Boifava, una storia chiamata ciclismo
Numero 1 - Anno 2008
di Gianfranco Josti
Il ciclismo è sempre stato la sua vita. Davide Boifava ha percorso tutte le strade di questo sport che, nonostante tutto, continua ad affascinare il grande pubblico. È stato corridore, giovane neoprofessionista ha colto significative vittorie poi un grave incidente in allenamento ne ha condizionato l'attività per cui, poco più che trentenne, ha deciso di salire sull’ammiraglia.
Nei primi anni era coinvolto in tutta la complessa organizzazione che un team professionistico impone, poi poco a poco ha dato spazio ai giovani, molti dei suoi corridori hanno intrapreso, con successo, la difficile strada del direttore sportivo o del team manager, da Guido Bontempi a Giancarlo Perini, da Massimo Ghirotto a Fabio Bordonali, da Bruno Leali a Beppe Martinelli.
Nei primi anni era coinvolto in tutta la complessa organizzazione che un team professionistico impone, poi poco a poco ha dato spazio ai giovani, molti dei suoi corridori hanno intrapreso, con successo, la difficile strada del direttore sportivo o del team manager, da Guido Bontempi a Giancarlo Perini, da Massimo Ghirotto a Fabio Bordonali, da Bruno Leali a Beppe Martinelli.
Davide Boifava vorrebbe fare l’imprenditore a tempo pieno, ma il richiamo del mondo del pedale è sempre irresistibile così, anche se non figura ufficialmente in alcuna formazione professionistica, resta un importante punto di riferimento per sponsor che hanno creduto in lui e che lui, con grande signorilità ha “passato” ad un suo ex allievo, Fabio Bordonali, team manager della LPR che ha varato uno squadrone per affrontare la prossima stagione nel miglior modo possibile, partecipando alle più significative gare del calendario. In mezzo secolo il ciclismo è cambiato e Boifava è disposto a parlare di questi cambiamenti, entrando direttamente nel cuore del problema, senza fronzoli, senza giri di parole, come ha sempre fatto.
«Ho cominciato nel ’79 sull’ammiraglia dell’Inoxpran dei fratelli Prandelli, ho continuato con la Carrera dei fratelli Tacchella. Io ho sempre fatto l’amministratore, ma la società era loro. Adesso il mondo del ciclismo è troppo cambiato e uno come me, cresciuto alla scuola di Giorgio Albani, fatica a riconoscersi».
- Allude al problema del doping?
«No, quello si può risolvere non solo con i controlli ma educando soprattutto i giovani, spiegando che non è attraverso la scorciatoia della chimica che si ottengono risultati. Parlo di come è strutturato il ciclismo rispetto ai miei tempi. Allora, se avevo un problema, parlavo con il presidente del’Uci o con il segretario, c’erano regole chiare e precise e si veniva a capo di tutto. Adesso se si vuole avere una squadra d’alto livello è indispensabile una struttura complessa e macchinosa perché nel ciclismo impera una burocrazia che mette paura».
- Ci sono soluzioni?
«A mio parere sì. Se mi presento come Davide Boifava, mi trovo davanti una quantità incredibile di interlocutori, sempre diversi a seconda del problema che uno deve affrontare. Bene, io dico che l’Associazione Corridori e l’Associazione Gruppi Sportivi dovrebbero essere rappresentate da avvocati, da esperti di diritto sportivo. Perché non è detto che tutte le norme emanate dall’Uci siano giuste e regolari, ma per confutarle ci vuole gente capace di controbattere punto su punto, in grado di addentrarsi con argomentazioni giuridiche in ogni dettaglio. Ora, a parte il fatto che è difficile trovare dei veri esperti in materia, siete in grado di calcolare quanto tutto ciò incide sulla conduzione di una squadra? Adesso ci vogliono cifre esorbitanti proprio per la complessità dei regolamenti varati dall’UCI. Un esempio? Un tempo bastava un medico per ogni squadra, adesso con le responsabilità che gli sono state attribuite, un dottore pretende una cifra ben superiore, perché molto maggiori sono i rischi che corre anche se si tratta della persona più onesta ed ha a che fare con corridori altrettanto onesti. E non ne basta uno, ce ne vogliono due o tre con tutti i controlli cui gli atleti devono sottostare. Non solo, già ai miei tempi dirigere una squadra non era la cosa più semplice e facile, ma adesso l’adempimento delle pratiche burocratiche assorbe quasi tutto il tempo a scapito del vero lavoro che un tecnico deve svolgere. E allora ecco che ci vogliono persone in più, una per gestire la parte normativa, una per quella economica, una per quella sportiva. I costi in tal modo lievitano a dismisura. Ma la vera radice del ciclismo restano le corse, i tifosi si appassionano a vedere i concorrenti sui vari terreni, eppure oggi si parla più di regolamenti, di contrapposizioni tra Uci e organizzatori, di etica e altri ammennicoli vari. Siamo sicuri che è quello che il pubblico vuole?».
- In questi giorni è uscito un libro scritto da Beppe Conti dal titolo “Da Merckx a Pantani”, Davide Boifava racconta i suoi campioni.
«Ho avuto la fortuna di correre in un’epoca particolarmente favorevole per il ciclismo, accanto a corridori come Gimondi e Motta, Adorni e Dancelli, Zilioli e Bitossi per non parlare di Merckx e De Vlaeminck. Da corridore mi sono tolto qualche bella soddisfazione, anche se, essendo pelle ed ossa, nessuno voleva darmi la licenza per correre e c’è voluto un prete straordinario, don Riccardo perché potessi tesserarmi nell’Olimpia Pasinflex di Bedizzole da esordiente. Poi me la sono cavata anche nel mondo del professionismo».
- Lei passa per il corridore che ha fatto piangere Merckx.
«Sì, bella storia, ma Merckx piangeva per il dolore e per avermi fatto perdere il Baracchi nel ’69, mia prima stagione da prof. Era reduce dal terribile incidente su pista a Blois dove aveva perso la vita il suo allenatore, evidentemente ha risentito di quell’infortunio e ad un certo punto non riusciva più andare avanti. Ho capito in seguito quello che aveva provato quel giorno quando per una brutta caduta in allenamento, rimasi in coma una decina di giorni. Da quel giorno andai a sprazzi, vinsi ancora qualcosa ma non ero più il corridore del debutto tra i professionisti».
- Quasi trent’anni in ammiraglia, a dirigere Battaglin, Bontempi, Leali, Perini, Visentini, Chiappucci, Zimmermann, Roche, Ghirotto, Sciandri, Tafi, e ancora Bartoli e Bettini per non parlare di Pantani e Basso: per forza doveva raccogliere in un libro tanti ricordi.
«Non sono mai stato un grande parlatore, merito di Beppe Conti che è riuscito a vincere la mia proverbiale riservatezza. Posso dire che ognuno di questi corridori mi ha regalato emozioni, mi ha aiutato a crescere professionalmente anche se il mio indiscusso maestro è stato Giorgio Albani. A tutti sono legato in maniera particolare e non pretendiate che stili una sorta di classifica tipo chi mi ha dato più soddisfazioni o delusioni, quali vittorie ricordo di più o quali sconfitte mi bruciano ancora. Posso dire che ho sempre cercato di lavorare onestamente con tutti e da tutti ho cercato di ottenere il massimo, qualche volta ci sono riuscito, qualche volta no».
- Il ciclismo tornerà in auge come ai suoi tempi?
«L’ho detto anche prima, il ciclismo esercita sempre una grande attrazione sul pubblico. Però non si può continuare a parlare solo di doping e di sterili polemiche tra Uci e organizzatori. Prendiamo ad esempio la presentazione dell’ultimo Giro. È mai possibile che si parli di Eddy Merckx per la losca vicenda di doping di Savona e non delle sue straordinarie imprese? È un fuoriclasse che ha vinto cinque Giri, che ha dominato un’intera generazione di corridori, in Italia ha compiuto exploit straordinari a cominciare da quando travolse tutti alle Tre Cime di Lavaredo. Era proprio indispensabile tirar fuori quel Processo alla Tappa dove si parlava di doping? È questa l’immagine che vogliamo dare del ciclismo? Sono tanti gli interrogativi che mi turbano e anche per questo ho preferito mettermi in disparte e dedicarmi all’azienda di Calcinato. Ma anche se con ruoli diversi, nel ciclismo ci sono sempre, non a caso fabbrico biciclette e commercializzo indumenti sportivi».
- In effetti dal 1989 insieme con Luciano Bracchi, suo meccanico di fiducia e suo nipote Frank ha creato la Carrera Podium.
«Costruiamo biciclette da corsa made in Italy, ci avvaliamo delle più moderne tecnologie, in quasi dieci anni le nostre biciclette hanno conquistato oltre 500 vittorie nelle competizioni più prestigiose. Costruiamo dalle 2500 alla 3000 biciclette all’anno, una decina di modelli tutti da corsa. È una piccola azienda che mi impegna molto ma che mi dà anche soddisfazioni. Ad esempio il modello Phibra, che è l’ultima novità, mi dà particolari soddisfazioni perché è il risultato di studi che abbiamo effettuato in tema di design e di tecnologia del carbonio. Il telaio infatti è realizzato con l’innovativa tecnica del 2B doppio blocco ad arco, laminato che unisce le qualità di un telaio monoblocco, vale a dire rigiditè, leggerezza, comfort, durata, affidabilità alla personalizzazione in base alle misure del ciclista».
- Sono le stesse soddisfazioni che aveva quando faceva il direttore sportivo all’Inoxpran, alla Carrera, alla Ascis, come quando faceva riscoprire agli italiani il gusto di correre il Tour?
«Ero giovane allora, adesso alla mia età non posso peregrinare per l’Europa al seguito delle corse...»
Insomma, non vedremo a tutte le corse il Gigante di Nuvolento, il Cardinale (secondo suoi ex colleghi affermati) ma quando ci sarà bisogno di lui, quando qualcuno chiederà lumi, la porta di Davide Boifava sarà sempre aperta. E il cellulare acceso.
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