Moser vs Saronni
TuttoBici, Numero 1 - Anno 2008
di Massimo Bolognini
Un ciclismo così non tornerà più. Neppure quella fredda sera prima di Natale a Pieve di Soligo (Treviso), voluta da TuttoBICI e da La Gazzetta dello Sport e soprattutto dalla Euoromobil dei fratelli Lucchetta, innamorati di ciclismo e arte, scaldata dallo storico match ingaggiato da Francesco Moser e Giuseppe Saronni (in ordine alfabetico) che giungendo nel Quartier del Piave tutto si aspettavano fuorché di essere catapultati nuovamente al centro della ribalta.
Sotto i riflettori, come vent’anni prima, incalzati dai giornalisti, colpevoli di accendere sempre la miccia e scatenare rivalità, al centro di un palcoscenico incorniciato dalle immagini dei loro indimenticabili trionfi. Anche quella è arte. Arte della fatica e del sacrificio che sublimano nell’impresa e nell’epica, destinati a restare nella storia.
Una rivalità così non tornerà più. Da allora nessuno è stato più come questi due: da una parte il ruvido e indomabile trentino, Checco da Palù, Franz, lo Sceriffo, il Leone; dall’altra l’elegante e astuto lumbàrd, Beppe da Parabiago, l’uomo della “fucilata di Goodwood”, il Killer, il Giaguaro.
Moser, meno veloce, faceva di tutto per staccare Saronni, al quale bastava restare aggrappato al rivale di sempre per poi buggerarlo allo sprint. Inconsapevolmente avevano ereditato il testimone da Bartali e Coppi, ed erano riusciti a spaccare in due l’Italia del pedale: moseriani o saronniani. Saronni come Coppi, Moser come Bartali. Quasi la stessa differenza di età. I primi divisi da cinque anni, i secondi da sei. Poi il tempo si è fermato. Dopo Moser e Saronni mai più duelli rusticani sono rimbalzati sulle colonne dei quotidiani, in un ciclismo sofferente, afflitto dai suoi mali.
«La rivalità tra noi c’era, eccome - ha esordito Moser -. Ha fatto solo bene: a noi e al ciclismo. In corsa non siamo mai andati d’accordo. Questo è bene ricordarlo, ma quando le nostre carriere sono finite, tutto si è stemperato».
A ruota Saronni ha iniziato subito la lunga serie dei concetti condivisi: «Davvero bei momenti, però. Ha ragione Francesco, la nostra rivalità ha fatto bene a tutti. Certo, abbiamo perso qualche corsa per farci i dispetti, ma la rivalità ci ha stimolato tantissimo a dare sempre il massimo, anche con le rispettive squadre».
Una rivalità rovente, arrivata a spaccare i tifosi in due fazioni. Come ai tempi di Coppi e Bartali.
Saronni: «A livello sportivo penso che sia stata molto simile, anche se noi non siamo stati né dei Coppi né dei Bartali. La fazione dei moseriani era però molto più agguerrita, calda, tosta, tanto che ricordo ancora che una notte vennero a suonare e cantare sotto le nostre camere d’albergo per non farci chiudere occhio. Ancora oggi non so se fu lui a mandarceli o fu solo un’iniziativa di questi tifosi. Anche tra i giornalisti c’erano più moseriani, ma era normale: io ero il giovane, spavaldo, l’ultimo arrivato. Francesco invece era già affermato».
Moser: «Anche i suoi tifosi non scherzavano, credete a me e poi gran parte della rivalità era stata alimentata dalla stampa. Lo confermo: c’erano tifosi anche tra i giornalisti. Ad esempio Angelo Zomegnan (l’attuale direttore del Giro presente in prima fila che ha poi confermato, ndr) era un saronniano di ferro. Si percepiva da come ti poneva le domande».
Ma com’è nata questa acerrima rivalità?
Moser: «Io passai professionista nel 1973, lui nel 1977. Come avversari avevo avuto Baronchelli e Battaglin. Poi Beppe arrivò improvvisamente, non annunciato. Non era un dilettante di cui si parlava. Da sconosciuto ha iniziato subito a vincere e a me cominciò subito a starmi sui cosiddetti. Così è nato tutto».
Saronni: «Avevo fatto tanta pista, prima di passare anche le Olimpiadi. Alla Scic serviva un velocista. Avevano messo gli occhi su Roberto Ceruti, ma per mia fortuna restò alla Itala di Domenico Garbelli. Per me era un sogno potermi misurare con i più grandi, e soprattutto con Moser, che io guardavo con ammirazione. Lo ammiravo talmente tanto che volli subito mettergli la ruota davanti e questo lo mandò in bestia. La prima volta accadde il finimondo… Fu come un affronto di lesa maestà».
Moser riprende la parola: «Già, tutto è iniziato al Pantalica, in avvio della stagione 1977: una moto della polizia ferma mi ostacolò nella volata finale e Beppe vinse. Diventai una iena con gli organizzatori e con i motociclisti. A me perdere non è mai piaciuto, a maggior ragione da uno sconosciuto…». «Andò così, si arrabbiò moltissimo - aggiunge Saronni -. Prese tutti di petto, sbraitò come lui sapeva fare: lui non te le mandava a dire, e dalla gara successiva, come d’incanto, di moto in mezzo ai corridori non ce ne furono più...».
La maglia azzurra ha poi accentuato l’antagonismo…
Saronni: «A proposito ce ne sarebbero tante da raccontare. All’epoca sì che eravamo tutti dei leader in nazionale. Non era affatto facile convivere. A Goodwood, Francesco mi diede un mano per vincere, ma non era successo l’anno prima, a Praga, quando mi batté Maertens. Per quella rivalità gettammo alle ortiche un mondiale che poteva essere nostro».
- Quindi Zomegnan incalza: ma la vostra rivalità non è nata a San Cristobal nel 1977?
Saronni: «No. Per me quello di San Cristobal era il primo mondiale e correndo a certi livelli avevo capito che un giorno avrei potuto vincerlo anch’io il mondiale, ma in quella circostanza lavorai ben volentieri per Francesco».
E al Nurburgring, l’anno dopo, fecero fuori Saronni per agevolare Moser che fu beffato da Knetemann.
Moser: «Falso! Non andò così. Beppe era in fuga e fu poi ripreso... Lì iniziò una nuova corsa. Niente di sospetto, tutto regolare…».
Saronni: «Ero in fuga con Knetemann e Hinault e non ho ancora capito chi tirasse alle nostre spalle. O meglio lo so: i belgi. E ho anche il sospetto che qualcuno abbia tramato affinché questo accadesse…».
Moser fulmineo: «I belgi hanno tirato perché erano rimasti fuori dalla fuga ed era normale che tirassero».
- «Se non vinco io, meglio che quello là perda»: l’avete mai pensato?
Saronni: «Tante volte, anzi sempre. Altrimenti che rivalità era?»
Moser: «Naturale. Anzi, davamo il massimo anche per un semplice piazzamento, pur di arrivare davanti all’altro. Povero Gavazzi, povero Battaglin, povero Baronchelli, vincevano tanto, ma i titoli sui giornali erano fatti sulle nostre vittorie e anche sulle nostre sconfitte».
- Capitolo corse a tappe: quanti Giri d’Italia sono stati disegnati per l’uno o per l’altro?
Moser: «Nel 1979 era stato fatto su misura per me, ma alla fine l’ha vinto lui...».
Saronni: «A prescindere dal tracciato, al Giro vince sempre chi ha più condizione e gambe».
- Ci sono mai stati dei tentativi per farvi riconciliare?
Moser: «Sì, ma non sono mai andati a buon fine».
Cosa avete invidiato al vostro rivale?
Moser: «Beppe è sempre stato più veloce di me. A meno che lui non sbagliasse o fosse stanco, allo sprint era difficile batterlo».
Saronni: «A Francesco ho sempre invidiato la grinta, la determinazione e il suo grande spirito di sacrificio che venivano esaltati specialmente quando le condizioni ambientali erano proibitive. Era tosto, questo va detto».
- Quale vittoria del vostro rivale vi ha dato più fastidio?
Moser: «La Sanremo del 1983: arrivò da solo in maglia iridata. La cosa mi fece girare gli zebedei parecchio. Però al tricolore di Compiano (PR) ’81 (l’ultimo dei tre conquistati dal trentino, ndr), dopo un duro confronto verbale, mi fece talmente arrabbiare che gliela feci pagare: staccai tutti. Grande soddisfazione».
Saronni: «Già quel tricolore lo vinse grazie a me. Quel giorno a Compiano mi scappò qualche parola di troppo e Francesco me la fece pagare. Ma ogni sua vittoria mi ha dato fastidio, non ce n’è una in particolare. Quando lui vinceva io soffrivo. Perché negarlo? Mi stava troppo sui cosiddetti…».
- Ma se non ci fosse stato uno dei due, come sarebbe andata?
Moser: «Non ne avremo mai la riprova, ma di una cosa sono sicuro: è andata bene, sia a me sia a lui. Siamo stati accomunati nel bene e nel male. Più nel bene che nel male. Lo dico senza timore: per mia fortuna c’è stato Saronni e io con lui. Altrimenti ci sarebbero stati altri al nostro posto e sarebbe stato molto peggio».
Saronni: «Sono d’accordo. Lui mi ha sempre dato grandi stimoli».
- Che futuro avrà il ciclismo?
Moser: «I problemi che esistono, il doping su tutto, devono essere risolti. Poi al ciclismo servono corridori che sappiano essere anche grandi personaggi. Oltre al risultato sportivo ci deve essere dell’altro».
Saronni: «Concordo con Francesco: il ciclismo è stato e sarà sempre un grande sport. E’ nostro compito ora lottare con questo grande problema del doping e ripartire di slancio per recuperare credibilità e immagine».
Aggiunge Moser: «Oggi i corridori sono radiocomandati, a noi se stavamo un mese senza vincere una corsa ci davano per finiti».
Ribatte Saronni: «Mi sarebbe piaciuto vederti con la radiolina e per ascoltare i tuoi dialoghi con il direttore sportivo. Sarebbe stato uno spettacolo nello spettacolo…».
Moser: «Fai poco lo spiritoso. Tu con la radiolina avresti corso perché eri abituato a startene là dietro a curare la situazione, io ero sempre davanti…».
Saronni: «Sì, davanti, a prender aria. È sul traguardo che bisogna essere davanti…».
E ora di chiudere, Gigetto ci aspetta a Miane per un boccone.
Moser: «Io mangio solo un primo…».
Saronni: «E io parto adesso…».
Ognuno per la sua strada. Ognuno con la propria storia. Applausi.
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