League Cup 2004: Boro che luccica
«NON abbiamo mai vinto un c...o».
Uno striscione (dei tifosi della Fortitudo Bologna di basket nella finale-scudetto 1998), poi riprodotto in T-shirt e quindi urlato al mondo. Come orgoglio per le proprie radici e per come, nel bene e nel male, si pensa di essere se non addirittura si è. E chissenefrega se poi gli investimenti di un patron (Giorgio Seragnoli) ti fanno conquistare, a partire proprio da quell’anno, Coppa Italia e Supercoppa italiana, poi due scudetti e, a inizio 2005-2006, un’altra Supercoppa.
«Non vincete mai», sul tono dell’inno ufficioso «Non molliamo mai», l’Inter se lo sente cantare in ogni stadio, il Torino se lo sente sulla pelle, nella storia, nel sangue.
Oltremanica, si sa, sono Maestri. A Middlesbrough, dove l’Inghilterra è, per certi versi, ancora più Inghilterra, sono piste avanti a tutti. Anche nel saper aspettare. E 128 anni non sono pochi, bisogna ammetterlo. Insomma quando perdere, più che un’arte, è o diventa una filosofia, uno stile di vita, una dichiarazione d’indipendenza (dal palazzo) o meglio ancora un manifesto esistenziale: perdo dunque sono. Fra i più meritevoli cultori del genere, secondo la classifica stilata dal New York Times, seguono, staccati, gli inglesi del Somerset County (cricket), a secco dalla nascita e cioè dal 1891, e, nel calcio, gli olandesi del Vitesse di Arnhem e i cileni del Talca Rangers, club a digiuno da 103 anni. Se la massima «i soldi non comprano il successo» oggi provoca falsi sorrisini fra i dirigenti dei grandi club, a Middlesbrough ha assunto valenza secolare. Il Boro fu il primo a pagare 1000 sterline il trasferimento di un giocatore (Alf Common), nel lontano 1905. E la tradizione si è mantenuta fino ai giorni nostri quando, nell’ottobre 1995, di sterline ne ha spese 4,75 milioni per prelevare Juninho Paulista dal São Paulo.
Il discorso vale anche per Alain Boksic, Fabrizio Ravanelli e altri, identico come il risultato: la bacheca vuota. Dicono che il cricket sia uno sport lento, adatto a chi ha pazienza. Ma quando nel 1876 in un albergo cittadino, l’Albert Hotel, i membri del Middlesbrough Cricket Club formarono la sezione calcio mai avrebbero immaginato di doverne portare tanta per vincere qualcosa. Qualcosa, beninteso, di più delle due Amateur FA Cup, la Coppa d’Inghilterra per dilettanti: 2-1 all’Old Carthusians (gol di Mullen e Nelmes) nel 1895 e all’Uxbridge (Bishop e Kempley) nel 1898. Poi più nulla, a parte i 3 titoli di Second Division (1927, ’29, ’74), la First Division (la cadetteria) nel ’95 e la Anglo-Scottish Cup ’76. Per c-e-n-t-o-v-e-n-t-o-t-to anni, la fraternity calcistica del Teesside ha bruciato progetti e sogni.
Il club ha costruito due grandi stadi (l’Ayresome Park prima, The Riverside Stadium poi) in un arco di tempo assurdamente breve, ha allevato generazioni di giocatori, alcuni dei quali fra i più stravaganti (eufemismo) visti nel calcio inglese, comprese legioni di coloriti ed esotici stranieri, e ispirato un livello di tifo-fanatismo tale da rasentare, se non oltrepassare, l’isteria collettiva. E per che cosa? Tre finali (perse, obvious: nel ’97, 1-0 dal Leicester City ai supplementari in Coppa di Lega e 2-0 dal Chelsea in FA Cup; 2-0 dal Chelsea ai supplementari nella League Cup del ’98), otto promozioni (ma pure nove retrocessioni) e quella coppetta simil torneo da bar.I continui fallimenti del Middlesbrough di entrare nell’élite di club capaci di vincere un trofeo degno di tal nome erano uno dei grandi misteri irrisolti del calcio britannico.
A vari intervalli – non ultimo quando, a metà anni Ottanta, subentrarono i liquidatori e la società quasi cessò di esistere – persino i più ferventi tifosi videro vacillare la propria fede. Ridicolizzata, scaricata, frustrata, la tifoseria del Middlesbrough non ha mai avuto troppe occasioni di essere fiera della propria passione. E lo stesso vale per i cittadini di Middlesbrough. Basta menzionarla e automaticamente, in buona parte per colpa della pigrizia mentale dei direttori delle emittenti tv, si pensa alla brutta città inquinata dai gas di scarico e dalle distese di ciminiere delle industrie di carbone che avvelenano il nebbioso cielo del Teesside (Teessider, come lo chiamano là per ovvi motivi) e chi tutti i santi giorni se lo ritrova sospeso sulla testa. Ecco, per restare in metafora, quelle nuvole sembravano destinate a restare sospese in eterno anche sulla prima squadra di calcio cittadina. Il poco glamour Middlesbrough era il nuovo Coventry: “The team The Premiership forgot”, la squadra dimenticata della Premiership. Una barzelletta che non faceva ridere. Deglutita a fatica l’amara retrocessione del ’97, la fiducia di Gibson nel manager Bryan Robson, arrivato tre anni prima, fu di nuovo messa alla prova tre stagioni dopo, quando solo il provvidenziale esonero in favore di Terry Venables evitò un analogo destino. Il recente vivacchiare del Middlesbrough a centroclassifica viene meno a una tradizione di giocatori che in campo danno tutto, massimamente esemplificata dalla squadra che Jack Charlton guidò al titolo della Second Division ’74 (vinta con 15 lunghezze di vantagio; se ci fossero stati i 3 punti per vittoria, il margine sarebbe stato di 23, ndr). Difensori come John Craggs, Willie Maddren e Stuart Boam e il centravanti John Hickton giocavano un calcio che annichiliva gli avversari ancora prima di scendere in campo. Dodici anni dopo (con Maddren allenatore), il Boro era precipitato in Division Three e in una spirale di debiti per frenare la quale gli amministratori erano arrivati a mettere i sigilli allo stadio. Nell’86 Steve Gibson, futuro presidente (dal ’94) e maggior azionista (con oltre il 90% delle quote), forma il consorzio che salva il club dal fallimento, ma ci vorranno 18 anni per riaccendere il fuoco della passione. L’imponente maestosità del Riverside Stadium e gli ingenti introiti garantiti dalla Premiership significavano che quei tempi erano solo un lontano ricordo. Eppure quel primo, maledetto trofeo rimaneva inafferrabile. Il Boro aveva lo stadio, e che stadio, le infrastrutture, il management, i giocatori eppure non riusciva a liberarsi dell’etichetta di più o meno nobile perdente. Era solo questione di tempo, speravano i supporters più irriducibili, e alla fine avranno ragione loro, perché dal 29 febbraio 2004 tutto questo è cambiato. Per sempre. E un fatto così epocale non poteva che accadere in un giorno quanto meno particolare che nella «perfida Albione» chiamano Leap Year Day (leap-year è l’anno bisestile, ndr). Dopo 128 anni nell’ombra, il Middlesbrough, Middlesbrough e l’intero Teesside si godono il primo giorno di sole. Per spiegare, seppure alla lontana, la avvilente mediocrità del Boro a.C. (avanti Cardiff) si è ricorsi anche a un improbabile mix fra arti oscure e periodi bui. Middlesbrough: è l’unico club delle prime quattro divisioni inglesi ad avere un nome di 13 lettere, e nei paesi di matrice anglosassone la cosa qualche significato sinistro la nasconde; la presunta maledizione incombente su Ayresome Park (che per noi italiani proprio strampalata non è, visto che fu il teatro della disfatta contro la Corea del Nord nel ’66); persino Adolf Hitler fu tirato in ballo dopo che la promettente formazione del ’39 finì quarta in campionato: chissà se e cosa avrebbe potuto vincere, quella squadra, se quel cattivone ex seminarista austriaco non avesse messo a ferro e fuoco il globo terracqueo.Ma stavolta, per l’ultimo atto di Carling Cup, contro il Bolton il 29 febbraio 2004 al Millennium Stadium di Cardiff, i presagi erano buoni. Per almeno quattro ragioni. Sarebbe stata la più rara delle vittorie (i 128 anni attesi dal Boro contro i 46 dei Trotters) nel più raro dei giorni (l’ultimo di febbraio in un anno bisestile), i tifosi biancorossi erano sistemati nella “fortunata” North End e, soprattutto, il Middlesbrough, perlomeno sulla carta, era più forte. L’atmosfera dentro e fuori lo stadio sembrava confermare la sensazione, anche se fra i fedelissimi del Boro era palpabile la fobia di finire ancora una volta battuti.
Non erano là per godersi la finale, ma per vincerla. Giocatori e dirigenti non erano là per “godersi il momento”, ma per alzare il primo trofeo nella storia del club.E a differenza del recente passato, nessuno poteva imputare loro un cammino agevole, con semifinali abbordabili come quelle sostenute contro Stockport e Chesterfield, perché il Boro era arrivato in fondo, più che per il maggior tasso tecnico, grazie al carattere e alla determinazione. All’1-0 ai supplementari sul Brighton (gol di Christie, subentrato al gioiellino Downing, al 94’) nel secondo turno e, nel terzo, l’1-2 esterno (Maccarone al 36’, Mendieta al 66’) col Wigan Athletic, impegnato nella lotta per la promozione che arriverà invece l’anno dopo, erano seguiti il doppio 5-4 ai rigori contro Everton (dopo lo 0-0 dei 120’, decisivo l’errore di Osman) e Tottenham (Spurs avanti con Anderton al 2’ e ripresi da Ricketts all’86’; penalty sbagliati da Mendieta e dai “londoners” Poyet e Taricco) e dalla doppia semifinale con una specie di Arsenal 2. In avanti, assente Henry, via libera alle strane coppie: Kanu e il 18enne Owusu-Abeyie a Highbury (1-0 di Juninho al 53’), Reyes-Bentley al Riverside (2-1: Boro avanti con Zenden al 69’, Edu pareggia al 77’ e l’autogol di Reyes chiude il conto all’85’). I detrattori, altrimenti noti come tifosi del Sunderland o del Newcastle, guidati dal can can delle radio locali di un arrogante Cockney (spregiativo per “coatti” londinesi, ndr) come Malcolm “Supermac” MacDonald, ex centravanti dei Magpies, stavolta non potevano ridurre tutto a una mera questione di buona sorte. Il Boro era in finale con merito.
E di quel merito una bella fetta apparteneva al tecnico, Steve McClaren. Il ragazzo d’oro che tutti indicavano, di volta in volta, come il prossimo manager di Manchester United, Inghilterra o Liverpool, ha messo a punto una difesa elastica e un bel centrocampo. Il problema, semmai, era la balbettante forza d’urto, spesso carente di muscoli, convinzione e talento. Quando si trattava di proteggere la porta difesa da Schwarzer, i quattro dietro, Mills, Ehiogu, Southgate e Queudrue, diventavano sette con i ripiegamenti dei mediani Boateng e Doriva, che lasciavano solo gli esterni Mendieta e Zenden e il trequartista Juninho a dare manforte all’isolato Job nell’attaccare gli spazi che ogni squadra brava nel possesso palla invariabilmente si lascia alle spalle. In finale, la tattica di McClaren si rivelerà perfetta per battere il Bolton, ma nemmeno il più ottimista fra i seguaci del Boro avrebbe mai immaginato che tutto sarebbe girato per il verso giusto, e prima ancora che il tecnico del Middlesbrough si fosse accomodato in panchina.Al 2’ Zenden, innescato da Mendieta, crossa dalla sinistra un pallone che Job corregge a rete in tap-in: 1-0 Boro. Tempo cinque minuti e i due confezionano il raddoppio: Job stramazza in area per un (presunto e comunque minimo) contatto con Emerson Thome, il signor Mike Riley fischia il rigore che Zenden, pur incespicando, trasforma.
Che il penalty ci fosse o no è una discussione che potrebbe durare all’infinito, come quella sul fallo con cui Nicky Hunt, nel finale di primo tempo, impedisce a Job di involarsi verso la porta difesa da Jussi Jaaskelainen. Ciò che non si discute è l’assurdità delle proteste del tecnico del Wanderers, Sam Allardyce, nel contestarne l’esecuzione effettuata dall’olandese. Anche se il battitore avesse toccato la palla due volte (cosa che non può fare prima che la sfera sia stata giocata, o toccata da un altro giocatore, e il pallone è in gioco appena viene toccato e si muove in avanti, ndr), perché ci sia infrazione la palla deve ruotare completamente tra i due tocchi, e il tutto deve essere intenzionale. Discutibile, casomai, è che un membro della League Managers’ Association (l’AssoAllenatori della Premiership) non si sia premurato di ripassare il regolamento prima di abbandonarsi sulla sedia nella conferenza stampa del dopo-partita.Ah, la partita. Si era messa così bene per quelli del Middlesbrough che non ci credevano nemmeno loro. I gol di Job e Zenden furono accolti più con stupore che festeggiamenti. E mentre il contrattacco fluido del Boro poteva sfruttare le ampie praterie che il Bolton, nel tentativo di rimontare, lasciava incustodite, entrambe le tifoserie sembravano impreparate a recitare la parte loro assegnata.
Quelli del Bolton avevano la voce strozzata dalla rapidità dell’uno-due subìto. Quelli del Boro cominciavano a rimuginare su come la loro squadra, in quella competizione, nel ’97 contro il Leicester, aveva gettato via il vantaggio a due minuti dal termine dei supplementari. Al 21’ quei fantasmi assumono sembianze terribilmente reali: uno svarione di Mark Schwarzer consente a Kevin Davies di accorciare le distanze. Poi il portiere del Boro si riscatta negando per due volte il gol all’ex interista Youri Djorkaeff. E il triplice fischio di Mr. Mike Riley diventa per il Middlesbrough l’alba di una nuova era e, al contempo, la fine di un’epoca. Sugli spalti, i padri stringono a sé i figli, estranei si baciano e si abbracciano. In tribuna stampa, i giornalisti dei media locali del Teesside piangono apertamente. Era un giorno che Middlesbrough aspettava da generazioni, e in molti temevano che non sarebbe mai arrivato o che non sarebbero campati abbastanza per viverlo. Come quella signora, cieca e 78enne, seduta in tribuna con un orecchio alla radiolina e l’altro intento a captare l’irripetibile atmosfera.Per il Boro era il gran giorno, e lo era anche per Steve McClaren, primo manager inglese a vincere un trofeo nazionale dal 1996 (quando la League Cup andò all’Aston Villa di Brian Little, 3-0 al Leeds United).
Vincere al Middlesbrough ha fatto di lui l’alfiere della Nouvelle Vague della categoria. Ma McClaren, pur raggiante, non si scompone più di tanto: «È bello essere apprezzati, avere successo. Quando vinci, su di te ci sono subito speculazioni. Ma abbiamo un lavoro da portare avanti e voglio vincere ancora con questo club, ecco la mia ambizione. Fino a quando sarà condivisa dal presidente, sono felice qui. Ho altri due anni di contratto e sto bene così». E che il suo omonimo Gibson quell’ambizione la condivida è poco ma sicuro. Lo dimostrava la sua espressione dai maxischermi del Millennium Stadium mentre i supporters del Boro cominciavano a cantare per festeggiare un trofeo, uno qualsiasi, fin lì solo sfiorato. Il loro legame è unico. In nessun altro club c’è un così fraterno rapporto fra il popolo del tifo e la figura di riferimento della società, acquistata dopo aver fatto fortuna con i trasporti di materiali chimici e fruttare le 1000 sterline prestatigli a vent’anni dal padre per mettersi in proprio.Il più giovane presidente nell’intera Premiership che aveva tirato fuori il club dai marosi finanziari di metà anni Ottanta, quando la squadra – tenuta insieme dal talento e dal cuore dell’olandese Heine Otto, uno degli idoli di Ayresome Park – aveva disputato una partita al Victoria Park dell’Hartlepool perché lo stadio era stato posto sotto sigillo dai liquidatori, era stato anche l’uomo che, quasi vent’anni dopo, gli aveva regalato il primo successo. E rimarranno nel cuore di chi ama il Boro le parole gridate da capitan Gareth Southgate (che quella Coppa l’aveva alzata con i Villans nel ’96) alla folla che al Millennium Stadium muggiva il nome del patron: «Steve Gibson è il nostro più grande tifoso. Senza di lui il Boro non sarebbe qui».Oggi il suo Boro è un ricco club della ricchissima Premiership, ha uno stadio avveniristico, un centro di allenamento invidiato da tutti e una rosa ricca di nazionali, compresa la meteora azzurra Massimo Maccarone, un cognome che sembra fatto apposta per solleticare lo strisciante sciovinismo sempre presente in e su certa stampa inglese.
Nel momento del trionfo Gibson ha una parola per tutti, anche per riconoscere il contributo fornito alla causa dall’ex manager Bryan Robson: «Ha recitato un ruolo importante nel gettare le fondamenta per ciò che oggi abbiamo, ma questa è di gran lunga la squadra di Steve McClaren. Vi ha portato idee innovative, un modo nuovo di fare le cose. Certo, c’è voluto tempo. Tanto. Negli ultimi dieci anni, abbiamo ricostruito questo club mattone su mattone e nelle precedenti finali siamo andati vicinissimi ad alzare un trofeo. Ma non avevamo sufficiente esperienza, quella che invece abbiamo dimostrato a Cardiff. Deludere ancora i tifosi sarebbe stato davvero crudele». A Gibson la giunta comunale di Middlesbrough aveva garantito la cittadinanza onoraria, e si rincorrevano le voci che gli sarebbe stato riconosciuto il cavalierato per i servigi che avevano dato orgoglio e prestigio alla sua tanto malignata città.
Quell’orgoglio che tracimava come la folla presente alla parata celebrativa fatta dalla squadra su un autobus scoperto, che serpeggiava dall’area dove riposa il maledetto Ayresome al Riverside, mentre per le strade si affollavano in 150.000, tre quinti della popolazione cittadina.Nonostante una carriera ad alti livelli che lo aveva portato dai fasti di due finali di Champions League con il Valencia dei miracoli ai nefasti laziali, Mendieta era visibilmente emozionato: «Sapevo che sarebbero venuti in tanti, ma non così tanti. Ci si sorprende sempre nel vedere una folla simile e ti rendi conto di quanto importante sia per loro quel trofeo. Il Middlesbrough ha progetti ambiziosi e io voglio farne parte». La rivoluzione in atto al Riverside, iniziata da Robson e proseguita da McClaren, ha fatto per questa piccola città del North Yorkshire cose che solo al calcio possono riuscire. Dare una piccola speranza, un sorriso, un motivo di orgoglio anche a chi nemmeno li sogna più. Vinco dunque sarò.
Uno striscione (dei tifosi della Fortitudo Bologna di basket nella finale-scudetto 1998), poi riprodotto in T-shirt e quindi urlato al mondo. Come orgoglio per le proprie radici e per come, nel bene e nel male, si pensa di essere se non addirittura si è. E chissenefrega se poi gli investimenti di un patron (Giorgio Seragnoli) ti fanno conquistare, a partire proprio da quell’anno, Coppa Italia e Supercoppa italiana, poi due scudetti e, a inizio 2005-2006, un’altra Supercoppa.
«Non vincete mai», sul tono dell’inno ufficioso «Non molliamo mai», l’Inter se lo sente cantare in ogni stadio, il Torino se lo sente sulla pelle, nella storia, nel sangue.
Oltremanica, si sa, sono Maestri. A Middlesbrough, dove l’Inghilterra è, per certi versi, ancora più Inghilterra, sono piste avanti a tutti. Anche nel saper aspettare. E 128 anni non sono pochi, bisogna ammetterlo. Insomma quando perdere, più che un’arte, è o diventa una filosofia, uno stile di vita, una dichiarazione d’indipendenza (dal palazzo) o meglio ancora un manifesto esistenziale: perdo dunque sono. Fra i più meritevoli cultori del genere, secondo la classifica stilata dal New York Times, seguono, staccati, gli inglesi del Somerset County (cricket), a secco dalla nascita e cioè dal 1891, e, nel calcio, gli olandesi del Vitesse di Arnhem e i cileni del Talca Rangers, club a digiuno da 103 anni. Se la massima «i soldi non comprano il successo» oggi provoca falsi sorrisini fra i dirigenti dei grandi club, a Middlesbrough ha assunto valenza secolare. Il Boro fu il primo a pagare 1000 sterline il trasferimento di un giocatore (Alf Common), nel lontano 1905. E la tradizione si è mantenuta fino ai giorni nostri quando, nell’ottobre 1995, di sterline ne ha spese 4,75 milioni per prelevare Juninho Paulista dal São Paulo.
Il discorso vale anche per Alain Boksic, Fabrizio Ravanelli e altri, identico come il risultato: la bacheca vuota. Dicono che il cricket sia uno sport lento, adatto a chi ha pazienza. Ma quando nel 1876 in un albergo cittadino, l’Albert Hotel, i membri del Middlesbrough Cricket Club formarono la sezione calcio mai avrebbero immaginato di doverne portare tanta per vincere qualcosa. Qualcosa, beninteso, di più delle due Amateur FA Cup, la Coppa d’Inghilterra per dilettanti: 2-1 all’Old Carthusians (gol di Mullen e Nelmes) nel 1895 e all’Uxbridge (Bishop e Kempley) nel 1898. Poi più nulla, a parte i 3 titoli di Second Division (1927, ’29, ’74), la First Division (la cadetteria) nel ’95 e la Anglo-Scottish Cup ’76. Per c-e-n-t-o-v-e-n-t-o-t-to anni, la fraternity calcistica del Teesside ha bruciato progetti e sogni.
Il club ha costruito due grandi stadi (l’Ayresome Park prima, The Riverside Stadium poi) in un arco di tempo assurdamente breve, ha allevato generazioni di giocatori, alcuni dei quali fra i più stravaganti (eufemismo) visti nel calcio inglese, comprese legioni di coloriti ed esotici stranieri, e ispirato un livello di tifo-fanatismo tale da rasentare, se non oltrepassare, l’isteria collettiva. E per che cosa? Tre finali (perse, obvious: nel ’97, 1-0 dal Leicester City ai supplementari in Coppa di Lega e 2-0 dal Chelsea in FA Cup; 2-0 dal Chelsea ai supplementari nella League Cup del ’98), otto promozioni (ma pure nove retrocessioni) e quella coppetta simil torneo da bar.I continui fallimenti del Middlesbrough di entrare nell’élite di club capaci di vincere un trofeo degno di tal nome erano uno dei grandi misteri irrisolti del calcio britannico.
A vari intervalli – non ultimo quando, a metà anni Ottanta, subentrarono i liquidatori e la società quasi cessò di esistere – persino i più ferventi tifosi videro vacillare la propria fede. Ridicolizzata, scaricata, frustrata, la tifoseria del Middlesbrough non ha mai avuto troppe occasioni di essere fiera della propria passione. E lo stesso vale per i cittadini di Middlesbrough. Basta menzionarla e automaticamente, in buona parte per colpa della pigrizia mentale dei direttori delle emittenti tv, si pensa alla brutta città inquinata dai gas di scarico e dalle distese di ciminiere delle industrie di carbone che avvelenano il nebbioso cielo del Teesside (Teessider, come lo chiamano là per ovvi motivi) e chi tutti i santi giorni se lo ritrova sospeso sulla testa. Ecco, per restare in metafora, quelle nuvole sembravano destinate a restare sospese in eterno anche sulla prima squadra di calcio cittadina. Il poco glamour Middlesbrough era il nuovo Coventry: “The team The Premiership forgot”, la squadra dimenticata della Premiership. Una barzelletta che non faceva ridere. Deglutita a fatica l’amara retrocessione del ’97, la fiducia di Gibson nel manager Bryan Robson, arrivato tre anni prima, fu di nuovo messa alla prova tre stagioni dopo, quando solo il provvidenziale esonero in favore di Terry Venables evitò un analogo destino. Il recente vivacchiare del Middlesbrough a centroclassifica viene meno a una tradizione di giocatori che in campo danno tutto, massimamente esemplificata dalla squadra che Jack Charlton guidò al titolo della Second Division ’74 (vinta con 15 lunghezze di vantagio; se ci fossero stati i 3 punti per vittoria, il margine sarebbe stato di 23, ndr). Difensori come John Craggs, Willie Maddren e Stuart Boam e il centravanti John Hickton giocavano un calcio che annichiliva gli avversari ancora prima di scendere in campo. Dodici anni dopo (con Maddren allenatore), il Boro era precipitato in Division Three e in una spirale di debiti per frenare la quale gli amministratori erano arrivati a mettere i sigilli allo stadio. Nell’86 Steve Gibson, futuro presidente (dal ’94) e maggior azionista (con oltre il 90% delle quote), forma il consorzio che salva il club dal fallimento, ma ci vorranno 18 anni per riaccendere il fuoco della passione. L’imponente maestosità del Riverside Stadium e gli ingenti introiti garantiti dalla Premiership significavano che quei tempi erano solo un lontano ricordo. Eppure quel primo, maledetto trofeo rimaneva inafferrabile. Il Boro aveva lo stadio, e che stadio, le infrastrutture, il management, i giocatori eppure non riusciva a liberarsi dell’etichetta di più o meno nobile perdente. Era solo questione di tempo, speravano i supporters più irriducibili, e alla fine avranno ragione loro, perché dal 29 febbraio 2004 tutto questo è cambiato. Per sempre. E un fatto così epocale non poteva che accadere in un giorno quanto meno particolare che nella «perfida Albione» chiamano Leap Year Day (leap-year è l’anno bisestile, ndr). Dopo 128 anni nell’ombra, il Middlesbrough, Middlesbrough e l’intero Teesside si godono il primo giorno di sole. Per spiegare, seppure alla lontana, la avvilente mediocrità del Boro a.C. (avanti Cardiff) si è ricorsi anche a un improbabile mix fra arti oscure e periodi bui. Middlesbrough: è l’unico club delle prime quattro divisioni inglesi ad avere un nome di 13 lettere, e nei paesi di matrice anglosassone la cosa qualche significato sinistro la nasconde; la presunta maledizione incombente su Ayresome Park (che per noi italiani proprio strampalata non è, visto che fu il teatro della disfatta contro la Corea del Nord nel ’66); persino Adolf Hitler fu tirato in ballo dopo che la promettente formazione del ’39 finì quarta in campionato: chissà se e cosa avrebbe potuto vincere, quella squadra, se quel cattivone ex seminarista austriaco non avesse messo a ferro e fuoco il globo terracqueo.Ma stavolta, per l’ultimo atto di Carling Cup, contro il Bolton il 29 febbraio 2004 al Millennium Stadium di Cardiff, i presagi erano buoni. Per almeno quattro ragioni. Sarebbe stata la più rara delle vittorie (i 128 anni attesi dal Boro contro i 46 dei Trotters) nel più raro dei giorni (l’ultimo di febbraio in un anno bisestile), i tifosi biancorossi erano sistemati nella “fortunata” North End e, soprattutto, il Middlesbrough, perlomeno sulla carta, era più forte. L’atmosfera dentro e fuori lo stadio sembrava confermare la sensazione, anche se fra i fedelissimi del Boro era palpabile la fobia di finire ancora una volta battuti.
Non erano là per godersi la finale, ma per vincerla. Giocatori e dirigenti non erano là per “godersi il momento”, ma per alzare il primo trofeo nella storia del club.E a differenza del recente passato, nessuno poteva imputare loro un cammino agevole, con semifinali abbordabili come quelle sostenute contro Stockport e Chesterfield, perché il Boro era arrivato in fondo, più che per il maggior tasso tecnico, grazie al carattere e alla determinazione. All’1-0 ai supplementari sul Brighton (gol di Christie, subentrato al gioiellino Downing, al 94’) nel secondo turno e, nel terzo, l’1-2 esterno (Maccarone al 36’, Mendieta al 66’) col Wigan Athletic, impegnato nella lotta per la promozione che arriverà invece l’anno dopo, erano seguiti il doppio 5-4 ai rigori contro Everton (dopo lo 0-0 dei 120’, decisivo l’errore di Osman) e Tottenham (Spurs avanti con Anderton al 2’ e ripresi da Ricketts all’86’; penalty sbagliati da Mendieta e dai “londoners” Poyet e Taricco) e dalla doppia semifinale con una specie di Arsenal 2. In avanti, assente Henry, via libera alle strane coppie: Kanu e il 18enne Owusu-Abeyie a Highbury (1-0 di Juninho al 53’), Reyes-Bentley al Riverside (2-1: Boro avanti con Zenden al 69’, Edu pareggia al 77’ e l’autogol di Reyes chiude il conto all’85’). I detrattori, altrimenti noti come tifosi del Sunderland o del Newcastle, guidati dal can can delle radio locali di un arrogante Cockney (spregiativo per “coatti” londinesi, ndr) come Malcolm “Supermac” MacDonald, ex centravanti dei Magpies, stavolta non potevano ridurre tutto a una mera questione di buona sorte. Il Boro era in finale con merito.
E di quel merito una bella fetta apparteneva al tecnico, Steve McClaren. Il ragazzo d’oro che tutti indicavano, di volta in volta, come il prossimo manager di Manchester United, Inghilterra o Liverpool, ha messo a punto una difesa elastica e un bel centrocampo. Il problema, semmai, era la balbettante forza d’urto, spesso carente di muscoli, convinzione e talento. Quando si trattava di proteggere la porta difesa da Schwarzer, i quattro dietro, Mills, Ehiogu, Southgate e Queudrue, diventavano sette con i ripiegamenti dei mediani Boateng e Doriva, che lasciavano solo gli esterni Mendieta e Zenden e il trequartista Juninho a dare manforte all’isolato Job nell’attaccare gli spazi che ogni squadra brava nel possesso palla invariabilmente si lascia alle spalle. In finale, la tattica di McClaren si rivelerà perfetta per battere il Bolton, ma nemmeno il più ottimista fra i seguaci del Boro avrebbe mai immaginato che tutto sarebbe girato per il verso giusto, e prima ancora che il tecnico del Middlesbrough si fosse accomodato in panchina.Al 2’ Zenden, innescato da Mendieta, crossa dalla sinistra un pallone che Job corregge a rete in tap-in: 1-0 Boro. Tempo cinque minuti e i due confezionano il raddoppio: Job stramazza in area per un (presunto e comunque minimo) contatto con Emerson Thome, il signor Mike Riley fischia il rigore che Zenden, pur incespicando, trasforma.
Che il penalty ci fosse o no è una discussione che potrebbe durare all’infinito, come quella sul fallo con cui Nicky Hunt, nel finale di primo tempo, impedisce a Job di involarsi verso la porta difesa da Jussi Jaaskelainen. Ciò che non si discute è l’assurdità delle proteste del tecnico del Wanderers, Sam Allardyce, nel contestarne l’esecuzione effettuata dall’olandese. Anche se il battitore avesse toccato la palla due volte (cosa che non può fare prima che la sfera sia stata giocata, o toccata da un altro giocatore, e il pallone è in gioco appena viene toccato e si muove in avanti, ndr), perché ci sia infrazione la palla deve ruotare completamente tra i due tocchi, e il tutto deve essere intenzionale. Discutibile, casomai, è che un membro della League Managers’ Association (l’AssoAllenatori della Premiership) non si sia premurato di ripassare il regolamento prima di abbandonarsi sulla sedia nella conferenza stampa del dopo-partita.Ah, la partita. Si era messa così bene per quelli del Middlesbrough che non ci credevano nemmeno loro. I gol di Job e Zenden furono accolti più con stupore che festeggiamenti. E mentre il contrattacco fluido del Boro poteva sfruttare le ampie praterie che il Bolton, nel tentativo di rimontare, lasciava incustodite, entrambe le tifoserie sembravano impreparate a recitare la parte loro assegnata.
Quelli del Bolton avevano la voce strozzata dalla rapidità dell’uno-due subìto. Quelli del Boro cominciavano a rimuginare su come la loro squadra, in quella competizione, nel ’97 contro il Leicester, aveva gettato via il vantaggio a due minuti dal termine dei supplementari. Al 21’ quei fantasmi assumono sembianze terribilmente reali: uno svarione di Mark Schwarzer consente a Kevin Davies di accorciare le distanze. Poi il portiere del Boro si riscatta negando per due volte il gol all’ex interista Youri Djorkaeff. E il triplice fischio di Mr. Mike Riley diventa per il Middlesbrough l’alba di una nuova era e, al contempo, la fine di un’epoca. Sugli spalti, i padri stringono a sé i figli, estranei si baciano e si abbracciano. In tribuna stampa, i giornalisti dei media locali del Teesside piangono apertamente. Era un giorno che Middlesbrough aspettava da generazioni, e in molti temevano che non sarebbe mai arrivato o che non sarebbero campati abbastanza per viverlo. Come quella signora, cieca e 78enne, seduta in tribuna con un orecchio alla radiolina e l’altro intento a captare l’irripetibile atmosfera.Per il Boro era il gran giorno, e lo era anche per Steve McClaren, primo manager inglese a vincere un trofeo nazionale dal 1996 (quando la League Cup andò all’Aston Villa di Brian Little, 3-0 al Leeds United).
Vincere al Middlesbrough ha fatto di lui l’alfiere della Nouvelle Vague della categoria. Ma McClaren, pur raggiante, non si scompone più di tanto: «È bello essere apprezzati, avere successo. Quando vinci, su di te ci sono subito speculazioni. Ma abbiamo un lavoro da portare avanti e voglio vincere ancora con questo club, ecco la mia ambizione. Fino a quando sarà condivisa dal presidente, sono felice qui. Ho altri due anni di contratto e sto bene così». E che il suo omonimo Gibson quell’ambizione la condivida è poco ma sicuro. Lo dimostrava la sua espressione dai maxischermi del Millennium Stadium mentre i supporters del Boro cominciavano a cantare per festeggiare un trofeo, uno qualsiasi, fin lì solo sfiorato. Il loro legame è unico. In nessun altro club c’è un così fraterno rapporto fra il popolo del tifo e la figura di riferimento della società, acquistata dopo aver fatto fortuna con i trasporti di materiali chimici e fruttare le 1000 sterline prestatigli a vent’anni dal padre per mettersi in proprio.Il più giovane presidente nell’intera Premiership che aveva tirato fuori il club dai marosi finanziari di metà anni Ottanta, quando la squadra – tenuta insieme dal talento e dal cuore dell’olandese Heine Otto, uno degli idoli di Ayresome Park – aveva disputato una partita al Victoria Park dell’Hartlepool perché lo stadio era stato posto sotto sigillo dai liquidatori, era stato anche l’uomo che, quasi vent’anni dopo, gli aveva regalato il primo successo. E rimarranno nel cuore di chi ama il Boro le parole gridate da capitan Gareth Southgate (che quella Coppa l’aveva alzata con i Villans nel ’96) alla folla che al Millennium Stadium muggiva il nome del patron: «Steve Gibson è il nostro più grande tifoso. Senza di lui il Boro non sarebbe qui».Oggi il suo Boro è un ricco club della ricchissima Premiership, ha uno stadio avveniristico, un centro di allenamento invidiato da tutti e una rosa ricca di nazionali, compresa la meteora azzurra Massimo Maccarone, un cognome che sembra fatto apposta per solleticare lo strisciante sciovinismo sempre presente in e su certa stampa inglese.
Nel momento del trionfo Gibson ha una parola per tutti, anche per riconoscere il contributo fornito alla causa dall’ex manager Bryan Robson: «Ha recitato un ruolo importante nel gettare le fondamenta per ciò che oggi abbiamo, ma questa è di gran lunga la squadra di Steve McClaren. Vi ha portato idee innovative, un modo nuovo di fare le cose. Certo, c’è voluto tempo. Tanto. Negli ultimi dieci anni, abbiamo ricostruito questo club mattone su mattone e nelle precedenti finali siamo andati vicinissimi ad alzare un trofeo. Ma non avevamo sufficiente esperienza, quella che invece abbiamo dimostrato a Cardiff. Deludere ancora i tifosi sarebbe stato davvero crudele». A Gibson la giunta comunale di Middlesbrough aveva garantito la cittadinanza onoraria, e si rincorrevano le voci che gli sarebbe stato riconosciuto il cavalierato per i servigi che avevano dato orgoglio e prestigio alla sua tanto malignata città.
Quell’orgoglio che tracimava come la folla presente alla parata celebrativa fatta dalla squadra su un autobus scoperto, che serpeggiava dall’area dove riposa il maledetto Ayresome al Riverside, mentre per le strade si affollavano in 150.000, tre quinti della popolazione cittadina.Nonostante una carriera ad alti livelli che lo aveva portato dai fasti di due finali di Champions League con il Valencia dei miracoli ai nefasti laziali, Mendieta era visibilmente emozionato: «Sapevo che sarebbero venuti in tanti, ma non così tanti. Ci si sorprende sempre nel vedere una folla simile e ti rendi conto di quanto importante sia per loro quel trofeo. Il Middlesbrough ha progetti ambiziosi e io voglio farne parte». La rivoluzione in atto al Riverside, iniziata da Robson e proseguita da McClaren, ha fatto per questa piccola città del North Yorkshire cose che solo al calcio possono riuscire. Dare una piccola speranza, un sorriso, un motivo di orgoglio anche a chi nemmeno li sogna più. Vinco dunque sarò.
Christian Giordano, Linea Bianca
Finale di Carling Cup (League Cup)
Millennium Stadium, Cardiff (Galles), 29 febbraio 2004
Millennium Stadium, Cardiff (Galles), 29 febbraio 2004
BOLTON WANDERERS-MIDDLESBROUGH 1-2
BOLTON WANDERERS (4-4-1-1): Jaaskelainen - Hunt (Giannakopoulos), N’Gotty, Thome, Charlton - Frandsen (Pedersen), Campo, Okocha, Nolan (Moreno) - Djorkaeff - Davies. Non entrati: Poole, Barness. Manager: Sam Allardyce.
MIDDLESBROUGH (4-4-1-1): Schwarzer - Mills, Queudrue, Southgate, Ehiogu - Mendieta, Doriva, Boateng, Zenden – Juninho - Job (Ricketts). Non entrati: Jones, Maccarone, Downing, Riggott. Manager: Steve McClaren.
Arbitro: Mike Riley (West Yorkshire); assistenti: Roy Burton (Staffordshire), Ray Gould (Derbyshire); quarto uomo: Michael Jones (Cheshire).
Reti: 2’ Job (M), 7’ Zenden (M) su rigore, 21’ Davies (B)
Spettatori paganti: 72.634
Note: ammoniti Frandsen e Campo per il Bolton, Boateng e Ricketts per il Middlesbrough.
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