbiamo visto a Bormio) è un drago, secondo; Carapaz, terzo, entrambi a 57″.
Pellizzari si stende all’ultima curva, sulle transenne, gli inseguitori (i battuti) a 1’22”.
In classifica, Isaac il ragazzino adesso vanta 43″ su Richard la locomotora e 1’21” sul gemello di Adam.
La Via Lattea, il Colle delle Finestre, la calura e il serbatoio (con la spia rossa accesa): è l’epilogo, l’episodio finale, del fumetto del Giro 2025.

31 maggio, Verrès-Sestriere
Se in un Giro (e prima o poi capiterà in un Tour) c’è il versante Nord del Colle delle Finestre, che si prende dalla Statale 24 della Val Susa, il Giro si deciderà lassù.
E’ la salita più dura, completa, impegnativa, del World Tour: 18 chilometri e mezzo, 1694 metri d’ascensione (...), gli ultimi 7 km e 800 metri di strada in terra battuta che si inerpica nel bosco, i tornanti irregolari, a schiena d’asino, al 9 percento, che non molla mai.
Nel 2018 Chris Froome ribaltò ogni cosa, partendo da lontanissimo (a 80 km dal Monte Jafferau), sullo sterrato: un’impresa coppiana, 2 ore e 23 minuti di assolo, la più straordinaria per vestire la rosa con l’Eddy Merckx delle Tre Cime di Lavaredo 1968, nel dopo-Fausto.
Quel pomeriggio epico, sul serio, Froomey ribaltò gli stereotipi (prevenuti, diffamatori) sul ciclismo pro' degli SRM e dei marginal gains: in maglia, alla deriva (beccò 38’51”), c’era Simon Yates; lo rincorrevano Tom Dumoulin (una meteora, un diamante), Thibaut Pinot, Carapaz...
Oggi sono 205 chilometri e, tanto per cambiare, si parte a tavoletta.
Prima ora a 49,7 km/h e 31 (coraggiosi) in avanscoperta, vento alle spalle. Che cosa fa Van Aert là davanti?
All’entrata dei paesi attraversati, Rocca Canavese, Corio, sul Colle del Lys, c’è un pubblico (a strati, sui muretti, sui ponti) che descrivere non sapremmo: una passione pop, senza secondi fini, che altrove è rara (o introvabile).
Ai -46 km dal traguardo, comincia la sinfonia nell’Orsiera Rocciavrè: 10 minuti il vantaggio del fugone (attenti alle vocali) su un gruppone che ha solo la litorina Kasper Asgreen (EF di Carapaz) a condurre.
L’EF attacca il Finestre manco fosse il Ponte della Ghisolfa, 800 metri e il plotone esplode.
Sul tratto al 14 %, Carapaz e Del Toro sono già in tandem.
L’ecuadoriano prova a staccare un paio di volte l’ombra del messicano.
Tira e molla, rientra lo Yates che sette anni fa qui, nel boschetto, perse maglia e anima.
I tre si punzecchiano, Gee ritorna su di loro.
Una rasoiata di Simon, la terza, che sembra di ordinaria amministrazione, lo stacca dal duo latinoamericano.
Che ci offre lampi di Leontien van Moorsel contro Jeannie Longo, all’Alpe d’Huez 1992. Surplace.
Per i soli parziali, 3’56” di Yates, 430 watt espressi a 19 km/h di media. Un bel cazzotto.
Al Colletto inizia lo sterrato, rimangono ancora 16 tornanti (sui 45 complessivi) e il gemello giallo ha già 45″ sui due litiganti.
Nella ghiaia, Yates è virtualmente in rosa.
Sopra, nel polverone, a Bergerie Le Casette, il KM Red Red Bull se lo aggiudica Chris Harper.
Sotto, Del Toro detta il passo, Carapaz non collabora e il metronomo diventa (il saggio) Gee.
Paura e delirio sul Finestre: gli spettatori vocianti sparsi sulla mulattiera, al pari dei girini.
Yates guarda dalla balconata, zona marmotte, dove finiscono gli alberi, e scorge Carapaz e Del Toro mooolto distanti..
Harper fende pubblico e bici appoggiate, posate, sul cucuzzolo a 2178 metri d’altitudine.
Cima Coppi, qualche macchia di neve, la ruota anteriore slitta. Alessandro Verre a 1’41”.
Yates, nel baccano, calivi e polvere, vede Roma più che la Val Ghisone. 1697 di VAM, una teleferica.
Nella discesa, contropendenza e approccio alla Via Lattea, il Giro si risolve.
La strategia Visma, con Van Aert che aspetta e scorta Yates, è perfetta. Scacco matto.
Wout è il derny di Simon, un lusso clamoroso.
Due minuti e mezzo indietro, la coppia (scoppiata) latinoamericana viaggia con la sconfitta addosso. I due parlano, si rialzano, parlano ancora, Gee li raggiunge.
Rientrano alcuni dispersi del Finestre, tra i quali Pellizzari, Caruso, Max Poole, Majka, McNulty: game over.
I gialli di Marc Reef, cum grano salis, si mettono in tasca l’UAE Emirates, in attesa della Grande Boucle e dello scontro tra titani (Pogačar/Vingegaard, ndr).
Una lezione tattica che coi wattaggi ha poco a che fare.
Sullo stradone, largo, scomodo, noioso, Van Aert consegna il Giro a Yates: si rialza ai -6 km, il Brit col 54 davanti, sui pedali, accelera.
Le onde del destino, nel ciclismo, non hanno bisogno di un von Trier.
Vince il più intelligente (e coraggioso), garùn e cervello e cuore.
Da regolarista eccelso, alla Franco Balmamion, quindi come un piemontese in Piemonte: miglior piazzamento nelle tappe, fino al Sestriere, un quarto posto.
È l’ottavo più anziano ad aggiudicarsi un Giro, a 32 anni, 9 mesi e 25 giorni.
Poco Messico, un po’ di nuvole, pioviggina dopo l’afa, Harper si gusta la tappa regina.
Una settimana fa, l’australiano aveva la febbre.
Secondo Verre a 1’49”, terzo (un incredulo) Yates a 1’57”.
Le torri di Bonadé Bottino e Agnelli ammirano un altro ribaltone.
Piove, Simon piange, una fontana.
Raindrops keep falling on my head /
But that doesn’t mean my eyes will soon be turning red /
Crying’s not for me..
Nelle stesse ore, lontano dal Sestriere, si spegneva Daisy Gesink, moglie di Robert, corridore-simbolo della formazione olandese per tre lustri.
L’anno scorso, Yates correva nella Jayco Alula con Harper: si abbracciano, felici, nella zona neutra.
Quarto Gianmarco Garofoli a 3’52”, sesto Martin Marcellusi a 4’31”.
Sono rimasti assieme, catramati, il secondo (Del Toro), il terzo (Carapaz), il quarto (Gee), il quinto (Caruso), il sesto (Pellizzoli) della generale.
Poole – a 6’45” – li anticipa, mentre l’ormai ex maglia rosa sprinta (sigh) sui resti della truppa, sfatta.
Torito da Enserada, vicino a San Diego e alla California, fuoriclasse in divenire e personaggio di questo Giro, mostra tutti i suoi 21 anni. Alla sua età, in rosa almeno 5 giorni (lui 11), solo (grandi) campioni: Gino Bartali, Aldo Bini (non fosse stato matto come un cavallo..), Fausto Coppi, Giuseppe Saronni.
Figlio di mamma Dora, e della mountain bike, nipote ciclistico (...) in Italia di Piotr Ugrumov, ha i denti da latte: non ha ancora superato i 170 chilometri in allenamento.
Tornerà (e vincerà).
Arrivano a tocchettini, contati, Storer (a 8’30”), Bernal (a 10’43”), Chris Hamilton (a 11’11”), Fortunato (a 13’31”), Louis Meintjes (a 14’36”).
Yates trionfa di giustezza, 3’56” su Del Toro, 4’43” su Carapaz.
Il suo cerchio al Giro, come una ruota in carbonio d’alto profilo di una specialissima, si chiude compiendo una parabola impeccabile.
Curiosa, bizzarra, la vita: quella cosa che imita una corsa in bici, spietata, esaltante, irrazionale, selvaggia, crudele.

Amo la mia bici.
La mia bici è la mia palestra, la mia chiesa e la mia sedia a rotelle.
La mia bici è tutto ciò in cui credo, è tutto ciò che accade nella biosfera.
È scienza, tecnologia, è il futuro, ingegneria, metallurgia, di tutto, di più.
È tutto lì, nella mia bici.
La mia bici è la cosa più importante e preziosa che io possegga.
(Bill Walton)
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