Sulle strade di don Francisco
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Don “Francis” Cornejo è stato il primo allenatore di Maradona e suo maestro di calcio e di vita. In queste splendide pagine, racconta un Diego inedito e commovente, ancora puro come il suo talento
di Christian Giordano ©, Guerin Sportivo ©
Location (come oggi va di moda dire): un campo da golf di L’Avana, Cuba. Data: novembre 2003. Personaggi e interpreti: un inviato di “Sin casette”, programma della Tv via-cavo argentina TyC Sports, e Maradona. «Diego, ti piacerebbe che il nuovo stadio dell’Argentinos Juniors fosse intitolato a te?». «No, il campo non va intitolato a Diego Armando Maradona. Devono dargli il nome di Francisco Cornejo». Prego?
Avesse risposto “El Negro” (il nero) o “El Zurdo” (il mancino) o anche solo “Francis”, qualcuno, nell’ambiente del calcio, avrebbe capito e, magari, collegato. Migliaia di miglia più a sud, nella sua casa di Buenos Aires, il diretto interessato, Francisco Gervasio Cornejo, si stava appisolando davanti al televisore, prima che quelle parole lo facessero sobbalzare dalla poltrona.
Neanche il tempo di chiedersi se aveva sentito bene ed ecco un brivido corrergli lungo la schiena e gli occhi riempirsi di lacrime: «Lui, il miglior calciatore al mondo di tutti i tempi, rifiutava l’omaggio del club che l’aveva visto nascere e chiedeva in cambio che lo intitolassero a me…».
Don Francis, l’uomo che lo aveva scoperto, per il “Pelusa” era stato molto più che il primo allenatore. Era stato un maestro, di calcio e di vita, e anche se le loro strade si erano inevitabilmente divise, il ricordo e la gratitudine per l'entrenador che nelle Cebollitas (“cipolline”) dell’Argentinos Juniors lo aveva calcisticamente cresciuto erano sempre vivi nel cuore dell’ex Pibe de oro.
Dell’ex campione tutto si è detto e scritto. Pure troppo. La forza e la ragione del libro di Cornejo, “Ho scoperto Maradona” (Limina edizioni, 13,50 euro), curato dal giornalista argentino Daniel Cecchini e Iacopo Iandiorio, storico cronista di calcio estero per Gazzetta dello Sport e “Sportweek” e autore anche della traduzione dallo spagnolo, riguardano invece il Diego che ai più è sconosciuto: e cioè il ragazzino che nel marzo 1969, un sabato pomeriggio, “Goyo” Carrizo, l’inseparabile compagno di giochi e vicino di barrio, si portò dietro alle “Malvinas”.
Così si chiamava il campetto dove si allenavano i ragazzi guidati da Cornejo e da José Emilio Trotta, che di Francisco era fido assistente, autista e più che altro amico di una vita.
«Non sono un personaggio famoso – scrive Cornejo – Se non fosse stato per Diego, non mi avrebbe conosciuto nessuno (…) Per tutta la vita non sono stato altro che questo: un tecnico del settore giovanile. E ne sono orgoglioso. La sola cosa che mi differenzia dai colleghi è aver avuto la fortuna di scoprire il miglior giocatore di tutti i tempi». Per formare il quale, però, ci ha messo tutto se stesso, «per farlo andare avanti senza che si insuperbisse, cercando di condividere le sue inquietudini, rispettando la sua natura e le sue invenzioni».
L’idillio tecnico è durato sette anni, «i più felici della mia vita» giura don Francis, e cioè fino a quando, nel 1976, i dirigenti dell’Argentinos – contro il suo parere – glielo hanno portato via per aggregarlo alla prima squadra. Quello affettivo, invece, non si è ancora spezzato ed è rimasto quasi inalterato nel tempo anche se, come è ovvio, le loro vite avrebbero preso strade diverse. È anche e soprattutto per questo che Cornejo ha deciso di narrare «la storia ignorata del piccolo Diego, attorno alla quale sono state costruite tante leggende, ma dette poche verità; e che lo stesso Diego ha raccontato appena un po’ nella sua autobiografia (“Yo Soy el Diego”, pubblicata nel 2000, ndr)».
Si scopre così che la famiglia Maradona – don Diego senior detto Chitoro, mamma Dalma Salvadora Franco, per tutti “Dona Tota”, e i loro otto figli: Ana, Rita (Kity), Elsa (Lili), María Rosa (Mary), Diego Armando, Raúl (Lalo) e Hugo (Turco) e Claudia (Cali) – era sì molto povera e che viveva nel “barrio” di Villa Fiorito, di là del ponte della Noria, uno di quelli che unisce Buenos Aires con la provincia, passando sopra l’acqua sporca del Riachuelo. Che alla “Villa”, situata in una zona conosciuta come “Cuartel Noveno” (Nono Quartiere), nel distretto di Lomas de Zamora, dove i ragazzini «giocavano con una palla di stracci nelle strade polverose di terra, dribblando i solchi che le ruote dei carri lasciavano nel fango dopo la pioggia».
Pure invenzioni giornalistiche, invece, quelle secondo le quali donna Tota, pur di non far mancare niente ai suoi otto figli, fosse costretta a rovistare nell’immondizia della “Quema”, l’area dove venivano raccolti i rifiuti. O che i Maradona vivessero in una baracca col tetto di lamiera: in realtà la loro era una piccola casa in mattoni, una delle poche, dipinta di calce bianca; una costruzione modesta, ma un po’ meglio della maggior parte delle case della zona e che dava l’impressione di essere occupata da gente che teneva molto alla propria abitazione, nonostante – o forse proprio per questo – il poco che possedeva.
È vero invece che Diego non aveva i soldi per l’autobus numero 28, quello che doveva portarlo al campo di allenamento. Per procurarglieli, le sorelle più grandi, già sposate, li “sfilavano” ai rispettivi mariti. Perlomeno quelli per l’andata, perché quelli per il ritorno, quando non era disponibile il camioncino Rastrojero arancione modello 62 di don Yayo (Trotta), li scuciva don Francis.
Pure invenzioni giornalistiche, invece, quelle secondo le quali donna Tota, pur di non far mancare niente ai suoi otto figli, fosse costretta a rovistare nell’immondizia della “Quema”, l’area dove venivano raccolti i rifiuti. O che i Maradona vivessero in una baracca col tetto di lamiera: in realtà la loro era una piccola casa in mattoni, una delle poche, dipinta di calce bianca; una costruzione modesta, ma un po’ meglio della maggior parte delle case della zona e che dava l’impressione di essere occupata da gente che teneva molto alla propria abitazione, nonostante – o forse proprio per questo – il poco che possedeva.
È vero invece che Diego non aveva i soldi per l’autobus numero 28, quello che doveva portarlo al campo di allenamento. Per procurarglieli, le sorelle più grandi, già sposate, li “sfilavano” ai rispettivi mariti. Perlomeno quelli per l’andata, perché quelli per il ritorno, quando non era disponibile il camioncino Rastrojero arancione modello 62 di don Yayo (Trotta), li scuciva don Francis.
Francisco Cornejo, nato a Buenos Aires nel 1932, dopo una mediocre carriera di giocatore era entrato, nel 1953, nella Asociación Atlética Argentinos Juniors come addetto al settore giovanile.
Nella sua carriera, ha lanciato decine di talenti, tra cui Jorge Coch, Claudio Borghi e Fernando Redondo, ma si è concesso solo un’eccezione alla ferrea regola che si è sempre imposto nell’allevare i futuri giocatori: non permettere loro di bruciare le tappe. Ma con quel fenomeno di 8 anni, che in principio aveva scambiato per un nano e al quale insieme all’età, come riprova, aveva chiesto un documento di riconoscimento che né il Pelusa né chi l’aveva messo al mondo avevano, agì diversamente. Capì di essere di fronte a «un giocatore di un altro pianeta» e lo schierò subito titolare.
Con Maradona autore di ben 52 gol, la squadra del 1960, già straordinaria, diventò irresistibile: tra il 1971 e il 1973 disputò 140 partite senza perdere. La fama dei ragazzi di don Francis si sparse per tutto il Paese e scatenò l’invidia degli avversari, che, pur di batterli, erano disposti a tutto. Botte e provocazioni comprese.
Nella sua carriera, ha lanciato decine di talenti, tra cui Jorge Coch, Claudio Borghi e Fernando Redondo, ma si è concesso solo un’eccezione alla ferrea regola che si è sempre imposto nell’allevare i futuri giocatori: non permettere loro di bruciare le tappe. Ma con quel fenomeno di 8 anni, che in principio aveva scambiato per un nano e al quale insieme all’età, come riprova, aveva chiesto un documento di riconoscimento che né il Pelusa né chi l’aveva messo al mondo avevano, agì diversamente. Capì di essere di fronte a «un giocatore di un altro pianeta» e lo schierò subito titolare.
Con Maradona autore di ben 52 gol, la squadra del 1960, già straordinaria, diventò irresistibile: tra il 1971 e il 1973 disputò 140 partite senza perdere. La fama dei ragazzi di don Francis si sparse per tutto il Paese e scatenò l’invidia degli avversari, che, pur di batterli, erano disposti a tutto. Botte e provocazioni comprese.
Vale la pena di ricordarlo quel memorabile “undici”. In porta, Rudy Escobar aveva lasciato il posto a Daniel “el Chino” Ojeda. In difesa giocavano Hugo Chaille (titolare al posto di Norberto Santagatti), Oscar Trotta (il figlio di don Yayo), Oscar Lucero e il fumantino Juan Carlos Montaña.
A centrocampo, davanti al “volante” Luis Chammah era giocavano Maradona, che aveva rimpiazzato il fortissimo Claudio Rodríguez, e Osvaldo Dalla Buona, detto “Veneno” (veleno) e visto poi anche in Italia, fra i dilettanti del Nola e a Trani.
Paradossalmente, era l’attacco il reparto relativamente meno all’altezza, ma solo per motivi anagrafici perché all’ala destra c’era il piccolo (in tutti i sensi: era l’unico del ’62) Silvano Espíndola, a cui si aggiungevano il centravanti Gregorio (Goyo) Carrizo e, a sinistra, capitan Daniel Delgado alias “Polvorita”, polveriera.
Sabato 8 dicembre 1973 allo stadio Monumental del River Plate le Cebollitas dell’Argentinos Juniors affrontano nella finale dei “Giochi Evita Perón”, importante torneo giovanile voluto dalla moglie dell’ex presidente argentino.
Battono per 5-4 i favoritissimi “Banda Roja” del River Plate. Maradona segna due reti, una delle quali entrando in porta con il pallone dopo aver dribblato sette avversari. Tempo una settimana e il presidente del River Plate, William Kent, tenta a suon di soldoni di strapparlo all’Argentinos, ma don Chitoro si oppone: «Diego resta dov’è, lì è in buone mani ed è felice. Il resto non conta».
Tre anni dopo, el Pelusa – nonostante il parere contrario di Cornejo che per questo si inimicherà la dirigenza – è aggregato alla prima squadra. Il 20 ottobre 1976, dieci giorni prima del suo sedicesimo compleanno, debutta nella massima divisione.
Addio a don Francis e, forse, all’età dell’innocenza.
Christian Giordano ©, Guerin Sportivo ©
Francisco Cornejo
Ho scoperto Maradona
Il giovane Diego raccontato dal suo primo allenatore
(a cura di Daniel Cecchini e Iacopo Iandiorio; traduzione di Iacopo Iandiorio)
Limina Edizioni, 222 pagine, Euro 13.5
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