Enrico Zaina: il Cacciatore


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Dopo vari inseguimenti telefonici, l’appuntamento è al suo negozio un piovoso mercoledì pomeriggio, prima dell’orario di apertura. Ci siamo sentiti al cellulare ma mai incontrati, Enrico Zaina è però molto cordiale, avverto un feeling immediato. 
Mi offre subito un caffè e al contempo però mi tira anche due metaforici cazzotti allo stomaco: brutte notizie che riguardano suoi parenti molto giovani e a lui assai cari. 
Mi sento ridicolo a parlare di ciclismo, per di più di gare, storie e personaggi di oltre trent’anni prima. Enrico però è serio e professionale anche nel parlare di bici, non soltanto nel fabbricarle e venderle. E quindi la conversazione – nel suo ufficio, al piano interrato, dove ci trasferiamo per parlare tranquilli – scorre fluida e senza “off record”. Non ho niente da nascondere, è il suo refrain, e la chiacchierata integrale che segue lo dimostra. 
Giù di bici è un “Visenta degli anni Novanta” persino più forte e generoso di quanto sia stato in sella, specie in salita. 
Si parla a ruota libera di corse e di ciclismo, dei mali atavici – e forse cronici – dell’ambiente; della sua rinnovata passione per la caccia, e i relativi viaggi a tema, che per lui, da hobby, si stanno trasformando in un secondo lavoro; e infine, ma a microfono già spento, anche di un’Italia in cui, da nord a sud, pare che il furto ai negozi di bici – spesso seriale – sia diventato una sorta di reato depenalizzato. Oltre a Zaina è successo a Denti (sei volte!), Fondriest, Masciarelli, Salvador e chissà quanti altri ex. Possibile che nessuno possa – o voglia – farci niente? È normale tutto questo? No, non lo è. Non può esserlo. E soprattutto non deve.

“Zaina Biciclette”
Concesio (Brescia), mercoledì 7 marzo 2018 

- Enrico Zaina, da cosa partiamo? Da quando, a sei anni, sei montato su quella biciclettina? È nato tutto da lì?

«Partiamo dai sei anni. Il mio sogno è stato: diventerò un ciclista professionista. E nell’89, alla Carrera Jeans, perché la Inoxpran era il vivaio di Boifava, ho coronato quel sogno, che poi dopo è diventato un mestiere. E quindi quel sogno da bambino si è un po’ racchiuso in un mestiere abbastanza duro e abbastanza impegnativo».

- E quindi hai visto anche la faccia nascosta della luna.

«Sì, però mi ha dato molto, soprattutto nel prosieguo, nella vita di tutti i giorni Poi, a trentadue anni, quando ho smesso, mi son ritrovato a dovermi rimettere in gioco. Non bastava più essere un bravo atleta ma dovevi metterti in gioco come persona».

- Lo hai deciso, pur avendo già in tasca il contratto con la Lampre, perché, parole tue, «non ti sentivi più a tuo agio». Perché?

«Sì, perché tutto quell’accanimento che c’è stato nel ciclismo, soprattutto in quel periodo e che abbiamo vissuto sulla nostra pelle, pur cercando di uscirne in qualche modo ma probabilmente sbagliando nei tempi e nei modi, non mi sentivo più tutelato. Ho avuto una perquisizione in casa dei Nas, ho dovuto difendermi solo per il fatto di essere compagno di Marco Pantani. E quindi non mi ci rispecchiavo più…».

- Con “difendermi” intendi legalmente, anche con avvocati?

«Anche con avvocati. Perché quando tu, da persona informata dei fatti, ti tirano dentro in un processo, poi devi difenderti. La cosa è stata lieve, anche perché la mia carriera è sempre stata limpida, però mi ha segnato. Io vengo dal vivaio della Carrera, da dilettante abbiamo sempre fatto le cose con serietà quindi non mi chiedevano risultati. Sono maturato nel tempo e per quanto riguarda la parentesi del professionismo, ho dovuto lottare non poco per restare legato ai miei princìpi. Capisco bene che ci fosse una lotta al doping, ma non che ci fosse quell’accanimento che poi ha portato a quelle perquisizioni e al dovermi difendere perché magari avevo nel frigo l’Argotone [decongestionante nasale, nda] ed era quello del mio bambino, che era malato di asma, poverino. Sì, tutte vicende che poi ti segnano. Alla fine fai un mestiere che è quello dell’atleta, pensando di essere considerato una brava persona, vuoi dare uno stimolo anche per i ragazzi giovani. Perché quando ero professionista, per i ragazzi ero comunque un punto di riferimento, e invece ti senti trattato come un delinquente, un drogato, uno che bara. E da quel lato lì ho vissuto poi in prima persona la vicenda di Marco Pantani. Ho vissuto anche il lato oscuro della cocaina in cui Marco, purtroppo, dopo la depressione di Madonna di Campiglio [dopo l’esclusione dal Giro ’99, nda], era caduto. Tutte queste cose mi hanno fatto riflettere e ho detto: okay, fino a 32 anni ci sono arrivato, mi son tolto le soddisfazioni. Non è mai stato un mio punto di arrivo essere un professionista, comunque, essendo un sogno da bambino… Però la vita era anche altro e a trentadue anni, pur con altre squadre che mi chiedevano e un quasi accordo con la Lampre, ho deciso di smettere. Quindi a 32 anni ho cambiato. Ho voltato pagina».

- Hai detto: “Per me la cosa più importante è essere considerato una brava persona”. Perché c’era chi riteneva che un corridore non lo fosse? E un Enrico Zaina oggi come vivrebbe la professione di corridore dovendo rendere conto della propria posizione 365 giorni l’anno? Neanche fosse agli “arresti domiciliari”, se mi passi l’espressione forte e impropria, anziché un libero cittadino che fa l’atleta professionista. Solo il ciclismo vive così.

«Noi siamo stati i primi ad accettare i controlli a sorpresa. Avevamo dato alla federazione, per il controllo antidoping, una parte del nostro incasso dei premi dei grandi giri. Avevamo dato tutte le possibilità per cercare di essere il spiù trasparenti possibile. Certo, poi non è servito, perché alla fine, con questo accanimento, tutto ci si è rivoltato contro. Perché comunque anche da chi gestiva il ciclismo, in quegli anni, son stati fatti dei passi falsi. Si veniva da un modo di governare molto approssimato, e quindi tutto diventava molto campato in aria. Io avevo un direttore sportivo, Sandro Quintarelli, bravissimo sotto l’aspetto umano, ma che era lontano anni-luce da quello che sarebbe dovuto essere un direttore sportivo di una squadra professionistica. Questo senza nulla togliere a Sandro, persona appassionata ma che non aveva in mano le redini della situazione». 

- Era anche un ciclismo, quello in cui Quintarelli è cresciuto, molto “pane e salame” e privo degli adeguati strumenti tecnici e culturali. E che forse andava già stretto alla sua epoca di corridore, figuriamoci dopo.

«Sììì, assolutamente sì. Il problema è stato il trapasso, quando poi sono iniziati determinati cambiamenti a livello gestionale di certe squadre; pur facendo lui parte della Carrera, che era una delle multinazionali del ciclismo, il cui passo però non era comunque adeguato. Ho preso l’esempio di Quintarelli, ma ce n’erano – e ce ne sono – di personaggi così all’interno del ciclismo che non erano al momento giusto nel posto giusto a decidere determinate cose. E forse anche i team manager di allora si son trovati spiazzati, perché dovevano gestire tutta una situazione che fino al giorno prima sembra tranquilla chiara e limpida e che poi nel momento in cui gli hanno messo i puntini sulle i… Parlo del doping, parlo della gestione delle squadre, i contratti. Parlo di tante cose».

- Tu sei arrivato in Carrera nell’88, trent’anni dopo che differenze vedi tra il ciclismo di allora e quello di oggi?

«Anni-luce. Anni-luce, perché adesso gestire una squadra, prendiamo una Sky, ci sono dei meccanismi, dei modi di operare, di pensare, di gestire, direttori sportivi e gli stessi corridori, che sono cambiati, e quindi siamo lontani anni-luce. Noi, pur essendo una delle squadre importanti – in quel periodo, con il diesse Bombini, il patron Domenico Bosatelli e il presidente Luigi Gastaldi, lo era anche la Gewiss, che tra l’altro gestiva in un certo modo l’immagine e il business dello sponsor –, eravamo comunque lontani anni-luce da una Sky di adesso». 

- Come mai in carriera sei tornato prima alla Carrera e poi alla Mercatone Uno, perché erano le squadre più organizzate, che ti davano più garanzie?

«Boifava, scherzando, mi chiamava “il mercenario…».” [sbuffa con una risatina, nda]

- Tu gli rispondevi chiamandolo “Cardinale”?

«Io gli rispondevo: ho imparato da te… [ride…] A quel tempo la carriera di un ciclista, da quando passavi professionista era basata sui dieci anni».

- Forse anche meno.

«Forse anche meno. Dai il massimo in quegli anni, perché sì, la scienza sportiva poi è andata avanti, però l’ipotetica durata-standard di un ciclista era quella. E in quegli anni dovevi amministrare la tua immagine, i contratti, la salute, le corse. E crearti comunque un personaggio. Perché alla fine, anche se ero un buon corridore, il problema è che dovevo avere un “volto” all’interno del gruppo; e col tempo è poi diventato quello dell’uomo di fiducia, il gregario che se dava una parola quella era. E questo poi alla fine è diventato Enrico Zaina come professionista. E in questo gestire la tua persona rientrava anche capire che, nel momento in cui lasciavi una Carrera e andavi, non so, alla Mercatone Uno-Zucchini, governata da Franco Gini e da Antonio Salutini, molti mi dicevano: ma scusa, tu lasci una Carrera e vai con una piccola squadra? Ed io rispondevo: certo, perché ho capito che qui non ho uno spazio. E se voglio trovare uno spazio, devo rischiare, devo mettermi in gioco, devo purtroppo ricominciare da zero con una piccola squadra. Perché poi è quello il boomerang di uno che da dilettante ha vinto il Valle d’Aosta, ha indossato la maglia rosa al Giro d’Italia baby, ha vinto la Bassano-Monte Grappa. Non avevo un gran numero di vittorie, ne avevo poche ma importanti. Quindi, tornando a quell’articolo che mi hai fatto vedere, quando sono passato professionista “il Visenta degli anni Novanta” è stato un timbro difficile per me da portare. Soprattutto alla Carrera, perché da me si aspettavano molto. Quando sono passato pro’ ho capito che per me il vivaio era stato invece un boomerang, perché al vivaio non si chiedeva di vincere le gare ma di essere atleti sani. Io quindi sono passato al professionismo come un atleta che qualsiasi cosa avesse fatto l’aveva fatta inerente a un passaggio professionistico, quindi integro, sotto tutti i punti di vista: oltre che fisico-mentale, anche a livello qualitativo di gare. E mi son trovato alla Parigi-Nizza che son stato in gruppo, ma non ho mai visto la testa della corsa. Ho fatto una settimana in fondo al gruppo. Quattro mesi prima avevo vinto il Giro della Valle d’Aosta, e mi trovo con Bontempi che mi staccava in salita. Per me è stato un ostacolo non facile da superare. Poi col tempo sono maturato. Ho capito di dover tirar fuori, come si dice in gergo, i maroni… E quindi diventi parte di questo ambiente che è il professionismo».

- Hai parlato di vivaio. Boifava è stato uno dei primi se non il primo a crearne uno che facesse da bacino per il professionismo. Ti conosceva già da lì? Poi mi hai buttato lì la Parigi-Nizza. Roche, che era andato a fare il dilettante in Francia, la vinse al debutto, ed era passato pro’ da tre settimane. Aveva 21 anni, ancora oggi il più giovane vincitore di sempre. Il tuo idolo, invece, a parte l’inarrivabile Hinault, era il tuo conterraneo Visentini: quando lo vedevi passare sotto casa tua, parole tue, ti “sembrava di vedere la madonna”. 

«Sì, sì. Hai già detto due nomi con cui io, a ventun anni, dovevo scontrarmi; cioè con una mentalità come quella di Stephen Roche che da solo era partito dall’Irlanda. Era andato in Francia…».

- Non con la valigia di cartone ma quasi.

«Non con la valigia di cartone ma quasi, quindi tu immagina la forza mentale che Stephen Roche poteva avere scontrandosi con le grandi doti di Roberto Visentini, che era un grande atleta. Ed io ero un neoprofessionista che si trovava a “giocare” in mezzo a questi due che l’anno prima, con i coltelli sotto la sella, si erano giocati la vittoria al Giro d’Italia. Sono stati due grandi campioni e di entrambi ho bellissimi ricordi. Poi io capisco Roberto, che dopo la vicenda di Sappada…».

- Tu sei arrivato due anni dopo, nel 1989, ma te la ricordi?

«Io sono arrivato l’anno dopo. Mi dispiace per Quintarelli, per Boifava, ma la cosa è stata gestita male dall’ammiraglia, non dai corridori. Poi, giustamente, Stephen ha fatto la sua strada. Era determinato e asfaltava chiunque trovasse sulla sua strada».

- Asfaltava… o prendeva a sé.

«…o prendeva a sé. Ecco. Roberto, più genuino, più sognatore, pensava che in quel frangente lui non si sarebbe comportato così, riguardo a Roche. Però la cosa è stata gestita male dall’ammiraglia, pur vincendo il Giro d’Italia».

- Il secondo consecutivo. Tu che li hai conosciuti bene, caratterialmente ti senti più affine a Roberto?

«Roberto è sempre stato il mio idolo, sicuramente più di Stephen, ma devo riconoscere che Roche aveva una grande determinazione. Era determinato, sapeva cosa voleva. Non che Roberto non lo fosse ma non lo era in maniera così incisiva come lo era Stephen in quegli anni». 

- Può aver inciso il diverso background? Non è un merito né una colpa, però se uno nasce in certe condizioni…

«Sicuramente sì. Però questo modo diverso di vivere la vita poi pesa sulle scelte, soprattutto quando sei sotto sforzo. Perché lavorare di testa quando sei “a tutta”, come si dice in gergo, se sei determinato, fa la differenza. L’unico ostacolo che Roberto ha avuto nella sua carriera è stato forse proprio quello di non essere determinato su determinate cose. Non che non fosso serio, perché tutte le dicerie che si sentivano – ma, sai, Roberto non si allena… – erano assolutamente non vere. Roberto ci teneva, faceva il suo mestiere, era un grosso professionista, però non era determinato, non aveva quella determinazione. Io stesso non ero determinato. A me spesso e volentieri hanno rinfacciato che avrei potuto dare molto di più, poi però ognuno nella sua vita gestisce e cerca di fare quello che crede. E per me, come probabilmente anche per Roberto, il ciclismo non era tutto, ecco».

- Tu però hai anche detto che forse questa è stata la tua salvezza quando hai smesso.

«Sì, perché poi se per te il fulcro principale diventa la bicicletta, nel momento in cui capisci che la bicicletta non c’è più, diventa un rebound non indifferente. Già lo è smettendo. Perché, sai, da aver tutte le luci dei riflettori addosso e dall’oggi al domani smetti, questi si spengono. E si chiudono anche i rubinetti economici».

- E al lavoro torni a essere soltanto Enrico, non più Zaina il campione…

«E poi io ho smesso a 32 anni, ho dovuto inventarmi un mestiere, mi son messo in gioco anche su altre cose. E quindi tutte queste cose pesano, cioè a livello psicologico per un atleta non sono facili. È più facile per uno che resta nell’ambiente, tipo direttore sportivo, massaggiatore, meccanico, perché comunque vivi ancora in quell’ambiente, sei circondato da gente che conosci, ti senti un po’ difeso, no?».

- Tu ci hai provato anche a rimanere nell’ambiente, come procuratore. Una figura che però non ti si addiceva...

«No, anche perché in questo aspetto ero troppo vicino ai miei (ex) colleghi. E quindi nel momento in cui dovevo andare contro un po’ quelle che erano le normali basi, chiamiamole così, etiche, mi diventava difficile, quindi… Ho capito che non riuscivo più a dargli una garanzia e che per loro diventavo un ostacolo».

- Perché? A che tipo di compromessi si deve a scendere, in generale?

«Ma perché, in generale, tu vai da un team manager e hai Pinco Pallino che vale cinque e… non è la prassi ma spesso e volentieri succedeva che dovevi farlo firmare a tre per prendere poi tu, da parte, una parte di questo compenso. E quindi mi veniva difficile. Non avevo il carattere, non avevo la faccia per poi guardare negli occhi chi avevo tradito cinque minuti prima. E devo dire che per poi, col tempo, mi sono guadagnato forse più la stima di determinati miei ex colleghi in quel frangente della mia vita che da compagno di squadra o avversario. È stata una parentesi della mia vita un po’ particolare perché capivo che da una parte avevo i ciclisti, cioè i professionisti, però dall’altra mi scontravo con quella parte, diciamo dell’organizzazione del ciclismo, che secondo me era fatta da gente proprio incompetente».

- Quello che dicevamo prima…

«Quello che dicevamo prima. Poi tra l’altro non eravamo neanche inquadrati, come procuratori, perché non esisteva la figura del procuratore. Quindi io mi affidavo a un avvocato e a un commercialista per avere due figure professionali, perché spesso e volentieri arrivava quello che si intortava il corridore di turno, promettendogli e millantandogli dei contratti che poi alla fine venivano sempre non rispettati. E quindi ti trovavi il corridore che doveva firmare per cento milioni di lire, firmava per ottanta e magari ne prendeva cinquanta perché poi alla fine lo sponsor non pagava. Quindi erano tutti questi giochetti un po’ particolari, con dei contratti tra l’altro poi firmati, mi ricordo, anche con delle scritture private che non valevano assolutamente niente, mai depositate, insomma tutte cose campate un po’ così. Ecco perché ci ricolleghiamo al discorso di prima». 

- Cioè a un certo tipo di professionalità che mancava. Mi hai descritto Roche e Visentini dal punto di vista caratteriale, della mentalità, invece ti chiedo, visto che eri in gruppo, un loro profilo tecnico. E magari se me li metti in fila.

«Roberto è stato un talento. E lo è stato sin da giovanissimo, perché poi tra l’altro chi seguiva Roberto era Mino Denti, che è un personaggio…».

- Con lui poi vi siete messi in società, no? È vero che a Mino Denti ti mette in bicicletta e gli basta un’occhiata per capire quali sono i tuoi difetti di postura, di posizione in bicicletta, le misure eccetera?

«Sì. Io ho conosciuto Mino Denti e Piero Serena, i due che avevano seguito anche Roberto, e ho imparato molto. Piero Serena l’ho conosciuto che avevo tredici-quattrodici anni. Venivano a vedere ’sto ragazzino che andava bene, che ero io, e quindi cominciavano già a farsi dei progetti su quello che poteva essere il mio futuro. E devo dire che ho imparato tantissimo. Da juniores, c’erano questi tubolari Vittoria e Mino mi diceva, ti faccio un esempio, come lo faceva anche con Roberto tra l’altro: guarda che domani piove devi mettere i CG perché il CG ha quel tipo di copertura un po’ più zigrinata e tiene di più, li sgonfi un pochino… Sennò se non piove metti i CX, perché son più scorrevoli. Poi provavo la salita, provavo i tempi, già da juniores, avevo il primo cardiofrequenzimetro che Moser aveva usato nel suo primo record dell’ora: era un “televisore” con tutta una “braga” da mettere qua… E facevamo già i primi allenamenti con ripetute dietro motori…».

- C’è chi dice che se Visentini fosse stato seguito da Mino Denti per tutta la carriera, Roberto avrebbe ottenuto molto di più. Sei di quel partito lì?

«Sì, sì, sicuramente. Sì-sì-sì. Roberto purtroppo – e vien da dire purtroppo perché era un talento, ma sempre sotto l’aspetto del non esser determinato come invece era Stephen Roche – aveva bisogno di un Mino Denti; come Pantani su determinate cose aveva bisogno di un Luciano Pezzi. Queste figure così legate a questi atleti alle volte fanno la differenza». 

- Oltre al fattore tecnico, anche per la personalità e l’esperienza tali da dirgli anche dei no quando serve?

«Soprattutto a dirgli dei no».

- Questo era forse un limite di Pantani, che amava circondarsi di yes men, vero?

«Il problema degli yes men, come si dice in gergo, è proprio quello che tu alla fine ti senti talmente onnipotente e ti circondi di persone che ti dicono sì, sempre sì, anche nel momento in cui invece, oltre al no, dovrebbero anche magari darti uno scappellotto pure se hai trent’anni. Quindi probabilmente queste figure erano importanti. Nel mancare queste figure, sotto certi punti di vista, sono poi venuti meno anche gli atleti».

- E questa fissa di Visentini che amava correre in decima-quindicesima posizione a destra o a sinistra del gruppo, sempre vento in faccia: con Mino Denti a guidarlo magari l’avrebbe corretta?

«No, perché tra l’altro Mino faceva degli schemini… Io me li ricordo ancora gli schemini di Mino: a mo’ di freccia, con tutti i pallini, che poi erano le teste dei ciclisti; ti spiegava come dovevi stare in gruppo, quindi c’erano queste sedute dopo l’allenamento e lui ti spiegava che se tu stai qui, prendi l’aria, non vedi la corsa… Quindi su Roberto ci doveva essere un uomo, come col Panta potevo essere io assieme a Velo, per tenerlo coperto, qualcuno che lo tenesse lì e che nel momento in cui lui si distraeva magari lo prendevi per un’orecchio: ohé, vieni qua, Roby, che stiamo qui. Ecco, da quel lato lì…».

- Magari gli sarebbero state evitate alcune cadute che gli hanno segnato la carriera…

«Sì, tutte queste cose qua, ma non è facile comunque, eh. Quando hai a che fare con un campione, di quel carisma, devi essere uno…».

- …bello tosto. E credibile. In quell’articolo che ti ho mostrato, di te dimostravi già una certa percezione, una bella sicurezza di te. E dicevi: se non riesco ad avere successo, quindi a correre come dico io, piuttosto smetto. Quand’è che invece hai capito che saresti diventato il famoso uomo di fiducia di cui prima mi parlavi?

«Al terzo anno da professionista. Allora, devo dividere la mia carriera in due step. Da dilettante, ho capito che ero uno tra i migliori a livello mondiale. Perché poi ti trovavi anche con altri corridori che dopo sono passati professionisti e quindi capivo che potevo dire qualcosa. Però capivo anche che passando professionista dovevo ricominciare da capo. Perché non è detto che vincendo il Giro della Valle d’Aosta poi…».

- Insomma il gradino era bello grosso.

«Era bello grosso al tempo perché c’era proprio uno stacco netto. Non si correva come fanno adesso i dilettanti in giro per il mondo, ma solo a livello nazionale. C’era qualche gara che andavi a fare all’estero con la nazionale, ma…».

- Erano più gli altri a venire qua da noi, no? Tipo alla Settimana Bergamasca, tu nel 1993 l'hai anche vinta…

«Alla Bergamasca una volta trovavi i russi o gli americani, ma poi era finita lì. Il confronto ce l’avevi lì. Poi, passato professionista, quando ho vinto la tappa di Salamanca-Ávila al Giro di Spagna ho capito che potevo dire di nuovo la mia. Questo è stato il quarto anno [da pro’]. E devo dire che, pur essendo caduto all’Amstel Gold Race, con i punti alla una gamba, quasi rischiando due volte di ritirarmi, sono arrivato nell’ultima settimana a giocarmela in salita con Steven Rooks [1] e Gert Jan Theunisse [2]. Questi personaggi qui che andavan via a testosterone e forse non solo, ed io che ero scappato dalla Carrera e quasi tutti mi davano un po’ per finito anche perché nella Carrera non ero riuscito a emergere. Poi invece sono sbocciato proprio in una piccola squadra, vincendo tra l’altro una tappa importante della Vuelta. Lì ho capito che c’ero ancora. Perché, sai, dopo cominci a farti delle domande. Cominci a dire ma perché, ma percome? Poi sicuramente qualcosa di strano c’era, perché si vedeva. Però dentro di me mi sono detto: se vuoi continuare, questo può essere ancora il tuo posto. Quindi ho insistito».

- Nel ’92 Roche è tornato in Carrera, ma non vi siete incrociati.

«No, nel ’92 io ero con la Mercatone Uno-Zucchini. Poi da lì sono andato alla Gewiss, ho fatto un anno alla Gewiss poi son tornato in Carrera, era il ’95. No, non ci siamo incrociati. Io l’ho sfiorato e dopo l’ho avuto come avversario».

- E da avversario hai notato un Roche “diverso”?

«Sì. Stephen, quando poi l’ho ritrovato che lui era in Carrera ed io ero in Gewiss, non era sicuramente il Roche determinato, probabilmente era forse anche appagato. Forse, sai, arrivi a un certo punto della tua carriera che non hai più quella voglia, quella sete di vittorie, di fame. Stephen già quel periodo là cominciava a pensare a come investire i soldi. So che aveva aperto, mi sembra col fratello, un hotel, poi aveva anche una ditta che faceva allarmi per auto [la Eurodatacar, fondata a Dublino il 29 ottobre 1994 e chiusa il 3 marzo 2000, nda]. Era appassionato di rally, quindi cominciavi a vedere, come per Bugno che nel ’95-96 stava prendendo il brevetto da elicotterista, che…».

- …con la testa, come corridori, già non c’erano più?

«Sì, sì, sì». 

- E lo stesso vale per Visentini?

«Io li “pesavo” tutti. Io quando stavo in gruppo, di ognuno mi facevo un identikit. E poi avevo un altro pallino. Mino [Denti] mi aveva talmente inculcato nella testa la fissa della posizione, mi diceva: guarda com’è messo in bici quello là… Ad esempio quando non correvo una gara, anche da professionista spesso mi capitava, andavo a casa di Mino, ci mettevamo lì, guarda quello come ha sbagliato, vedi? Non doveva scattare lì. Doveva partire là. Tutte queste cose qua. Era un continuo. Poi, a me piaceva. Rubavo il mestiere. Io, come Mino, sono arrivato a capire subito come uno è messo in bicicletta. Così, mi passa sulla strada un attimo, ho già visto tutto, lo battezzo subito. E ti dico se e dove ha problemi. Perché poi è anche un dono, eh. Spesso e volentieri mi sono messo qui con qualche ex a spiegargli come, alla fine, sia tutto un gioco di leve, no? La posizione in bicicletta è un gioco di leve. C’è un punto morto, c’è un punto di spinta, ci sono tre appoggi. Io poi sapevo com’era costruito un telaio. Perché quando Mino Denti faceva le biciclette marcate “Mino Denti” e Piero Serena gli saldava i telai, io sapevo perché bisognava normalizzare un telaio fatto in acciaio in quel modo. Io lo mettevo in una sabbia a raffreddare per più di dodici ore, perché sennò il materiale perdeva elasticità. Io a 15-16 anni ero tutto invasato per queste cose».

- Da questo punto di vista quindi eri un privilegiato: ne sapevi più tu di quelli che poi dovevano guidarti.

«Eh sì. Perché quando io andavo in Carrera da Luciano Bracchi, che mi faceva la bicicletta su misura, quasi gli “spiegavo” io come doveva farmi la bicicletta su misura. Non perché volessi fare il supponente, ma perché ci tenevo a quel che facevo e quindi gli dicevo: “Guarda, Luciano, che quella non è la ‘mia’ bici”. Io entravo in Carrera – se Luciano è sincero te lo può raccontare, io non ho niente da nascondere – e c’erano sei biciclette di sei corridori che ancora dovevano ritirarle. Io arrivo e vedo una bicicletta con scritto “Zaina”, lì appoggiata al muro. Io guardo Luciano e gli dico: “Non è la mia bicicletta”».

- Così, a colpo d’occhio? 

«Sì, sì. “Non è la mia bicicletta”. “Ma figurati...”. “Non è la mia bicicletta”. A un certo punto ci siam messi lì col metro…».

- Che cos’è che avevi notato al volo e che non ti sconfinferava?

«Eh be’, nella tua mente hai talmente stampato quello che è il tuo ideale di bicicletta che, se sei un professionista, lo vedi lontano un chilometro. Io avevo questa dote. E ce l’ho ancora adesso con i cani, ad esempio. Io quando vedo correre un setter inglese, pur non avendo avuto una grande esperienza, ma venendo da quel passato del ciclismo, del posizionamento, il guardare il millimetro, ho subito la sensazione…».

- E che cosa avevi visto, in quella bici, che non andava? Perché non era la “tua” bici?s

«Era sbagliata sull’inclinazione e sul piantone sterzo, sul tronchetto dello sterzo. Luciano un po’ mi ha anche fregato. [sorride] Più di una volta l’abbiamo anche misurata, e devo dire che quando la mettevo col filo a piombo, aveva ragione lui. Però c’era qualcosa che non mi quadrava. E poi, io, che ero uno stronzo di natura, misuravo la bicicletta, guardavo quella del Chiappa e dicevo: “Cazzo, mi han fatto la bici uguale a quella di Chiappucci”. Mancava solo un centimetro di differenza nella lunghezza, perché io, essendo leggermente più alto… E poi dopo era la stessa bicicletta del Chiappa. Loro avevano già calcolato che se al Chiappa in salita succedeva qualcosa… Così. Però, vedi, poi han trovato uno come me, che magari diventava anche antipatico ma nello stesso tempo era anche una persona seria, quindi…». 

- Non so se anche caratteriali, ma hai tante affinità con Fabio Bordonali. Non solo per questa maniacalità verso la bici ma anche per una visione più generale del ciclismo, per questo passare magari da “antipatico” perché lavoravi in un modo professionale. Poi magari non vi trovavate come carattere…

«Con Fabio non ci trovavamo per altri aspetti, però anche Fabio esce da Piero Serena, stessa scuola, quindi sapeva benissimo cosa voleva dire, e cosa poteva darti, una bicicletta fatta male oppure fatta bene».

- Bordonali è un altro che aveva gli strumenti, anche culturali, per reggere bene il dopo-atleta.

«Fabio poteva essere il manager che poteva dare una svolta – perché tra l’altro ha anche avuto sponsor importanti – e invece purtroppo è scaduto. È scaduto dal voler fare il Davide Boifava della situazione, ed è quello che un po’ è successo anche a Bruno Leali, a finire per essere il Marino Basso. È diventato una via di mezzo tra Marino Basso e Davide Boifava, solo che Davide Boifava aveva una personalità e un modo di fare che se li beveva tutti e due. Davide comunque sapeva il suo mestiere ed è stato una persona che mi ha dato tanto, anche se con lui non ero d’accordo su determinate cose. Fabio, purtroppo, era partito bene ma poi è scaduto tra Marino Basso e Davide Boifava. Questo perché? Perché purtroppo troppi corridori devono ancora prendere degli stipendi, dei soldi. Non lo dico io, Zaina Enrico e tra l’altro in parte è toccato anche a me. Non critico Fabio perché non ha dato i soldi a me, perché poteva anche esserci un motivo: non avevo reso, non avevo dato quello che potevo dare; ma a tanti altri…».

- Qui stiamo parlando della Brescialat di Bordonali, Leali e Giupponi?

«Della Brescialat. Lì, sai, è stato il periodo della Mercatone Uno-Zucchini e poi è nato il sodalizio Giupponi-Leali-Bordonali».

- Sono stati i primi tre corridori in attività proprietari della squadra in cui correvano.

«Forse quello che aveva, chiamiamolo così, pelo sullo stomaco era Fabio, che dopo l’ha anche dimostrato. Bruno s’è messo in gioco più di una volta, anche a livello personale, rischiando molto di suo, però non aveva le capacità per fare quello che voleva fare. Sta ancora tenendo duro con la squadra dilettanti, ma qualche casino l’ha combinato». 

- Anche lì, ci sono delle storture in questo mondo che più italiano non si può. C’è qualcosa che non va.

«C’è qualcosa che non va. È così. Io adesso è tanto che non vado a vedere una gara dei professionisti, ma quando vedevo passare le ammiraglie e fino a sette-otto anni fa vedevo che in gruppo c’erano ancora dei direttori sportivi di un certo tipo, e dei team manager, ti fai delle domande e poi ti dai anche delle risposte. Perché dici: ti credo che il ciclismo delle volte cade in fallo, perché son sempre quelli che girano. E il meccanismo è quello».

- Vale in ammiraglia come nelle segrete stanze del potere. Perché se vai in archivio a prendere dei vecchi articoli, a parte qualche capello in meno, le facce son quelle lì…

«Sì, son quelle lì. Poi, guarda, bisogna anche essere obiettivi e sinceri nelle cose. Hanno fatto una guerra, per dirti, a Conconi e a Ferrari, che erano due, se vuoi, scienziati. Non metto in discussione l’etica che i due avevano, perché quella è un’altra cosa, anche se…». 

- Vengono spesso accomunati ma non sono mica uguali…

«Però erano due che sapevano cosa facevano. Nel bene e nel male».

- Due luminari, bisogna chiamarli per quello che sono.

«Bravo. Per quello che sono: due luminari. Nel bene e nel male. Tra l’altro credo che al tempo l’Università di Ferrara prendesse dei soldi dallo Stato italiano, erano ufficialmente…».

- Conconi era medico ufficiale del CONI.

«Lo so. Lo so perché io quegli anni facevo i primi test di valutazione della soglia anaerobica. E quindi andavi all’Università di Ferrara e tutte queste cose, quindi sapevo che dietro c’era una struttura, c’erano degli scienziati. Poi che nel tempo abbiano fatto cose buone e cose cattive, è un discorso che…».

- …che non sta a te giudicare?

«Ma tutti quei “personaggetti” che in quel periodo giravano attorno al ciclismo non sono mai stati “presi”, e messi alla porta».

- Ti riferisci agli stregoni?

«Sì. E torniamo al discorso che abbiamo fatto all’inizio. C’era quel pressapochismo anche in squadre importanti, con sponsor importanti, che poi scadevano in queste cose qua. Ma poi arrivavano questi boomerang e quindi davi spazio ai NAS, che venivano a fare le perquisizioni, davi spazio a tante cose che si potevano evitare. Evitare a livello medico-sportivo, con l’organizzazione e la serietà. E tra l’altro un anno c’eravamo anche proposti per dire: facciamo un Giro d’Italia non più di 22 giorni ma di 15, che è più umano, no?»

- È la proposta (ma non per il Tour) del presidente dell’Uci, il francese David Lappartient.

«Sì, sarebbe più umano. E allora…».

- Però dovrebbe valere anche per il Tour, sennò…

«Eh, bravo. Vedi allora che il “Io non rischio la salute” di Giorgio Squinzi aveva un valore, se vuoi, più da imprenditore, da uomo di marketing? Perché, scusami, mi fai fare quattro volte il Mortirolo e poi dici che non devo prendere la creatina perché mi fa male… Eh, cazzo: fare quattro volte il Mortirolo non è che mi faccia bene, eh! E allora, ventidue giorni sotto acqua, neve, il fisico… Quello va bene perché fa spettacolo?! L’altro, perché – nei limiti nella legge – devo sostenermi, eh, quello no».

- Prima me l’hai un po’ buttata lì: “Io non ho niente da nascondere”. Invece ci sono dei “personaggetti” che qualcosa da nascondere magari ce l’hanno? A chi ti riferivi, sempre a certi praticoni, o a questioni di soldi, magari promessi e non dati. O parlavi in generale?

«In generale. Era tutto un “se a quel corridore non dai dieci milioni, me li tengo io…”. Queste cose qui, si va a scadere nel marocchinaggio».

- Oppure nel classico giocare su più tavoli: vai tu a chiedergli quanto vuole di rinnovo, quello spara una cifra e…

«Si “giocava” anche un po’ su questo. Anche perché quando uno corre in bicicletta, ha un po’ il paraocchi. Vede solo l’andare forte, il risultato. E il gestire la tua persona, il tuo futuro, viene sempre un po’ messo da parte. Perché lo scopo principale è dover vincere-andare forte, vincere-andare forte».

- Nonostante questo sei tornato anche in Carrera. Come mai?

«Sono tornato in Carrera perché quando ho vissuto la Gewiss – e lì secondo me ha sbagliato Bombini… Ti racconto questo aneddoto per farti capire…».

- Quello che mi stai per dire rimane off record?

«No, guarda, non ho alcun problema, niente da nascondere. Più volte avevo chiesto a Bombini: fammi firmare il contratto ché, porco cane, ho dimostrato… Sono qua, leale, quando c’è stato da tirare ho tirato, quando dovevo aspettare qualche corridore l’ho aspettato. Più di così… Non mi son mai ritirato, in nessuna corsa, ti ho dimostrato professionalità. Perché anche questo poi fa la differenza… Poi alla fine ho capito che mi voleva un po’ portare avanti per poi darmi di meno».

- Prendendoti per il collo perché non c’era più tempo.

«Sì. Quando poi ha capito che gli stavo sfuggendo, sotto la galleria del Sestriere, nella penultima tappa del Giro d’Italia del ’94 vinto da Berzin: “Stasera in camera firmiamo”. Io, infreddolito, lui mi si è avvicinato con la macchina e mi ha detto questa cosa».

- In corsa?

«In corsa. Mi sono sfilato, e c’era Eusebio Unzué della Banesto, che nello sfilarmi mi dice: “Stasera se vuoi parliamo. Facciamo il contratto. Firmiamo”. Io avevo già dato la parola a Boifava e sono andato alla Carrera».

- Però. Ne avevi tre di opzioni quella sera lì…

«Sì, sì. Tre. Sotto la galleria del Sestriere».

- Bombini poi che cosa ti ha detto?

«Emanuele? Non lo so, lui, boh… Gestiva le sue cose a modo suo, io non ero d’accordo su…».

- E da Unzué ci sei poi andato?

«No, devo dire che Unzué è sempre stato un gran signore. Come lo è sempre stato Indurain, e io ero rispettato. Non ho mai preso in considerazione seriamente di andare a correre in Spagna perché, devo esser sincero, troppe corse, troppo… Io ero uno che vedeva il ciclismo un po’ a suo modo. Io ho sempre avuto la passione della caccia. Una volta che firmavo il contratto… io avrò fatto forse un anno il Lombardia poi dopo non… Ero così. Se vuoi, potevo anche essere un menefreghista però ho sempre pensato che oltre alla bicicletta c’era la vita. Il ciclismo non era tutto per tutto, e l’ho sempre vista un po’ così. Forse avrei potuto vincere di più. Già se non ci fossero state le cronometro…».

- Uno dei tuoi pochi rammarichi della carriera è che anche a livello giovanile non le hai mai curate. Perché non venivano curate? Eri più tu a non volerle curare o chi ti seguiva?

«Diciamo che io sono arrivato nell’èra-Indurain, quindi le cronometro nei grandi giri…».

- A maggior ragione, quindi, per te che eri un corridore da corse a tappe…

«Infatti, nel salvaguardare il mio fisico, la mia mente, Boifava non ha salvaguardato quello che… oppure non ha guardato avanti, al futuro, a quello che invece era una carenza non indifferente. Era una dote che comunque che andava allenata, studiata. La prima bicicletta a cronometro che ho utilizzato è stata alla Parigi-Nizza. Al prologo, su otto-dieci chilometri, non mi ricordo più, ho preso quasi un minuto. Una roba… Era una cosa cui non sono mai stato abituato. Già la posizione, strana, con il manubrio a corna di bue, come le chiamavano al tempo. Io mentalmente non ero pronto. E mi ha segnato, pur non essendo uno specialista, nel tempo mi ha segnato. Un pochino però poi mi sono affinato. A tal punto che, quando ho fatto secondo al Giro d’Italia ’96 e ho vinto la tappa del Pordoi, il giorno prima c’era la cronometro della Rosina [la Vicenza Marostica di 62 km, nda], vinta da Berzin, io non sono andato a tutta, pur facendo una crono e avendo sulla scalata della Rosina il miglior tempo. Ho fatto la crono col cardiofrequenzimetro guardando di non andare fuori soglia, poi dalla metà in poi ho dato tutto, ma la prima metà l’ho fatta… Il giorno dopo ho attaccato…». [ride]

- Quella crono, 62 km da Vicenza a Marostica, la vinse Berzin in 1h13’59”, con 1” su Abraham Olano e 46” su Alexandre Gontchenkov. Mica male come podio…

«Io lì ero arrivato esilissimo, però avevo il record della scalata della Rosina. E ho vinto anche cinque milioni di lire, ancora mi ricordo. Però il giorno poi ho attaccato e non avevo nelle gambe la fatica per la crono che avevano invece Pavel Tonkov e tutti gli altri. Dovevo giocarmela un po’ così…».

- Di quel Giro hai detto che se tu lo avessi perso per pochi secondi magari il tuo rammarico sarebbe stato più grande. Invece, chiudendo secondo a 2’43” da Tonkov, puoi dire: io ho dato tutto, ha vinto il più forte. E poi quel podio era un parterre de roi, con due ex campioni del mondo: Tonkov negli juniores a Bergamo '87 e Olano nei pro' a Duitama '95.

«Sì, non ho il rammarico di aver fatto o di non aver fatto. Quello che potevo dare l’ho dato. Anzi. Sono stato forse bravo a gestirmi. Il fatto di non dare tutto a cronometro e giocarmi tutto sul mio terreno, la salita. E poi Tonkov era comunque un campione, l’ha dimostrato nel tempo. Io potevo giocarmi qualche tappa in salita ma lui era più completo di me, difatti poi a cronometro ha fatto la differenza. Certo, se togli la cronometro, potevamo giocarcela, ma purtroppo le cronometro c’erano, quindi onore a…». [sorride]

- Fatte le debite proporzioni, vedi delle analogie fra quella Carrera e i grandi team di oggi, anche se allora la forbice tra le big e le piccole-medie non era così larga?

«No, non era più il team di una volta». 

- In che cosa non lo era più? Si era alzato il livello o si era abbassato lo standard-Carrera?

«Si era alzato il livello, ma un po’ tutte e due le cose. Tra l’altro, l’anno dopo, è diventata Asics». 

- La struttura però era sempre lo stessa, no? Con Boifava, Quintarelli eccetera.

«Sì, Boifava, Quintarelli, Martinelli, che poi, l’anno dopo, è andato con il Panta. Panta e Cenni, quante volte mi hanno chiamato per dirmi vieni con noi alla Mercatone. E io gli dicevo: guarda, non ho ancora firmato ma ormai ho detto che vado con Boifava. Quante volte mi hanno telefonato».

- E alla fine un po’ ti sei pentito, detto col senno del poi?

«Mi è dispiaciuto dire di no, più che a Panta, a Romano Cenni. Non perché avessi qualcosa con Marco, anzi. Però capivo che Cenni e Pezzi ci tenevano tantissimo. Mi ricordo che Cenni mi disse: “Quello che Boifava ti dà te lo do io, anzi ti do qualcosa di più, non è un problema. Però non era una questione di soldi, non è mai stata questione di soldi. Avevo dato la parola, quindi mi sentivo… E oltre ad aver dato la parola, mi sentivo anche di giocarmi, un anno, le mie possibilità, le mie chance, da capitano. E comunque è stata una scelta che ho fatto, sfortunata, perché poi ho avuto due-tre vicissitudini… Un’uretrite e, l’anno dopo, alla Brescialat, la mononucleosi, che presi da mio figlio. E quindi, dopo il ’96, ho fatto due stagioni un po’ incolori per questi due motivi. Con l’Asics ho avuto l’uretrite e al Giro d’Italia mi son fermato, poi ho fatto quarto al Giro di Spagna [a 7’24” dal vincitore Alex Zülle, nda]. Che pena che ho fatto: al Giro d’Italia dopo dodici tappe mi sono fermato, pensando che fosse una prostatite, invece era un’uretrite. All’interno del canale dell’uretra si era formata una vescica che mi aveva creato questa infezione. Praticamente non potevo stare seduto e allora andavo a correre in montagna. Ho fatto tre mesi di corsa in montagna, pochissima bicicletta, finché non sono guarito. Mi facevo venire a prendere da mio cognato, perché finché sali richiami il gesto della pedalata, quando scendi invece la contrazione è totalmente al contrario e quindi era deleteria. Aspettavo mio cognato con la macchina, mi portava giù e facevo le ripetute in montagna a piedi. Pensa te, se lo dici a uno adesso… [sorride] Eppure ho fatto quarto alla Vuelta. Questa cosa comunque mi ha segnato la stagione. La Vuelta era già stata spostata a settembre, quindi ormai i giochi erano fatti. E anche l’anno dopo, con la mononucleosi, mi ha segnato. Poi non sono più stato l’atleta di prima. Ci son voluti due-tre anni prima che mi sentissi ancora in forma. Perché poi è una malattia subdola che alle volte cronicizza. Bortolami ha avuto seri problemi con la mononucleosi, tra l’altro riscontrata dopo un anno. E con la mononucleosi ha fatto un Tour, pensa te. E anche lui mi diceva spesso: “Da quando ho avuto la mononucleosi non son più stato io”. Però dopo ho finito i due anni con la Mercatone Uno».

- E come ci sei finito nel progetto Brescialat, perché eravate tutti bresciani? Detto col senno del poi, magari uno le antenne poteva drizzarle prima, o no?

«Dopo il quarto posto alla Vuelta. No, lì è stato Mario Cioli. Cioli e Bordonali. Loro erano lì, mi sembra, a fare il Giro di Spagna e quindi, dopo che ho fatto quarto alla Vuelta, è nato questo “innamoramento” tra bresciani, chiamiamolo così… [sorride] Io ero un po’ “spiazzato” perché mi stavo guardando in giro ma capivo che le proposte non erano serie. Fabio invece è arrivato con un contratto e quindi ho firmato. Poi con la Brescialat, già al Giro d’Italia di quell’anno, avevo preso l’accordo con la Mercatone Uno per andare poi, nel ’99 e nel 2000, con la Mercatone Uno. Quindi avevano già visto che gli servivo, perché quando avevo detto di no a Pantani, tu pensa, era stato nel ’96, poi ci sono andato nel ’99. E il Panta mi aspettava ancora dal ’96».

- A proposito di bresciani, prima parlavi di impatto duro nel professionismo: non dico ci fosse del nonnismo, però diciamo che i veterani si facevano rispettare. Anche se tu eri della zona, com’è stato il tuo inserimento in squadra e in gruppo?

«Ah, be’, sì. Devo dire che prendere i tre – Bontempi, Ghirotto e Perini – bisognava prenderli col contagocce, perché tutti e tre insieme erano un po’ pesantini».

- Vale anche per Chiesa? No, perché qualcosina me l’ha raccontata.

«Dei tre neoprofessionisti bresciani, cioè Zaina, Chiesa e Pastorelli, Mario era… Però con me sono stati, devo dire, abbastanza… Non so c’era un rispetto… Sai, in allenamento magari ogni tanto mi giravano le scatole e li staccavo anche».

- Ma perché tu, rispetto per esempio a Mario, avevi un temperamento più fumantino?

«Mario forse accusava di più, a livello forse personale, determinate cose. Io me le lasciavo un po’ scivolare addosso».

- Eri di scorza più dura tu?

«Sì, sì. Io ho preso anche Guido e gli ho detto: “’scolta, Guido, c’è qualcosa che non va? No, perché… Parliamone”. Perché quando siamo io e te, siamo amici, siamo anche andati in vacanza insieme, a Cuba. Poi ti trovi con altri tre o quattro e diventa… E devo dire che lì Guido è stato anche… Mi fa: “Guarda, io assolutamente non ho niente con te, questo però è come un servizio di leva, qui secondo me chi ci deve stare deve starci in modo giusto».

- Cioè stare alle regole. Le loro?

«Più che alle loro regole, ci doveva stare uno che doveva sopportare determinate cose».

- Non so se mi sarei trovato bene. Non credo.

«Ma perché anche loro venivano da... Prima ti facevo l’esempio di “Pacho” Lualdi o di altri personaggi, era gente così. Lo stesso Gianluca Tonetti, che tra l’altro era uno scalatore forte, ha avuto difficoltà. Quando eravamo dilettanti, in salita eravamo io, Tonetti, Lelli e altri due o tre, Tonetti alla Bianchi con Moreno Argentin, tra l’altro, e con tanti altri: hanno avuto difficoltà. Non riuscivano a superare quello scoglio di dire: okay, passato questo, poi sono nel gruppo. Se vuoi, non erano neanche cose pesanti, però, sai, lunghe trasferte, non abituati a star via da casa… Ecco perché, dicevo prima, noi eravamo sì in un vivaio, ma anche su questo non eravamo pronti. Facevamo trasferte di una settimana, massimo dieci giorni. Quindi stare via ventidue giorni a Dénia, in Spagna, con tutta la squadra, con gente che aveva sei-sette-dieci anni più di te, non era semplice. Fatica, lontano da casa, sai, degli sbarbatelli che pensavano di conquistare il mondo, con questi qua che ti asfaltavano quando volevano, ti mettevano… Non era una cosa semplice».

- Con Bontempi però ti accomuna il difficile rapporto umano col Chiappa…

«Be’, al Chiappa tanto di cappello per quello che è stato come atleta. Tanto di cappello, io lo rispetto e dico che ha avuto come dote questa forza di volontà di ripetersi e di riconfermarsi nel tempo. Quello sì. Poi come persone siamo lontani anni-luce. Non ho un ricordo bello di Chiappucci, e mi dispiace perché alla fine io sono una persona che ti dà anche. Però quando...».

- Questo va al di là di questioni di squadra o economiche, era una cosa di pelle?

«Sì, una cosa di pelle. Una persona che non è mai… Ma poi ha un modo di fare così, non lo so, boh… Non ho dei ricordi belli quindi non saprei cosa dirti in particolare. Potrei raccontarti tanto e niente».

- Sono cose vostre e forse è giusto che debbano rimanere tali. Dimmi invece di Visentini: tu a Sappada non c’eri però l’hai conosciuto e ti chiedo se Sappada non sia stata un pretesto perché dell’ambiente non voleva più saperne. Come sai, certi ex compagni o certe persone legate al ciclismo ancora le frequenta. Va a cena con loro. Quelli che non sopporta sono certi personaggi che girano attorno al ciclismo: maneggioni, certi dirigenti, certi giornalisti...

«Sì, fa parte del personaggio. Mettiamola così: probabilmente Stephen Roche avrebbe sorvolato, oppure si sarebbe fatto scivolare tutto addosso, perché aveva un obiettivo. Era determinato a raggiungere quello scopo, quindi tutto quello che poteva essere “esterno” non poteva scalfirlo. Sono successe alcune cose, a Roberto, anche abbastanza pesanti tipo sputi, insulti…».

- Beh, quelli anche a Roche, anche perché la stampa italiana dell’epoca, con certe campagne, non fu proprio correttissima. E tantomeno imparziale.

«Sì, però è stato nel momento in cui Roberto ha messo a nudo il suo dissapore, il suo disappunto su Stephen, poi i tifosi… Però questo è venuto, diciamo, da uno sfogo, sbagliato, però del momento, anche da parte del tifoso. Mentre invece le storie su Moser, le spinte, Hinault che addirittura viene in Italia ma nelle cronometro non vuole l’elicottero perché, memore della storia di Fignon [al Giro ’84, nda], son tutte cose che… è storia, insomma».

- E Roberto non le mandava a dire… 

«Roberto non le mandava a dire».

- Però non aveva torto, si può dire?

«No, aveva ragione, altro che non aveva torto. Però, sai, il fatto di arrivare sotto il palco da De Zan e fare certe esclamazioni, diventavi il personaggio ma allo stesso tempo ti mettevi contro il mondo». 

- E certo non lo aiutavano certe sue battute di cattivo gusto a Torriani, del tipo: “Torrianiii, guarda che per te ho un modello speciale”, riferendosi all’azienda di pompe funebri di famiglia. Ovvio che prima o poi quelle cose le paghi, no?

«Sì-sì. Roby ha vissuto, ha cavalcato, secondo me troppo, l’onda del personaggio Roberto Visentini, il bel ragazzo, la Ferrari…».

- Ha pagato anche l’invidia. Lui dice: “C’erano miei colleghi che potevano permettersi l’elicottero, altro che la Ferrari”.

«È vero. È vero!».

- E in fin dei conti non è una colpa esser nato in una famiglia benestante. 

«Solo che lui, sai, aveva questo modo di fare… Roberto poi aveva un modo di andare in bicicletta, un’eleganza, una “sagoma”, che come per il Panta la riconoscevi a quattro chilometri. Io quando incrociavo il Panta, oppure il Visenta, da lontano, dicevo: cazzo, va’ dov’è Roby. Lo vedevo da lontano che era Visentini, il modo di andare, il modo di fare, il modo di porsi. Però purtroppo… Probabilmente [con un’altra testa] non sarebbe diventato Visentini». 

- Probabilmente no. Tu lo frequenti ancora?

«No».

- Frequenti invece Chiesa e Abdujaparov?

«Sì, con Pastorelli, Chiesa, Moreno Argentin ci sentiamo spesso, poi tra l’altro abbiamo una passione in comune che sono i cani e la caccia. Sì, ma siamo diversi. Quando vado a una corsa e mi vedono, in genere il ricordo è bello. Non voglio ripetermi, né girare il coltello nella piaga, ma l’unica persona che mi è un po’ indifferente è Chiappucci, purtroppo. Questo mi dispiace, perché pur avendo passato tanti anni insieme non è riuscito a darmi niente, ecco».

- Tu invece pensi di avergli dato qualcosa, al di fuori dell’aiuto in corsa intendo?

«A livello sportivo sicuramente sì, ma forse anche umano. Sì. Quello, fuori di dubbio. Non perché voglio vantarmi di alcune cose, ma se è arrivato quarto al Giro d’Italia del ’95, nella tappa del Cuvignone [3] lo deve grazie al sottoscritto. Quindi…».

- È vero che qualcuno della sua squadra gli ha anche corso contro?

«Sì, ma era lui a non essere capace di gestire queste situazioni. Quindi, okay, è il mio mestiere, sei un mio compagno, ti devo aiutare. Ma se lo faccio per una persona per cui ho stima e col cuore, è diverso. Stiamo parlando di uno sport duro, dove a fare due colpi di pedale in meno ci metti due secondi. E quindi secondo me lui non è stato capace… Era troppo concentrato su se stesso, non si preoccupava degli altri. Quindi…».

- Però il ciclismo, come tutto lo sport professionistico, è anche una giungla. Alla fine forse lui l’ha male interpretato, oppure ha capito tutto con persino troppo anticipo: mors tua vita mea.

«Secondo me lui l’ha vissuto male. Perché poi alla fine avrebbe potuto vincere un Tour de France. Se lui si fosse comportato in altro modo, e se avesse avuto forse le capacità mentali di gestire quella situazione in modo diverso, quel Tour de France di LeMond era vinto, stravinto. Aveva contro anche i suoi compagni di squadra, come puoi pensare poi di trovare degli alleati nelle altre squadre». [sorride amaro, nda]

- A guardare il ciclismo ti diverti ancora?

«Mi diverto più che altro per vedere come sono messi, a livello generale».

- E come sono messi?

«Vedo più professionalità sotto l’aspetto organizzativo, su determinate cose. Per esempio, Sky fa scuola. Però vedo dei controesempi pazzeschi: le posizioni in bicicletta, i materiali esasperati».

- Cioè paradossalmente siamo avanti in tante cose ma mancano i fondamentali…

«Abbiamo fatto un passo indietro su quelli che erano gli aspetti fondamentali, pensando che magari è una cosa vecchia, no? Invece alla fine non è così. Non è così. E non riesco a capire… Un giorno parlavo con Dimitri Konyshev, loro alla Katusha hanno quell’atleta…».

- Ilnur Zakarin? Potenzialmente non solo un gran corridore ma anche un bel personaggio. Se solo sapesse andare in bici…

«Io a Dima ho detto: “Ma ti ricordi com’eri messo in bicicletta quando sei venuto in Italia? Tu vieni da una scuola…”. E poi, pensa com’è piccolo il mondo: io con la Montefeltro Tour Operator vado a caccia in Crimea, andiamo a caccia di beccacce. La Crimea era lo “stadio”, chiamiamolo così, dei ciclisti russi perché loro andavano lì a fare i test di valutazione per entrare in nazionale. C’erano seicento atleti».

- C’era una Scuola dello Sport lì?

«C’era una Scuola dello Sport, dove facevano questi test. C’erano quelli che facevano la cronometro, quelli che andavano in salita, quelli in volata. E tutti passavano per la Crimea».

- Perché in Crimea? Per il clima particolare?

«Per il clima sì, sì, sì. Perché lì arriva l’aria dal Golfo di Turchia. Perché è sul Mar Nero, una specie di nicchia dove c’erano percorsi sia in pianura sia in salita. E quindi tutta questa montagna che io conosco e di cui parlo con Abdu. Abdu sorride, perché mi dice: cavolo, la conosci meglio tu di me adesso che… Io la conosco per la caccia, lui per il ciclismo. Però loro uscivano da una scuola di ciclismo molto importante, poi lascia stare che arrivavano coi peli lunghi sulle gambe, vestiti un po’ non all’ultimo grido…».

- Però da lì usciva anche un certo Suchoručenkov…

«Uscivano i vari Suchoručenkov, Pulnikov, Ugrumov, Klimov, Saitov, “Abdu”. E uscivano da una scuola di ciclismo. C’era una selezione. C’era l’aspetto “maniacale” sulla posizione, sui tempi, su queste cose qua. Io [di Zakarin] gli ho detto: ma scusa, ma tu hai un corridore che in bicicletta è messo da cani. Tu quando sei in ammiraglia e ti passa in parte, come fai ad averlo portato… Io do colpa a te di averlo portato in quella posizione. Perché adesso il problema non è toglierlo da quella posizione, tu adesso devi andare a prendere uno psicologo per toglierlo da quella posizione. Perché tu come gli dici che tutto quello che è stato fatto è ’na cagata pazzesca?! Tu lo mandi in crisi. Però ce lo avete portato. E allora, quando cade in discesa, quando si alza sui pedali e per chiudere un metro ci impiega dieci chilometri, tutte queste cose qua… Queste qua fan la differenza. Quante ora fa un ciclista? Quanti colpi di pedale fa un ciclista, all’anno? Tu immaginati un errore del genere moltiplicato per i colpi di pedale su una… Ecco perché dico: sotto certi aspetti hanno fatto passi da gigante e per altri…».

- E tu il pallino di insegnare queste cose non l’hai mai avuto?

«Mah, ti scontri poi con un ambiente… [sorride, nda] Lo conosco bene quell’ambiente, quindi non mi ci metto. Lo conosco bene...». 
CHRISTIAN GIORDANO

[1] Nel dicembre 1999, ospite con Peter Winnen e Maarten Ducrot del programma televisivo Reporter, Steven Rooks ammise di aver utilizzato testosterone e anfetamine durante i tredici anni di carriera. 

[2] Nel 1988 Gert Jan Theunisse fu quarto al Tour de France, ma fu penalizzato di dieci minuti (e retrocesso all’undicesimo posto) dopo che in un controllo antidoping gli era stato rilevato un tasso anormale di testosterone. Al Tour l’anno dopo fu ancora quarto, conquistò la maglia a pois di miglior scalatore e vinse sul traguardo dell'Alpe d’Huez. Nel 1999, intervistato dal quotidiano olandese Eindhovens Dagblad, ammise di aver fatto uso di celestone, un corticosteroide proibito dai regolamenti. 

[3] Era la 21ª tappa, la Pont-Saint-Martin - Luino di 190 km, con il Passo Cuvignone da scalare due volte e il Montegrino. La vinse Evgeni Berzin con 21” su Chiappucci e 25” su Zaina.

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