FOOTBALL PORTRAITS - Piqué-Puyol: attenti a noi due
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La strana coppia: Tarzan & Piquénbauer
di Christian Giordano ©
Culé. Non potrebbero esserlo di più, e più diversamente, Gerard Piqué & Carles Puyol. Perfetti, quasi letterari antipodi della catalanità, del barcelonismo, dell’identità blaugrana. Il principe e il povero? Solo in apparenza, anche se i rispettivi background parlano per loro.
Puyi è un campagnolo di La Pobla de Segur, comarca di Pallars Jussà, profonda Catalogna, a quasi tre ore d’auto da Barcellona. Secondogenito di Josep e Rosa, proprietari terrieri e di vacche, ha studiato come il fratello Josep Xavier alla locale escola de la Sagrada Família.
Putxi, di due anni più grande, era forse più tecnico. Giocava da attaccante, ma non ne aveva la stessa, feroce determinazione. Filosofia, quella del mai mollare, che l’unico Puyol ad aver sfondato s’è poi tatuata sulla pelle: sul bicipite sinistro «El poder está en la mente» e «Sólo resisten los más fuertes»; sul basso ventre «querer es poder», che oltre per la posizione si presta a duplice lettura per i significati del verbo spagnolo querer: amare e volere.
Tifoso devoto sin da piccolo, Puyi, se il Barça perdeva, saliva di corsa in camera, ci si chiudeva dentro sbattendo la porta e andava a letto senza cena. La sua fortuna è stata trovare un allenatore del posto, Jordi Mauri, testardo almeno quanto lui, col quale mettersi d’accordo per allenamenti-extra nelle gelide e buie mattinate invernali.
In Barça – The Making of the Greatest Team in the World di Graham Hunter, giornalista scozzese assai embedded e ormai spagnolo d’adozione, Mauri ha rievocato due aneddoti in particolare.
«Ci allenavamo usando vecchi calzettoni riempiti con dieci chili di sabbia e annodati assieme. Carles se ne caricava uno per spalla e si ammazzava di piegamenti. Faceva un freddo cane, la tecnica di allenamento era un po’ alla buona e i suoi compagni sparirono subito, ma lui era motivato. Con i più giovani me la sarei pure cavata, ma gli altri della sua età non sarebbero più tornati. Lui sì.
Una volta, giocando a calcio tennis, si tuffò di testa per salvare un pallone. Si rialzò che era una maschera di sangue, furibondo per non esserci arrivato. La maggior parte dei 14enni sarebbe rimasta lì a terra a lamentarsi per il dolore. Lui invece era già ultra-competitivo, un purosangue che imparava in fretta».
In zona c’era soltanto una squadra senior, così Puyol giocava per strada, sette contro sette o fútbol sala (come in Spagna chiamano il futsal). Il futuro guerriero simbolo dell’epoca d’oro del calcio spagnolo non avrebbe giocato a undici o su un terreno regolamentare prima dei quattordici anni.
Quando arrivò la chiamata del Barça, dopo due stagioni con il Pobla de Segur, al provino erano una trentina. «Non avevo idea se stessi giocando bene o no», ricorda Puyi. «Non ci dicevano granché, ma mi sono goduto ogni istante. Già solo indossare quella maglia era un sogno».
Ci sarebbe voluto un decennio per vederlo alzare un trofeo con la prima squadra, ma la più grande epopea nella storia del club era in gestazione. Víctor Valdés e Xavi erano già nel vivaio, Andrés Iniesta era già stato selezionato e, due stagioni dopo, con Piqué sarebbe arrivato, da Arenys de Mar, un altro ragazzino di dieci anni, Francesc Fàbregas.
I leggendari salvataggi in tuffo, i recuperi in tackle tanto acrobatici quanto in apparenza disperati diventati marchio del Puyol spesso ultimo baluardo difensivo risalgono ai suoi esordi come baby portiere-kamikaze. Rosa era così preoccupata per quel suo benedetto figliolo che si buttava impavido anche sulle superfici più dure, che lo portò dal medico di famiglia. Senza saperlo, quel dottore gettò le fondamenta delle difese euromondiali di Barcellona e Spagna avvisandola che il ragazzino doveva appendere i guanti se non voleva rischiare seri problemi di sviluppo alla colonna vertebrale. In porta, essendo il più piccolo, c’era finito giocando con la comitiva di Putxi, e ora un signore in camice gli diceva di smettere. Non di smettere col calcio, però.
A 17 anni, la stagione prima che Johan Cruijff venisse esonerato, quel grezzo campagnolo entrò nel vivaio del Barça. Il club della sua vita. Era il prototipo del giocatore di squadra: non tanto alto ma di grande elevazione, non così talentuoso ma determinato a lavorare su ogni aspetto del gioco. Nelle giovanili ha coperto quasi ogni ruolo, dal portiere al centravanti, e in prima squadra per un paio d’anni farà pure l’ala e il terzino.
POSH GERI
“Geri” invece è cresciuto in città, quartiere-bene di Pedralbes, da nobile rampollo blu-sangue prima ancora che di sangue blu. Non è (solo) un gioco di parole. Il nonno materno, Amador Bernabéu (sic), è stato per 23 anni – e sotto tre presidenti culé – Josip Luis Núñez, Joan Gaspart e Enric Reyna – il dirigente che ha rappresentato il club a livello nazionale (Federcalcio) e internazionale (UEFA e FIFA), prima di tornare, durante la presidenza di Sandro Rosell, al vecchio incarico.
Amador gli regalò la tessera di socio numero 48.212 il giorno della nascita, 2 febbraio 1987, ed era ancora nel board quando il nipote passò al Manchester United.
Piqué è cresciuto al Camp Nou, a dieci minuti a piedi da casa. Ci passava il tempo che voleva, giocando nelle giovanili, osservando la squadra B o quella di basket, altra sua passione come il football americano.
Nella sua infanzia felice e agiata, era però scampato a un incidente domestico che sarebbe potuto costargli non solo la carriera, ma la mobilità e persino la vita. Nell’estate 1988, era dai nonni nella loro seconda casa, a Blanes, in Costa Brava. L’abitazione era appena stata ristrutturata e il balcone al primo piano aveva ancora la ringhiera provvisoria. Il baby Piqué, di un anno e mezzo, stava inseguendo un pallone e la attraversò, finendo qualche metro sotto. Si scatenò un pandemonio. Le strutture mediche del posto non erano attrezzate per casi di traumi cranici infantili. I nonni si precipitarono quindi a Barcellona ma, in preda al panico, lo portarono all’ospedale sbagliato. Fu solo quando fu trasportato con la massima urgenza nell’istituto dove sua madre lavorava che poté avere cure adeguate. Restò in coma qualche ora e poi recuperò appieno.
Papà Joan, più che discreto calciatore dilettante, dopo la laurea in legge era diventato dirigente di una ditta di costruzioni. Mamma Montserrat, per tutti Montse, è primario dell’Área de Daño Cerebral Adquirido presso l’Institut Guttmann, centro di riabilitazione neurochirurgica inaugurato il 27 novembre 1965 come primo ospedale di Spagna per lesioni spinali e danni cerebrali acquisiti.
Montse a volte portava con sé al lavoro il figlio per ricordargli che al mondo c’erano persone molto meno fortunate e che avrebbe dovuto fare buon uso delle tante qualità avute in dono. Qualità che, nel caso di Gerard, se ancora oggi lo chiedete alla madre, erano più accademiche che calcistiche. Non male per uno così elegante e sicuro nell’uscire palla al piede e testa alta da meritarsi l’impegnativo nick di Piquénbauer in omaggio all’immortale Kaiser Franz. L’opposto dell’irruento Puyi, un mustang tutto cuore, atletismo e crine al vento.
A differenza di Charly, il suo gemello diverso ha iniziato presto: nel Torneo Special per bambini di sei e sette anni. Ai tempi il Barça prendeva anche ragazzini di non particolare talento ma che volevano comunque misurarsi nel calcio organizzato. Pochissimi sarebbero poi stati invitati a La Masia per i provini, e Piqué fu uno di questi.
«Ricordo che dovetti sostenerne uno come attaccante», ricorda. «Segnai un paio di gol e vincemmo 3-1. La mia vita all’epoca non era altro che fare i compiti, giocare a calcio e divertirmi. Non volevo né avevo bisogno d’altro. Cercavo di non illudermi di poter giocare, un giorno, nel Barça, perché avevo visto tanti ragazzi che non ce l’avevano fatta e non volevo finire a vivere di sogni frustrati e sentirmi come se avessi fallito».
IL DRAMMA DI PUYI
La differenza dei rispettivi background ha toccato il proprio climax con una tragedia che mai, a parti invertite, sarebbe potuta accadere. Nel novembre 2006, sei mesi dopo il giorno più bello nella sua carriera – il 17 maggio, quando aveva alzato da capitano la Champions League a Parigi – Puyol ha perso il padre. Josep stava costruendo una strada nel terreno di famiglia. Era alla guida di un escavatore quando, alla fine di una dura settimana di lavoro, attorno alle cinque del pomeriggio, il mezzo si ribaltò, schiacciandolo. Aveva 56 anni.
Il figlio era in viaggio per la trasferta col Barça a La Coruña contro il Deportivo. Appena avvertito tornò subito indietro, guidò per tre ore fino alla sua piccola, affranta comunità. Al funerale l’umile gente comune di La Pobla de Segur sedeva accanto al gotha del fútbol: tutti lì per stare vicini a Charly nel suo momento più difficile.
I mesi seguenti per lui furono terribili, in campo e fuori.
La ricostruzione della squadra avviata con Frank Rijkaard era stata avvincente. Il Camp Nou vibrava per quel calcio straordinario, ma dopo la Champions alzata nel 2006 da capitano – il primo dai tempi di Alexanco (che in quello stesso anno, il 1992 chiamò Puyol per il provino alla Masia) – nel gruppo qualcosa si era rotto. Il declino psicofisico era stato quasi verticale. E la responsabilità che, da capitano, toccasse a lui il ruolo di bad cop dell’allenatore, Puyi la considera tuttora uno dei punti più bassi nella carriera.
NOT FOR SALE
Nel frattempo Piqué, futura parte della soluzione a quella crisi, se la spassava, ma fino a un certo punto, a Sale, nel Lancashire.
Una delle sue maggiori virtù è sempre stata la schiettezza. Più volte aveva raccontato lui stesso di come sin lì avesse vissuto un’esistenza da mimado, che in spagnolo significa viziato, privilegiato. A Manchester però aveva scoperto cosa significasse ritrovarsi da solo in un appartamento in un altro paese, senza conoscere bene la lingua, a crescere in fretta e a lottare per inseguire un sogno.
Del resto, le ragioni per cui in tanti lo avevano sempre visto come uno fortunato, un pijo (fighetto) nato con la camicia, un ragazzino snob, sono evidenti: alto, bello, intelligente e talentuoso, allevato in una famiglia-bene, istruita, e spronato prima di tutto ad andare bene a scuola; selezionato per l’eccellenza dal club per cui tifava da bambino; e, per combinazione, altro 1987, come Leo Messi, Cesc Fàbregas e Víctor Vázquez. Per non parlare della sua vita privata: l’unione con Shakira (nata lei pure il 2 febbraio ma del 1977), che gli ha dato Milan e Sasha.
BRAVATE, MA BASTA
Piqué e Fàbregas erano spesso complici di bravate, e in un documentario televisivo hanno ammesso di essersi cacciati nei guai rubando benzina dalle auto parcheggiate. Una volta, “pattugliando” la spiaggia di La Barceloneta e individuato un bersaglio, furono beccati dal proprietario dell’auto che, dal ristorante di fronte, si precipitò a dar loro la caccia in un furioso inseguimento.
Con le fascinose vite che conducevano però, i due riuscivano sempre a farla franca. In campo però non tutto filava liscio. La filosofia calcistica del club non era così ben delineata come invece è oggi. L’idea instillata da Johan Cruijff di promuovere presto in prima squadra talenti del vivaio era una moda che andava e veniva. Molto più importante del “se sei abbastanza bravo, sei grande abbastanza” era il concetto che i giovani più promettenti dovessero essere spinti al di fuori della propria zona di conforto. E testati a un livello superiore con compagni più esperti e avversari più grossi e più aggressivi, perché ragazzi della classe di Piqué, Fàbregas e Messi spesso si stancavano di vincere con margini in doppia cifra.
In quel periodo Louis van Gaal, allora allenatore della prima squadra, una sera andò a cena a casa Piqué. Quando gli fu detto che il nipote di Amador giocava nelle giovanili, l’olandese, vedendo quanto esile fosse quel ragazzino, sbottò: «I centrali devono essere robusti», e con uno spintone spedì lo sbalordito 12enne lungo disteso sul pavimento del salotto. Imbarazzo lautamente ripagato, anni dopo, dalle finali che il guru ha perso con il Bayern Monaco nella Champions 2010 e con l’Olanda al mondiale 2014. E non pensate che Piqué non ci abbia goduto. L’ha fatto.
RICAMBI DIFETTOSI
Nel 2012 Pep Guardiola aveva già promosso in prima squadra Sergio Busquets, Pedro, Thiago Álcantara, Andreu Fontàs, Jeffrén, Marc Bartra, Jonathan Dos Santos, Martín Montoya, Isaac Cuenca e Rafinha, il ricambio generazionale non è stato all’altezza del precedente.
Sia Piqué sia Fàbregas, rientrati dalla Premier League per un totale di circa 46 milioni di euro, più volte hanno accennato al fatto che, se durante la loro trafila nelle giovanili blaugrana ci fosse stata altrettanta meritocrazia, forse non se ne sarebbero mai andati.
Cesc nell’estate 2003 è diventato il più giovane in prima squadra nella storia dell’Arsenal. Sei mesi dopo, l’allora presidente blaugrana Joan Laporta s’infuriò alla notizia che lo scippo stava per ripetersi con Piqué, cercato da Man U e dal solito Arsenal. Stavolta il Barça non avrebbe perso un’altra gemma senza almeno lottare per tenersela. Per i capiscout dei grandi club inglesi (Mick Brown o Martin Ferguson per lo United, Steve Rowley e Francesc “Francis” Cagigao per l’Arsenal) era relativamente facile scovare giovani talenti dei campionati Juvenil visionandoli a Sabadell, Girona, Tarragona o in altri campetti municipali in giro per la Spagna. Nonostante l’indignazione di Laporta, a incidere molto sulla partenza di Piqué fu il trattamento che la società gli aveva riservato. Scaricato dalla Juvenil A, squadra di cui era stato leader e che avrebbe poi costituito l’ossatura del Barça B, fu retrocesso alla Juvenil B dopo che per due mesi gli fu impedito di giocare. Quel trattamento costerà al Barça, per riprenderselo, nell’estate 2008, 5 milioni di sterline (6,3 di euro).
«Il Barça non voleva discutere del contratto. Mi dissero solo che appartenevo a “loro”, come se fossi uno schiavo», racconterà allo stesso Hunter. «E siccome non volevano trattare con me, con i miei agenti o con lo United, c’è voluto un procedimento FIFA per trovare un accordo di compensazione, raggiunto il quale ero libero di trasferirmi al Manchester United».
«Quando sei un giovane e la società dimostra nei fatti che non ti vuole, allora devi andare a guadagnarti da vivere altrove. A volte cercare nuovi pascoli può essere utile per essere valorizzato meglio e magari, un giorno, poter ritornare».
Nonno Amador strappò più che un buon accordo, ma se la legò al dito: «Gerard era al club dai nove anni ma da quando il Barça aveva scoperto, in dicembre, che United e Arsenal erano interessate a lui, gli ha reso la vita impossibile. I responsabili del vivaio sapevano di giocare con i sentimenti di un 16enne, eppure lo punivano facendolo scendere di livello e poi non facendolo giocare».
Quattro anni dopo Laporta ingoiò lo smacco e si ritrovò un campione. Piqué in Inghilterra era maturato. Aveva imparato sulla sua pelle cosa un uomo come Sir Alex Ferguson richiede ai propri giocatori. In allenamento affrontava gente come Paul Scholes, Ryan Giggs, Cristiano Ronaldo e Roy Keane. In più si era irrobustito: nove chili in più di soli muscoli; il tutto con già alle spalle l’esperienza formativa a La Masia, ostacolo spesso troppo alto per tante giovani promesse.
«Era stata un’esperienza del tutto nuova per un ragazzo come me, abituato a giocare ogni partita, dover all’improvviso competere in una squadra di campioni straordinari. Abitavo in una casetta e a volte mi ritrovavo a dirmi: “Non ne vale la pena”. Ma ho imparato talmente tanto in quegli allenamenti al Manchester United. Non bastava più essere alto e calciare bene il pallone. Ho dovuto imparare a usare tutto il corpo, a difendere senza palla. E superare i momenti di solitudine. Telefonavo a mia madre per dirle che tutto andava bene, ma ero sempre lì che trattenevo le lacrime. Mi mancava tantissimo ma non potevo dirle “Mamma, darei qualsiasi cosa per tornare a casa domani stesso, non ne posso più di tutto questo, e mi manchi”».
Piqué ha spesso parlato di Ferguson come di un «secondo padre» per lui, e se non fosse stato il Barça a (ri)chiamarlo, forse sarebbe rimasto con lui a Old Trafford come cambio di Nemanja Vidić o di Rio Ferdinand. Anche perché, parola del fratello Marc, è troppo competitivo per rinunciare: dalla Playstation al ping pong (papà non lo faceva mai vincere), lui è sicuro di batterti.
«È stata dura, non capivo perché non giocavo. Davanti a me avevo due grandi centrali, ma è stata comunque una grande esperienza giocare con campioni come Cristiano Ronaldo, Wayne Rooney, Ruud van Nistelrooy. Arrivai là a 17 anni e tornai a Barcellona a 21. Il Gerard che tornava era molto diverso da quello che se n’era andato».
Anche la stagione (2006-07) in cui lo United lo mandò in prestito al Saragozza fu di grande valore. Giocava con regolarità in campionato e in coppa, a volte al centro della difesa, altre come pivote di centrocampo, e in trasferta dormiva in stanza con il compagno di reparto Gaby Milito.
Insieme decisero che affrontarli sarebbe diventato l’incubo di ogni attaccante, e in hotel per caricarsi prima di un match saltavano giù dai letti ululando e ruggendo per poi prendersi a schiaffi e pugni per entrare in modalità guerriero.
Quell’anno il Saragozza del terribile duo batté al La Romareda il Barcellona, il Siviglia e il Villarreal, pareggiò con il Real Madrid e finì sesta, a sei punti dalla qualificazione alla Champions League. La stagione seguente, Gabi Milito andò al Barcellona e Piqué tornò a Manchester. Il Real Saragozza retrocesse.
«Dimostrai a me stesso che ero pronto per giocare con continuità in uno dei top campionati europei», ricorda Geri. La sua ultima stagione allo United fu però agrodolce. Tre presenze in Champions e due gol: uno in casa alla Dinamo Kyiv, l’altro all’Olimpico contro la Roma.
Neanche a dirlo la sua miglior partita col Saragozza era stata quella di una memorabile serata al Camp Nou. Nel febbraio 2008 per riaverlo il Barça contattò lui, i suoi agenti della IMG e infine il Manchester United. Ferguson credeva nelle potenzialità di quel centrale dalle potenzialità ancora tutte da esplorare, ma la coppia Vidic-Ferdinand era eccezionale e come back-up aveva Jonny Evans, John O’Shea e Wes Brown. Nonostante questo, all’inizio Fergie provò a trattenerlo, ma poi le trattative proseguirono e a pagare dazio fu anche il giocatore.
Ad aprile i due club si incontrarono in semifinale di Champions. Alla vigilia della gara di andata, al Camp Nou, Piqué era in forma e sentiva in corsa. Poi, il giorno della partita, Vidić non ce la faceva e Piqué era sicuro di giocare. Ma dopo la consueta siesta pomeridiana dello United, Ferguson andò da lui per dirgli che non lo avrebbe schierato, perché entro un paio di settimane quasi certamente Piqué avrebbe firmato per gli avversari. A quanto pare non sarebbe stato opportuno. «Fu una delusione immensa», ammette Piqué. «Rispettavo molto Sir Alex, e anche se mi faceva giocare poco avevamo un ottimo rapporto. È sempre stato diretto con me. Ci sono tanti allenatori di quel livello che non ti fanno giocare e si nascondono. Con lui ci parlavamo apertamente ed io non ho mai avuto problemi. Poi ebbi l’offerta del Barcellona, gli dissi che volevo tornarmene a casa, al club della mia vita. Lui capì. Provò ancora a convincermi, ma alla fine decisi di tornare. Era la miglior cosa da fare».
Piqué-PUYOL, FINALMENTE
Come il centrale con cui tornava a far coppia, anche Puyol in principio non sembrava così amato al club di cui sarebbe presto diventato simbolo.
L’estate 1999 era stata decisiva per Puyi. Málaga e Siviglia lo volevano e l’allora direttore sportivo Lorenzo Serra Ferrer rispose loro che un’eventuale offerta per quell’esterno del Barça B sarebbe stata presa in considerazione. In allenamento con la squadra B, Puyol s’era in messo in porta per scherzo e si era infortunato per davvero a una spalla – in modo lieve, ma tale da rallentarne i movimenti. Fu in quel periodo che decise di restare e di lottare per conquistarsi il posto.
L’esordio, sotto van Gaal, che in Puyi riponeva più fiducia di quanta ne avesse Serra Ferrer, arrivò dalla panchina nell’ottobre 1999. Un tempismo simbolico, perché il centenario del Barça coincise con una monumentale crisi del club in campo e fuori: Puyol sarebbe presto diventato l’icona della rinascita blaugrana.
Anche a causa della politica quasi galáctica dell’epoca – tanti stranieri strapagati – erano relativamente pochi i prodotti de La Masia arrivati in prima squadra: solo Xavi e, con molto meno spazio, Pepe Reina e Gabri. Van Gaal spiegò così la promozione del giovane capellone: «Ha raggiunto una grande maturità, ha una forza fisica impressionante e la tecnica non è malaccio. È rapido, corre per tutto il campo e il suo atteggiamento mentale è perfetto».
Quel giorno era capitano Guardiola, che nove anni dopo – nella conferenza precedente lo storico 6-2 sul Madrid al Bernabéu alla prima stagione da allenatore – si sperticherà di elogi: «È un esempio. Posso metterlo terzino destro, terzino sinistro, centrale di destra o di sinistra e non solo non si lamenta mai, ma non fa mai un passo falso».
Dentro, Puyi aveva la sua forza più grande, le parole di papà Josep: «Dai tutto per realizzare il tuo sogno, perché se alla fine non riuscirai, almeno non ti resterà la sensazione che sia stata colpa tua».
Il debutto in casa fu il terribile Clásico del 13 ottobre 1999, l’ultimo del primo secolo del Barça. Quel Real Madrid, rimpiazzato a metà stagione John Toshack con Vicente del Bosque, avrebbe chiuso l’annata alzando la Champions. Puyol entrò al posto di Sergi al 38’. Finì 2-2 col Barcellona in dieci dal 56’ per il rosso a Kluivert e il ditino di Raul, doppietta, che nel finale silenziò la bolgia del Camp Nou. Tipico di Puyi, a fine gara andò dritto verso Raúl per scambiarsi le maglie: «Non m’importa cosa pensano gli altri. Io faccio a modo mio». Quella partita cambiò parecchi destini.
Figo aveva fatto onde, e non solo per il gol del 2-1 blaugrana. Dal Madrid arrivò una offerta di quelle che non si possono rifiutare: un rampante immobiliarista di nome Florentino Pérez, in caso di vittoria alle presidenziali merengue del 2000, avrebbe pagato la clausola-record di recesso (37 milioni di sterline) e il portoghese avrebbe fatto il salto della barricata. Oggi è storia, ma all’epoca fu un terremoto. Figo non meritava il lancio di telefonini, catene di bici, lattine, bottiglie, monete, persino un coltello e la famigerata testa di maiale alla prima da avversario al Camp Nou; ma quella ferita resta aperta.
Tre anni dopo il primo Clásico di Puyol, il 23 novembre 2002 il Madrid tornava a Barcellona da campione d’Europa e con Figo in blanco. Lorenzo Serra Ferrer, succeduto a van Gaal, era convinto che asfissiare la creatività del portoghese, specie in un catino ribollente di astio, avrebbe ripagato. E così lo affidò a Puyi.
«Mi ha detto di marcarlo a uomo e di seguirlo dappertutto. È stato stancante, ma ha funzionato perché ero concentratissimo. Non penso che Figo abbia inciso molto, ma a prescindere dal risultato ha dimostrato di essere quel grande giocatore che è. L’atmosfera era incandescente, ma non si è mai nascosto, si è sempre proposto per ricevere palla e mi ha fatto lavorare duro». Il risultato? 0-0.
La missione compiuta su Figo, una serie di ottime prestazioni nonostante il pessimo Barça di quella stagione, ma soprattutto la fedeltà ai colori blaugrana ne fecero l’idolo dei tifosi, e ben prima che cominciasse a sollevare trofei. Finalmente avevano un altro canterano, e pieno dello spirito di Migueli: il “Tarzan” originale, 664 partite (549 ufficiali) da implacabile baluardo dal 1973 al 1988.
Il pagamento della clausola di recesso aveva rimesso in sesto il club ma distrutto l’immagine. Pérez ci riprovò con Cocu, Kluivert e persino Puyol.
«Non posso dire di non aver mai pensato di andarmene», ammetterà anni dopo. «C’è stato un periodo in cui non solo non alzavamo trofei, ma nemmeno c’era la sensazione che ci stessimo provando. Mi stavo stancando sul serio e pensavo di andare via, ma alla fine decisi di restare e di continuare a lottare. All’epoca sulla stampa c’erano tante chiacchiere su di me che avrei firmato per loro, ma non ho mai incontrato nessuno del Madrid. Non succederà mai».
Ci sono due immagini-simbolo di altrettante ere blaugrana attraversate da Puyol.
La prima, mentre tutto intorno a lui sembrava cadere a pezzi, risale al 23 ottobre 2002: al Camp Nou, contro il Lokomotiv Mosca in Champions. Sullo 0-0 Roberto, il portiere argentino del Barça, esce in modo goffo incontro a James Obiorah lanciato in campo aperto. Il centravanti nigeriano lo aggira e a quel punto, dai trenta metri, si trova davanti la porta spalancata col solo Puyi che sprinta a tutta verso il centro per andare a chiuderlo. Sul dischetto, mani dietro la schiena per evitare il rigore, Puyol tiene lo sguardo fisso sui piedi di Obiorah per intuirne la prossima mossa. In una frazione di secondo, Obiorah tira e il catalano si lancia sulla sinistra e respinge col petto. Anzi con lo stemma del Barça. Sul cuore. Il Camp Nou erutta. Indimenticabile. «Ho pensato alle mie antiche doti di portiere e ho provato non a salvarla con le mani, è stato puro istinto».
Quella vittoria mandò il Barcellona in testa al girone. E a Bruges, già qualificato agli ottavi, van Gaal fece esordire un manipolo di canterani, compreso un certo Andrés Iniesta.
L’altro, nove anni dopo, accadde a Montecarlo, tradizionale sede del sorteggio dei gironi della Champions 2011-12 e del match di Supercoppa Europea, in programma la sera successiva. Era un evento di gala, tutti indossavano abiti da cerimonia. Non Puyol, che salì sul palco con la divisa da riposo del club – maglietta gialla a polo, bermuda grigi estivi a quadrettoni fino al ginocchio. Inevitabile lo sfottò del compare Piqué via-Twitter. Reattivo come nei suoi salvataggi il controtweet: «Ero a casa e guardavo tutti i bei vestiti che avevo ma ho deciso niente mi avrebbe fatto sentore più a mio agio che indossare qualcosa del Barça con lo stemma sul cuore».
La morte del padre cambiò Puyol radicalmente. Non riuscendo a superarne la perdita, trovò conforto nel libro The Tibetan Book of Living and Dying di Sogyal Rinpoche, pubblicato in 30 lingue e 56 paesi. Ne rimase così affascinato da trascorrere un periodo alla Tibet House e attivarsi per prendere contatto con il venerabile Thubten Wangchen, rappresentante del Dalai Lama in Catalogna. Puyi incontrò il Dalai Lama, in visita ufficiale a Barcellona, nel 2007 e ancora oggi sostiene la causa del Tibet per l’autonomia dalla Cina. «Mi sono identificato con il popolo tibetano. Mi piace la loro filosofia e il loro modo di vedere il mondo».
Puyol cambiò anche stile di vita. Abbracciò una cultura di meditazione, perdono, tranquillità e dignità e sul piano fisico associava pilates e yoga che ne hanno allungato di parecchio la carriera, come era accaduto a Kareem Abdul-Jabbar nella seconda parte della sua ventennale carriera NBA.
A completare il rinnovamento, il perfetto articolo “il” che formava con quel chiassoso, giocoso spilungone (1,93) pieno di energia, amante della vita e delle zingarate (a volte fuori luogo) e d’immenso potenziale calcistico ancora da esplorare. Questione di feeling. Immediato.
UNA NUOVA ERA
Più facile spiegare la loro simbiosi in campo. Il vecchio Puyol sembrava non divertirsi se non correva e saltava dappertutto, e magari in modo dissennato. Con gli anni si è adattato. Il processo è sotto Rijkaard, swingman tra centrale difensivo e pivote per Ajax, Milan (via Sporting Lisbona) e nazionale olandese. Squadre che imponevano possesso palla e fase difensiva più organizzata. Puyol contava ancora su ritmo, anticipo e potenza del tackle, ma in modo più controllato.
«Giocammo un sacco di partitacce. Perdere con il Siviglia in Supercoppa Europea fu l’inizio della fine, ma allora non lo sapevamo. Poi la finale del Mondiale per club a Tokyo, ma la peggiore fu la sconfitta al Bernabéu [4-1 il 7 maggio 2008]. Avevamo toccato il fondo. La guardia d’onore per loro, l’imbarcata presa in partita: tutto ciò che avevamo costruito stava crollando. Fu la peggior partita della mia vita e sembrava non finire mai. Loro che ci credevano, noi che soffrivamo – fu la fine di un’era».
Quella nuova iniziò nell’estate 2008 con l’arrivo del suo ex capitano Guardiola in panchina e di Piqué centrale di destra accanto a Puyi. In precampionato Puyol saltò le prime due passeggiate scozzesi (6-0 all’Hibernian e 5-1 al Dundee United), ma giocò l’amichevole al Franchi: 3-1 alla Fiorentina, e prestazione memorabile nella sede più consona. La rinascita blaugrana partiva da Firenze, la culla del Rinascimento. E con la prima gara insieme della Strana Coppia.
«Con l’arrivo di Gerard, eravamo tutti più distesi – ricorda Xavi – Era giovane, pieno di gioia di vivere e si è inserito subito. All’inizio voleva divertirsi, ma nel calcio non è così che funziona. Puoi anche fartela una risata, ma è un lavoro. Sottostiamo a grandi pressioni e ha dovuto adattarsi. Da capitani, Valdés, Puyol ed io glielo abbiamo spiegato, ma lui ha imparato tanto e alla svelta».
Piqué e Puyol sono amicissimi, e il modo in cui amano prendersi gioco a vicenda è ormai leggendario. Durante i festeggiamenti post-mondiale 2010 a Madrid, sono stati loro a preparare la “sorpresa” per Fàbregas, giocatore dell’Arsenal, infilandogli a tradimento una maglia del Barça mentre Pepe Reina lo presentava alla folla adorante. Scherzetto all’epoca poco gradito a London Colney e dintorni.
Una volta, non convocati in coppa contro il Ceuta e seduti accanto in tribuna al Camp Nou, Piqué fu beccato dalle telecamere mentre gettava semi di girasole a Juanjo Brau, il capo preparatore atletico del Barça. E più quello s’irritava, più Piqué fingeva di prendersela con Puyol.
Il loro vero palcoscenico però è Twitter. Con Fàbregas, il terzo della combriccola, per un po’ hanno cominciato a chiudere ogni tweet con la frase «Oooooohh. Moc moc!». Nonsense partito da Piqué dopo aver aveva guardato su YouTube un video in cui un pensionato spagnolo, di fronte alla propria immagine riflessa da uno specchio deformante, emette strani rumori e, appunto, un «Oooooohh». Mostrato il video ai compagni Piqué aveva aggiunto un onomatopeico «moc moc» come a dire: vi mando un bacio. Era nato un tormentone, anche se per iscritto non rende.
«Siamo arrivati al punto in cui non serve parlarci – confidò Piqué al solito Hunter nel media day pre-finale di Champions 2011 – Ci basta scambiarci uno sguardo per capire cosa fare in una data situazione. Ricordo una partita in cui stavamo vincendo di quattro o cinque gol a pochi minuti dalla fine. Un avversario si era infortunato, la barella stava entrando e mi avvicinai per vedere di chi si trattasse. Un attimo dopo, vidi Puyi che m’inveiva contro. Mi piombò addosso come un falco, mi urlò di lasciar stare, di tornare nella mia posizione e di concentrarmi. Lui non molla mai.
La concentrazione è fondamentale nel calcio e ammetto che talvolta in questo faccio fatica. Se penso a Ryan Giggs, mi chiedo da che pianeta provenga. O allo stesso Puyol, che affronta ogni partita come fosse una finale di Champions. A volte penso: “Rilassati amico, rilassati”».
In questo senso anche lui qualcosa da Geri l’ha imparata. A Sudafrica 2010, il ritiro della Spagna era in piena campagna Afrikaner, il cuore rugbistico del paese. Lo staff della comunicazione FIFA ebbe l’idea di scherzare un po’ con un pallone da rugby e Puyol fu ospite di un improvvisato studio televisivo nel campus della North Western University. Una volta spiegatogli il plot, Charly fu ben contento di partire da una ripresa ravvicinata, con un pallone da rugby tenuto sotto il mento e lui che recita: «Mi dicono che questo sia un paese di rugby. Be’ [pausa scenica e faccia perplessa], io di rugby non so niente». Poi, lancia il pallone da rugby alla sua destra, fuori dell’inquadratura, e quasi simultaneamente afferra un pallone da calcio, passatogli da dietro la telecamera, alla sua sinistra. «Ma so come si gioca a calcio». Era il nuovo Puyol.
C’è invece un altro lato, più nascosto e meno frivolo, del Piqué eterno bambinone, ripreso dagli assistenti di volo, che lancia una fialetta puzzolente nell’aereo diretto a Helsinki per l’amichevole che il Barça vinse 6-0 contro l’HNK nell’agosto 2014, e allo stadio concede il bis in zona mista.
Una delle immagini-cult di Wembley 2011 è Piqué che, alla moda del basket USA, taglia l’intera rete di una porta e se la mette al collo come souvenir. Scena già vista con la Spagna a Johannesburg 2010. Quello che in pochi sanno è il retroscena di quel concitato post-finale mondiale. Finito il giro di campo con il trofeo, in spogliatoio succedeva il finimondo. La regina Sofia, Rafa Nadal e Placido Domingo ballavano e cantavano con i giocatori (davanti a un dignitoso e deluso ex blaugrana, l’olandese Phillip Cocu). All’improvviso, tra lo spogliatoio e l’inizio del tunnel, spuntò Piqué con in mano una bottiglia di birra e nell’altra paio di piccole forbici, di quelle usate dai massaggiatori per il bendaggio. Piqué faceva avanti indietro e tutto trafelato continuava a chiedere con insistenza dove fosse finita la “sua” rete. Nessuno dello staff sembrava interessarsene troppo, allora un volontario guidò lui e Hunter – lì come inviato FIFA – nei meandri dello stadio, con Piqué che cominciava a spazientirsi. Alla fine, davanti a un addetto che le aveva nascoste al sicuro, Piqué – che sin lì aveva sbraitato in inglese, sussurrò in spagnolo al giornalista-complice: «Io lo prendo a pugni, tu prendi le reti e scappiamo di corsa». Geri scherzava, ma non troppo. E grazie a un addetto che tifava Spagna, e alla convincente mediazione di qualche grosso sponsor, Piqué ritagliò con le forbicine il suo bel ricordo mundial.
Altrettanto indelebile è quello di Puyi che in terzo tempo stacca sulla schiena a Geri, usato a mo’ di scala, per schioccare l’incornata che affossa la Germania in semifinale. Gol iconico.
COñO D’OMBRA
Non tutti però capiscono o apprezzano la verve istrionica di Piqué, fischiato e insultato in ogni stadio di Spagna eccetto il Camp Nou. Nomen omen: pique in spagnolo sta per astio, risentimento; e in inglese irritazione, stizza. Quando, il 2 dicembre 2015, il Real Madrid schierò in Copa del rey a Cadice lo squalificato Denis Cheryshev, Geri twittò una sequela di emoji che ridevano fino alle lacrime. Non lo avesse mai fatto. Sergio Ramos, capitano del Real Madrid e della Spagna, gli telefonò per chiedere chiarimenti. E si scatenò un Clásico virtuale che Piqué chiosò così: «100k RT whitout saying a word. Is that a new record on Twitter?». Inutile poi parlare di «semplice malinteso. Guardavo in tv [il comico] Leo Harlem. Mi conoscete, io sono così. Si tratta solo di emoticon, non dategli troppa importanza».
https://www.youtube.com/watch?v=ieJwdREBvUk
L’origine di tanto astio risale ai festeggiamenti della Champions 2015. Piqué prese il microfono e arringò il popolo blaugrana fresco di triplete ringraziando «Kevin Roldán perché è iniziato tutto con te». Roldán è il cantante colombiano di reguetón, amico di Cristiano Ronaldo, che mise in rete il video del suo duetto con CR7 alla festa per il 30esimo compleanno del portoghese, il 7 febbraio. La sera del 4-0 subìto nel derby con l’Atlético che spianò al Barça la strada per il titolo. Mesi dopo, il solito Sergio Ramos entrò duro: «Da capitano della Selección pretendo rispetto per il Real Madrid e per noi giocatori. Piqué ha ottimi esempi in Xavi, Puyol e Casillas per evitare certe stupidaggini».
E se è vero che Xavi ha un futuro scritto su quella panchina, Piqué ha nel dna quello di presidente.
Anche con Álvaro Arbeloa, altro merengue compagno di reparto in nazionale, non sono mancate le piques. In allenamento con La Roja nel 2013 (https://www.youtube.com/watch?v=LU8y9vgaFpA) e sui social. «Lo vedrei bene nel club de la comedia. L’ultimo decennio del Barcellona non può eguagliare la storia del Madrid». Di culto la risposta di Piqué (https://www.youtube.com/watch?v=XUdRrvqJZ2o): «Arbeloa dice che è mio amico? No, è solo un cono… cido». Per chi non habla espanol: conocido significa conoscente, coño sta per... Insomma, avete capito. Qui però l’insulto è più sottile. In spagnolo “ser un cono” indica lo stare fermi: come i coni arancioni dei lavori stradali. Da un collega difensore, non un complimento.
La rivalità col Madrid riguarda anche gli ex.
Per Santillana, al secolo Carlos Alonso González, mitico delantero blanco anni 70-80 e miglior saltatore nella storia del club, «Piqué deve stare zitto».
Esteban Granero, centrocampista oggi della Real Sociedad ma di scuola merengue, appena alzata la Décima twittò (https://twitter.com/eGranero11/status/675767079149113346), con tanto di foto della Champions e le sue dieci dita alzate: «Piqué, por favor, olvida ya los complejos y respeta a tus superiores.): «Piqué, por favor, olvida ya los complejos y respeta a tus superiores». Pronto il contro-cinguettio post Mondiale per club: l’hashtag #paramissuperiores e 25 emoji a forma di coppa.
Perfetta, però, la par condicio con le madrilene. L’ultima uscita, infatti, l’ha riservata al 100esimo gol di Fernando Torres in maglia Atlético: il 6 febbraio 2016 contro l’Eibar. Traguardo a lungo inseguito, e a quanto pare arrivato grazie anche all’antico rito dell’hamburger-talismano da mangiare il giovedì pre-gara con Antonio Sanz, direttore della comunicazione colchonera. Rivelato a Deportes Cope dal cameriere a Javier Gómez Matallanas, il giornalista forse più vicino all’ex Niño, l’aneddoto ha stuzzicato Piqué, che ha twittato (http://www.sportyou.es/noticias/pique-cope-hamburguesa-torres-602897): «Era una natruscat. Mancano solo il tatuatore, il parrucchiere e il tassista che al Calderón l’hanno accompagnato».
Alla Strana Coppia, l’avrete capito, piace ridere e scherzare. Specie insieme. Mai però gli è riuscito di gusto come in quel 2 maggio 2009 al Bernabéu: Tarzan sorpassa (1-2), Piquénbauer chiude (2-6). Per una volta il loro modo meno diverso di essere culé.
Christian Giordano (Senigallia, 1970) è redattore, inviato e telecronista di Sky Sport e Fox Sports. Si occupa di calcio estero, basket USA e ciclismo. Come co-autore ha scritto testi per Federico Buffa racconta (Sky Sport).
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