Gianfranco Belleri: «Visentini, il Brad Pitt del Giro»
di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©
Gianfranco Belleri è un alpino, e quindi un tipino bello tosto. Del centinaio e passa di addetti ai lavori che ho inseguito per questo libro, con il suo antico sodale Davide Boifava (che alpino non è) forse il più tosto. Di sicuro, il più smaliziato. Il nostro non voleva parlare se non alla presenza del suo storico diesse alla Carrera; al massimo, avrebbe acconsentito a rispondere per e-mail a domande purché «non su Sappada o su Pantani».
Sarà un caso – e, fidatevi, non lo è – ma dopo che Boifava sono riuscito a intervistarlo, come per incanto anche Belleri accetta d’incontrarmi; e addirittura m’invita a casa, è cordialissimo e in salotto, sorseggiando un caffè, parliamo per ore. Di tutto. Sì, anche di Sappada e di Pantani. E del secondo quasi en passant, del tutto involontariamente: l’ultimo giorno in cui Belleri è andato sul posto per una corsa di ciclismo è stato il 5 giugno 1999, a Madonna di Campiglio. Coincidenza che spiega parecchio anche della sua iniziale reticenza.
Capozona della “O”, la Franciacorta orientale, Belleri è alpino dentro. General manager ante litteram e capo ufficio stampa in un’epoca in cui nel Paese, e figuriamoci nel ciclismo, quelle figure professionali erano ben di là da venire, si trovò a gestire situazioni divenute a un certo punto più grandi di lui: il presunto “golpe” di Sappada, con relativo codazzo di suiveur, rispetto ai cronisti di nera sulle piste del rapimento-Tacchella, nel bel mezzo della campagna di Italia 90, fu un passeggiata di salute. In entrambe le burrasche mediatiche Belleri seppe tener dritta la barra, e condurre in porto la duplice corazzata: la Carrera squadra e azienda. Mica facile. Un autentico giemme coi baffi. Alla lettera.
Ome (Brescia), lunedì 17 dicembre 2018
- Gianfranco Belleri, comincerei dal ciclismo, ma so che non è stato il suo grande amore sportivo. Qual è stato il primo, quello “vero”?
«Il primo amore il calcio, poi il basket – difatti col basket sono entrato in Carrera – e, da lì, il ciclismo».
- Quando è entrato in Carrera e come? Lei, classe 1948, che percorso professionale ha avuto?
«Io ho fatto una tesi in pubblicità nel lontano ’74, quindi [in Italia] agli albori della pubblicità. Sono entrato in Carrera nell’82 come responsabile della comunicazione. E della pubblicità, perché avevo lavorato in un’agenzia di pubblicità, sia a Milano sia a Brescia. Poi sono rimasto lì fino al ’95».
- Sempre con gli stessi compiti, scalando la gerarchia?
«Sì, piano piano, scalando la gerarchia. Sono entrato in un’azienda che fatturava sui 40 miliardi [di lire] e son venuto via che era vicina ai 280, ecco: roba del genere. Quindi la parabola...».
- …è stata ascendente, direi. In quella congiuntura economica il vostro abbinamento con lo sport, la sponsorizzazione di squadre sportive come e quanto ha inciso?
«Ha inciso tanto. Siamo andati fuori Italia. Noi siamo entrati nel ciclismo perché avevamo bisogno di uscire dalla “nostra” Italia».
- Questo perché il basket non vi dava quel tipo di visibilità internazionale?
«No, perché nel basket la squadra si chiama Reyer Venezia, come Milano si chiama Olimpia Milano e non Armani e nel calcio si chiama Milan e non Emirates».
- Voi invece volevate qualcosa che si chiamasse solo “Carrera”, giusto?
«Solo “Carrera”. E quindi avevamo bisogno che il marchio fosse pronunciato, o scritto, dai giornalisti, ecco».
- Il ciclismo è stato scelto soprattutto per questo?
«No, per altri motivi ma questo è stato il chiavistello per farci entrare nel ciclismo».
- Quali erano gli altri motivi? E perché quel particolare momento storico?
«Perché ci permetteva di andare in tutta l’Europa, e con dei costi abbastanza limitati, “logicamente” limitati: erano sempre miliardi [di lire] però se lei va a fare una campagna pubblicitaria solo in Francia o solo in Belgio, immagini quanti miliardi occorrevano. Invece lì, col ciclismo, il nostro marchio riusciva a entrare nei mercati fuori dell’Italia».
- Glielo chiedo anche perché quello era un ciclismo molto eurocentrico e molto italiano.
«E francese».
- E belga, perché anche là, come in Francia e Olanda, c’è da sempre tanta tradizione. All’epoca però i marchi italiani abbinati a squadre di ciclismo erano soprattutto mobilifici, aziende alimentari eccetera, certo non brand di jeans o più in generale di abbigliamento.
«Io mi ricordo la Del Tongo, la Supermercati Brianzoli con Gianni Bugno, la Sanson che era lì a cinquanta metri dalla Carrera, la GiS di Pietro Scibilia: marchi tipicamente italiani».
- E con mercati italiani.
«Mentre noi avevamo bisogno di “uscire” dall’Italia».
- Da qui l’esigenza dei patron Tacchella di avere in squadra uno o due corridori per nazione dei mercati di vostro interesse?
«Certo. Quando siam partiti, nell’84, la squadra era tipicamente italiana. Era tuttaitaliana. E poi piano piano abbiamo voluto costruire una squadra “mitteleuropea”, ecco. E quindi ogni anno l’input a Davide [Boifava] era: acquista uno o due corridori – un francese, un tedesco, uno svizzero… E si dava un po’ l’input a seconda del mercato che bisognava andare a prendere».
- La presenza di un forte nucleo di corridori svizzeri, oltre a quello dei bresciani, era invece figlio della chiusura, nel 1986, della squadra svizzera Cilo-Aufina, vero?
«Questo particolare non me lo ricordo. C’erano molti svizzeri, ma il “problema” era il mercato svizzero».
- Perché per voi era di particolare interesse?
«Perché gli italiani che erano all’estero e conoscevano o “sentivano” il marchio Carrera, non riuscivano ad acquistare i nostri prodotti. E quindi avevamo degli importatori. Abbiam creato tutta la rete commerciale europea e allora, per l’importatore tedesco, squadra con un tedesco; per l’importatore svizzero, squadra con gli svizzeri; per il francese i corridori francesi. Ecco».
- È vero che all’inizio il rappresentante per la Francia vi diceva: “Investite qua, fate pubblicità qui…”. E poi, dopo che Roche ha vinto il Tour ’87, vi ha detto: “Basta, qui va bene così, non serve più che facciate pubblicità”? È vero, o perlomeno abbastanza verosimile?
«È abbastanza vero, perché aveva raggiunto l’apice». [ride, nda]
- Anche di popolarità.
«Eh sì, eh».
- Lei si occupava anche di ciclo-mercato o solo della parte aziendale?
«No, no: quello toccava a Davide [Boifava]. A ognuno i propri compiti. Io avevo il budget e lo gestivo con Davide. Dopo, certo, logicamente, certe dritte o certi aiuti li potevo dare, ma la gestione dei corridori e la conduzione tecnica della squadra erano solo sue. Lui mi diceva: c’è il corridore Stephen Roche, pagagli… Fagli il contratto, guarda la cifra, firma, saluti e fai tu».
- Anche la parte finanziaria era in mano a Boifava?
«La parte finanziaria era gestita da lui. Però quando c’erano i contratti, tipo quello di Stefano, bisognava leggerli, stra-leggerli e rileggerli e poi leggerli ancora una volta, allora…».
- I contratti dei vostri corridori erano redatti in italiano e in inglese?
«Sì, quello di Stefano era bilingue».
- E gli altri? Penso, non so, agli svizzeri: anche per loro erano in due lingue?
«Per gli svizzeri no, erano in italiano. A parte quello di Zimmermann, erano tutti in italiano».
- In quel ciclismo la Carrera ha segnato un’altra svolta. È stata tra le prime a legare al marchio, oltre che un grande nome, un volto: quello di Visentini, un campione bello, elegante, di famiglia benestante. Un’immagine, la sua, contrapposta a quella – stereotipata – del classico corridore e che si legava a un brand “giovane”, a un prodotto diverso: i jeans.
«Difatti con Roberto, quando ha vinto il Giro d’Italia, nell’86, i Tacchella han creato una [nuova] linea donna. Perché una linea donna in Carrera c’era già…»
- Non era la Vagabond, vostro secondo sponsor dall’aprile ’86 al ’92?
«No, la Vagabond era un’azienda a parte, sempre di proprietà dei Tacchella. E quindi è stata creata una linea donna, o meglio: è stata rinforzata, diciamo così, con Roberto, che era il Brad Pitt del Giro d’Italia».
- Poi questo legame d’identificazione è proseguito con Claudio Chiappucci, col primo Pantani. E si rafforzava anno dopo anno, personaggio dopo personaggio…
«Tutti gli anni si operava meglio nel mondo, e nel mondo del ciclismo. E quindi è stata creata una squadra. Uno squadrone, perché nell’86-87 si è vinto… Non so cosa nonsi è vinto, nell’86-87…».
- Avete vinto quasi tutto: la doppietta Giro-Tour con Roche nell’87, il Giro ’86 con Visentini, la Sanremo ’87 con Mächler, il campionato italiano ’87 con Leali…
«Dopo anche Chiappucci ha portato il suo, quindi son stati anni d’oro. Veramente».
- Alla lettera. E questo come si ripercuoteva sulle vendite? Grazie ai successi della squadra quanto è cresciuto il vostro fatturato?
«Dopo, logicamente, c’erano anche altri veicoli di comunicazione. Per esempio, in Italia avevamo tutti gli spot: Canale Cinque, Italia Uno e Retequattro, poi Raie compagnia bella. Eravamo sponsor del Festivalbar. E quindi…».
- E si occupava lei anche di quelle campagne?
«Sì. Poi nell’89-90 eravamo co-sponsor dei Mondiali di calcio. Perché abbiam preso la licenza del marchio, con l’omino di Italia 90 su tutti i nostri prodotti. C’era anche altro, logicamente».
- Così, a spanne, il ciclismo quanto può aver inciso? Quanto ha portato, in percentuale?
«Un quaranta per cento, comodo-comodo…».
- Di che cifre parliamo? Oggi, con l’euro, è difficile fare raffronti, ma giusto per quantificare il ritorno che l’abbinamento ciclistico ha portato al marchio Carrera…
«Dopo, tutti gli anni il fatturato cambiava, però cifre notevoli, ecco. Cifre notevoli. Come dicevo, specialmente per mercati fuori-Italia».
- Voi avevate un’agenzia che curava tutto questo?
«Sì, che curava l’immagine. La prima campagna pubblicitaria, poi facevamo tutto noi. Abbiam creato all’interno della Carrera un’agenzia di pubblicità in cui ero socio con i Tacchella».
- La Publidit? Il nome, l’acronimo, sta per?
«Pubblicità Domenico Imerio e Tito». [ride, nda]
- Tre dei quattro fratelli Tacchella. Il quarto, Eliseo, è un frate comboniano…
«Il quarto è il frate, un comboniano, che è fuori dell’azienda».
- Domenico Imerio e Tito: in ordine di età?
«No, per metterli… Per pronuncia».
- Suona bene, e in ordine alfabetico.
«Ecco».
- E lei era socio con loro?
«Ero socio con loro».
- In che percentuale? Piccola? Giusto per capire…
«Poca. La proprietà era loro. Essendo socio con loro e professionista pubblicitario…».
- Quando l’avete aperta?
«L’abbiamo aperta nell’84-85».
- Cioè subito prima dei grandi successi.
«Sì. Poi, lasciata la Carrera, l’agenzia l’ho rilevata io e l’ho portata a Brescia».
- Lei di preciso quando ha lasciato la Carrera?
«Il 31 dicembre del ’95».
- E si è messo a fare quello, di mestiere? Cioè lo stesso mestiere però in proprio.
«Sì, in proprio. Mi son messo in proprio».
- Fino a?
«Fino a tre anni fa [2015, nda], ma sto ancora andando avanti». [ride, nda]
- Ah sì, eh? È dura mollare…
«È dura mollarlo…».
- Si ricorda che dopo quell’annata d’oro dell’87… [non mi fa finire la domanda, nda]
«Be’, prima c’è stata la Inoxpran con [Angelo] Prandelli e con [Giovanni] Battaglin».
- Lei c’era già?
«Sì, certo. Io sono entrato in Carrera, e Battaglin ha finito con me. Io mi ricordo la conferenza stampa di addio di Giovanni, a Padova. Per me, era allora. Quand’è che Moser ha vinto il Giro d’Italia?».
- Nel 1984.
«Allora ha finito nell’84, Battaglin».
- Quell’anno lì, al Giro, era stato lui a riportare in gruppo Visentini, che dopo lo scontro con dei “tifosi” voleva ritirarsi. Si ricorda cosa successe in quella tappa di Selva di Val Gardena?
«Oh! L’ha rimesso in bicicletta». [scoppia a ridere, nda]
- Roberto mi ha raccontato che questi qua gli urlavano di tutto e a un certo punto gli hanno sputato addosso e lui è sbottato: ha buttato giù la bici…
«Contro il muro, a sinistra».
- …e li ha inseguiti, e uno di questi, cui Visentini aveva rifilato un calcione nelle parti basse, poi l’ha pure denunciato. Una storia…
«Ah, questo non lo sapevo».
- Per chiudere il discorso economico, le chiedo di un episodio. Ricorda la corsa “open” post-Giro organizzata da Patrick Valcke? All’epoca Bicisport, che le ho portato, pubblicò le foto di Roche in gara con la maglia iridata, sponsorizzata sulle maniche ma senza il nome Carrera, e quelle di lui in maglia Carrera ma senza gli sponsor sulle maniche. Mi sa spiegare perché?
«La nostra maglia ufficiale… Questo particolare non me lo ricordo».
- La bici era marchiata Peugeot ma voi correvate con bici Battaglin.
«No. No! Noi siamo partiti con [bici] Battaglin ma Stefanoaveva nel contratto la bicicletta Peugeot».
- Ah, ecco perché. E il resto della squadra?
«No, no. Allora, lì abbiam fatto [per] tutta la squadra, ma quando Stefanoè venuto da noi, ha detto: io ho un contratto di sponsorizzazione con la Peugeot. E quindi se volete me… Un po’ come [Cristiano] Ronaldo oggi: se volete me, vi dovete prebdere tutto…».
- Roche per liberarsi doveva versare un indennizzo alla Peugeot. E allora fra società vi siete messi d’accordo: per due anni la Carrera avrebbe portato sui calzoncini la scritta Peugeot…
«I calzoncini, e tutte le biciclette; [la Peugeot] ci ha dato tutte le biciclette. Il che a noi faceva anche comodo perché la Peugeot è francese, e quindi era abbastanza…».
- Sempre Bicisportall’epoca scrisse: «I dirigenti italiani (Belleri) hanno detto di no e hanno aggiunto che Roche era stato addirittura diffidato dall’indossare la maglia cambiata». Volevo sapere com’era andata a finire: ci fu una controversia legale?
«No, ma penso a pane e acqua. Nel contratto di Stefanoc’era la [bici] Peugeot. Se lei guarda tutte le fotografie di Stefano…».
- Com’era il rapporto fra lei e Davide Boifava? Vi siete trovati subito in sintonia?
«Ottimo. Abbiamo anche fatto una società di negozio insieme, quindi…».
- Negozi di bici Carrera-Podium?
«No, di abbigliamento Carrera. E poi parlavamo lo stesso linguaggio, nel senso che, da bresciani, parlavamo lo stesso dialetto. Ci si capiva anche di là delle corse…».
- Mi raccontava Tito Tacchella, patron della Carrera, che i suoi corridori potevano andare nel suo negozio di Verona a scegliersi gli abiti di rappresentanza, formali e informali, e ciascuno secondo il proprio stile, purché fossero marchiati Carrera.
«Noi davamo loro, a parte la divisa ufficiale, che logicamente non era giacca e cravatta, ma un giubbino di jeans e la cravatta o la maglia, quelle robe lì, e loro dovevano per forza mettere i jeans Carrera. E se avevan bisogno di qualche cosa, bastava una telefonata: “Belleri, ho bisogno di…”. Allora: sei a Parigi, vai da… poi mi arrangio io a pagarlo”. C’era una convenzione con diversi punti... Idem per i giornalisti, eh». [ride]
- Ah sì? A prezzi agevolati o… niente prezzi?
«La domanda dopo?». [ride, è il caso di dirlo, sotto i baffi, nda]
- Insomma ’sti giornalisti non si smentiscono mai.
«Domanda dopo? No-no-no…».
- Dell’abbinamento Carrera col basket che cosa mi racconta?
«Allora, io sono arrivato in Carrera che avevano perso la Coppa. Mi ricordo che Tito…».
- Tito era appassionatissimo di basket, vero?
«Era tifosissimo di basket. Avevan perso una specie di “Coppa dei Campioni” di basket. E l’avevan persa a Barcellona per un punto. [1] Poi lui voleva una squadra che “doveva” vincere, perché in quel periodo c’era la Stefanel, c’era la Benetton…».
- Certo, i concorrenti...
«I concorrenti. E [lì] attaccati».
- Trieste e Treviso: avevo sottovalutato quest’aspetto…
«Eh sì, i [tri]veneti…».
- E allora che cosa convinse Tito a lasciare il basket? Il discorso che facevamo prima, per via del nome proprio delle squadre?
«Il discorso che facevamo prima, e anche a livello economico».
- Benetton ha un po’ cambiato il mercato…
«Eh sì, Benetton ha cambiato il mercato. Il discorso nostro è che noi allora non avevamo il negozio. Noi vendevamo col canale lungo. Il canale lungo sa qual è? Il produttore, la Carrera, vende al grossista, il grossista vende al negozio, che vende all’ambulante. E quindi il nostro era un “triangolo” lungo. Mentre col negozio è diretto. E quindi [i Tacchella] avevan bisogno anche di coinvolgere i grossisti».
- E voi quando avete compiuto quel famoso passaggio di cui Tito mi ha parlato? E cioè che lui comprava quegli enormi quantitativi di stoffe che poi non sapevate più dove mettere…
«Il velluto, quello. È stato all’inizio. È “nata” lì la Carrera. È nata nel ’74, quando loro hanno acquistato rotoloni di velluto e di jeans. E da lì son partiti. Avevano in casa il velluto quando è scoppiato il boom del velluto. Lei forse è giovane ma noi del ’68 avevamo tutte le…».
- …giacche a costine?
«A costine. E quindi lì è “esplosa” la Carrera. E loro avevano i prodotti in casa. Avevano il tessuto in casa».
- È stata quella la svolta rispetto alla concorrenza?
«È stata la svolta che ha fatto partire [il boom]. Certo. E da lì son partiti. Dopo è entrato il jeans, è entrato il product manager, è entrato tutto. Però all’inizio, quando eran loro tre, con una cinquantina di ragazze, la loro fortuna è stata quella».
- Prima facevano vestiti per le bambole, vero?
«Certo. Facevan vestiti per le bambole. Poi, non so perché, non ho mai… Certi particolari non li ho… Però avevano acquistato questi rotoloni di velluti, e quando è scoppiato il [boom del] velluto li avevano in casa, quindi era solo da mettere [in commercio]…».
- Il nome Carrera è nato perché i Tacchella si erano innamorati della Carrera Panamera, l’auto sportiva: me lo conferma?
«Sì, della Carrera Panamera. Difatti i nostri viaggi incentiveli abbiam fatti quasi sempre giù di là, perché… Carrera-Carrera-Carrera... Ecco».
- La festa per il trentennale della tripletta di Roche. Mi racconta che atmosfera c’era, che effetto le ha fatto rivedervi dopo tanti anni?
«Be’, noi ci siamo visti [anche prima]. C’è stata la Fiera della bici, tre o quattro anni fa, a Verona. E già lì Davide aveva organizzato una rimpatriata».
- Ah, sì?
«Sì. Perché lui aveva uno stand espositivo lì in Fiera e aveva organizzato una rimpatriata. E quindi lì ci siamo trovati tutti, a pranzo e compagnia bella. Però, quella del settembre dell’anno scorso [1987, nda] è stata… C’eran tutti, ecco».
- Quasi tutti. Chi è che non c’era?
«Mancava Robi…».
- Be’, lì neanche ci avrete sperato…»
«Hanno tentato…». [ride, nda]
- Qualcuno ha tentato: respinto con perdite. Per esempio Cassani…
«Mancava Robi. Mancava Ghirotto, che era a qualche corsa [con il Team Bianchi MTB di mountain bike di cui il “Ghiro” è team manager, nda]. Le firme le han fatte quel giorno lì». [Belleri sfoglia l’album-ricordo con gli autografi dei presenti, nda]
- Così possiamo ricostruire chi c’era e chi no.
«Allora, Robi è senza firma. Stefano ha la firma. Battaglin c’era. Guido [Bontempi] c’era. Leali. Cassani. Claudio [Chiappucci]…».
- Siamo arrivati a Chiappucci…
«L’anno da dilettante ha vinto il Val d’Aosta. E Boifava mi dice: vado a prendere questo corridore. Dico: vai. L’ha fatto correre in due o tre gare a ottobre…».
- Il diesse Davide Boifava ne aveva capito subito le potenzialità?
«Aveva capito le potenzialità di questo qua».
- E dire che Claudio veniva dal calcio...
«È la stessa roba di Pantani. Era la stessa roba. L’ha capita, l’ha portato lì, gli ha fatto fare due o tre corse…».
- A Davide Boifava l’ho chiesto, e me l’ha confermato: questo ruolo di talent scout gli piaceva…
«Aveva naso».
- Claudio, me l’hanno raccontato in tanti, perché non sapeva farsi amare dai compagni?
«Un carattere chiuso, eh».
- C’entrava magari il fatto di non essere generoso nella spartizione dei premi, nel gratificare la squadra, quelle cose lì?
«Ma no, perché i premi erano gestiti da noi».
- E quindi era proprio mancanza di empatia?
«Sì, carattere. Empatia, empatia…».
- Non dico che il Tour del ’90 gliel’abbiano fatto perdere i compagni, però quasi…
«Empatia, sì. Specialmente poi con i suoi “vicini di casa”, con quelli non ha mai avuto un rapporto... E probabilmente, quella volta che ha perso il Tour, con Gianni [Bugno] che va a prenderlo e compagnia bella, forse… Ci son tante cose che poi dici: ma perché questo qua è andato a prenderlo, tanto non ti cambia la vita…».
- Quello però è più spiegabile, perché Bugno era comunque un avversario. Fra loro c’era rivalità, anche se più che altro mediatica (il vero rivale di Bugno era Fondriest…).
«Certo, due squadre diverse».
- Invece che a correrti contro siano stati quelli della tua squadra… Che poi così facendo perdi i premi che avresti incassato se avesse vinto il Tour…
«No, ma i premi no, perché erano gestiti da noi».
- Intendevo dire: se Chiappucci avesse vinto il Tour. Se invece corri per farglielo perdere, o comunque per non farglielo vincere…
«Ah be’, certo. Se vincevi il Tour, sicuramente…».
- Lì magari ha sbagliato anche Sandro Quintarelli: lui stravedeva per il Diablo e faceva delle differenze. E i corridori queste cose le fiutano subito.
«Sì. Quintarelli sicuramente era “l’uomo del Diablo”. Davide era super partes».
- Sandro era un buon tattico, però io su questo tema insisto: non basta sapere di ciclismo, ci vogliono anche certi strumenti, oserei dire culturali, per svolgere certi ruoli e ricoprire certi incarichi…
«Eh, ma allora questo non c’era. Perché chiamano Davide “il Cardinale”? Eh, lo vedi perché… Era diverso dagli altri».
- Tu magari sai leggere la corsa, ma ti mancano altre cose, che alla fine sono altrettanto se non ancora più importanti…
«Il rapporto con le altre squadre…».
- Ecco, per esempio: Franco Cribiori, allora dsdell’Atala, mi ha raccontato che nella tappa di Sappada, per far rientrare il Visenta, fu lui a mettere i suoi a tirare e a cercare alleanze in gruppo, sia perché gli dispiaceva per Roberto e sia per via dei buoni rapporti con Davide. Forse anche per un possibile tornaconto futuro, per carità…
«Allora, Davide era uno che con tutti… Io ho visto di quegli scherzi in macchina, quando la corsa magari si faceva ai quaranta all’ora… Un direttore sportivo che dorme, Davide va vicino e al guidatore dice: tira giù il finestrino; e con la borraccia, giù acqua, ecco… Vedevi i gavettoni che avevi visto al militare… Non dico fosse come la vita “militare” ma erano rapporti di amicizia…».
- C’era anche un cameratismo che oggi, con la corsa filmata dalla partenza all’arrivo, la doppia e tripla attività, è del tutto irrealizzabile, no?
«Queste robe qua, non puoi più farle. Prima di tutto perché adesso vanno a cinquanta l’ora. Allora, se c’era la Brescia-Verona, andavano a trenta l’ora, poi gli ultimi quaranta [chilometri] via a tutta…».
- Allora la corsa entrava davvero nel vivo nel finale, ed entravano in azione i famosi “uomini Rai”, i corridori che, appena si accendeva la lucina rossa delle telecamere, scatenavano la bagarre, per mettersi in mostra o per dare visibilità allo sponsor…
«Ecco. E quindi i rapporti erano completamente diversi. E Claudio è stato un ottimo corridore».
- Andato ben oltre i suoi limiti, con quella forza mentale…
«Sì. Io mi ricordo, in particolare, che quando ha vinto a Sestriere, Davide, io, Claudio e altri due-tre dietro, mi dice: “Belleri, se oggi vinco cosa mi dai?”. Ed io: “Premio doppio a tutti”. Ha vinto!». [scoppia in una risata, nda]
- Ha dovuto darglieli, poi?
«Come aveva preparato quella corsa lì… Ma come aveva preparato quella corsa lì?! Se oggi vinco cosa mi dai? Ed io ho fatto la sparata: premi doppi a tutti…».
- È partito dopo 14 chilometri dal via…
«No, no… A farne di queste robe qui, ma a farne, eh… Certo, a pensarci dopo… Per farmi una battuta del genere, questo qua aveva studiato la corsa o l’aveva provata prima: sapeva tutto».
- L’aveva in testa. Ci aveva messo sopra il circoletto rosso.
«Eh. Probabilmente l’aveva in testa. Perché è l’unica volta che uno mi ha detto così. Non era mai successo».
- Certo, dopo quell’esperienza lì, mai più…
«Ma no, ma magari… Ma tanto, se vincevamo, valeva doppio… Perché il Sestriere è ancora scritto, eh».
- Con la maiuscola. Di Beppe Martinelli che cosa mi dice?
«Martinelli-Pantani. È arrivato nell’88, però faceva il terzo [diesse]. Quando Davide non andava [alle corse], andava lui».
- Boifava mi ha detto che a un certo punto lui da solo non riusciva a far tutto. Perché la macchina era diventata così complessa, così grande…
«Una macchina troppo grande, quasi due squadre avevamo, eh… C’era chi correva di qua e chi correva di là. E dopo, Davide doveva anche gestire il patrimonio umano e compagnia bella, quindi anche stare in macchina… Quindi i direttori sportivi erano due e lui era diventato general manager. Cioè, era più general manager che direttore sportivo».
- E con l’età forse gli si confaceva anche di più, come ruolo, vero?
«Eh beh, dopo, sicuramente. E comunque, a livello tattico, ho visto delle robe fatte da Davide…».
- Ecco, qua ci sono due scuole di pensiero: a livello tattico, invece, alcuni non lo ritenevano un grande stratega…
«Io a livello tattico non ho la competenza per…».
- Quintarelli, però, nella sua semplicità, era bravo a leggere le corse…
«Ma io penso che anche Davide fosse bravo a leggere le corse…».
- L’hanno criticato in tanti per la gestione di Sappada, forse anche in maniera ingenerosa…
«Dopo, criticare da fuori è “bello” ma essere dentro è un altro…».
- È un’altra cosa: le pressioni, il dover decidere in un attimo e in un’epoca senza radioline...
«È un’altra cosa, perché io non penso che in tutte le squadre fossero rose e fiori, eh…».
- Quell’anno lì è stato il più bello e il più difficile?
«Il più difficile è stato l’anno di Roche e Visentini. Il più bello è stato quando abbiam vinto anche… il “giro della parrocchia”».
- E quindi lo stesso anno: l’87. Per quello le dicevo il più bello e il più difficile.
«Sì, lo stesso anno. Il più bello e il più difficile».
- Una cosa che mi ha stupito è che fra di voi in molti vi siete persi di vista.
«È perché dopo cambiano squadra».
- È vero che era un’altra epoca ma possibile che non vi siate scambiati i recapiti, un riferimento?
«No, non c’è nulla. Il famoso WhatsApp di gruppo non c’è». [ride]
- Non arrivavo a tanto, anche se molti di voi un numero con WhatsApp ce l’hanno, ma almeno un telefono di casa, un indirizzo, qualcosa… Dopo tanti anni insieme… E invece no. Forse, non usava…
«So che Davide ha fatto una fatica tremenda a fare la reunion, questa qui…».
- Immagino. E lì era nato tutto daJǿrgen Vagn Pedersen…
«Dai Tacchella, l’ultima. Perché era la festa. Perché l’anno scorso [2017, nda] erano i cinquant’anni della Carrera. E quindi si voleva fare una festa dedicata allo sport».
- Ah, ecco. Oltre che il trentennale della tripletta di Roche, erano i cinquant’anni della Carrera, che quindi è nata nel 1967…
«Allora, Imerio è del ’44, Tito è l’uomo del ciclismo, delle pubbliche relazioni, delle banche…».
- Imerio era più l’uomo dei tessuti, quello del mestiere?
«Dei tessuti, della produzione, quello che andava in Tagikistan. L’uomo della produzione. Quello del mestiere. Due compiti completamente diversi, amministrativo-finanziario e produttivo».
- Se non altro per gli studi che Tito aveva fatto…
«Sì, Tito è ragioniere. L’altro, Imerio, ha fatto le professionali da sarto e quindi si son messi insieme loro due».
- Si completavano l’uno con l’altro.
«Dopo è arrivato il terzo, però son stati loro due quelli che…».
- Il terzo, Domenico, di che cosa si occupava?
«Seguiva la linea Vagabond. Avevamo preso anche la Tassoni, come sponsor. E della Tassoni non c’è più nessuno da intervistare…».
- Han venduto tutto?
«No, no. Sono ancora loro a mandare avanti tutto, la vecchia famiglia. Hanno una nicchia di mercato che è “tremenda”».
- Lei a chi è rimasto più legato?
«Sento Davide…».
- Vi frequentate ancora, ogni tanto?
«Sì, sì: ogni tanto. Due o tre volte l’anno. Magari quando lui viene qua o vado io là, o c’è una rimpatriata, così. Abbiam fatto dei negozi insieme, poi abbiam preso strade diverse. La vita è diversa. Io stesso che lascio la Carrera per fare la mia attività, logicamente, dopo, non hai più il tempo per andare a dedicarlo a... Cambia tutto».
- È vero che alla festa, a Caldiero, qualcuno ci è rimasto male perché è stato lasciato un po’ in disparte?
«Quel giorno lì? Non lo so».
- C’è chi dice che sia stata, più che una festa, una vetrina per i campioni – Chiappucci e Roche – e per la Carrera-Podium di Boifava…
«Quello non lo so, perché gli altri non li ho più visti».
- Con qualcuno di loro lei è rimasto in contatto?
«No, no. Non son più andato a vedere una corsa».
- Come mai?
«Perché quando si chiude, si chiude».
- Fa male, dopo?
«Fa male. Io, poi, l’unica volta che sono andato a vedere una corsa – e mi dispiace molto – è stata il giorno che… Era un sabato, mi ricordo che era un sabato: Madonna di Campiglio-Aprica, il giorno di Pantani…».
- Ah, proprio quel giorno lì? A Madonna di Campiglio, il 5 giugno ’99?
«Ecco».
- Anche lei, però… Certo che l’ha beccata “giusta”. Ci credo che fa male…
«L’ho beccata giusta. L’ho proprio scelta col lanternino. Ero lì all’Aprica e sentivo alla radio questa roba qua. Mi ricordo che si è fermata la macchina con Paolo Viberti [inviato di Tuttosport, nda], sotto, davanti a me, e gli ho detto: “Paolo, che succede? Cos’è successo?”. E mi ha raccontato un po’ cos’era successo».
- E di lì in poi non è mai più andato a una corsa?
«La guardo sempre lì [indica il televisore, nda]. Però la guardo tutta. Non ne perdo una. Però, mai più andato sul terreno…».
- Dei suoi rapporti con i Tacchella che cosa mi dice? Al di là che andavate d’accordo sennò non sareste rimasti insieme così tanti anni…
«Ottimi».
- Aneddoti, curiosità? Tutti mi han parlato di loro come bravissime persone. Un po’ come i Perfetti patron della Brooklyn: gente discreta che non ostentava la ricchezza…
«No. Non ostentava la ricchezza e poi erano… A parte che hanno avuto, come lei sa… Ci son state parecchie traversie familiari…».
- Si riferisce al rapimento di Patrizia Tacchella, la figlia di Imerio?
«Eh sì, ecco».
- Lei era in prima linea, come tramite con i media...
«Eravamo lì, ecco. Però quando alla fine, nel ’95, son venuto via e gli ho detto “vado via”, loro mi han detto: “No, stai qui a farmi per due anni…”».
- E quindi li ha aiutati a gestire la transizione. Perché lei aveva deciso di andare via?
«Perché volevo tornare a casa. Non avevo visto [crescere] le mie figlie».
- Come capita a tanti corridori, davvero…
«Non avevo visto le mie figlie. Sei sempre via perché, oltre al ciclismo – come ho detto – [c’erano] i mondiali di calcio, il Festivalbar e le riunioni e i viaggiincentive…».
- Che cosa sono i viaggi incentive?
«Coi clienti. E quindi partivo da qui e…»
- …e ogni giorno feriale, dal lunedì al venerdì, andava da Ome fino in sede a Verona? Già quello era un bel viaggetto…
«E il sabato e la domenica, magari, andavi a veder le corse…».
- Fan sette su sette…
«Eh! Eh be’, sette su sette. E quindi a un certo punto ho detto: ho trovato… ho trovato la figlia [già] quindicenne…».
- Lei ha finito lì nel ’95, a 46 anni. E le sue figlie che età avevano all’epoca?
«Quindici e dieci anni. E quindi sono entrato piano piano, in un’azienda, in una società a Brescia, dove ho portato le quote e poi al 31 dicembre…».
- Ha salutato. E lì le è cambiata la vita, in meglio?
«Eh sì. La sera dormivo a casa, ecco. Perché i clienti erano, e sono, [più] raggiungibili: Padova, Mestre, Trento. Però vai e vieni, ecco».
- E invece prima, alla Carrera, lei si occupava del mercato “europeo”: possiamo dire così?
«Sì, be’, dovevo seguire tutti questi avvenimenti. Cioè, lei s’immagina, su Italia 90, che bisognava andare a Roma tre giorni la settimana: giovedì, martedì, mercoledì, da Montezemolo. Perché essendo partner ufficiale, logicamente dovevi andar giù alle riunioni; torni su e c’era il Giro d’Italia. E poi è stato il periodo [del rapimento] di Patrizia. È stato quel periodo, quindi bisognava “saltare”, ecco…».
- Vista con gli occhi di oggi, era anche un’Italia terribile per ciò che succedeva, no? Mi racconta di quella vicenda?
«Sì, ma lì toccherebbe parlare…».
- Tito Tacchella mi ha raccontato che alla fine fu lui a capire… Perché lui era uno dei pochi ad avere già il telefono in macchina e fu lui a suggerire agli inquirenti come avrebbero potuto intercettare le chiamate dei rapitori.
«Lì è successo a fine gennaio. Mi ricordo che era il giorno dopo il compleanno del papà. [2] Imerio ha compiuto gli anni il 28 gennaio, se ben ricordo, il rapimento di Patrizia è avvenuto il giorno dopo. Mi ricordo che ero in macchina, da qui a là, e sentivo il giornale-radio il mattino».
- Mentre stava andando al lavoro?
«Stavo andando al lavoro. Diceva: “Hanno rapito…”. E non han detto il nome. E non han detto il nome! “Hanno rapito…”. Anzi, non “rapito”: “Stanno cercando una bambina…”. E tra me e me, a un certo punto, ho detto: “Madonna, non sarà la figlia di qualcuno che…”. Arrivo là, neanche riesco a scendere dall’automobile, arriva la segretaria dei Tacchella e mi dice: “Dottore, deve andare di corsa su a Stallavena perché è la figlia di Imerio”. “Porca miseria…”».
- Ho letto che il rapimento era un po’ nell’aria, e che quasi se lo aspettassero. Non però per la più piccola, bensì per la figlia più grande, la quindicenne o…
«Più gli altri... Non è che fosse nell’aria, cioè dopo magari pensi: ah, quella volta…».
- Perché poi fai uno più uno e magari vedi facce strane in giro…
«Perché fai uno più uno… E magari avrebbero preso dei provvedimenti, però… Almeno, io che ero a stretto contatto [con i Tacchella], non avevo notato che avessero subodorato qualche cosa».
- Anche perché all’epoca i rapimenti erano frequenti. Ero piccolo ma lo ricordo bene.
«I rapimenti erano spaventosamente frequenti».
- Non c’era solo la banda dei tre piemontesi…
«Dopo c’era il periodo dei calabresi, che avevano preso il figlio di quella signora. Non l’americano, ma “Madre coraggio” che si era incatenata sull’Aspromonte. [3] È andata giù, si è incatenata a un albero e poi questo lo han liberato. Lì abbiam fatto febbraio-marzo-aprile, perché [Patrizia] è venuta a casa il 17 aprile. Tre mesi tremendi, eh…».
- Con il Comandante Alfa, l’agente dei Nocsche l’ha liberata e ha anche scritto un’autobiografia, si son rivisti pochi anni fa, vero?
«Sì, sì, sì. Sì, quello dei Nocs. Ho visto le interviste. È stato un periodo…».
- In quella vicenda lei era sempre là?
«Ero là».
- E che cosa doveva fare?
«Seguire i giornalisti. Placcare tutti i giornalisti, perché erano… Non voglio prendermela coi giornalisti, ma erano lì che aspettavano che qualcuno dicesse… niente…».
- Qualcuno li prendeva non dico per sciacalli ma quasi?
«No, non sciacalli: stavan lavorando. Era il loro lavoro, poi dopo... Però ti cambia tutto, perché sei abituato a lavorare coi giornalisti dello sport, e che hanno una visione… dello sport. Quando hai a che fare con la nera, ragazzi…».
- Mi spieghi: “Cambia tutto” in che senso?
«No, brave persone, però…».
- Dei cagnacci? Perché lo era anche lei nel tenere lontani i giornalisti, vero? Me l’hanno detto tanti colleghi, eh…
«Per forza. Bisognava tenerli lontano, eh. Per forza bisognava tenerli lontano. Perché era stato chiesto il silenzio-stampa. Dopo un po’ è stato chiesto il silenzio-stampa. Dopo un po’. Però all’inizio… Mi ricordo quando abbiam fatto la conferenza stampa, quando è arrivata la prima [richiesta di riscatto] e si è capito… Un po’ prima, quando ho letto il comunicato ufficiale, ragazzi, avevo più microfoni io… [fin] nelle orecchie, a leggere questa roba qui, ecco…».
- Al confronto, quando si occupava di ciclismo, era una passeggiata…
«Era una passeggiata».
- Anche nei giorni più difficili tipo-Sappada? Per non parlare del dopo…
«Sì, sì: una passeggiata. E lì era a livello nazionale. Un fatto bruttissimo e a livello nazionale. La Raiqui, mi ricordo [Donatella] Raffai, [un nome] che a lei magari non dirà niente ma… Quella di Chi l’ha visto…».
- Me la ricordo benissimo. Queste attenzioni mediatiche non erano d’intralcio alle indagini?
«Eh no, a un certo punto ci occorrevano».
- Perché e in che modo vi hanno aiutato?
«Ci occorrevano. Perché [la vicenda] era andata nel dimenticatoio».
- E lei da papà come ne uscito?
«Da papà, sconvolto. Perché la mia seconda… Stessa età. E poi vivi con… Lo vivi».
- E Patrizia invece? Era troppo piccola per rendersi conto, o capiva?
«Secondo me, ha capito».
- E questo l’ha poi condizionata nella vita?
«Dopo non lo so perché l’ho persa [di vista]. So che lavora in un ospedale, ha tre figli. Però l’ho persa».
- Mi ha fatto specie, e uno strano effetto, il video in cui lei, venticinque anni dopo, incontrava di nuovo il suo liberatore, sempre incappucciato per non farsi riconoscere.
«Sì, sì, certo. Lì son stati tre mesi terribili. In gennaio partiva il ciclismo, perché allora si andava in ritiro a gennaio. Italia 90 partiva a maggio…».
- E lei comunque doveva portare avanti il lavoro, e con quell’angoscia lì…
«Oramai avevi già fatto tutto. Avevi già fatto tutto perché Italia 90 era due anni di lavoro. E arrivi a gennaio e dici a Montezemolo no? In casa avevamo già tutti i prodotti col marchio. Loro avevano fatto investimenti di abbigliamento, in tessuti, in tutto. Ormai il mercato era tutto pieno. Bisognava portarlo alla fine».
- Ma mi chiedo: Imerio e gli altri familiari come facevano a lavorare? Con che testa lavoravano?
«Imerio, lì, era tanto a casa. Diciamo che era tanto a casa. Difatti noi, su e giù da casa, ecco: sia io sia i miei colleghi si andava a casa [loro], perché Imerio logicamente voleva stare in casa. Il problema suo era là a casa, dalla moglie e con le altre figlie. Gestire il tutto, ecco, quindi…».
- Non dev’essere stato facile…
«No, no: sicuramente. Una cosa terribile».
- Per completare il quadro: i Tacchella si muovevano col loro elicottero.
«E col loro aereo privato».
- Ancora oggi alcuni, su tutti Angelo Zomegnan, non credono che si muovessero in elicottero…
«Eh sì».
- Era lo stesso di quella sera a Sappada, no? In quel periodo a Venezia c’era il G7 e quindi il presidente Reagan era in Italia. Allora, per motivi di sicurezza, all’elicottero dei Tacchella fu impedito di atterrare in zona e così a Sappada dovettero arrivarci in auto…
«A pochi chilometri, siamo andati a prenderli».
- E all’hotel Corona Ferrea siete arrivati sul tardi, verso le 21?
«Sì. Più o meno, sì. Se non erano le 21 poco ci mancava».
- E difatti molti giornalisti non hanno aspettato fino a quell’ora. Erano rimasti lì in pochi.
«Gli “importanti” c’erano, eh. Gli “importanti” c’erano».
- Zomegnan sostiene di essere rimasto lui solo.
«Io mi ricordo Angelo [Zomegnan], Beppe Conti di sicuro. Questi due me li ricordo».
- Che rapporto aveva con i giornalisti, diciamo così, veterani? Lei faceva delle differenze o…?
«Odio e amore… [ride, nda] Odio e amore, perché logicamente eran lì che… Però…».
- Lei, la sera di Sappada, era favorevole al silenzio-stampa?
«In quel momento lì, sì. In quel momento lì l’avevo auspicato, sì».
- Esteso anche ai meccanici e a tutto il resto della squadra?
«Tutti, tutti… Sì».
- Qualcuno però non l’ha rispettato, vero?
«Eh, capita».
- Lo stesso Roche non l’ha rispettato. Perché lui, con Zomegnan che parlava inglese, aveva un rapporto privilegiato.
«Sììì, però…».
- Di Angiolino Massolini si ricorda?
«Certo. Ha appena vinto l’Alpino dell’anno [2017]…».
- Anche lui aveva delle corsie preferenziali.
«Be’, ma dopo… Io un mese fa ho parlato con un fotografo e con un giornalista, senza fare nomi, perché quelli del Giro d’Italia son arrivati qui a Ome. E mi han detto: ti ricordi, Belleri, quella volta di Roberto che ha buttato la bicicletta contro un muro? E io dico: sì…».
- A Selva di Val Gardena?
«Selva di Val Gardena. E sì, dico, sì-sì, mi ricordo. “E andando su, il muro, sulla destra e l’ha buttata lì”. No, il muro era a sinistra. E l’ha buttata contro il muro. A sinistra». [ride, nda]
- Dei particolari in quel ricordo non tornavano…
«Ecco».
- E invece l’episodio di Roberto che ha segato la bici?
«Quello me l’ha raccontato Davide [Boifava]. Non l’ho vissuto».
- Però risaliva sempre all’84, ma dopo il Giro.
«Appena finito il Giro, poco tempo dopo. È arrivato Davide e mi ha detto: la sai l’ultima? Ecco la busta… Me l’ha raccontata lui».
- Di Reagan a Venezia per il 13° G7, dall’8 al 10 giugno 1987, quindi non si ricorda?
«No, come le dicevo prima, in Italia noi abbiam creato le nostre “tappe” del Giro d’Italia: noi tutte le sere organizzavamo degli incontri con i clienti».
- Approfittando del fatto che eravate lì in zona?
«A dei clienti porti là Visentini, porti là Roche…».
- E quindi dovevate coinvolgere i vostri corridori?
«E sì, eh. E sì, la sera in albergo. Allora, invento: si arrivava a Bologna, con l’agente di zona, a cena tutti i sette-dieci-quindici clienti, stavan lì. I corridori mangiavano là, noi mangiavamo di qua, poi due chiacchiere, quattro fotografie, due interviste e poi magari si parlava anche… In quel periodo lì con Imerio si parlava anche di vendite…».
- Poi i corridori a un certo punto salivano in camera, una volta fatta la parte di…
«Sì, avevan fatto pubbliche relazioni, ecco. E quindi noi ci spostavamo…».
- L’idea era stata sua?
«Be’, un po’ di tutti. Un po’ di tutti…». [ride, nda]
- Lei era un bel vulcano, però, eh?
«Ci spostavamo con l’elicottero, perché bisognava andare avanti, precedere la corsa. Dovevi preparare, mettere giù l’abbigliamento. Mi ricordo, a Napoli, eravamo su in tanti, arriva Davide e il Giro arriva là… E portavi giù l’abbigliamento perché dopo, logicamente, essendo maggio, devi fargli vedere quello dell’estate e quindi portavi giù l’abbigliamento… No, no: era un lavorone…».
- L’elicottero era di proprietà dei Tacchella o lo noleggiavano?
«No, no: dei Tacchella».
- Il pilota era assunto, era un loro dipendente?
«Era un mio collega, Achille Miglioranzi, che poi è andato a fare il pilota per l’aereo personale del Ferrero papà, che è morto poco tempo fa». [4]
- Ferrero me lo ricordo sponsor della Virtus Bologna ai tempi della grande Kinder…
«Tito [Tacchella] le avrà parlato del basket, di [Ario] Costa?».
- Mi sa che ancora non l’ha digerita…
«Non l’ha digerita quella di Costa, non la digerirà mai». [ride]
- Perché Tito, del basket, è sempre stato innamorato. Che cosa mi può raccontare di “quella di Costa”?
«Non lo so dire, perché è stata brutta. Perché col contratto in mano, non puoi… Contratto in mano, da depositare, lì è intervenuto [Riccardo] Sales e ha detto di no».
- Può essere stato uno dei motivi che hanno convinto Tito a lasciare il basket per il ciclismo?
«Ah, penso l’ottanta per cento. Può essere stato quello che l’ha…».
- Perché magari pensava di non avere abbastanza controllo su certe situazioni…
«Certo. Be’, c’era anche la diatriba con gli organizzatori Rcs. Lei è giovane… Le miss della Irge che…».
- Mi ricordo, altroché... E poi me l’ha raccontato anche Tito.
«Gliel’ha raccontato?».
- Sì. Ma come, io pago e tu mi metti quelle modelle vestite di rosso con la scritta “Irge”? Eh no, eh…
«Eh no, eh…».
- Mi ricordo le fasce con la scritta “Irge”. E pure lo slogan: «Irge pigiama lo mette chi si ama».
«Ah be’, con la fasciona lì davanti, e ti coprivano il logo, cioè…».
- Persino i colori, biancorossi: richiamavano i vostri.
«Certo. Lì, allora Tito è diventato presidente dell’Associazione. Lei avrà letto… Quindi anche lì, se c’era un ostacolo, cercavamo di aggirarlo e di buttarlo via».
- Lei, per i media, ha lo stesso approccio di Imerio? O è addirittura più riservato?
«No, ma allora lo portavo io alle interviste».
- Mi consiglia di provare a chiamarlo?
«Prova. Ecco, non tirargli fuori di Patrizia…».
- Lo riterrei indelicato, per fortuna tutto finì bene. Il riscatto fu pagato o no?
«No».
- Perché i GIS intervennero prima? Nel caso, è vero che sarebbe andato Tito Tacchella a pagarlo?
«Il giorno dopo si sarebbe andati a pagarlo in Piemonte… Successero di quelle cose, dopo… Subito dopo bisognava andare negli Stati Uniti. Liberata Patrizia, bisognava andare negli Stati Uniti a fare un servizio fotografico…».
- Perché?
«L’azienda doveva ripartire. Io dovevo partire e… passaporto dimenticato. Scaduto».
- In quel bailamme di vicende... E allora come avete fatto?
«Una volta si andava dai carabinieri a rinnovarlo. Vado dai carabinieri, vado là dal piantone, vado dal comandante e gli dico: “Buongiorno...”. “Dottor Belleri, come mai?” “Mi conosce?”. “Sì. Sa che qui sopra c’è una chiesetta…”. Avevan fatto lì tutta la notte a sorvegliare casa mia…».
- La spiavano per scoprire se sarebbe andato a pagare il riscatto? O perché la sospettavano, magari come basista?
«Di tutto. Non come basista, probabilmente come interlocutore. Del telefono sotto controllo, lo sapevo. Sì, quello me l’han detto».
- E quindi qualcuno è venuto in casa a installare le cimici? O le intercettavano la linea?
«No, quello lo sapevo. Mi ricordo che un funzionario mi ha detto: “Telefonate corte”».
- Ah sì?
«Eh sì. Tutto è partito perché, mi diceva, sono andato in televisione a leggere il comunicato. E quindi ero diventato “visibile”. Probabilmente han fatto… Di tutti noi sapevano tutto».
- Spostamenti, orari eccetera: ma che Italia era quella? È difficile, oggi, rendersi conto di che realtà stessimo vivendo…
«Parliamo di un’Italia che era…».
- …appena uscita dai cosiddetti "Anni di piombo"…
«Uscivamo dal Sessantotto».
- Addirittura? Così indietro?
«Eh sì. Mi ricordo il mio primo giorno di università, in Cattolica a Milano. Uno che parte dal paese, qui, prende il treno e va in Cattolica. Mio papà e mia mamma mi avevan vestito giacca e cravatta e abito scuro, andare in Cattolica… Arrivo là, trovo gli eskimo e i capelli lunghi, quindi…».
- …un bel salto.
«Un bel salto…».
- …e le aule occupate.
«Ecco. Le aule occupate. Quando venivo a casa e dicevo “è occupata” e ne parlavo anche con gli amici: “Che roba è?”. Perché loro l’“occupazione” la vedevano come [una cosa di] operai e compagnia bella. E quindi son stati anni anche duri».
- Che studi ha fatto?
«Ho fatto Lettere».
- E come ci è arrivato all’area comunicazione, pubblicità eccetera?
«Ho fatto la tesi in pubblicità: “Efficacia psicologica degli affissi pubblicitari”». [sorride, nda]
- Certo che la vita ti propone dei percorsi imprevedibili…
«Eh sì, eh. Era una materia complementare che ho fatto, e me ne sono innamorato».
- Nel suo profilo lei scrive che poi si è occupato, non so se sempre con la Publidit, «di servizi vari personali, ingegneristici gestionali, direct marketing, consulenze gestionali». Tutto questo fa parte di…
«…di un’agenzia di pubblicità. Perché con l’agenzia di pubblicità devi seguire tutte le aree».
- Prima parlavamo della Carrera marchio internazionale, e non a caso la vostra era una delle poche squadre italiane al Tour. È vero che l’iscrizione arrivò a costare cento milioni di lire?
«Pagavi. Pagavi per partecipare».
- Cento milioni di lire? Parliamo di queste cifre?
«Adesso non ricordo più la cifra, so che si pagava».
- E voi al Tour andavate per via della maggiore visibilità internazionale?
«Eh sì. Io mi ricordo, il primo anno di Tour, c’erano tre giornalisti [italiani]: Beppe Conti [di Tuttosport], Gianfranco Josti [del CorSera] e Rino Negri della Gazzetta. Tre».
- Beppe Conti a un certo punto copriva, tramite pseudonimi, fino a quattro giornali. Quattro. Me l’ha raccontato lui stesso.
«Ecco. Gianfranco credo solo il Corriere. E c’era Adriano De Zan. Quattro ce n’erano. Quattro. Secondo anno, idem».
- E alle classiche?
«Alle classiche no, a quelle ce n’erano tanti».
- E perché al Tour no? Perché il Tour all’epoca non aveva tutto questo appeal…
«Perché non c’era nessun corridore italiano. Non c’erano italiani».
- Quali erano le altre squadre italiane che andavano al Tour?
«Nessuna. Solo noi. Perché la Del Tongo non è mai venuta al Tour».
- È vero o no che era stato Del Tongo, o più verosimilmente Scibilia, a dire a Saronni che per lo sponsor il Giro di Puglia era più importante del Tour?
«Quello non lo so».
- Voi alla Carrera di sicuro non la pensavate così.
«No, no. Eh no, l’opposto. Stefanoè venuto per il Tour, eh? Altrimenti non c’era motivo di andare a prendere Stefano».
- Come avete scelto di andare a prendere proprio Roche?
«C’erano due corridori…».
- Sean Kelly e Pedro Delgado?
«No: Kelly e lui. Io mi ricordo che Davide era amico di Kelly…».
- …che però era molto legato a Jean de Gribaldy.
«Ecco, e invece tutti i colleghi [giornalisti] seguivano lui. E di Stefanoinvece ricordo che eravamo fermi a un semaforo, a una tappa, non so dove. Fermi a un semaforo, Davide alla guida ed io in parte. Arriva Stefanoe inchioda al semaforo. Tu guarda la combinazione… Davide tira giù il finestrino e gli dice: Stefano, ti devo parlare».
- Ah sì? Andò così? E quindi non è vero che fu Valerio Lualdi ad avvicinare in corsa Roche per fissargli un incontro con Boifava?
«Dopo, lì al Tour, hanno avuto un contatto. A un semaforo…».
- Lualdi quindi se l’è inventata quella storia?
«Quello non lo so».
- Lualdi sostiene che era d’accordo con Boifava per andare lui da Roche a dirgli: guarda chela Carrera vuole ingaggiarti…
«Quello non lo so. Io so che il primo contatto l’ha avuto a un semaforo».
- Chi è stato a dare a Boifava la dritta che Roche potesse essere l’uomo giusto per la Carrera?
«Noi volevamo vincere in Francia. E dopo abbiam firmato. Ho firmato io il contratto con Stefano, alla Ruota d’oro, in un hotel di Salò».
- Quasi a casa Visentini…
«A casa di Davide… A casa di Davide! Eh sì… Perché c’era la Ruota d’oro, che è una corsa di tre-quattro giorni qua sul lago di Garda. E mi ricordo che Davide aveva fatto in modo che la squadra di Stefanoalloggiasse nel nostro stesso hotel».
- Ah sì, eh?
«Volpone, eh…». [ride, nda]
- Allora non è vero che Boifava voleva Delgado, che però aveva sparato un cifrone…
«Io mi ricordo Kelly. Di Kelly son sicuro».
- Kelly quindi avevate provato a prenderlo?
«Sì, sì, con Kelly abbiam provato…».
- Lui però era molto legato alla Kas, la squadra spagnola.
«Kelly mi ha detto subito di no».
- Perché? Per via del boss Jean de Gribaldy?
«Sì, sì. Era già a posto. Mi ha detto “no, grazie”, proprio. Niente. Kelly, me lo ricordo molto bene. Delgado, sinceramente, non me lo ricordo. E di Stefanomi ricordo quel particolare lì, perché il giorno prima, o due giorni prima, Kelly aveva detto di no».
- Mi dice perché Boifava lo chiamavano “il Cardinale”?
«Per il suo modo di fare…». [ridacchia, nda]
- Perché?
«Eh, perché…».
- Perché mette sempre a posto un po’ tutto…
«Tutto, tutto…».
- Lui stesso mi ha detto: a me vogliono bene tutti. È vero?
«Sì, perché lui non porta rancore a nessuno. Ed è capace… È un grande mediatore. Con un carattere forte, duro: perché se ti dice così [è così]…».
- Se è bianco, è bianco.
«È bianco, e non lo fai diventare giallo. Però sempre…».
- …con quel suo modo…
«…un po’ da cardinale. Sa appianare tutte… Perché in squadra c’erano… Immagino io, perché non potevo frequentare le camere, le camerette, perché il mio lavoro era un altro».
- I ruoli erano quelli…
«I ruoli erano quelli. Perciò immagino che avrà avuto anche lui da dire con, o per sentito dire dai massaggiatori. O lui [stesso] che diceva… Però è sempre riuscito alla grande, ecco.
- Un po’ lui ci è rimasto male, per Roberto, vero? Se dipendesse solo da lui…
«Era molto legato a Roberto».
- A Boifava ho detto: secondo me Roberto ce l’ha ancora con lei anche perché vi volevate bene, siete stati compagni di squadra… E mentre il Cardinale sarebbe più che disposto a incontrarlo, e ci ha anche provato, l’altro non vuol sentirne parlare…
«Mah, lui non lo so, io Roberto non l’ho più visto».
- E con lei il rapporto com’era?
«Bello. Buono».
- Fino a Sappada?
«Io dopo non l’ho più visto… No, ma anche dopo...».
- Perché lui l’anno dopo è rimasto in Carrera.
«Sì, è rimasto in Carrera».
- E com’erano i rapporti dopo quella vicenda lì? Normali, nonostante tutto?
«Normali. Io, dopo…».
- Che cosa mi racconta di Pietro Turchetti?
«Simpaticone. Molto, molto simpatico. Teneva su la compagnia anche quando… Lui tirava su tutti».
- Di Visentini mi ha detto. E di Roche, perso di vista anche lui?
«Roberto io non l’ho più visto. Stefanolo vedo in queste rimpatriate».
- Roche fa ancora il “rappresentante” per le bici Carrera-Podium?
«Per me, fino a un anno fa, importava e vendeva le biciclette di Davide».
- A Dublino ho visto tante bici Carrera, allora ho chiesto a Boifava se a penetrare in quel mercato irlandese lo avessero aiutato le conoscenze di Stephen Roche. Davide però mi ha detto che si tratta di un marchio concorrente. È un’azienda concorrente che vende a una fascia di prezzo bassa e che ha preso il nome Carrera.
«Non lo so, ho perso il giro. Come han fatto a prendere il nome Carrera?».
- Non lo so. Lo chiedo a lei…
«Non possono, perché il marchio è depositato. E il logo? Il nome è scritto uguale? Il marchio è depositato. Ti “uccidono”, eh. Caspita…».
- È successa una cosa simile a Mino Denti, con il suo nome e il marchio della coccinella. Nel suo logo, l’originale, la coccinella ha sul dorso cinque pallini; nel brand “Denti” del suo ex socio il logo è una coccinella che di pallini ne aveva tre; eppure Mino Denti perse la causa…
«Con “Denti” però è già più difficile, perché è un nome personale. Se tu ti chiami Denti e tutti i diritti… Ero là io quando abbiam depositato il marchio Carrera. Me lo ricordo molto bene perché non avevamo depositato… A meno che uno non si chiami Carrera, allora non puoi fare niente. Noi il grosso problema lo avevamo con la Carrera occhiali».
- E infatti pensavo fosse roba vostra anche quella. Anche perché oggi è normale che un brand di abbigliamento produca pure una linea di occhiali.
«Oggi sì, ma allora no. E quindi abbiam fatto il contratto con loro. Abbiam fatto un anno o due di collaborazione. Loro avevan il marchio Carrera e la licenza per gli occhiali. E quindi avevan tutti i diritti di chiamarli Carrera; noi, quando abbiamo depositato il marchio, l’abbiam fatto per l’abbigliamento. Mai pensato agli occhiali. Quando Chiappucci ha vinto a Sestriere [al Tour 1992, nda] io mi ricordo che in macchina con Davide c’era il direttore marketing della Carrera occhiali. Ed io ero sull’altra, perché era mio ospite e allora gli ho detto: vai con lui. Quando mai! Si è goduto la vittoria di Claudio». [sorride, nda]
- Trent’anni dopo, si può fare un paragone tra la Carrera di allora e il Team Sky di oggi? Anche voi eravate all’avanguardia in tanti aspetti, dal look ai materiali all’organizzazione…
«I materiali li conosceva Davide, quindi sapeva lui».
- Però lei con la Descente avrà avuto dei contatti e sottoscritto dei contratti, no?
«Era Davide che li aveva. Davide, quando l’ho conosciuto, era importatore della Descente. E dopo siam andati avanti».
- Nel settore il marchio svizzero era il numero uno all’epoca?
«Eh sì, eh. Una sera al Giro d’Italia, un giornalista, un tuo collega, ha detto: possiamo paragonarla alla Sky. Son passati trent’anni, ma a pensarci poteva dire: il budget; il grosso budget della Carrera e il grosso budget della Sky».
- Però la forbice tra voi e le altre non era così allargata come invece è oggi quella tra il Team Sky e le sue dirette concorrenti…
«No. No…».
- Voi giocavate “nello stesso campionato” della PDM, della Supermercati Brianzoli di Stanga, della Renault di Guimard eccetera…
«Certo. Eh no, noi non avevamo la forza di comprare tutti. La Sky ha la forza di comprare tutti. Perché non è la Sky “due”, dove li tiran su e li buttan di là. Noi non avevamo questo».
- Però il vivaio l’avevate. Boifava col patron Prandelli son stati i primi – o tra i primi – a dotarsi di un vivaio per il professionismo.
«Certo. Avevamo un vivaio nei dilettanti però ne sono usciti pochi. Claudio [Chiappucci] era in una squadra di Varese. Pantani era in Romagna».
- Però avete tirato su tanti gregari: Chiesa, Bordonali e chissà quanti altri…
«Certo. Chiesa e Leali son venuti su da lì. Bordonali è venuto su da lì. Diciamo che non c’era il campione ma tanti sono venuti su da lì. È vero. Dopo, da qui alla Sky di oggi…».
- Davide, come il suo omonimo inglese Brailsford, era avanti ai propri tempi.
«Forse per l’organizzazione, sì. Mi ricordo che avevamo tre o quattro medici».
- All’epoca le squadre erano di 13-15 corridori, un paio di meccanici e di massaggiatori e un medico che veniva solo alle corse, e neanche a tutte. Voi invece avevate fisso il dottor Giovanni Grazzi…
«Grazzi e altri due o tre. Grazzi era nostro tutto l’anno, gli altri due facevan d’inverno lo sci – perché lo sci è molto attinente al ciclismo – e d’estate venivano con noi».
- Grazzi, dopo di voi, non ha più lavorato nel ciclismo…
«Sì, so che ha preso un’altra [strada]… Un professionista, sì».
- Gli ho scritto e telefonato, mi ha sempre risposto, cortesissimo, ma non ha piacere di parlare. È rimasto scottato da quell’esperienza?
«Penso, sì».
- Era un conconiano…
«Era un conconiano. Scuola-Conconi, lui. Lui e [Michele] Ferrari».
- Forse è per quello che non ha un buon ricordo del ciclismo professionistico…
«Non lo so. Forse è giusto che un professionista chiuda…».
- Altro esempio: voi siete stati i primi ad avere il pullman speciale per i corridori. Ve lo modificò su misura un’officina qua vicino Brescia…
«Ah, questo nell’82. Quando ho fatto l’accordo, c’era ancora il pullman. Lei s’immagini, nell’82, un pullman…».
- Non solo: doveste pure discutere con la locale motorizzazione, che non voleva omologarvelo…
«Eh sì…».
- Me l’ha raccontato Luciano Bracchi: c’era questo carrozziere che v’ha fatto delle modifiche…
«Uberti, sì. Uberti, il carrozziere. Io mi son ritrovato ’sto pullman, e anch’io mi son detto: ma che roba è questa qua? Cioè, c’era il pullman…».
- Oggi tutte hanno il motorhome: è la normalità.
«Sentivo un corridore qui di Ome che è professionista nella squadra dell’Emirates [la UAE, nda], e mi diceva che si portano i materassi da un albergo all’altro. I materassi, ecco…». [ride, nda]
- Anche il Team Sky lo fa. Sono stati loro i primi a farlo, e all’inizio tutti li deridevano per i cosiddetti marginal gains. Per dire, nel pullman del Team Sky ci sono nove lavatrici. In pratica alle corse ne hanno una per corridore, col resto di una…
«Robe… Però il nostro era veramente un pullman. E sopra ci salivano sette-otto persone, sedute, eh. Più tutto il cosodietro, eh».
- Ne ho parlato anche con Moreno Argentin, che all’epoca vi sfotteva con i giornalisti: «Loro prendono il pullman, noi i corridori». Alla fine però si è visto chi aveva ragione…
«Ah sì, piano piano... No, ma la struttura c’era già. Dopo, logicamente, con la forza economica…».
- Una cosa da addetto ai lavori: in quegli anni la Carrera che budget aveva?
«Il 3% del fatturato».
- Del fatturato legato al ciclismo?
«No, di budget».
- Comprese la comunicazione e la pubblicità: il 3% del fatturato? E al ciclismo, di quel 3%, quanto arrivava?
«Eh, secondo gli anni, eh. Non c’era un fisso, perché all’inizio… Logicamente, quando poi siamo andati a prendere Stefano, [il budget] è andato su… [ride, nda] Chiappucci lo abbiamo “creato” noi e quindi… Partiva piano piano, ecco».
- Come cambiava il budget con il susseguirsi delle vittorie e delle stagioni?
«Quello, con i premi…».
- A me risulta che i gregari del Giro vinto nell’87 guadagnarono 45 milioni di lire a testa. Come ordine di grandezza ci siamo?
«Sì, ci siamo».
- E Roche che il Giro lo vinse quanto avrà preso?
«Prese mezzo miliardo dal Giro, mi sembra. Più i premi nostri».
- E l’ingaggio di Stefano era…?
«Era alto».
- Quando, l’anno dopo, Roche andò alla Fagor, Boifava disse: io, quella cifra lì, non potevo…
«Certo».
- Un miliardo e due, vero? Bella cifra per l’epoca. Un bel salto, per Roche.
«Un miliardo e due. Eran comunque cifre…».
- Da top rider. Chi altro guadagnava quelle cifre, Sean Kelly e poi?
«Kelly era lì. Lui, Delgado…».
- Hinault no: aveva già smesso.
«C’era Fignon, che viaggiava a quei livelli lì. Dopo di Roche con cifre così importanti non abbiamo avuto… A parte Visentini, perché prendeva bene anche Visentini, eh. È che Roche, avendo vinto il Tour, aveva tutti i circuiti in Belgio… È lì che tirava su…».
- E lì si portava dietro il buon Eddy Schepers…
«Eh sì. È lì che tiravan su. Perché vincere un Tour o piazzarti nei [primi] tre-quattro al Tour, dopo hai un mese di circuiti, eh. Io mi ricordo, come diceva Stefano, che magari ne faceva due per sera: son soldi, quelli, eh. Adesso non penso ci siano ancora queste robe qua, perché… Una volta c’erano. Come le Sei Giorni d’inverno. Guido [Bontempi] ha girato il mondo con le Sei Giorni. Il loro vero guadagno era quello lì».
- Era anche una vitaccia, però.
«Ah be’, sicuramente è una vitaccia».
- Moser si faceva di quelle guidate in macchina. Caricava la bici sul tettuccio, correva e poi tornava a casa la notte stessa così risparmiava sugli alberghi. Erano uomini di una scorza…
«Ah tremenda, eh. E mai ammalati. Io non mi ricordo un corridore ammalato. Veramente non mi ricordo un corridore ammalato. Avevano una pellaccia incredibile, una pellaccia tremenda…». [sorride, nda]
- Anche psicologicamente: duri-duri…
«Sì, anche perché prendi l’aereo, vai a fare una Parigi-Roubaix, e vabbè. Vai su una settimana prima perché fai tutte le [classiche del Nord]… Però, insomma, oh. Pensi al Guido [Bontempi] che il mercoledì faceva la Gand-Wevelgem e la vinceva [ne ha vinte due, 1984 e 1986, nda] e la domenica ti faceva la Roubaix. Io mi ricordo la prima volta che ho visto la Foresta [di Arenberg] ho detto: ma dove siamo, qua…».
- Lei invece bici, niente?
«No».
- Mai provata, troppa fadèga?
«No, ma io cammino. Cammino. Adesso no, perché ho problemi. Ho la protesi. Cammino sempre, io».
- Da buon alpino… Allora è ancora un bel cagnaccio come lo era all’epoca con i giornalisti…
«Be’, cagnaccio buono…».
- Che cosa ricorda di quei tempi, del rapporto con i giornalisti, con i corridori. Come ha visto cambiare il ciclismo e l’interazione fra gli atleti e i media?
«Allora: i corridori non erano più quelli da “ho vinto, mama, son contento di essere arrivato uno”, no. Però non erano ancora pronti ad affrontare i microfoni. Almeno, i miei non erano ancora pronti ad affrontare i microfoni. Se lei pensa anche ai leader, non è che davanti ai microfoni fossero…».
- Roche magari in questo era un po’ più avanti.
«Sì, ma parlo anche dei concorrenti, dall’altra parte: i top dei top non andavano davanti ai microfoni. Prima di tutto capivi subito se uno era trentino o… Lo capivi lontano quaranta chilometri. E poi non c’era l’abitudine ai microfoni».
- Il lato negativo, per chi la comunicazione doveva poi gestirla, è che i più ingenui magari si fidavano anche di chi sarebbe stato meglio non fidarsi...
«Eh sì. Sì».
- E quello positivo è che ancora era possibile instaurare, anche fra corridori e giornalisti, un rapporto non dico di amicizia, ma almeno diretto, senza filtri…
«No, no: tanti erano anche amici dei giornalisti. Certe volte bisognava tarpar le ali, eh. Certe volte bisognava beccarli e dirgli: vai in camera, o vai e scusami».
- Anche per proteggerli, a volte…
«Io mi ricordo Chiappucci maglia gialla al Tour de France il venerdì, la domenica finiva il Tour…».
- Quello del ’90, che – diciamo – ha buttato via? O che gli han fatto buttar via…
«Bravo. Bravo… Ha fatto la conferenza stampa il pomeriggio, gestita. Davide [Boifava] a un certo punto dice: Gianfranco, fermalo. Basta, perché questo qua… Allora, se io ti dico: “Basta, ragazzi, smettiamola; è finita”, non approfittare della bontà – e dell’ingenuità – di Claudio per andare avanti ancora. Allora dopo intervieni pesantemente, o sgarbatamente, e il giornalista A o il giornalista B si offende, se la prende, ti dice cagnaccio, str… o peggio. Però dico: allora, se sapete che è maglia gialla, che ha una [probabilità] su mille di vincere il Tour – perché una su mille poteva averla… – e siete italiani, ma andate a bere un bianchino… [ride, nda] Però dopo… Non possiamo lamentarci… io non posso lamentarmi dei giornalisti».
- Neanche in quel famoso (o famigerato) episodio di Sappada ’87?
«Lì facevano il loro lavoro».
- Mi dica se prendo una cantonata: lì, dal punto di vista della comunicazione, la Carrera qualche errorino forse l’aveva commesso…
«Certo. L’errorino l’aveva fatto… L’errore più grosso è stato quello di far entrare i giornalisti in hotel».
- Quando, la sera stessa?
«La sera».
- All’hotel Corona Ferrea?
«Sì. Anche il nome… Non mi ricordavo il nome… Si chiama Corona Ferrea l’hotel?».
- Quest’anno il Giro tornava a Sappada come sede di arrivo. E il traguardo era posto proprio lì davanti a quello stesso hotel, a cinquecento metri dall’arrivo di tappa del Giro 1987. Cambiava però il senso di marcia: nell’87 si arrivava da Jesolo, nel 2018 da Tolmezzo.
«Devo tornarci, per quelle scale… Roberto sopra e Roche sopra ed io, col ginocchio rotto, e su e giù e su e giù…».
- È vero che l’unico giornalista che quella sera riuscì a salire in camera di Roche fu l’inglese John Wilcockson?
«Quello non me lo ricordo».
- Il giornalista bresciano Angiolino Massolini sostiene di essere stato, sempre quella sera, sia in camera di Visentini, sia in camera di Roche: è vero?
«Questo non lo so. Be’, lì è stata la forza di Imerio Tacchella».
- Ah sì, non di Tito?
«No, è arrivato Imerio».
- Tito c’era o no?
«No. Non c’era, a Sappada, Tito. Eravamo là io e Davide…».
- Però con i Tacchella vi eravate visti a Verona due sere prima…
«La sera prima».
- Due sere prima o la sera prima?
«Perché mi dice due?».
- Perché ho ripreso l’articolo de l’Unità dell’epoca. E parla di «due sere prima».
«Allora, eravamo a dormire a… Qual è quel paese grosso, dopo Venezia, dove vanno tutti per andare al mare?».
- Jesolo?
«Jesolo!».
- La tappa del giorno prima arrivava a Lido di Jesolo, l’indomani si ripartiva da lì e si arrivava a Sappada.
«Allora era la sera prima. No, no: era la sera prima. È stata la sera prima di Jesolo. Siamo tornati a Verona io e Davide. Lì [Imerio] è arrivato in elicottero, e ha messo tutti in riga. Tre parole ma…».
- Dario Ceccarelli de l’Unità scrisse: «Si sono visti due giorni prima… Belleri futuro co-sponsor del gruppo si irrita: «Basta con le polemiche, ora puntiamo a vincere il Giro».
«No, no: co-sponsor, no. Magari, vuol dire che avevo un’azienda…». [ride di gusto, nda]
- E pure bella florida…
«No, lì [Imerio] è arrivato in elicottero e ha messo tutti in riga. Tre parole... Per me, è Imerio che è arrivato…».
- Ne è sicuro o ricorda vagamente?
«Io ci giocherei cento euro, proprio, che fosse Imerio. Per me era Imerio, a meno che non ci fossero tutti e due [Imerio e Tito, nda], ma è strano: in elicottero non volavano mai insieme».
- Perché in caso di un incidente di volo, l’altro si sarebbe salvato…
«Tito là, io non me lo ricordo… So che lui ha detto una frase che a loro [i corridori, nda] non riuscivo a far capire».
- Quale frase?
«Imerio ha detto: “A me che vinca Visentini o che vinca Roche, fate voi. Purché sia Carrera, là… Quando arriviamo ad Aosta, che ci sia su ‘Carrera’; dopo, Belleri, Boifava: arrangiatevi. Ciao, saluti e vado”». [ride, nda]
- È vero che quella sera volevate rispedire Roche a casa?
«No».
- Quella sera Visentini scese dalla camera o no?
«Sì, sì. Tutti».
- Ah, sì? Roberto mi ha detto che lui alla riunione non c’era e che era rimasto in camera.
«Alla riunione con Tacchella? Quella sera, sì [c’era]».
- E invece c’era?
«Aaahhh! [Imerio] andava a prenderlo, se non c’era… Andava a prenderlo».
- Visentini continua a dire, e l’ha ripetuto nell’intervista di Claudio Ghisalberti sulla Gazzetta dello Sport del 18 maggio 2018: «A me non hanno mai detto niente».
«Sì, sì: c’eran tutti… Se era Imerio, andava a prenderlo con… No, no: c’eran tutti. C’eran tutti. Noi eravamo a Jesolo e siam venuti a Verona. Lì c’era da finire il contratto con Roche, era aumentata la cifra, io uscivo dal mio budget. Per l’anno dopo, io uscivo dal mio budget e quindi avevo bisogno di un extra-budget. Allora, finita la tappa di Jesolo, io e Davide siamo andati a Verona e i Tacchella mi han trattenuto. Io mi ricordo che son arrivato in hotel a Jesolo alle 2-3 del mattino…».
- Voi fino a che cifre sareste potuti arrivare? Certo non al miliardo e duecento milioni di lire poi offertigli dalla Fagor?
«Meno, meno…».
- Roche quanto prendeva?
«Prendeva belle cifre, dai. Non si possono dire».
- Era solo per capire la differenza, cioè quanto la Fagor fosse disposta a dargli in più…
«Dopo, però…».
- Quando Roche è tornato in Carrera, nel ’92, lei c’era ancora. Come mai Roche è tornato?
«Perché si era trovato bene. Io son convinto che Stefanoabbia amato la Carrera».
- A Davide pare abbia detto: non importa la cifra, fai tu. E quando Stephen è andato alla Fagor, nell’88, alla Carrera è arrivato il fratello, Laurence Roche.
«Noi, intendo noi della Carrera, dobbiamo tanto a Visentini e a tutti i corridori, ma per i mercati “di là”, dobbiamo tanto a Stefano».
- Lo credo. E credo anche che, a parte l’argomento soldi, ci fosse anche una sorta di…
«Sì, era anche uno con cui potevi parlare, più disponibile al dialogo e meno… “bresciano”. Perché noi bresciani, piuttosto di dire che questo qua è un registratore [ride mentre me lo indica, nda] diciamo: mah… è una cosa, lì, ecco… Comunque era la sera di Jesolo, mi ricordo troppo bene quella sera lì, guarda…».
- Cioè il 5 giugno, la sera prima della tappa Lido di Jesolo-Sappada?
«Era la sera prima. Perché la mattina, quando sono sceso dalla camera…».
- A proposito: perché la sera prima era rientrato alle due-tre di notte?
«Perché dopo ci han portato a cena, i Tacchella, ma noi dovevamo tornare a Jesolo. E la mattina dopo, io e Davide e anche lo Stefanodovevamo scendere e loro han detto: okay, e basta. Han detto okay».
- Stefano era bravo a giocare su più tavoli.
«Eh beh, d’altronde, un professionista… Ma si sapeva. Si sapeva che giocava su più tavoli».
- Mi racconta le vicissitudini che Roche ha passato dopo la caduta alla Sei Giorni di Parigi del novembre 1985? Alla fine siete andati dal dottor Müller-Wohlfahrt, storico medico del Bayern e della nazionale tedesca di calcio…
«L’ha operato a una cartilagine».
- Ben due medici italiani avevano detto a Roche che rischiava di dover smettere di correre, invece l’anno dopo…
«Lui è riuscito. Mi ricordo che è stato operato, aveva problemi alla cartilagine. Questo me lo ricordo».
- E il luminare tedesco capì subito di cosa si trattava? Azzeccò subito la diagnosi?
«Ha capito, sì. Eh beh, ma anche allora…».
- Nelle tappe successive a quella di Sappada, ci fu una brutta pagina del “tifo”, chiamiamolo così, italiano. Stephen aveva paura, in corsa e fuori. In gara voleva sempre al fianco il suo gregario fidato Schepers e lo scozzese Robert Millar, che correva nella Panasonic e l’anno dopo avrebbe corso con lui alla Fagor: uno da una parte e uno dall’altra...
«Aveva paura del dopo-Visentini, tanto è vero che noi un po’ lo abbiamo coperto. Perché, da italiani, noi conoscevamo il tifo e…».
- Se non altro per ciò che era successo a Roberto al Giro tre anni prima…
«Prima, con Moser-Visentini…».
- Tifosi trentini ubriachi… Per referenze chiedere a Baronchelli.
«E tutto quell’affare lì. Avevam paura di quella roba qui, ecco. Avevam paura perché poi, di lì, si andava a finire. Poi abbiam fatto Pila, Robi è caduto: un braccio ingessato. E avevam paura che il tifo si spostasse da quelle parti là. E quindi alla squadra abbiam chiesto proprio di proteggerlo».
- Lì anche i giornalisti hanno delle responsabilità. Certi titoloni, parole grosse quali “golpe”, tradimento… O no?
«Se partiamo dai titoloni, quello che mi ha colpito di più ce l’ho ancora qui, Gazzetta dello Sport, il giorno dopo il passo del Tonale, contro Visentini…».
- Qual era questo titolone?
«“Visentini attacca Moser”».
- Ah, quindi parliamo del famoso Giro dell’84?
«Certo».
- Il titolo era proprio così, testuale: «Visentini attacca Moser»?
«Eh sì. Anche lì, sbaglio mio. Arriviamo a Merano, vince la tappa Leali. E quindi prendi Leali, lo porti da [Adriano] De Zan, dopo lo porti dai giornalisti [della carta stampata] e lasciamo scoperto Robi. Questo qua ce l’aveva qui…». [indica col dito la gola, nda].
- Capirai, non aspettava altro…
«Non aspettava nient’altro che noi fossimo là, da Adriano. Ecco».
- Io invece ricordo il titolone «Bontempi ne stende 50», a nove colonne all’indomani della maxi-caduta nella volata di Termoli. Guidone non la prese bene, e ancora oggi se gliene parli…
«Gazzetta dello Sport. Ed io mi ero permesso di andare a parlare col direttore, che mi ha detto: lei faccia il suo lavoro che io faccio il mio».
- Il direttore era Candido Cannavò.
«Eh sì, Candido… E d’altronde, oh, giustamente, ognuno fa il suo mestiere. Eravamo in Trentino e lui doveva “vendere” la Gazzetta[anche] nel Trentino. Perché se ragioni, dopo, col senno di poi, a livello marketing, l’avrei fatto anch’io, probabilmente, perché...».
- Invece la famosa frase «stasera qualcuno va a casa», all’arrivo a Sappada, sotto il palco, Visentini la disse davvero?
«Non lo so. Dopo, queste cose qua… È un po’ da “spogliatoio”. Io nello spogliatoio non entravo, sicuramente…».
- Mi riferivo alla frase che Visentini avrebbe detto sotto il palco RAI subito dopo l’arrivo, a Sappada. Giorgio Martino, inviato della RAI, mi ha confermato che Roberto la disse, e proprio al suo microfono.
«Ah sì? Facile che un carattere come Robi l’abbia detta…».
- Lei aveva tutti gli strumenti per gestire anche quelle situazioni? Da soli è un po’ difficile…
«Eravamo in due, con Davide. Era un po’ il suo compito. Io dovevo gestire la parte comunicazione ma la squadra era sua. Io non potevo permettermi né avevo la competenza di andare a parlare…».
- Alcuni, forse ingenerosamente, dicono che ai tempi c’era anche tanto dilettantismo. E magari era vero, perché non c’erano strutture dedicate ai media, alla comunicazione…
«Io mi ricordo che il primo… Mi han detto che ero il primo di un’azienda che andava al Giro e al Tour. Io son rimasto… Me l’han detto al Tour, questo. Guardi che lei è il primo che non fa parte della squadra ma dell’azienda a venire con noi. Ho detto: eh, la madonna… Non avrò scoperto l’acqua calda, eh…».
- Non come incarico, ma di fatto lei era una sorta di capo ufficio stampa. Solo che era il capo di… se stesso, perché non c’era un vero ufficio stampa o anche solo un addetto stampa…
«Certo. Non c’era. E quindi io, di là, venivo di qua. Cioè lo facevo di là – comunicazione, eccetera – e qui…».
- Nelle squadre però la sua figura non c’era.
«Non c’era. Due direttori sportivi, e finita lì. Anche le pubbliche relazioni coi giornalisti, e bisognava tenerle – e bisognava tenerle! – E non c’era nessuno che…».
- Per quello le dicevo che molti miei colleghi la vedevano come un cagnaccio. Perché ai tempi non c’erano filtri e per quello poteva ancora succedere che Visentini, appena tagliato il traguardo, gridasse, sotto il palco, “Stasera qualcuno va a casa”. Capisce?
«Certo. Si cercava di tamponare; ma anch’io, di esperienze così…».
- Era un lavoro che imparavi…
«…sul campo. Nel basket, io seguivo la Reyer: conferenza stampa alla fine, ciao, saluti e baci». [batte le mani, nda]
- Anche l’ambiente era diverso, perché nel basket si è tutti lì: in un palazzetto e non per la strada, magari in cima a una montagna…
«In un palazzetto, appunto. Lì, sei qui e magari hai l’albergo a trenta chilometri, troppe cose… Adesso probabilmente li han messi un po’ in riga, ma vedo che una volta ogni tanto delle “spifferate” escono…».
- Due galli nel pollaio: col senno del poi, tutti dicono che si sapeva, che era nell’aria. È vero che si sapeva? Mettere insieme Visentini e Roche forse non è stata una grande idea.
«No, perché gli accordi erano molto chiari: Visentini doveva fare delle cose, Roche doveva farne delle altre».
- Questo per contratto, messo nero su bianco?
«No, no, no».
- E quindi l’accordo qual era?
«C’era una gerarchia per il Giro e una per il Tour».
- Visentini però si è fatto del male da solo con quell’intervista: io a luglio me ne sto con le balle a mollo, ammesso e non concesso che abbia detto proprio così.
«D’altronde, non sarebbe Visentini. Lì…».
- ...c’è però anche una certa ingenuità, che alla fine gli si è ritorta contro.
«Anche perché, allora quando lui ha… Anche gli altri, quando facevano le “mie” interviste, prima di tutto avvisavano, no? Avvisa il Belleri, o Davide: guarda che arriva il giornalista pinco pallo, posso o non posso? Invece… Adesso non vai a intervistare Gonzalo Higuaín se non passi dal Milan: è quello. O vai a intervistare Chris Froome o questi qua se non passi da… Ecco, questo non c’era… Questo non c’era. Il rapporto che dicevi tu… Per quello io ero visto come il cagnaccio, perché ho cominciato a far da filtro… Dopo, riuscito o non riuscito è un altro discorso, però dovevo per forza bloccare, perché i rapporti erano talmente…».
- Ricorda qualche giornalista in particolare? Perché qualcuno, dopo trent’anni, si ascrive meriti che magari all’epoca non aveva…
«Amico con tutti. E dopo bisognava fare gli affari nostri, ecco. Dire che è rosso quando magari era bianco. Quello fa parte…». [sorride, nda]
- Da buon bresciano…
«Quello fa parte di un responsabile [della comunicazione]. Non puoi dirlo, ecco. Dopo…».
- Come in tutti i mestieri: ci sono quelli corretti e quelli meno. Da tutte e due le parti, eh.
«Quello è normale. Da tutte e due le parti, eh».
- Parlo per esperienza. Perché se io mi metto d’accordo con te addetto stampa per l’intervista e poi l’atleta non me lo porti o non me la fai fare…
«Sì, ecco: io posso dire che certe confidenze non le ho viste scritte. E di questo devo dargliene atto. E che magari erano pesantine, e non le ho viste scritte».
- E invece ha visto il viceversa?
«Ho visto il viceversa. Perché certe cose dette così, “in amicizia”…».
- E invece poi te le ritrovi scritte…
«Ecco. Invece certe no…».
- C’è sempre il furbacchione che poi ti dice: eh, però non mi hai detto che era riservata…
«Sì, ma in un’intervista. Se invece hai, vicino, la confidenza fatta al giornalista. Non so, partiva il Giro d’Italia dall’Isola d’Elba, sul battello, andando in là, ha detto delle cose e…».
- …e il giorno dopo eran su carta?
«E il giorno dopo eran su carta. Un altro invece non ha fatto nulla. Ecco, quindi ho detto: no…».
- Però la volta dopo…
«La volta dopo, tu hai finito. Certo. È logico. Se dopo mi chiede qualcosa, dico: va’ a… Buon viaggio, eh».
- Va a ramengo…
«Ecco, va a ramengo. O mi chiedi il paio di jeans, ecco…».
- Questo è profondamente sbagliato, da entrambe le parti però. Tito Tacchella mi ha regalato un paio di jeans, che peraltro io neanche gli ho chiesto, ha insistito lui. Me l’ha regalato – neanche marchiato, perché era un modello nuovo. È profondamente sbagliato perché dal momento stesso in cui ti mi regali il jeans, io mi sento in qualche modo obbligato a restituirti un favore o comunque a riservarti un certo qual trattamento di favore. E allo stesso tempo tu cerchi di “ingraziarmi”. Ora, il jeans è un esempio che fa ridere. Però se poi a casa, o sul conto, ti arriva…
«Sì, però io non conosco più i giornalisti “tuoi” di adesso. Io conosco quelli là».
- Eh, appunto. Ad alcuni di quelli là arrivavano intere cucine, per dire.
«Quello non lo so».
- Finché è un prosciutto, vabbè: m’han regalato un prosciutto…
«Io adesso di cucine non lo so, perché non era il mio mondo».
- Un conto è un jeans, un conto è…
«Io mi ricordo che facevamo le conferenze stampa di presentazione della squadra, e davi loro… Perché ormai i giornalisti li conoscevi: quello ha la taglia “L”… Gli facevi trovare, non so, il pantalone e la camicia, il giubbino e la tuta. Sai quant’è? Non è la cucina componibile o…».
- No. Ma lì siamo ai livelli dell’agenda omaggio-aziendale di fine anno. Però c’è un però…
«Bravo, allora… No, no, no: sicuramente i rapporti coi giornalisti eran lì…».
- Poi io capisco anche che un giornalista noto, magari di un grosso network o di un grande quotidiano nazionale “sposti” di più rispetto al cronista locale di un piccolo giornale di provincia, però…
«Però no, su quello no… Non posso dire che i giornalisti con cui ho lavorato abbiano lucrato su… No».
- Che differenze ha trovato invece dal punto di vista professionale, della preparazione. Li ha visti cambiare, nel tempo, i giornalisti?
«È arrivata un’altra generazione».
- E che differenza ha notato?
«Eh beh, grossa, eh. Grossa».
- Nel bene e nel male?
«Diciamo più “sul pezzo”. Perché la prima generazione era fatta da grossi giornalisti di nome, ma di nome ormai avevano…».
- La corsa più che vederla, la “inventavano”.
«Non la vedevano. La vedevano sullo schermo all’arrivo. Mentre la nuova generazione – parlo dei “ragazzi” che sono andati in pensione da pochi anni, l’età dei Gianfranco [Josti], questa età qui – la corsa la viveva. Perché te li trovavi alla partenza il mattino, te li trovavi all’arrivo, te li trovavi alla sera a cena. Te li trovavi dopo a bere il whisketto…».
- Tranne correre, facevano la vita dei corridori. E per questo i corridori stessi li rispettavano. È vero che non fai lo stesso tipo di fatica, però dove son loro sei tu, quindi vuol dire che…
«Eh sì. No, no: dopo c’era, come si chiama quello di Repubblica, che scrive quei pezzi, che veniva solo al Tour?».
- Gianni Mura?
«Mura. Quello, ragazzi, è un giornalista che… Quando lo vedevi, ti faceva paura…».
- Ah sì? Per il carisma? Incuteva soggezione?
«Forse perché aveva già il nome. Sai, non era solo sportivo ma era già “Mura”…».
- E poi se una certa cosa la scrive Mura…
«Appunto, appunto. Quello era…».
- Siete stati fortunati, perché lui l’anno di Sappada non c’era. Lì vi è andata bene, Mura ha ripreso a seguire il ciclismo dal ’91…
«Eh sì. [ride, nda] Lui faceva solo il Tour. Difatti quando l’ho conosciuto, al Tour, ho detto: ma da dove viene questo qua…».
- Lui aveva iniziato giovanissimo…
«Io lo leggevo sul calcio. E ho detto: ma questo qua è quello là? No, invece è andata bene, dai».
- Parliamo un po’ del Belleri privato. Che cos’è “Ocio alla pèna”?
«È il quadrimestrale degli alpini [sezione ANA di Brescia, nda]».
- E la “zona O”?
«È la zona degli alpini della Franciacorta. Io sono il responsabile della zona Franciacorta».
- Perché si chiama “zona O”?
«La zona A è Brescia, la zona B è la Val Trompia [e così via]…».
- Che cosa fate?
«Riunioni, beneficenza…».
- E la Commissione Cultura?
«Va in giro a parlare nelle scuole. In questi tre anni abbiam parlato più che altro della Grande Guerra, del centenario. Parliamo di Nikolaevka, la Ritirata di Russia, per farle capire, ecco. Siccome a Brescia c’è una scuola, un istituto per disabili che è stato costruito – e viene mantenuto – dagli alpini, allora noi andiamo nelle scuole e…».
- Come ha sviluppato questa particolare sensibilità?
«Per tanti anni non ho mai fatto nulla, come alpino. E poco prima di andare in pensione, dieci anni fa, ho detto: mah… son qui e vado lì. Proviamo».
Nec videar, num sim. È il motto degli alpini: non per apparire, ma per essere.
CHRISTIAN GIORDANO
NOTE:
[1] Finale di Coppa Korać 1980-81: Juventut Badalona-Reyer-Venezia 105-104.
[2] Patrizia Tacchella, figlia di Imerio (allora 48enne) e nipote di Tito, fu rapita all’età di otto anni lunedì 29 gennaio 1990 a Stallavena di Grezzana, paesino di ottomila abitanti a una decina di chilometri da Verona. Fu liberata dai Nocsdalla Criminalpol dopo 79 giorni, il 17 aprile 1990, in una villetta a San Lorenzo della Costa, sopra Santa Margherita Ligure, di proprietà della moglie di uno dei sequestratori. I militari del Gis, a volto coperto e con la mitraglietta in pugno, accerchiarono la casa e arrestarono la cosiddetta “Banda degli imprenditori”, i tre rapitori che architettarono il sequestro perché pieni di debiti: Bruno Cappelli, 35 anni, piccolo industriale incensurato; Valentino Biasi, 52 anni, incensurato; Franco Maffiotti, 48 anni, di Rapallo, titolare di una radio piemontese. Tra i fermati, il fratello e la moglie di Cappelli. Per il riscatto erano stati richiesti alla famiglia Tacchella cinque miliardi di lire. Biasi era stato il rapitore di altri tre bambini: Pietro Garis di cinque anni, Giorgio Garbero di quattro, Federica Isoardi di otto.
[3] “Madre Coraggio”. Nell’estate del 1989 Angela Casella scese, da Pavia, nei paesi della Locride e si incatenò nelle piazze per chiedere la liberazione del figlio Cesare, rapito a 18 anni dall’Anonima sequestri calabrese il 18 maggio 1988, davanti alla concessionaria Citroën del padre Luigi a Pavia. Fu liberato a Natile di Careri, in provincia di Reggio Calabria, dopo 743 giorni, la sera del 30 gennaio 1990. Un mese dopo la cattura di Giuseppe Strangio, ferito a una gamba dai Gis(Gruppi di Intervento Speciale dei carabinieri), dopo che si era presentato a un appuntamento per riscuotere parte del riscatto. Dall’iniziale richiesta di otto miliardi, i rapitori erano scesi a uno, che Luigi Casella pagò alla vigilia di ferragosto del 1988. L’Anonima poi richiese altri cinque miliardi, ma la magistratura dispose il blocco dei conti correnti della famiglia e il caso-Casella fu assai spinoso per il governo di Giulio Andreotti. «Lo Stato in catene a Locri» titolarono i giornali, e la foto di “Madre Coraggio” incatenata fu pubblicata anche dal Time.
[4] Michele Ferrero, proprietario dell’omonimo Gruppo, è morto a 89 anni a Monte-Carlo, Principato di Monaco, il 14 febbraio 2015.
Nella foto, da sinistra:
il patron Tito Tacchella, il diesse Davide Boifava, il giemme Gianfranco Belleri
Nella foto, da sinistra:
il patron Tito Tacchella, il diesse Davide Boifava, il giemme Gianfranco Belleri
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