Giorgio Martino - Su e giù da un palco


di CHRISTIAN GIORDANO © 
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS © 

La paciosa semplicità. Deve essere stata quella la sua arma vincente per bucare il video, e arrivare al cuore della gente. Trent'anni di Rai, uno degli ultimi 17 mohicani assunti con il celeberrimo concorso del '68. Ventitré - ventitré! - sport commentati in carriera. Simpatico, di una coinvolgente, forbita, elegante e insieme popolare romanità, Giorgio Martino - con il sodale Gianfranco De Laurentiis e il loro pionieristico Eurogol - è stato un «Cristoforo Colombo» alla scoperta del calcio estero in una tv che all'epoca trasmetteva della Serie A, la domenica alle 19 e in differita, mezza partita. 
Qui invece ci parla di ciclismo, da coppiano convinto forse la sua vera grande passione. 
Su e giù dal palco (parafrasando Ligabue), al traguardo di Sappada '87 c'era lui a raccogliere le prime parole del Visenta furioso: «Stasera qualcuno va a casa».
Vado a trovarlo in un afoso pomeriggio romano, approfittando del fatto che lì, il giorno dopo, fra le polemiche per buche e sampietrini, terminerà il Giro 2018. Giorgio mi accoglie con grande cordialità nella sua casa di via Teulada, a due passi - alla lettera - dalla storica sede Rai nella quale ha trascorso una bella fetta di vita. Una vita bella e piena come il suo album dei ricordi. Un privilegio poterne sfogliare insieme almeno qualche pagina.

Roma, sabato 26 maggio 2018

- Giorgio Martino, tu da inviato Rai hai raccolto le prime parole di Roberto Visentini sul traguardo di Sappada al Giro ’87. Dopo trentun anni che cosa ricordi di quella tappa?

«A parte che io ho degli appunti, quindi… Quello che successe il giorno della tappa di Sappada fu il fatto grave, però era già avvenuta una serie di premesse, di precedenti, che sfociarono in quel giorno». 

- Quindi una cosa del genere te l’aspettavi?

«Beh, sì. Sì. Si capiva che erano troppi i famosi due galli nel pollaio, cioè che la Carrera avesse due galli nel suo pollaio. E che soprattutto non ci fosse [la forza di prendere una posizione] né da parte dei fratelli Tacchella, che erano i titolari della Carrera, né da parte dello stesso Davide Boifava, che era il direttore sportivo. 

A quell’epoca il direttore sportivo era veramente un personaggio importante, non solo carismatico. Era quello che decideva un po’ tutto, trovava lo sponsor, i corridori, faceva le pubbliche relazioni. Era il vero punto di riferimento della squadra. 

Oggi le squadre, soprattutto quelle grandi, sono articolate: con la sezione comunicazione, la sezione di quello, la sezione di quell’altro, [più] direttori sportivi, quello che cura un periodo, quello che cura un gruppo e così via. Oggi è impensabile come fosse [allora] la figura del direttore sportivo. 

Per questo Visentini poi se la prese tanto con Boifava. Disse che era un uomo senza polso, che non aveva avuto – nel momento fondamentale – la forza di prendere una decisione. La decisione di dire: il capitano è Visentini, punto e basta. E invece fu detto a mezze parole ma poi non avvenne. Il buon Roche si era già premunito, immaginando che comunque – anche perché si correva in Italia, si faceva il Giro d’Italia – l’opinione pubblica, fra Visentini e Roche, sarebbe stata tutta per Visentini. Addirittura poi, nei giorni successivi, Roche fu anche minacciato».

- Ecco, tu ne sei stato testimone? Che cosa hai visto o sentito?

«Ma come no! Era vero: per strada la gente gli urlava contro. Qualcuno gli andava appresso, chi con l’ombrello, chi col bastone e gli sputavano. Era facilmente visibile, a occhio nudo. Non è che bisognasse andare a cercare chissà quali segreti. Anche oggi, se vai a seguire una tappa di un Giro d’Italia, soprattutto sulle salite, vedi come il tifo possa trascendere. Soprattutto il tifo contro. Finché c’è il tifo a favore, è tutto normale. A parte le spinte. All’epoca, forse, la cosiddetta “compagnia delle spinte” era già finita, ma qualche anno prima c’era stata una serie di tifosi che si dividevano, che so, cinquanta metri per uno e ogni cinquanta metri c’era uno che andava verso il suo protetto e lo spingeva per quaranta-cinquanta metri, dopodiché subentrava quell’altro. Perché è chiaro che un tifoso a piedi, magari anche di una certa età…». [ridacchia]

- Queste cose a Visentini lo mandavano via di testa.

«Sì, lui era… Lui perse il controllo nervoso. Non andò in crisi tecnica, non è che le gambe non giravano più. Lui andò in crisi nervosa, ma qui siamo già andati molto avanti…».

- La tua è una figura-chiave perché a Sappada tu eri lì, microfono in mano, sotto il palco Rai.

«Eh, lì c’è un altro aspetto. Normalmente noi, dopo la diretta, che gestivamo sempre noi, mentre prima ancora c’era il famoso Processo alla tappa in cui c’erano due strutture diverse – io addirittura il mio primo Giro d’Italia l’ho fatto col Processo, quindi non facevo la telecronaca dell’arrivo –, quando poi Zavoli smise, [Adriano] De Zan ed io eravamo gli unici gestori; e a parte la componente-spettacolo – perché qualche volta ci sono stati attori, cantanti (Raoul Casadei e altri personaggi) – tutta la parte tecnica e di telecronaca della corsa, e poi di analisi del dopo-corsa, la facevamo sempre noi…». 

- De Zan sul palco e tu sotto, o no?

«No, normalmente tutti e due sul palco. Normalmente. Con la possibilità, io, di andare momentaneamente giù perché magari con il corridore che aveva appena vinto, in volata o quello che fosse, ancora un po’ affaticato, avevamo subito la prima testimonianza. Giù, a caldo. Poi, magari dopo dieci minuti, il vincitore che, come adesso, doveva fare un certo cerimoniale, risaliva sul palco, dove avevamo anche una specie di angolo, di studiolo, in cui c’erano tre-quattro poltroncine di modo che il corridore potesse stare seduto, e vicino a lui c’era il massaggiatore, il direttore sportivo, che gli portava l’acqua, che gli dava l’asciugamano, ciò che gli serviva. E quindi c’era un’analisi più… chiamiamola più tranquilla, più calma, anche più prolungata. Quindi: io facevo le interviste giù, proprio ta-ta!, la battuta, poi, se per un certo motivo ci si rendeva conto che un corridore non voleva, non poteva, non riusciva a salire, allora scendevo io e lo andavo a prendere.

Quella tappa non la vinse Roche, la vinse van der Velde [con 46” sul gruppetto di Rominger, Giupponi, Millar, Breukink, Lejarreta e Muñoz; e 56” su quello di Bauer, Conti, Argentin, Beccia, Roche, Winnen e Pozzi; 1’25” su quello di Anderson, Chioccioli, Schepers e Volpi; nda].Però lui era fuori classifica, quindi il tempo di van der Velde non aveva “valore”. Visentini perse sui sei, sei minuti e mezzo [arrivò 58° a 6’50”, nda] su van der Velde e un minuto in meno su Roche, che, abbuono o non abbuono, era arrivato a un minuto circa da van der Velde. Van der Velde arrivò e parlò subito, perché si esprimeva bene anche in italiano, ha corso anche per squadre italiane ed era uno molto disponibile, simpatico; anche Roche era disponibile, ma quando arrivò non salì sul palco. Allora ci rendemmo poi conto [del perché] non fosse salito sul palco…». [ridacchia]

- …eppure aveva preso la maglia rosa.

«…eppure aveva preso la maglia rosa, ma a quel punto… E allora io scesi con il cosiddettoradiomicrofonoe lui parlò, appunto perché era disponibile. Poi avevamo una grande affinità con i ciclisti. Oggi forse sembra difficile, magari soprattutto nel calcio. Però il ciclista dell’epoca era di una disponibilità impensabile per chi fa il nostro lavoro. Impensabile. E quindi c’era anche un ottimo rapporto. C’era anche molta fiducia. Loro sapevano che tu, tu giornalista, o quantomeno noi della Rai, non li avremmo mai traditi».

- Niente colpi bassi.

«Ecco, bravo: il colpo basso. Hai detto bene: proprio così. E quindi Roche disse: ma no, io ho corso per me stesso... Queste frasi che Roche disse, a parte che sono nell’archivio Rai, però furono riprese perché i giornalisti al seguito erano tutti in sala stampa, davanti al televisore. E perché avevano l’immediatezza. 

Sai, non era come adesso. Voi avete i computer, tan-tan!,vecollegate, col telefonino, con questo, con quell’altro… Loro, no: loro dovevano fare la te-le-fo-na-ta!La telefonata a un telefono appeso al muro. Prenotato con il centralino, con l’assistente. Quindi avevano bisogno di avere l’immediatezza. Non avrebbero avuto il tempo di stare lì sotto, poi magari spostarsi alla sala stampa, che poteva stare a ottocento-novecento metri. Non ricordo, francamente, dove fosse quella di Sappada, però non era proprio lì. Magari dovevi fare ottocento metri, in salita, alla scuola comunale, alla biblioteca pubblica, a quello che fosse. E allora loro, in sala stampa, attraverso noi, avevano l’immediatezza di tutto quello che succedeva. Queste frasi di Roche furono poi riportate il giorno dopo. Roche disse: non voglio fare polemiche, non sono qui per creare il conflitto, non c’è guerra, non ho fatto la guerra a Visentini, ho soltanto pensato a me stesso. Ho corso per me stesso. Ho fatto la mia corsa. L’ho fatta per me, non controRoberto. Questo disse lui, ma il “per me” era, automaticamente, controRoberto: perché Roberto era in maglia rosa. E siccome Visentini a San Marino aveva vinto con tre minuti, due e cinquanta, una cosa del genere [2’47” su Roche, 12°, nda], quindi in maniera netta, quella situazione di quasi parità sembrava fosse risolta.

Quel Giro fu un susseguirsi di piccole e grandi cronometro. Il prologo a Sanremo: Visentini prima maglia rosa; che poi la perse sul San Romolo, e passò a Breukink [che vinse la prima semitappa]; poi la discesa dal Poggio e vinse Roche; poi la cronosquadre in Versilia. Quella si faceva sempre: una volta da Camaiore a Forte dei Marmi, una volta da Forte dei Marmi a Camaiore ma erano sempre loro, gli stessi organizzatori, che erano poi quelli che facevano le corse lì, a Peccioli. Erano sempre gli organizzatori del Gran Premio Camaiore, erano loro il comitato di tappa locale. Mi sembra che all’epoca il Giro avesse fatto una sorta di accordo con la Versilia, con una sorta di consorzio dei comuni versiliesi – appunto Camaiore, Forte dei Marmi e così via – e quindi il Giro c’era sempre, e quasi sempre era una tappa a cronometro, individuale o di squadra. Lì la Carrera vinse. Dominò. Ma siccome Roche aveva fatto meglio nella cronodiscesa, era lui davanti a Visentini e quindi la maglia rosa andò a lui. Fino a che si arrivò a quella lunga di San Marino [46 km, nda], Visentini andò fortissimo e vinse con quasi tre minuti [su Roche]. A quel punto anche lo stesso Boifava si lasciò scappare... E a chi gli chiedeva: ma allora? – perché il motivo conduttore di quel Giro d’Italia era: chi sarà il capitano nella Carrera? – disse: è Visentini».

- Il famoso: sarà la strada a decidere…

«Però a San Marino era stata la strada che avrebbe dovutodecidere, e quindi a quel punto era lui. Ecco perché Visentini poi s’è sentito tradito; perché Visentini in pratica ha smesso quel giorno, eh. Perché dopo si è trascinato un po’… però aveva smesso. E ha smesso, a quanto mi risulta, proprio definitivamente. Nel senso che non ne vuole più sapere dell’ambiente. Io l’ambiente l’ho frequentato a lungo. Ancora adesso, spesso, sono a cerimonie, vado a fare delle presentazioni, tavole rotonde. Lui non c’è mai».

- Hai più avuto modo di parlargli?

«Mai. Visentini si è allontanato dall’ambiente in maniera to-ta-le! Totale. Non ha più voluto sentir parlare di… So anche di alcuni colleghi della stampa che magari, sai, d’inverno c’era sempre il fermo, adesso si corre sempre – a parte che oggi si scrive molto meno di ciclismo, per cui… [sorride] – e quelli che facevano il ciclismo per la carta stampata, l’inverno, andavano a cercare anche qualche ex. Lui, niente. Niente-niente-niente. Proprio no. Roche invece è rimasto. Alle grandi competizioni, l’abbiamo incontrato: a qualche Parigi-Roubaix o a qualche mondiale. Roche quell’anno vinse Giro, Tour e mondiale. A Villach andai in macchina, addirittura».

- Già che ci siamo arrivati, che cosa ricordi di quel mondiale?

«Niente di particolare. Il fatto di aver vinto anche il Tour aveva messo Roche in posizione di forza, anche se poi pure lì lui… Lì c’era Kelly. Roche è sempre stato uno che ha saputo approfittare delle circostanze».

- Al posto giusto nel momento giusto.

«Esattamente».

- A Sappada, al traguardo, lì sotto il palco dove eri tu, ad aspettare Visentini c’erano Enzo Verzeletti, uno dei massaggiatori alla Carrera, e Angiolino Massolini, storico giornalista bresciano, una specie di bibbia del ciclismo locale. È vero che Verzeletti mise subito la mano sulla bocca a Visentini per impedirgli di fare altri danni, poi lui e Massolini lo portarono via di corsa.

«Lo portarono via però lui fece in tempo a dire… Tu dici “bresciano”: ma è bresciano anche Boifava, capito?».

- Di bresciani c’era un intero clan, in quella Carrera.

«Ma ecco perché lui si è sentito ulteriormente tradito. Se il direttore sportivo della Carrera fosse stato un toscano o un lombardo, e invece… Lui [Visentini] dice: come? Il mio direttore sportivo, bresciano come me, e mi fai questo? Cioè: non mi fai l’azione di andare a fermare Roche. Non l’ha fermato! In realtà poi da quel momento Roche aveva già fatto i suoi conti. Nella Carrera, a parte uno – un belga, Eddy Schepers, che era un fedele suo tant’è che poi se lo portò alla squadra successiva [la Fagor, nda] – gli altri erano quasi tutti italiani ed erano con Visentini. Roche però aveva saputo fare alleanze un po' con la Fagor, e con Marino Lejarreta [della Caja Rural], che poi fu uno dei protagonisti più forti nell’ultima settimana. Lejarreta, dopo Sappada, era uno che ricorreva spesso come protagonista, e quando Roche veniva attaccato ecco che Lejarreta era al suo fianco; ecco, con gli spagnoli ma soprattutto con la Panasonic, con due di lingua inglese: Millar che era scozzese e Anderson che era australiano. E lui era irlandese».

- Non solo: i tre, da dilettanti, avevano corso nella francese ACBB. Ed era era stato Millar a raccomandare loro Roche.

«Eccerto, quindi erano legati. E da quel momento Roche li ha avuti come suoi chiamiamoli “gregari” o aiutanti, come te pare a te. Millar poi è anche arrivato secondo. È arrivato prima di Breukink, quindi Breukink aveva un po’ di perplessità. E aveva ragione di essere perplesso, no? Roche quindi aveva fatto i suoi conti. Aveva già capito che, non avendo l’appoggio della propria squadra, si era già trovato l’appoggio per cavarsela in altro modo. E se l’è cavata alla grande. Perché, dopo, Visentini ci ha anche provato, però ormai era andato fuori di testa, fuori proprio coi nervi. E poi comunque Roche non era solo. Aveva la Panasonic e in parte, quasi tutta, la Fagor, che erano squadre forti. Perché poi, sai, altri [big] non ce n’erano. LeMond aveva avuto l’incidente di caccia – il cognato che gli aveva sparato –, Moser era caduto la settimana prima, era già stato inserito nell’elenco dei partecipanti, e non c’era più. [Moser si fratturò la mano sinistra a tre giorni dal via e la Supermercati Brianzoli-Château d'Ax lo sostituì con lo svizzero Hubert Seiz, nda]. Saronni era già in declino. Infatti, quell’anno gli italiani… Credo sia stato il secondo podio tutto straniero. Tutti ricordavano il ’50: Hugo Koblet, il primo straniero a vincere il Giro. Poi ci fu questo podio tutto straniero – primo, secondo e terzo, che era un fatto quasi inedito. C’era stato solo una volta [nel '72: con Merckx, Fuente e Galdós; nda]».

- Quando ti sei visto arrivare Visentini, il tuo primo pensiero qual è stato? Disse davvero lo storico «Stasera qualcuno va a casa!»?, e ti aspettavi uno sfogo del genere?

«Eh beh, sì, eh. Massì, perché la premessaera stata fondamentale. Già dal Giro di Romandia, vinto appunto da Roche, cominciava a serpeggiare ’sto fatto dei due galli nel pollaio. Chi è “il” gallo? Alla vigilia del Giro c’erano state, o erano state fatte uscire, delle affermazioni, attribuite una volta a uno, una volta a un altro, così… Però non c’era mai stata la chiarificazione. Tant’è che mi pare ci fosse stata una tappa, al Terminillo o qualcosa del genere, in cui quello che i giornalisti dicevano che cos’era? Chie quandosi stabilirà chi sarà il capitano? Allora, a un certo punto, prevalse una teoria: Roche aiuterà Visentini a vincere il Giro d’Italia, Visentini aiuterà Roche al Tour. E invece, credo proprio in quella tappa lì del Terminillo, l’uscita di Visentini…».

- Ma quell’intervista lì, nella quale pare che Visentini abbia detto: io a luglio me ne sto con le balle a mollo (al lago o al mare, a seconda delle versioni), la rilasciò a te?

«Beh, c’erano state dichiarazioni fatte un po’ a tutti, non erano in esclusiva».

- Roche quell'intervista la vide in tv nella sua camera d’albergo, no?

«Eh sì, l’ha vista in camera appunto perché noi facevamo anche alcune cose che poi venivano riproposte. È chiaro che, per averla vista in camera, non potevamo che averla fatta noi perché non c’erano altre televisioni a quell’epoca». 

- Pensavo magari a qualche altro tuo collega Rai. Se però eravate in due, o tu o De Zan.

«Eccerto. Era sempre la stessa cosa».

- Visentini la disse davvero quella frase?

«Sì-sì-sì».

- Disse proprio così: a luglio io me ne sto con le ballea mollo? O si esagerò un po’, e quelle parole gliele mise in bocca qualche nostro collega dotato di troppa immaginazione?

«Be’, avrà detto stoin vacanza…».

- Difficile pensare che alla Raidell’epoca, ancorché in diretta, ci si esprimesse in quei termini.

«Nooo. Anche perché, attenzione: magari lui dice “Vado al mare”; la mattina dopo al raduno di partenza i giornalisti della carta stampata – sai, ci vuole un’ora [dal foglio-firma al via], no? – andavano a dirgli: a Robbe’, allora: che fai? “Ah, sì, tengo le...”. Hai capito? Ecco come si sviluppava. Però il primo spunto veniva da noi. Non poteva che essere così, per diventare pubblico».

- Roche l'azione di Sappada l'aveva preparata o l’attacco è nato in corsa?

«No, preparato. Perché l’ha fatto due volte. È partito Ennio Salvador, nel primo...».

- Salvador ce l’aveva con Visentini dall’anno prima. Al campionato italiano Visentini gli aveva promesso di dargli una mano e invece non aveva mantenuto la parola, non so se perché bleffava o perché magari non ne aveva più. 

«Infatti, vedi? Però la Carrera poi li ha ripresi. Appena è stato annullato il tentativo di Salvador, è ripartito quest’altro [Roche, nda]. E a quel punto Visentini si è arrabbiato. È lì che gli son saltati i nervi. Poi, saltandogli i nervi, s’è dimenticato di mangiare, che è una cosa fondamentale. Anche perché la parte difficile era dopo, quindi tu alla salita che porta a Sappada dovevi arrivare ben nutrito, pronto».

- Una salita peraltro pedalabile, non durissima: vuol dire che Visentini aveva mollato di testa.

«Ha mollato di testa. Però poi, appunto, non avendo mangiato, s'è trovato nel momento in cui doveva produrre il massimo sforzo, e in cui aveva un sistema nervoso ormai andato, che proprio non aveva mangiato. Zuccheri o cose... Non è che dovesse mangiarsi gli spaghetti, però il paninetto, il dolcetto, lo zuccherino, quella cosa che serviva. E invece s’è trovato senza benzina e senza testa. Esenza testa». 

- Poi che cos'è successo?

«Ha perso sei-sette minuti». 

- È stato un po’ ingenuo Visentini, vero?

«Sì, probabilmente sì».

- L’altro, un furbacchione.

«Eh beh, è chiaro». 

- Più intelligente, più sottile, Roche?

«Ma sai, quell’altro… [sospira profondo] Quell’altro lottava per vivere. Visentini – ed io ero molto per lo spirito di sacrificio che ha messo nel fare il corridore – non aveva bisogno di fare il corridore, per vivere. Quindi da una parte era da ammirare perché, nonostante avesse soldi e macchine e donne e potenzialmente tutto a disposizione, si è messo a fare un mestiere come quello del corridore ciclista che, a quell’epoca soprattutto ma anche oggi, con quello che lui aveva, era impensabile, no? Perchéchifaceva il corridore ciclista? Lo faceva quello che, al massimo, avrebbe fatto l’operaio. O il bottegaio. O il contadino. I gregari di Coppi erano tutti contadini, che anzi lavoravano nei campi e poi, quand’era febbraio – i migliori, gli altri restavano nei campi – partivano solo per il Giro d’Italia. Alcuni gregari di Coppi, fino a poche settimane prima del Giro, facevano i contadini. Lui [Visentini] invece avrebbe avuto una vita piacevole, gradevole, da benestante-ma-benestante! E invece si è messo a fare… Quindi: da ammirare, assolutamente. A quell’epoca, qui stiamo parlando degli anni Ottanta, quindi lui avrà incominciato a correre alla fine degli anni Settanta, c’era già stato il Sessantotto, ma anche dal punto di vista sociale, la vita per un ragazzo benestante offriva delle prospettive di gradevolezza enormi. Enormi. E lui invece ci ha rinunciato. Perché ha fatto il corridore, e l’ha fatto in modo totale, vero. Con sacrificio. Veramente totale. Però poi, alla fine, è chiaro che, nel momento in cui appariva un contrattempo come questo, ecco che l’altra faccia della medaglia… Cioè lui, da benestante, ammirevole perché ha saputo sacrificarsi per fare questo mestiere, però dopo, nel momento del contrattempo, là dove il Roche della situazione, abituato a doversi arrangiare perché non benestante di partenza, ma si deve arrangiare, e allora magari va a complottare, a fare, a trovarsi l’amicizia, a trovarsi l’alleato, a trovarsi quello, a sfruttare la situazione. Vede, che so, che la corsa in quel momento offre l’opportunità e dice: ma io sto con quello, e chissenefrega, il momento è questo, piglia e parte. Cioè: pensa più a se stesso. Visentini invece si aspetta, forse erroneamente, un certo comportamento da parte degli altri. Cioè lui dice: io non mi sarei comportato così, io non avrei attaccato. Se in maglia rosa fosse stato Roche e non io, io non avrei attaccato. Anche se partiva Salvador, se partiva quell’altro, se quell’altro andava o quello che era. O se magari Roche forava. Eh no: io mi sarei comportato correttamente. E si aspettava che gli altri si comportassero altrettanto correttamente. Cosa che non è successa. È questo che l’ha fatto andar via di testa. E poi, in questa situazione, ha trovato poca rispondenza da parte del direttore sportivo perché, sai, il direttore sportivo poi deve dire: io a fine anno devo render conto ai Tacchella, cioè ai padroni della squadra, e gli devo dire: ho vinto il Giro d’Italia. Eh eh [sorride] Non gli posso dire: non ho vinto il Giro d’Italia perché quello… perché c’è stato… perché ho protetto... Perché poi, se magari avesse fermato Roche, e vinceva un altro? E vinceva Millar? Che gli dico ai Tacchella? Che siamo stati corretti? Eh, sai, son situazioni estremamente difficili da interpretare».

- Sei poi andato anche da Boifava, hai provato a intervistarlo?

«Sì-sì. Eh, ma lui ha detto: no, ma… Ha sempre cercato di tenere il piede in due staffe, di non sbilanciarsi troppo».

- È anche per quello che lo chiamavano il Cardinale, no?

«Eh be’, Davide voleva sempre… Ma sai, ti ripeto: non ce la faccio ad accusare i direttori sportivi. Perché a quell’epoca li vedevo veramente dare l’anima. Dovevano andare a cercarsi lo sponsor, cioè convincere delle persone – che potevano essere i fratelli Tacchella, proprietari della Carrera, o i Salvarani – che comunque investivano una bella cifra, non erano quattro soldi. Convincere le persone, le aziende o i titolari dell’azienda. Poi quasi sempre erano squadre che avevano come titolare un appassionato di ciclismo, sennò [la sponsorizzazione] non avveniva. Oggi ecco perché è diverso. Sky, oggi, ha la squadra: ma Sky cheè? È una multinazionale. Anche Sky avrà chissà quante varie sezioni, direzioni, che si occupano della corsa. Non è che il Boifava della situazione va da Murdoch e gli dice: senti, ma... vuoi far la squadra? C’hodue-tre corridorinibuoni, li ho visti, quest’anno li facciamo passare dai dilettanti ai professionisti… Capito? [ride] È un mondo diverso, proprio totalmente diverso. E invece questi andavano – e per loro "era" Murdoch sul serio, eh – e facevano tutto. E portavano la macchina! Quando poi avevano in squadra i corridori importanti – Moser, Saronni, che a quell’epoca erano i big dei big dei big – gli portavano le valigie, anche. Quando la squadra rientrava in albergo, la valigia di Moser e di Saronni la portava il direttore sportivo! Facendo incavolare, per esempio, Scibilia, quello della Gis, che ha avuto sia Moser sia Saronni, e diceva: ma come? Io c’ho il direttore sportivo e me porta le valigie? Va in albergo e porta le valigie al capitano della squadra? "Il" direttore sportivo doveva fare tutto-tutto-tutto, a quell’epoca. Quindi capisco le perplessità che Boifava ha avuto e il suo voler tenere il piede in due staffe. Non lo condanno».

- Dopo tutti questi anni quindi da che parte stai?

«No: Visentini è stato tradito. No-no-no: non c’è dubbio. Era maglia rosa! Era maglia rosa, e se non fosse stato attaccato, nessuno… Gli altri non erano in grado di…».

- Per gli italiani fu – e ancora è – tradimento. Invece per tanti giornalisti stranieri, specie anglosassoni, è stata semplicemente corsa.

«Un momento: se facciamo la maratona e partiamo in duecento, io ho il numero 1 e tu hai il numero 2, o 15 o 20, ognuno per i cavoli suoi, è giusto che sia corsa. Ma se partiamo in una competizione in cui non solo partiamo con il numero diverso ma anche con una squadra diversa, o con una maglia diversa, con qualcuno che è andato dal Murdoch della situazione, ha trovato i soldi, ti dà lo stipendio, ti fa una strategia di comportamento e pianifica: quest’anno facciamo il Giro, la Vuelta, il Tour, il mondiale e la Tirreno-Adriatico e così via, eh no! Tu fai la squadra. Fatte le debite proporzioni, persino nel calcio: cioè, pur essendo il genio che può risolvere la partita, anche a Messi qualcuno dice dobbiamo giocare così o cosà, teniamo la palla, non teniamo la palla. Però perfino il Messi – o il Pelé o il Maradona – della situazione, in qualche modo devono sottostare, sono compartecipi di un’idea di squadra. Ancora di più nel ciclismo. Nel calcio, ha fatto una stronzata ma ha fatto gol… Ti ricordi quando Sacchi si incavolò con Weah perché... ah, ha sbagliato! Però, t’ha fatto gol: e chevoi fa’? Pur essendo fuori degli schemi, ma fa gol… Vabbè. Devi abbozzare: anche tu, Sacchi. Sacchi però pretendeva, anche da Weah, un comportamento consono alla squadra. Figuriamoci nel ciclismo! Dove poi c’erano appunto degli impegni… Ora, che poi Visentini andasse al Tour de France o se ne andasse in vacanza era quasi indifferente. In ogni caso la Carrera sarebbe andata al Tour con l’obiettivo di avere Roche come capitano. Non c’è dubbio. Quindi io lo considero tradimento. Non per l’italianità, ma per il gioco di squadra. E perché la squadra era stata allestita in quella maniera».

- Dei giorni successivi che cosa ricordi? Che atmosfera c’era?

«Ah, da separati in casa».

- Per voi era una signora storia.

«Be’, certo. Era “quello là”, no? Sempre “quello là”. “Quello là”. Già dall’epoca di Coppi e Bartali, eh, era “quello là”». 

- Anche per Saronni e Moser l’altro era sempre “quello là”.

«Sempre “quello là”. Bugno e Chiappucci: uguale, eh. La storia non è cambiata».

- Invece del mestiere dell’epoca che cosa mi racconti? Quello sì è cambiato.

«Bello. Bello. Bello».

- Quand’è che facendolo hai smesso di “divertirti”, se mai hai smesso?

«No, di divertirmi no. Poi, dopo la Rai, sono andato a Roma Channel, addirittura. L’esperienza più diversa. No, non ho mai smesso di divertirmi. E continuo a divertirmi adesso, quando magari partecipo a qualche tv privata, incontri, dibattiti, anche trasmissioni. Faccio l’opinionista, queste cose qua. Però mi rendo conto che oggi è irripetibile. Cioè quel tipo di divertimento, per com’è [oggi] la professione, è irripetibile».

- Anche per la (non) complicità con gli atleti e fra addetti ai lavori.

«Sì, sì, sì, con gli stessi corridori, i calciatori».

- Tu sei entrato in Rai quando?

«Nel ’68. Con il famoso concorso. E quest’anno facciamo i cinquant’anni. A ottobre ci sarà la festa. Sono stato tre-quattro giorni fa a viale Mazzini e abbiamo concordato che si farà nella Sala degli Arazzi di viale Mazzini, dove fra l’altro facemmo una parte del concorso finale. Eravamo partiti in 1200 in tutt’Italia».

- Per quanti posti?

«Non c’era un numero di posti. Alla fine siamo entrati in diciassette, più poi sono subentrati… In diciassette fummo promossi direttamente, dieci-quindici furono giudicati “idonei”, quindi non assunti immediatamente, ma progressivamente. Credo che poi in un paio di anni furono assunti anche gli idonei». 

- Tu subito nei diciassette, e non avevi raccomandazioni?

«No. E si potevafare, a quell’epoca. Non lo so se oggi si potrebbe fare. Non te lo so dire». [ridacchia]

- E in Rai sei rimasto fino al?

«Fino al ’98-99. Ho fatto trent’anni».

- Poi che successe?

«Poi avevo raggiunto l’età per il minimo della pensione. Sono andato in pensione abbastanza presto».

- Quindi volontariamente?

«Sì, sì. Avevo parlato con Franco Sensi, che mi aveva detto: se faccio la televisione, vieni a fare il canale? E dico: maddai… E invece fu di parola. E appena seppe che io… Venne, e nel 2000 è incominciato il canale tematico. Nell’estate del 2000, che poi fu anche l’anno dello scudetto, quindi fu un bel debutto, un bell’esordio».

- Fino a quando sei stato a Roma Channel?

«Fino al 2008. Otto anni. Avevo firmato un contratto di quattro anni più altri quattro. Nel secondo quadriennio morì Sensi e quindi il rapporto finì. Inizialmente eravamo Stream, poi eravamo anche su Sky».

- Sì, perché Sky nacque nel 2003 dalla fusione fra Stream e Telepiù.

«Telepiù all’epoca faceva Inter Channel. Inter Channel e Roma Channel nacquero gemelli, erano prodotti qui da RaiTrade, che sta qui davanti».

- E la tua scelta di venire ad abitare qua, in via Teulada?

«Perché ero in Rai». 

- Per comodità: ti bastava attraversare la strada.

«Eccerto. Son venuto qui nel 1980. Tornando da un Giro d’Italia, dovevo andare in redazione, ero andato giù in macchina con mia moglie: senza che parcheggiamo, mi fermo un momento qui e salgo. Quando son sceso m’ha detto: guarda un po’, qui c’è un cartello “vendesi”. Andiamo a vede’ com’è…». [sorride]

- E la casa l’hai presa subito?

«Subito. Eh beh, era un bell’abbattimento di tempi morti». 

- Ci credo, in una città come Roma permetterti il lusso di andare a lavorare a piedi… 

«…attraversando la strada! Certo, certo. Infatti, per molto tempo ho fatto il telegiornale, il Tg2, si cominciava alle 13 e durava fino alle 13,30. Alle 13,30 mia moglie mi vedeva [in tv]: “Buongiorno…”. E buttava la pasta». [ride]

- Nello sport quali erano i tuoi grandi amori? C’è una scala di affetti?

«Beh… Eurogol».

- È quello che ti ha dato più popolarità, o no?

«Mah, non lo so. La popolarità è venuta forse più dal ciclismo. Più che per la popolarità, mi piace Eurogol perché è stato una svolta. Oggi, lo dico soprattutto a te che sei di Sky, il calcio estero è un’ovvietà per voi, no?». 

- Io ci sono cresciuto con i “tuoi” Eurogol.

«Però tu ti rendi conto che fino al 1977-78, quando noi abbiamo cominciato – credo che la prima trasmissione sia stata il 15 settembre, o qualcosa del genere –, [di calcio estero] non c’era neanche una fotografia?». 

- Solo il Guerin Sportivo se ne occupava, con Stefano Germano.

«Sì, ma io dico in televisione». 

- L’unico contatto con il calcio estero era quello.

«Sì, era Germano del Guerin Sportivo. E infatti nacque proprio così, Eurogol. Io ero a una cena a casa di Enzo Petrucci, che era il caporedattore allo sport de Il Messaggero e fratello di Sandro Petrucci, che era con me alla Rai. E lui invitava sempre giornalisti, spesso veniva Gualtiero Zanetti, una volta c’era Italo Cucci, che era il direttore del Guerin Sportivo, e altri che non ricordo. E parlando, così, “pensa un po’: noi ogni giorno, e soprattutto il giovedì, abbiamo le immagini di tutta l’Europa di quello che si è giocato il giorno prima, e non le mandiamo in onda…”. 

“Ma comeee? Maddai, ma datte da fa’… Perché non…?”. Quello era l’anno della novità del Tg2. Nel ’76 c’era stata la riforma Rai: separazione del Tg fra Tg1 e Tg2. Maurizio Barendson era diventato il caporedattore del Tg2, che aveva tutto quanto lo sport, e lui era uno di grandi innovazioni, gli piaceva tanto far le cose nuove, diverse, e poi era uno… super! Maurizio Barendson stava…un secolo avanti a tutti quanti. Gli dissi: “Mauri’,guarda, ieri parlando con amici colleghi ho detto: ‘Ma se tutte queste immagini noi le abbiamo, perché non le usiamo?’” “’spetta, ché vado dal direttore”. Non m’ha fatto neanche…».

- …finire.

«È andato dal direttore: “Allora: parti!”».

- E l’ha messo in mano a te, il progetto?

«Sì. Io coinvolsi Gianfranco De Laurentiis perché avevamo lavorato tante volte insieme, avevamo visto che c’era affinità. Perché non era facile farlo, eh: tutto in diretta, a braccio, senza testi scritti e avendo visto soltanto, alle tre, quando passavano, le immagini. E non avevi il tabellino. Ecco perché Germano ti era utile, perché l’Ansa o, non so, le altre agenzie non soltanto non ti davano il tabellino ma alcune volte neanche il nome dei marcatori. Il lancio diceva soltanto: Magdeburgo-Valencia 3 a 1».

- E non avevate le formazioni, né il nome sulle maglie dei giocatori. Ha segnato il nove: ma il nove chi è?

«Eh, chi è il nove? Allora nel pomeriggio, quando c’erano dei dubbi, o meglio, dei vuoti, spesso noi facevamo la telefonata a Germano, al Guerin Sportivo, che aveva il premio Bravo per gli Under 24. E quindi lui ci diceva: guarda, il nove è… “Philip Roth”». 

- Se però c’era un cambio, magari all’ultimo momento, e col nove giocava un altro? O non succedeva?

«No. Ma, sai, lui era collegato con i “Guerin Sportivi” [degli altri Paesi], capito? Poteva anche essere, che so, un settimanale, o l’Équipe, o AS. Adesso giornali spagnoli si trovano ovunque. Voi la mattina fate pure la rassegna stampa, ma allora chi li vedeva? Chi li vedeva mai? E nessuno sapeva niente. Non c’era niente. Oggi…».

- Della Serie A si vedeva un tempo la domenica sera alle 19, e in differita.

«Sì, appunto. La domenica sera ne vedevi soltanto un tempo. Però durante la settimana, i filmatini, o la Domenica Sportivati facevano vedere Sampdoria-Spal, Juventus-Bologna e così via. Io credo che siamo stati una specie di Cristoforo Colombo. Cioè è proprio cambiata l’epoca. Perché evidentemente la gente aveva piacere a sapere di quei calciatori, così come magari avrebbe avuto piacere a vedere delle immagini di Pelé prima, di Puskás, però quelle non c’erano. E finiva il discorso».

- E tutto è nato da quella cena lì…

«E tutto è nato da quella cena lì. E da quel momento i giornali, e soprattutto voi adesso. Oh, e il campionato francese e il campionato inglese e quello nordamericano…».

- …perfino quello cinese.

«Perfino quello cinese, adesso. Anche troppo, adesso. Però…».

- Si rischia, in questo pastone, di non sapere più ciò che vale la pena guardare.

«Certo, certo».

- Che cosa ti ha lasciato invece questa storia di Sappada? Che cos’hai pensato alla tappa di quest’anno, con il Giro che dopo trentun anni tornava lì come arrivo?

«Io ho seguito trenta Giri. Di cose ne ho viste, ne sono successe tante».

- Ho visto che ne scrivevi anche, per esempio su Bicisport. E avrai visto anche fior di campioni.

«Esattamente. E soprattutto, ripeto, avevamo un buon rapporto. Con alcuni ciclisti sono ancora in contatto». 

- Mi fai qualche nome?

«Mah, ne vedo ancora parecchi, che te posso di’? Bitossi è uno di quelli che vedo, ma perfino più anziani. Livio Trapè, che ha fatto l’olimpiade [oro a Roma ’60 nella cronosquadre e argento nella prova in linea, nda] e abita vicino Roma».

- C’era un rapporto che andava al di là della professione.

«Assolutamente sì. Moser! Con Moser, due-tre anni fa e per due di seguito, abbiamo fatto le vacanze insieme in Calabria. Il collegamento è rimasto proprio con l’ambiente. C’è un organizzatore di corse calabresi e magari, pur non facendo più la corsa, però è rimasto in contatto, ci ha invitato e siamo andati. Siamo stati una settimana lì, la sera si andava a fare una chiacchierata, ricordando episodi e fatti. E lui, Moser, non io, la mattina andava in bicicletta con i cicloamatori del posto, capito? La mattina Moser andava due o tre ore in bicicletta con questi, poi veniva al mare con noi, poi la sera andavamo di qua e di là a mangiare e dopo la cena si faceva… [una bella chiacchierata]. Eh, queste cose io non credo che saranno possibili per la tua generazione. Non credo. Gianni Motta pure viene a fare delle cose».

- Era un’altra Italia, anche come rapporti, vero?

«Certo. Una persona alla quale sono rimasto affezionato in maniera particolare era Alfredo Martini. Alfredo era una persona…».

- Tu andavi anche ai Mondiali, no? Seguivi la nazionale.

«Come no, come no! E poi Alfredo era stato anche direttore sportivo, alla Sammontana. Il Giro che ha vinto con Gösta Petterson, quello pure meriterebbe [di essere raccontato], perché l’ha vinto più Martini che Petterson. Di suo, Petterson ci ha messo il fisico, che era strepitoso. Però come intelligenza ciclistica, zero». 

- Mi racconti il “Giro del Guttalax”: una cosa che forse solo in quell’Italia poteva succedere.

«Sì, nell’83, con arrivo a Udine». 

- La cronometro finale partiva da Gorizia. Qual era il diabolico piano di Arrigoni, il patron della Fir?

«Di far andare in crisi Saronni e far vincere un altro».

- Visentini? Voi come l’avete raccontata quella vicenda? Te lo ricordi?

«No, perché non abbiamo fatto in tempo. Il Giro è finito la domenica a Udine e… “Saronni non sta bene”. Era tutto smunto. Il tutto è venuto fuori dopo, quindi grazie a dio eravamo fuori». 

- Arrigoni neanche è stato denunciato, hanno lasciato perdere.

«No, perché era un caso di “ambiente”. Anche perché poi, in un modo o nell’altro, con le unghie e coi denti, Saronni è riuscito lo stesso a vincere».

- Alla fine ’sto Guttalax nella minestra gliel’avevano messo o no?

«Eh, qualcosa sì. Non so quanto. Però lui fece quella tappa finale, che mi pare fosse la domenica in cui Zico arrivava a Udine. Io abbino Udine/Zico a Saronni/Guttalax, però capace pure che mi si siano accavallati i ricordi… Però, ecco: quello di Visentini è stato forse non il più clamoroso, ma uno degli episodi più importanti».

- E al Tour ’87 eri andato?

«No, io no. Perché con De Zan facevamo sempre un piano… A quell’epoca eravamo in due».

- E dovevate spartirvi il lavoro.

«Cominciava a marzo con il Laigueglia, prima della Tirreno-Adriatico e dal Laigueglia fino al Lombardia. E quindi io andai in vacanza… Come Visentini!». [ride forte]

- Com’era lavorare con De Zan? Ormai me lo puoi raccontare.

«Massì. Sai, all’inizio me l’avevano prospettato come un potenziale calvario. Mi avevano terrorizzato».

- Tu però hai un carattere più solare, più accomodante.

«Può darsi. No, fu più il fatto che io venivo da questo corso. E a questo corso ci avevano non solo insegnato ma proprio impartito dei comportamenti, e delle necessità: cioè noi non potevamo essere mono-sport. Perché noi facevamo sport, ma la stragrande maggioranza dei diciassette promossi ha fatto la politica: Bruno Vespa, Nuccio Fava, [Giancarlo] Santalmassi…».

- Tu come ci eri arrivato a fare il concorso?

«Io ero annunciatore alla radio». 

- La voce bella l’avevi...

«Io facevo l’annunciatore. E c’era… un annuncio, un bando. Bisognava avere: laurea…».

- Tu che studi hai fatto?

«Scienze politiche».

- Il pallino del giornalismo l’avevi già o t’è venuto dopo?

«La passione. La passione, non il pallino. La passione. Però non lo potevo fare. Era un sogno. Il mio sogno era fare il radiocronista nel ciclismo, perché io ero un grande appassionato di Coppi. Da ragazzino ero proprio fissato. Io stavo tutto il giorno…».

- Quindi da inviato al Giro eri nel Paese dei Balocchi…

«Esattamente. Il primo Giro è stato come Pinocchio nel Paese dei Balocchi».

- E dopo, una volta visto il dietro le quinte, ti si è spento qualcosa o no?

«No, non in particolare, no-no. Certo, ci sono cose negative, anche questi episodi qui. Però no, non c’è stata disillusione, no. Soprattutto per il ciclismo. Anche il calcio lo avevo seguito da tifoso, ci mancherebbe altro, non a caso sono poi andato a fare Roma Channel». 

- Quindi, riassumendo: hai visto il bando e ti sei iscritto.

«Ho partecipato. Ho cominciato a fare ’ste selezioni, son durate un anno». 

- La dizione ce l’avevi già a posto?

«Beh, sì». 

- Perché facevi l’annunciatore.

«Perché facevo l’annunciatore».

- In una radio locale? Che radio era?

«No, non c’erano le radio locali».

- Appunto mi chiedevo. E quindi dove lo facevi, già in Rai?

«Certo».

- E come c’eri entrato in Rai, prima del concorso?

«Non ero entrato in Rai. Ero a contratto. Mentre frequentavo l’università, mi davo da fare. Ho gestito un’autoscuola. Ho fatto l’insegnante d’italiano, latino e greco nel pomeriggio, qui al Convitto Nazionale, le ripetizioni, i compiti a casa. I ragazzi a quei tempi si davano da fare, ci si dava da fare. E quindi ho fatto anche l’annunciatore, ma sempre a contratto, non ero assunto».

- Allo sport invece come ci sei arrivato, con il concorso?

«Con il concorso dei telecronisti, che significava “giornalista”, ed era tutta un’altra cosa, eh. Prima praticante, poi professionista. Mai pubblicista. Con il concorso, chi era promosso, aveva l’assunzione alla Raie l’iscrizione all’albo come praticante, poi faceva diciotto mesi di praticantato presso la redazione sportiva».

- Lì ti è cambiata la vita?

«Assolutamente sì. M’ero appena sposato, pensa un po’».

- Prima del concorso?

«Sì. Era un’avventura». 

- Quanti anni avevi?

«Ventisei».

- Ci credo che fosse un’avventura. Andavi a fare quello che avevi sempre sognato.

«Eccerto. Abbiamo superato l’ammissione in 33 (dei 1200 partiti), dopo di che abbiamo cominciato un corso di sei mesi, otto ore il giorno, cinque giorni la settimana (dal lunedì al venerdì), in cui ci hanno insegnato tutto. Era un corso di formazione professionale. Un esame intermedio dopo tre mesi, in cui se ne persero altri sette-otto-nove, non so quanti, e poi il concorso finale. Però come se fosse un esame di Stato: quindi con una commissione esterna, con il presidente dell’Ordine dei giornalisti, con il presidente della Rai».

- Una cosa seria. Era ancora un’Italia in cui le cose serie si facevano.

«Sì. Ecco perché potevianche nonessere raccomandato. Alla fine siamo stati “promossi” in diciassette. Lì però ti facevano fare non solo lo sport. Lo sport era in più. Chi voleva fare lo sport doveva fare tutte le prove, in più poi abbiamo fatto altre quattro prove: due telecronache, due radiocronache. Io ho fatto una radiocronaca di ciclismo. Ecco perché ho fatto il ciclismo… [sorride]. Perché ho fatto la radiocronaca della tappa finale del Giro di Sardegna, che arrivava a Roma [la Torrenieri-Roma, ultima tappa a del Giro di Sardegna 1969, 226 km, vinse Emilio Casalini, nda]».

- Quali sono gli ex corridori ai quali sei rimasto più legato o che ancora frequenti?

«Vittorio Adorni, che ho visto dieci giorni fa, abbiamo fatto insieme una specie di Panathlon. Ecco con questi: Adorni, Gimondi, Moser; Saronni un po’ meno, è sempre rimasto un po’ più… Gianni Motta, Bitossi, Chioccioli, te ne potrei dire chissà quanti altri, [Claudio] Savini…».

- I corridori me li hai detti, quali sono le corse o le vittorie cui sei più legato? 

«No, io forse sono andato bene lì perché non ho mai fatto il tifo per nessuno. Ero talmente troppo tifoso di Coppi per cui, dopo, non esisteva niente. Non ho mai fatto il tifo. Per me, se vinceva Moser ero contento, se vinceva Saronni ero contento lo stesso».

- Così nessuno di loro ti percepiva come: ah, tu sei dell’altra barricata…

«Esatto, bravo, bravo, bravo! E c’era, questa, eh. Meno che all’epoca di Coppi. Attilio Camoriano, de l’Unità, era tifosissimo di Coppi e quindi gli altri giornalisti, o i corridori stessi – magari Bartali – quando arrivava Camoriano, “ecco, è arrivato il coppiano…”. Per dire: poi sono diventato tanto amico di Gino Bartali, il che sembra un’assurdità, no?». 

- Forse così assurdo non è…

«A parte ovviamente che Coppi non c’era più, con Bartali ho trovato un’affinità umana… incredibile. Mi dispiace solo che… Una volta feci con lui un’intervista che durò cinque-sei ore, era verso la fine e io stavo per andar via [dalla Rai]. Una parte son riuscito a montarla, poi son cambiate le cose e… Era un bel patrimonio. Era un suo racconto completo di tante cose, non soltanto il sunto delle vittorie o delle sconfitte ma dei rapporti umani, il conflitto con Coppi, il rapporto di prima, il dopo, la vicenda finale di quando morì Coppi, loro che avrebbero fatto la squadra insieme con lui direttore sportivo e Coppi capitano, chiamiamolo così, “capitano non giocatore”. E tutto a casa sua per giorni a fare questa cosa».

- E in questo Giro 2018, che è partito da Gerusalemme, che cosa hai provato? Hai avuto l’impressione che il mito Bartali l’abbiano tirato un po’ per la giacchetta, come figura, per giustificare i trenta milioni di euro incassati per partire da Gerusalemme e correre in Israele le prime tre tappe?

«Era per giustificare che andavano a Gerusalemme. Sì, dai. Che Bartali fosse un Giusto [tra le nazioni] si sapeva. Son vent’anni che lo sappiamo, mica è una scoperta di oggi, no? Sì, è stato proprio come mettere una coccarda, per dare un senso, ma non…».

- Magari lui neanche avrebbe gradito.

«Non lo so. Probabilmente no». 

- Manca ancora un tassello: i colleghi. Hai avuto dei modelli? Rapporti belli o brutti, dimmi tu.

«[Maurizio] Barendson è stato un grande». 

- Il mestiere un po’ lo avete inventato voi perché in Italia non c’era un modello cui ispirarsi.

«È quello il fatto, capito? Sai, anche in questo corso, noi ci siamo un po’… Ci hanno obbligato a fare un po’ tutto, ecco perché poi il rapporto con De Zan… Io non facevo solo il ciclismo, quindi non sono mai stato “il rivale”».

- Lui ti percepiva come tale?

«All’inizio forse sì. 

- Questo perché De Zan era uno che marcava il territorio?

«So di alcuni precedenti, prima del ’68-69 alcuni hanno avuto qualche problema. Notevole. Io invece non sono stato percepito così, ho fatto subito capire che non ero “il rivale” per quello sport. Perché noi, ci piacesse o no, dovevamo fare tutto quanto. Io contemporaneamente facevo il calcio, cioè il Giro d’Italia e il campionato del mondo. Nel ’70 ho fatto il telecronista al mondiale di sci in Val Gardena. Io ho fatto telecronache di ventitré sport. Ventitré!».

- Te li ricordi tutti?

«Non ho mai fatto tennis, pensa. Non ho mai fatto automobilismo. Non ho mai fatto ippica. Ho fatto le moto, per Eurosport quando Eurosport era ancora alla Rai. Ho fatto il mondiale per una stagione».

- Era una tua scelta o ti vedevano come quello più eclettico?

«Eh no, bisognava essere eclettici. Il corso del ’68 aveva proprio questo come obiettivo: non eri specialista e basta. Perché loro invece, fino a quell’epoca, avevano De Zan che faceva il ciclismo, Nicolò Carosio il calcio, Mario Poltronieri l’automobilismo – no, anzi: prima c’era Piero Casucci, Poltronieri è venuto dopo –, Alberto Giubilo che faceva l’ippica e giusto Paolo Rosi che faceva il pugilato e l’atletica, e il rugby, di cui però in Italia si parlava talmente poco… E lui faceva una gara del Cinque Nazioni l’anno, quasi sempre era Inghilterra-Francia; si prendeva in Eurovisione quella, e finiva lì il discorso. La pallacanestro la faceva Aldo Giordani, il padre della sciatrice [Claudia]. Però poi, per dire, Giubilo poteva fare solo i cavalli, non poteva fare il calcio. Carosio poteva fare solo il calcio, non faceva il Giro d’Italia. Tutti questi che ti ho citato (Giubilo, Casucci, Giordani, Carosio) erano tutti non assunti Rai, non solo con una singola specialità ma non assunti. Erano collaboratori. Quindi la Rai, a quell’epoca, aveva pensato che, aumentando a dismisura il numero di ore trasmesse, perché dopo l’olimpiade del ’60 c’era stata la diffusione dei tanti sport, non aveva un suo “patrimonio”. Per quello fece il concorso: per formare una base. E quindi, tornando al “problema” con De Zan, io con lui ho sempre avuto un buon rapporto. Anzi, ti dirò che man mano che passava il tempo, si consolidava perché lui non aveva più paura che… Oh, ma questo mi viene a fa’ le scarpe… Per niente! E quindi ecco che c’era una bella sinergia, no? Tu fai il Giro, io il Tour no, io vado in vacanza come Visentini. Tu fai il Tour. Poi il mondiale lo si fa insieme. Il Giro lo si fa insieme. E le corse, che ne so, la Tirreno-Adriatico la faccio io. Il Giro dell’Umbria lo faccio io. Poi magari ci rivediamo al Lombardia. Poi dipendeva anche dalla struttura, perché noi facevamo delle trasmissioni con l’elicottero, quindi le due voci stavano bene con la diretta. In quelle che andavano fatte con una telecamera e una voce, andava solo uno o l’altro. Anche lì, la tecnologia è profondamente cambiata. Quando ti dicevo di Eurogol: quelle erano ancora immagini filmate, eh. Andavano a telecinema col filmato. Bisognava dividere questa enorme ruota, la “pizza”, e quindi prenderne la parte riservata allo sport; dallo sport quella del calcio, dal calcio quella delle partite: quale mettiamo? Mettiamo il Magdeburgo, il Benfica, il Real Madrid. E allora le staccavi, le portavi in moviola, in moviola poi le riducevi, perché magari avevi due minuti a partita e invece te ne servivano quaranta secondi; che mettiamo? I gol. E ci voleva tempo, per fare tutto questo».

- Un lavoro da certosini.

«Certo. Le partite stesse della domenica: voi siete fortunati perché l’Olimpico è qui, a ottocento metri a piedi, quindi con la macchina ci vuole quasi niente. Allora tornavi con le bobine che gli operatori avevano girato, uno dall’alto e gli altri due dietro le porte, e dovevi andare a rivedertele tutte, perché quelle non avevano il tempo. Voi oggi ci mettete niente: azzeri col calcio d’inizio, adesso poi [il timecode] c’è anche scritto».

- Oggi le immagini te le premonti da pc, in-e-out.

«Eh, in-e-out da che? Era pellicola: in e out da che, lo mettevi?! Pel-li-co-la. Pellicola che, una volta che eri arrivato qui, anche se stavi a soli ottocento metri, andava sviluppata. La pellicola andava allo Sviluppo e Stampa. Sviluppata, stampata. Te la riportavano dopo un’oretta. Era come quando andavi in vacanza, da ragazzino, e le foto te le davano il giorno dopo. In ventiquattr’ore era già… Ventiquattr’ore! Questi ce le davano dopo un’ora! È un’altra epoca, caro amico. È un’altra epoca».

- Però è stato bello…

«È stato bello. Sul serio».

- Hai avuto anche la fortuna di vedere dei gran corridori.

«Dei gran corridori, dei grandi atleti. Rapporti personali. Per dire, con Pelé e con Maradona ho avuto dei rapporti personali… impensabili. Pelé mepagava per andare a fare le trasmissioni con la sua televisione al mondiale in Argentina nel ’78. Lui lavorava con una televisione venezuelana e al centro stampa gli serviva uno che parlasse un po’ di spagnolo. Due o tre volte la settimana lui faceva queste trasmissioni, le registrava e loro le mandavano in Venezuela dal centro stampa. Io una volta gli portai Gigi Riva, lui poi faceva venire anche altri, non so, un inglese, un francese e faceva ’sta cosa». 

- Non ti fa male vedere il ciclismo italiano ridotto così, senza più squadre World Tour? 

«Sì. Ecco perché ti ho parlato bene di Boifava, e nel momento in cui ha sbagliato, quindi pensa un po’. Io ho grande ammirazione per questi signori che hanno tenuto su il ciclismo quando veramente…».

- Se ripenso alle piccole e grandi corse che avevamo…

«Beh, ma questo si capiva. Era una delle frasi più ricorrenti che dicevamo: quando non ci sarà più Franco Mealli, quando non ci sarà più pinco pallino…».

- I circuiti organizzati da Recalcati, te lo ricordi?

«Nino Recalcati, che persona!». 

- Un anno ne fece addirittura una settantina.

«Noi, consapevolmente, dicevamo: quando non ci saranno più queste persone, quest’attività muore. Se sei l’organizzatore del Giro di Puglia, muore il Giro di Puglia. Se sei l’organizzatore del... Uguale. Baracchi. Placci. Lo stesso Giro del Lazio: c’è, non c’è? Non se sa…».


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