L’avanzata del separatismo

A causa della crisi economica e dell’intransigenza di Madrid, in pochi anni un movimento marginale si è esteso a tutti i settori della società

Cécile Chambraud, Le Monde, Francia

Nel suo ufficio nel palazzo della Paeria, Angel ros, il sindaco della città di Lleida, mostra l’ultima lettera di minacce che ha ricevuto. tra i tanti insulti rivolti al sindaco socialista della sesta città della Catalogna c’è anche “franchista”. In serata sotto le sue inestre centinaia di dimostranti coprono la facciata dell’edificio di manifesti indipendentisti e chiedono le sue dimissioni, accusandolo di essere un botifler, un traditore della nazione catalana, un insulto che risale alla guerra di successione spagnola (1701-1714).

Da quando è stato indetto il referendum sull’indipendenza è diicile essere un sindaco socialista in Catalogna. I socialisti catalani erano contrari alla consultazione, che violava la costituzione spagnola. Criticavano l’immobilismo del governo conservatore spagnolo di fronte alle rivendicazioni catalane, ma preferivano una soluzione negoziata con Madrid. In Catalogna, però, oggi non c’è più spazio per le sfumature. Ros, 65 anni, non è abituato a usare un linguaggio retorico. Eppure, prima che l’ascensore si chiuda, conclude: “Per la Catalogna, questo è il momento più diicile dai tempi della transizione”. Si riferisce agli anni di  passaggio alla democrazia dopo la morte  del dittatore Francisco Franco, nel novembre del 1975. 

Come ha fatto l’idea separatista, per molto tempo sostenuta da un gruppo limitato di elettori, a ottenere in pochi anni il sostegno di gran parte della società catalana, a sinistra e a destra? È una posizione che lascia poco spazio agli avversari. Jaume Oliveras, sindaco della piccola città costiera di El Masnou (23mila abitanti), venti chilometri a nord di Barcellona, è tra i più sorpresi da questa svolta improvvisa. Ha 56 anni ed è indipendentista da sempre. Ha militato per tutta la vita nei gruppi separatisti radicali, e nel 1995 è stato condannato a sei anni di prigione per la sua appartenenza a Terra lliure (terra libera), un gruppo armato smantellato nel 1992. Iscritto al partito indipendentista di sinistra Esquerra republicana de Catalunya (Erc) dal 1995, oggi sorride: “È strano. Io che sono un militante da tanto tempo, non mi aspettavo più una cosa simile!”. 

Eppure eccola là, chiaramente scritta nei risultati elettorali di El Masnou come in quelli di tutta la comunità autonoma catalana. Un tempo località di villeggiatura per Da Madrid ricchi barcellonesi, questa città benestante ha votato a lungo per i nazionalisti conservatori di Convergencia i unió (Ciu) e poi per i socialisti. Alle ultime elezioni municipali, nel 2015, i partiti indipendentisti hanno fatto uno spettacolare salto in avanti. Anche la sinistra radicale, con il partito Candidatura de unidad popular (Cup), ne ha approittato. Ma a beneficiarne è stata soprattutto l’Erc. 

Fondata nel 1931, messa al bando durante la dittatura, marginale ino al 2003 e decisamente indipendentista, tra il 2011 e il 2016 l’Esquerra republicana de Catalunya ha triplicato i propri voti e raccoglie ormai un quarto dell’elettorato locale. Nel 2016 la sezione catalana di uno dei due grandi sindacati spagnoli, la Ccoo, ha svolto un’inchiesta tra gli iscritti. “rispetto al 2008 quelli che si dichiarano vicini all’Erc sono passati dall’8,8% al 24,8%”, sottolinea Cristina Rodríguez, segretaria generale della Ccoo nella regione di Lleida. “Dieci anni fa l’80% dei nostri iscritti era favorevole a uno stato federale spagnolo. Oggi i federalisti sono il 42% e gli indipendentisti il 40%. Sono percentuali abbastanza vicine a quelle dell’intera società catalana”. La Ccoo è favorevole a un referendum vincolante autorizzato da Madrid. “Ma siccome la federazione era divisa tra chi pensava che il referendum del primo ottobre fosse legale e chi lo considerava illegale, non abbiamo preso posizione”, spiega Rodríguez, che aggiunge: “In ogni caso sosterremo sempre le istituzioni catalane”. L’altro sindacato, l’Unione generale dei lavoratori (Ugt), ha invece invitato gli iscritti a votare. 


La scintilla 
Quasi tutti sono d’accordo sulle grandi tappe di questo cambiamento nell’opinione pubblica catalana. Nel 2010 la sentenza della corte costituzionale che ha dichiarato illegittimi 14 dei 223 articoli del nuovo statuto della Catalogna è stata “la scintilla”, riassume Oliveras. Lo statuto era stato negoziato tra il governo socialista spagnolo di José Luis rodríguez Zapatero e il governo regionale catalano guidato dalla sinistra, e approvato con un referendum nel 2006. Il 10 luglio di quell’anno i leader della comunità autonoma silarono alla testa di una folla immensa nel centro di Barcellona, dietro uno striscione che proclamava: “Siamo una nazione, decidiamo”. Era proprio l’affermazione secondo cui la Catalogna è una nazione che la corte costituzionale non voleva far comparire nello statuto che regola le competenze delle istituzioni catalane. L’intervento della corte era stato sollecitato dai conservatori del Partito popolare (Pp), secondo i quali il nuovo estatut avrebbe minato l’unità della Spagna. 

Due anni più tardi un’altra enorme manifestazione ha dimostrato che nell’opinione pubblica c’era stato un profondo cambiamento. Nel 2012 un collettivo di associazioni indipendentiste, l’Assemblea nazionale catalana (Anc), ha organizzato un corteo per l’11 settembre, la giornata che in Catalogna ricorda la Diada, la resa di Barcellona all’esercito di Filippo V di Spagna nel 1714. Parola d’ordine: “Catalogna, nuovo Stato europeo”. Quel giorno autobus pieni di manifestanti sono arrivati da tutta la regione. Gli stessi organizzatori non si capacitavano di una simile affluenza. 

Il fatto è che nel frattempo la crisi economica aveva colpito duramente la Catalogna come il resto della Spagna. Un mese prima, per salvare dal fallimento il governo regionale che non riusciva a pagare i funzionari, il presidente nazionalista Artur Mas era stato costretto a chiedere l’aiuto di Madrid. Da mesi i duri tagli al bilancio avevano provocato una forte contestazione sociale. Gli “indignati” avevano circondato il parlamento catalano e nel 2011 Mas aveva potuto arrivarci solo in elicottero. 

L’ampiezza della mobilitazione della Diada nel 2012 non poteva quindi lasciare indifferente il presidente in difficoltà. Del resto la manifestazione era stata alimentata dagli argomenti ripetuti per anni dalla Ciu, il partito di Mas, il cui fondatore Jordi Pujol aveva guidato il governo catalano dal 1980 al 2003. Secondo i nazionalisti Madrid tratta la Catalogna come una vacca da mungere: in nome della solidarietà con le regioni più povere, le autorità spagnole impongono un prelievo sproporzionato al governo catalano. Per alcuni “l’andaluso” incarna la figura degli spagnoli sovvenzionati dai catalani. “Vorrei che avessimo le stesse cose che hanno in Andalusia. Ma non solo non le abbiamo, ci facciamo anche insultare dal governo spagnolo”, sbotta Juan Carlos, proprietario del bar tribuna a El Masnou. “Non dico che non si debbano aiutare gli altri”, sostiene Emeterio (nome di fantasia), un agente immobiliare locale, “ma non bisogna approfittarsene. Fuori dalla Catalogna tutto è meno caro, grazie alle tasse più alte che paghiamo”. L’idea che le tasse dei catalani debbano restare in Catalogna è diventata per molti irresistibile. 


Il peso della crisi 
Dopo la Diada del 2012 Mas, che denunciava regolarmente la “spoliazione”, è andato a Madrid per chiedere l’autonomia fiscale al premier conservatore Mariano Rajoy. Il rifiuto di Rajoy lo ha convinto a cambiare strategia. ha indetto nuove elezioni regionali, ha promesso un referendum sull’autodeterminazione e ha chiesto agli elettori il mandato per andare verso uno “stato sovrano”. Da allora in poi le diicoltà economiche sono state oscurate dalla questione dell’indipendenza. “In piena crisi, i catalani si sono sentiti dire che esisteva una prospettiva di speranza che avrebbe offerto anche una soluzione ai problemi di bilancio: l’indipendenza”, riassume Oliveras, il sindaco di El Masnou. “Se non ci fosse stata la crisi economica non saremmo arrivati a questo punto”, assicura uno dei suoi oppositori al consiglio municipale, il socialista Ernest Suñe. “I cittadini sono stati convinti che con l’indipendenza avrebbero ottenuto anche un avanzo di bilancio”. 

Molti catalani accusano Rajoy di non aver saputo proporre niente per contrastare questo fermento. “L’inerzia del governo ha contribuito a questa situazione. Per sei anni non c’è stato alcun dialogo. E senza dialogo la democrazia non è possibile”, accusa Ros, il sindaco di Lleida. I militanti separatisti invece erano ben organizzati. Hanno saputo imporre le loro parole d’ordine e presentare la loro campagna come la lotta della democrazia e della volontà popolare contro l’autoritarismo e l’arbitrio. Aiutati dai mezzi d’informazione pubblici catalani, “gli indipendentisti hanno vinto la battaglia della retorica”, riassume Suñe. 

Per la Ciu, questa svolta è stata una conversione. Nazionalista e catalanista, fino ad allora il partito di Pujol aveva evitato di prendere posizione sulla questione dell’indipendenza. In cambio del suo sostegno al governo spagnolo aveva ottenuto nel corso dei decenni cessioni di competenze sempre più ampie. Oggi le autorità catalane gestiscono istruzione, sanità, polizia e prigioni. Ma all’interno della Ciu le giovani generazioni arrivate negli anni duemila sono più apertamente indipendentiste dei loro predecessori. “Lo sono stato per tutta la vita”, racconta toni Postius, 33 anni, deputato al parlamento spagnolo. “Lo slogan dei giovani della Ciu è Catalunya is not Spain, la Catalogna non è la Spagna”. Cresciute in un sistema scolastico in cui il catalano è la lingua ufficiale e guardando film e tv in catalano, le nuove generazioni non hanno dovuto confrontarsi con il resto della Spagna. I giovani catalani non sono legati agli altri spagnoli né dalla lingua né dalla moneta spagnola (da quando esiste l’euro) né dal servizio militare. Quanto alla bandiera nazionale e alla Roja, la nazionale spagnola di calcio, sono viste con indiferenza in Catalogna. 

Politicamente questi ragazzi non hanno conosciuto né le difficoltà dei loro genitori, che durante la transizione avevano dovuto trovare un compromesso tra le regioni e tra i partiti politici per arrivare a una costituzione capace di mettere fine a un regime autoritario e neutralizzare un esercito ancora dominato dai franchisti. 

All’interno della Ciu i giovani hanno spinto per una svolta indipendentista. “Negli ultimi anni c’è stata un’evoluzione”, racconta Jordi Matas, 51 anni, consigliere municipale di El Masnou. “Abbiamo sentito la pressione dei giovani. Questo ha provocato tensioni interne”. La svolta di Mas tra il 2012 e il 2014 ha coronato la trasformazione, togliendo all’indipendentismo la sua immagine trasgressiva: se il partito che aveva guidato per anni la Catalogna poteva dirsi indipendentista, tutti potevano esserlo


Famiglie divise 
Questo cambiamento è stato così interiorizzato dagli elettori della Ciu che quando il partito è stato screditato dalle rivelazioni sulla fortuna accumulata all’estero dal suo leader storico Jordi Pujol e dalla sua famiglia grazie a decenni di mazzette intascate da appalti pubblici, molti sono passati senza batter ciglio alla sinistra repubblicana catalana, l’Erc, che poteva inoltre vantare una più antica tradizione di lotta. Al punto da suscitare nella memoria di alcuni dei cortocircuiti: “Ci sono persone che dicono in buona fede di essere sempre state indipendentiste”, osserva Oliveras, il sindaco di Masnou. “Io so con certezza che non è vero. Ma loro ci credono sinceramente!”. 

L’opinione pubblica catalana, che un tempo presentava un ventaglio di sfumature che andava dal centralismo al catalanismo, si è trovata polarizzata e spaccata in due dal dibattito sull’indipendenza, che è proseguito con un referendum non vincolante nel 2014. La stessa Ciu si è spaccata: al suo interno alcuni rifiutavano la possibilità di dichiarare l’indipendenza in caso di vittoria alle elezioni regionali del 2015. L’attuale governo di Carles Puigdemont è il risultato di quelle elezioni, a cui l’Erc e gli eredi della Ciu si sono presentati con una lista unica basata su un progetto indipendentista. 

Ma questa coalizione indipendentista ha bisogno del sostegno dei dieci deputati d’estrema sinistra della Cup, che si è presentata per la prima volta e ha ottenuto l’8,21 per cento dei voti. In cambio del suo appoggio la Cup ha chiesto la testa di Artur Mas, considerato poco aidabile, sostenitore dell’austerità e capo di un partito corrotto. “È solo un’alleanza temporanea”, precisa Pol, militante della Cup di El Masnou. “Approvare un bilancio contrario alle nostre posizioni ci è costato moltissimo. Ma in cambio abbiamo ottenuto il referendum”. 

Questa polarizzazione ha reso difficile parlare di politica in famiglia o tra amici. “Alcuni indipendentisti mi hanno tolto il saluto”, ammette Suñe. “In famiglia, ci sono cose di cui non si può più discutere. Da cinque anni abbiamo dovuto rinunciare alla nostra tradizionale riunione familiare del primo gennaio”. “Alla festa del paese abbiamo smesso di parlarne. Altrimenti gli animi si scaldano”, racconta Cristina Rodríguez della Ccoo. Le minacce si difondono sui social network. Molte delle persone interpellate per questo articolo non vogliono che sia pubblicato il loro nome. 

Qual è la parte dominante in questa opinione  pubblica così divisa? Alle elezioni del 2015 i partiti indipendentisti non hanno ottenuto la maggioranza assoluta dei voti. Il  loro elettorato è soprattutto nelle campagne e nelle piccole città dell’interno. “A Lleida la maggioranza è indipendentista”,  assicura Rodríguez. “Al mio paese, sulle montagne, è difficile trovare qualcuno che non lo è”. Nell’area urbana di Barcellona, invece, l’opinione pubblica è più divisa. Per questo la sindaca Ada Colau cerca di non alienarsi nessuno dei due campi. Tutti sono d’accordo nel dire che l’indipendentismo è  “trasversale” e interessa tutte le fasce d’età  e le categorie sociali.


Punto di non ritorno
Il 20 settembre, al bar tribuna di El Masnou, la tv pubblica catalana Tv3 trasmette senza sosta le immagini dei picchetti di protesta davanti ai ministeri perquisiti dalla Guardia civil spagnola. Maite, la proprietaria, riassume lo stato d’animo: “La gente non ne può più. Vogliono votare. Vogliono poter decidere tranquillamente”. Agustín Durán, oculista, è più netto: “È un crimine di Stato”. Vengono evocati i ricordi del passato. “Quel che sta succedendo è una vergogna. Sembra di essere all’epoca di Franco”, dice Gloria, 40 anni. “Mio nonno mi ha raccontato che a quell’epoca la polizia perquisiva le tipografie per sequestrare i documenti in catalano”.

Emeterio racconta la sua recente evoluzione: “Due o tre anni fa pensavo che l’indipendenza non sarebbe stata un bene. Ma più passa il tempo, più sono favorevole”. Dice ironicamente che i consiglieri di Rajoy devono essere indipendentisti, perché il modo in cui Madrid ha gestito la questione “è il peggiore possibile per la Spagna”. Anche il consigliere comunale socialista Suñe pensa che il Pp sia “una fabbrica d’indipendentisti”.

Francisco, un avvocato in pensione, è uno dei pochi non indipendentisti a esprimersi (non rivelando il suo cognome). Ha smesso di votare per la Ciu da quando è diventata indipendentista e avrebbe votato no a un referendum sull’indipendenza organizzato con l’approvazione di Madrid. Vorrebbe che il governo catalano si accordasse con quello spagnolo per ottenere una maggiore autonomia. Ma anche lui pensa che ormai sia “molto complicato”. Gli ultimi avvenimenti sono vissuti come “una specie di rivoluzione”, riassume.

Nessuno è pronto a scommettere su quello che succederà ora. Per Emeterio “potrebbe arrivare la repressione. Perché se la Catalogna riuscirà a staccarsi, poi toccherà ai baschi. E quel che resterà non sarà più la Spagna, ma l’Africa del nord!”. Occupazione di strade, scioperi, proteste: ognuno prova a immaginare i prossimi sviluppi. Molti indipendentisti vogliono credere che tornare al passato sia impossibile.

“Siamo già oltre”, sostiene Sergi della Cup. “O vinciamo o finiamo in prigione”, gli fa eco Jaume.

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