Carlo Martinelli - Anatomia del trentinismo moseriano


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Carlo Martinelli è un totem del giornalismo (non solo sportivo) trentino. Per sua stessa ammissione un feticista ossessivo-compulsivo del libro e, più in generale, della carta stampata, nella sua «l’inattualità ci guida» posta su facebook vecchi titoli e ritagli che invece sorprendono, ma fino a un certo punto, per la loro spiazzante contemporaneità. «L’inattualità scorre viva fra le righe», parafrasando il Ferruccio de Bortoli prefatore de Le Nuove Stanze montanelliane.

A differenza di Franco “Melchius” Melchiori, suo ex desk all’Alto Adige, Martinelli è stato sì un moseriano, ma solo di riflesso e più per conterraneità che per autentica passione. Il vero idolo di Carlo, infatti, è sempre stato Claudio Michelotto. Un altro che forse ha pagato sulla propria pelle certi giochi di potere nel gruppo – in un’epoca però pre-Sceriffi – e fuori (la “guerra delle cucine”). E che incarna – come e forse vieppiù di Moser e successori – un certo trentinismo, quel profondo, atavico legame fra la trentinità e la sublime fatica del correre in bicicletta. Avendo letto parecchio sul Grande Torino, conoscevo bene il tremendismo granata. Invece mai avevo sentito parlare del trentinismo, tantomeno moseriano. Anche per questo mi son messo sulle tracce di Martinelli. E così ci siamo incontrati per un caffè pomeridiano in piazza del Duomo nella sua Trento. Ne è venuta fuori una breve chiacchierata in cui il ciclismo, come sempre, è subito diventato pretesto per altro. Molto altro. Eccola. 

P.S. Ah, Carlo: ci ho messo un po’ ma poi Franco ""Melchius" Melchiori l’ho trovato. Ce l'ho fatta.

«Il mare apre. La montagna chiude»
– Carlo Martinelli

“Caffè Italia”
Trento, martedì 10 aprile 2018

- Carlo Martinelli per gli addetti ai lavori non ha bisogno di presentazioni. Ma per chi del Trentino non è o non sa, il tuo percorso professionale di giornalista qual è stato?

«Tengo molto a sottolineare che la mia carriera inizia in libreria. Io ho fatto il libraio per quattro anni prima di entrare nel giornalismo. Poi ho fatto diciotto anni di Alto Adige, per il quale mi sono occupato in particolare delle pagine di cultura e spettacoli e sono anche diventato inviato. Poi passo per quattordici anni all’ufficio stampa della Provincia Autonoma di Trento come caporedattore e responsabile della rivista Il Trentino, mantenendo sempre la collaborazione con i giornali dai quali venivo». 

- E lo sport?

«Lo sport: paradossalmente, io non ho mai lavorato in una redazione sportiva».

- E quindi, in un certo senso, hai ancora l’occhio puro, da semplice appassionato…

«…e come tutti, potrei dire. Però nei quotidiani locali c’era, e c’è, l’abitudine oltre che la necessità che la domenica, per le pagine del lunedì, collaborassero anche giornalisti di altri settori. E quindi io per anni le domeniche le lavoravo, in realtà, nella redazione sportiva. E lì negli anni Ottanta il lavoro l’ho condiviso con Stefano Bizzotto che era con me all’Alto Adige, e poi lui ha fatto la carriera che conosciamo».

- Restringiamo il campo: il ciclismo. Che cosa ricordi di quegli anni, in particolare del Giro ’87? Se i tuoi ricordi sono sfuocati, il riferimento è alla tappa di Sappada, oggi città friulana ma allora ancora trentina…

«[I miei ricordi] sono moltosfuocati. Io appartengo alla generazione… delle tre Parigi-Roubaix di Francesco Moser. Per noi trentini un qualcosa di epico, di leggendario. Però paradossalmente io appartengo alla stessa generazione che, da bambino, ha avuto anche la fortuna di incrociare Aldo Moser e poi quello che, per un motivo prettamente geografico, era il mio idolo. Io sono di Mezzocorona, il paese confinante con Mezzocorona è Roveré della Luna e di Roveré della Luna è Claudio Michelotto, che a fine anni Sessanta, primi anni Settanta ha recitato una bella storia ciclistica: secondo al Giro ’69 vinto da Felice Gimondi, maglia rosa per dieci tappe al Giro ’71, vinto poi dallo svedese Gösta Pettersson. È stato una mia grande passione».

- Mi hai parlato di Aldo Moser, uno dei grandi privilegi avuti da Francesco Moser, rispetto ad altri corridori, è stato quello di provenire da una famiglia di corridori professionisti. Quanto ha inciso Aldo nella carriera di Francesco?

«Da quello che lo stesso Francesco mi ha raccontato, nelle due-tre volte che siamo andati insieme a presentare il suo libro, è che è stato proprio Aldo, fisicamente, a metterlo su una bicicletta. Francesco non aveva questa indole, preferiva girare per i campi e fare il contadino».

- Cosa che continua a fare…

«Cosa che continua a fare con successo. No, sicuramente il fatto di aver masticato ciclismo in casa… Per esempio, una cosa che Francesco mi ha ricordato personalmente, e che poi è una specie di pietra miliare nella storia mondiale del ciclismo, è la famosa tappa del Bondone al Giro del ’56, quella di Charly Gaul. Fu la tappa nella quale Aldo Moser poteva, a detta di molti, giocare un ruolo fondamentale, ma gli successe una cosa incredibile. La sera prima della tappa la mamma era andata a trovarlo a Merano – la tappa era la Merano-Monte Bondone [la terzultima, di 242 km, l’8 giugno, Gaul vinse davanti a Fantini e a Magni e strappò la maglia rosa a Fornara, nda] – e per sbaglio gli portò via le scarpe. E quindi Aldo la mattina, alla partenza, non aveva più le scarpette da corsa. Con delle telefonate disperate avvisarono, e gliele riportarono durante la gara, mi pare in Valsugana. Riuscirono a restituirgliele ma lui aveva fatto la prima parte della tappa in condizioni… con delle scarpe non sue e si era trovato male. Poi arrivò la tregenda…».

- Questa storia credo la sappiano in pochi, per non dire nessuno…

«No, no: da qualche parte è stata scritta. Io comunque l’ho scritta in un articolo questa storia delle scarpe. È una storia bellissima perché dà anche un po’, così, la misura dei tempi. E Francesco il fatto di aver avuto un fratello [corridore professionista], sicuramente lo riconosce…».

- È una delle lacune che, per esempio, ha avuto Gibì Baronchelli. Me l’ha raccontato lui stesso. Lui dice: non voglio paragonarmi a Moser, ha vinto cinque volte più di me. Ma lui veniva da una famiglia di corridori professionisti, sapeva come muoversi, io invece – specie all’inizio – sono stato buttato nella mischia, gestito da dilettanti e schiacciato da attese eccessive. 
Mi hai parlato del Bondone: Moser quando si affaccia dalla sua magione, da un lato vede il Bondone, dall’altro il Fai della Paganella: e di fatto possiede due montagne…

«Senza essere stato un grande scalatore, tra l’altro…».

- Era il suo limite, guai però a toglierlo dalla sua amatissima terra. Ti chiedo invece una cosa molto “trentina” che ha sempre fatto discutere. Alcuni tifosi di Moser, per quanto calorosi, in certe circostanze si lasciavano andare a gesti tutt’altro che sportivi. Di questi eccessi hanno sofferto diversi corridori: non soltanto Saronni e Baronchelli, ma anche Visentini. Chi al tempo osava mettersi contro lo Sceriffo rischiava, e a volte subiva, ombrellate, sputi, intimidazioni. O nella migliore delle ipotesi vedeva Francesco aiutato, specie in salita, con spinte, trenate, scie di auto e moto, prese per l’antenna dell’ammiraglia. Ecco, voi trentini tutto questo come lo vivevate? Avevate la percezione di quanto succedeva?

«Io posso parlare solo personalmente. Perché quelli erano anni, appunto, in cui seguivo il ciclismo ma in maniera un po’ così. No: io personalmente queste cose qui…».

- Quando andavi a vedere le tappe, ti accorgevi di queste situazioni o il tutto è stato anche un po’ romanzato?

«Non mi sento di escluderlo. Perché, tornando a Michelotto, paradossalmente, ho ben presente cosa successe quando dei tifosi di Michelotto, nella famosa tappa dolomitica, per vendicarsi andarono a gettare chiodi sulla strada. Lì ci fu una storia, che è stata ripresa, mi pare, in un capitolo del libro sulla famigerata “guerra delle cucine”. Giro del ’69, Michelotto era alla Scic e Gimondi era alla Salvarani, guarda caso. E c’è qualcuno che dice che alla fine il problema fu proprio la “guerra” fra i due sponsor, che erano molto forti».

- Quello era un ciclismo molto continentale e con l’Italia al centro del mondo per importanza di squadre, corridori, piccole-medie-grandi corse. E anche tanti sponsor erano molto italiani. Pensa appunto ai tanti mobilifici…

«Certo: Faema, Molteni, Salvarani, Del Tongo. È vero, è vero…».

- In trent’anni molto di tutto questo si è perso. Non abbiamo squadre nel World Tour, tantissime corse sono scomparse o attraversano enormi difficoltà… Pensa al Laigueglia, ai tempi l’appuntamento che in vista della Sanremo apriva la stagione e oggi ridotto a corsetta per under 23 o corridori rimasti senza contratto…

«L’ha vinto, il Laigueglia, Michelotto. Michelotto vinse Tirreno-Adriatico [nel 1968], Laigueglia, Giro di Sardegna e Milano-Torino [nel 1969]. Riuscì anche a mettere insieme delle vittorie importanti, fece appunto secondo al Giro ’69 [a 3’35” da Gimondi, e miglior scalatore, nda], dieci tappe in maglia rosa [al Giro ’71]. E poi gli mancò l’acuto in una tappa, nella quale, anche lì, le leggende narrano che Gimondi in realtà, pur di non far vincere quello sponsorizzato da un’altra cucina, favorì Petterson. Gimondi poi ha sempre negato ma… è curioso. Il personaggio Michelotto mi affascina anche perché lui non ha mai più voluto parlarne. Oggi, Michelotto è un personaggio che ancora va sul Bondone. Chi lo vede salire, in bicicletta, da cicloamatore, rimane impressionato perché vede un signore di settant’anni [Michelotto è classe 1942, nda] che è ancora fortissimo. Io con lui ho tentato un approccio. Lui poi è finito a lavorare in una concessionaria Fiat ed io, senza saperlo, ho comprato la mia Panda da lui. Me lo son trovato davanti e allora, il giorno dopo, son tornato con il libro, in cui c’è il capitolo a lui dedicato, e gliel’ho regalato; lui l’ha preso, l’ha accettato ma… Io ho provato, attraverso un personaggio che dovresti conoscere, un operaio di Roveré della Luna che ha creato una pagina facebook dedicata a Michelotto, un vero appassionato, suo compaesano... Sai, lui lo vedeva da bambino. Ha tutte le foto, tutti i ritagli possibili e immaginabili. Pensa, è riuscito recuperare una maglia rosa originale di Michelotto del Giro e anche ad andare a casa di Michelotto, che gli ha consegnato il proprio archivio fotografico; e lui se l’è scansionato per postare le foto su facebook. Quando gli ha chiesto di poter andare a trovarlo con un amico giornalista, “quel Martinelli che ha scritto…” – io a Michelotto ho dedicato, su un giornale, un’intera pagina – Michelotto ha detto di no. Non vuole parlare. E l’unica volta, quando comprai la macchina, che cercai di capire, anche sul clan dei Moser, aveva un che di fondo, così…».

- Intendi una ferita mai rimarginata? O semplicemente è un tipo schivo, solitario…

«Secondo me sì, è proprio… Lui ha un carattere anche molto selvatico. Perché poi la vita è strana. Il fratello faceva il camionista. Mio papà era camionista e ha lavorato con lui. E quindi il fratello di Michelotto ha lavorato per anni con mio padre in giro con il camion. La mia passione per il ciclismo nasce perché mio padre, che negli anni Cinquanta-Sessanta girava con il camion, era un coppiano di ferro e mi ha trasmesso questa passione… Tant’è che io, te lo confesso, ogni tanto riesco anche a guardarlo ma per me il ciclismo… Lo so che sbaglio, perché è impossibile vivere nell’inattualità, proprio io che dico che “l’inattualità ci guida”… [così Martinelli titola su facebook i suoi post di vecchi giornali e riviste, nda]».

- Certi titoli però vanno ancora bene, pure troppo…

«Sì, e questo è incredibile: vale per lo sport come per le altre cose, rileggere i vecchi giornali…».

- Tutto cambia ma fino a un certo punto.

«Fino a un certo punto, sì, infatti. Quindi, tornando a noi: i fan di Michelotto in anni e in presenza di rivalità e di possibilità di vittoria molto meno importanti… Con Moser e Saronni e la loro rivalità siamo invece a livello mondiale…».

- Saronni, ancora oggi, dice: io son quarant’anni che ripeto queste cose, ma all’epoca non potevi neanche protestare, perché le pagavi...

«Ma tu l’hai letto il memoir di Moser?».

- Sì. E sono andato anche andato a intervistare Ernesto Colnago, che mi ha tirato fuori la sua copia del libro di Moser. I passaggi che non gli tornavano erano tutti sottolineati con l’evidenziatore giallo. E me li ha letti uno per uno…

«…e mancano completamente alcune cose».

- E comunque Moser contro quegli atteggiamenti del tifo più becero non si è mai schierato. Avrebbe anche potuto esporsi, per dire a quegli pseudo-tifosi di non esagerare. 

«Probabilmente gli ha anche fatto comodo così».

- Intendi anche politicamente? Moser con il Patt (Partito Autonomista Trentino Tirolese), negli anni Novanta è stato, per un quinquennio, assessore provinciale per Turismo, Commercio e Sport: con che risultati? Perché uno come Moser in politica…

«No, deludenti… Lui in fondo è un grande, è stato un grandissimo sulla bicicletta, ma è stato grandissimo anche poi… Era uno che da solo caricava sulla macchina la bicicletta e andava a fare la Sei Giorni a Vienna, i circuiti o le kermesse nei palasport, e ripartiva in macchina con in tasca l’assegno la sera, o la notte, a gara finita…».

- Infatti, mi ha stupito che per l’intervista mi abbia dedicato – gratis – più di mezza giornata. A quei livelli, per quella gente lì, il tempo è denaro. Alla lettera.

«Sì, però lui è abilissimo. Ha un fiuto mediatico… È come un animale. Io lo vedo, conosce il mondo dei media lui lo conosce meglio di come lo conosciamo tu ed io. Quelle due, tre volte che mi son trovato con lui a fare queste presentazioni, vedevo come mi considerava… Sì, io gli raccontavo alcuni episodi, o di alcuni vecchi cronisti locali con i quali io son cresciuto. Io ho una mia foto qui in piazza Duomo, dopo il record dell’ora dell’84 a Città del Messico, il 51,151 [km]… Arriva qui lui, c’è il palco e in piazza ci sono tremila persone… Io ero a una delle prime cose che facevo da cronista nonsportivo – però avevano mandato me perché oltre che sport era costume, in piazza c’era tutta la città. E c’era un vecchio cronista di ciclismo, storico inviato del quotidiano Alto Adige, un persona deliziosa. Si chiamava Ottone “Bill” Cestari [morto nel 2007, all’Alto Adige/Trentino per 54 anni, nda], lui amava firmarsi così. Un mito, un personaggio, impiegato comunale, ex atleta, negli anni 40 era stato un ottimo mezzofondista. Mi pare fosse stato addirittura in lizza per vincere qualcosa d’importante, poi aveva avuto un incidente ed era rimasto con una gamba menomata…».

- E poi si è messo a fare il giornalista?

«No, neanche: il giornalista ma come si faceva in provincia, cioè da collaboratore, la domenica. Il sabato andava a tutte le gare ciclistiche dei dilettanti. E aveva visto Moser già alle prime gare, aveva intuito che… Quindi, Moser ha sì rispetto, però, alla fine, quando ti parla, quando parla a un giornalista, a un cronista locale, sì, okay, questi scrivono qua ma io... Sai, sente Sky, la Gazzetta… Il suo rapporto con la Gazzetta è di tipo “mercenario”, anche se poi nel suo libro, ti ricorderai benissimo, ci sono le sue critiche su quando la Gazzetta, in quegli anni, tirò fuori la storia della presunta donna, del Moser che non rende più perché c’è l’amante misteriosa… Lui ’sta cosa qua l’ha sempre negata, e adesso lui è un uomo-Gazzetta…».

- …e pure piuttosto corporate

«Esatto. Ti racconto una cosa. Allora, io vado a presentare con lui il libro a Folgaria. Al ritorno c’è su il figlio Carlo, che è intelligente, un genio della finanza, laureato alla Bocconi, uno che ha studiato all’università a Zurigo. Lui non voleva tornare [a Trento]: io volevo stare a Milano, o in Svizzera, mi piace il mondo… Il papà gli ha detto no, tu vieni qua in cantina, l’azienda ha bisogno anche di gente con la testa. Richiamato all’ordine… [ridacchia, nda]. Ed è venuto».

- Ho avuto anch’io la sensazione del patriarca che tutti comanda e sovrintende su tutto.

«Allora, andiamo in macchina, torniamo assieme, era la prima volta che ci incontravamo. Cominciamo a parlare, sai quando capisci che… Vedo una bella persona, che ha testa. A un certo punto gli chiedo del libro, perché ero curioso. Perché il libro è scritto bene, in maniera furba, da questo storico [Davide Mosca, nda] che fa libri per la Newton Compton. E a un certo punto Carlo mi dice: senti, vuoi che ti dica la verità? Secondo me, il libro mio padre neanche l’ha letto. E questo…».

- …dice tutto.

«…ti dà la misura delle cose». [ride, nda]

- Nel trailer del film di Nello Correale, c’è Moser che al bar prende un caffè e legge un giornale, poi parte il voice-over con lui che dice: 

«Ho portato le ruote della mia bicicletta ai confini della Terra, ma senza mai dimenticare da dove arrivo. Mi è sempre piaciuto paragonare Palù a un gradino: non puoi muovere un passo senza andare in discesa o in salita. Così fin da piccoli noi paluderi ci abituiamo alla fatica, anche se ci basta alzare gli occhi per rinfrancarci. Non importa fin dove sono arrivato, sono sempre tornato qui. Dopo ogni vittoria come dopo ogni sconfitta. Il centro del mio mondo è in Trentino».

- Stona un po’ col contesto. E ti dà l’idea di una certa autoreferenzialità.

«Che è un po’ la cosa che gli è successa quando si è messo in politica, come assessore; ed era “leggendario” il suo modo di interloquire. Era rozzo, “semplificatorio”. Una volta, finito di scavare, c’erano dei resti archeologici o non so cosa, e lui, davanti a degli storici, ha detto: Facciamo presto, colata di cemento e facciamo su uno stabilimento, qualcosa. Facciamo, facciamo…».

- Tornando al film, la Provincia deve averci messo dei bei soldi…

«Quando lavoravo all’ufficio stampa avevo a che fare un po’ con la Trentino Film Commission. Conosco non il regista, ma il produttore, Luca Dal Bosco [della FilmWork, nda], che è un ragazzo sveglio, intelligente. Ha provato pure a fare altri prodotti, anche di tipo sportivo, ma qui… Con Moser invece ha trovato aperte delle porte…».

- Lavorarci assieme non deve essere stato facile, però. Per esempio un gregario, Ennio Vanotti, non ha mai voluto andare a correre con lui, anche se avrebbe guadagnato molto di più, perché tra corridori si sapeva come Moser trattava i gregari… Siamo però obiettivi: se Moser diceva ti do tot, era tot. Non tirava sui premi né provava a fare il furbo; il problema è se lui ti dava tot, tu eri “suo”. E uno come Beccia, per esempio, ha sofferto anche umiliazioni pubbliche, come la presa per i pantaloncini quando attaccava in salita, o le cazziate che Moser gli urlava in dialetto, così che tutto il gruppo sentisse – e rispettasse – la voce del padrone…

«Certo, perché Beccia avrebbe anche potuto permettersi di togliersi delle soddisfazioni. Le gambe le aveva. Ecco, se mi chiedi un ricordo, lì dove sei venuto a prendermi ci fu un arrivo di tappa… Il Giro arrivò a Trento, un anno [le due semitappe del 4 giugno 1989, Corvara in Badia-Trento e Trento-Trento in circuito, nda]. Mi ricordo di aver visto Laurent Fignon seduto lì, [in maglia rosa] coi suoi occhialetti…».

- L’impressione mia è che anche Fondriest abbia un po’ patito il confronto con Moser…

«Perché, sai, Moser è un padrino. È ingombrante. Però lui è riuscito a smarcarsi un po’. Fondriest è intelligente. E devo dirti che è anche il meno trentino dei corridori».

- C’è un aspetto che ancora non abbiamo approfondito. Nell’antisportività di alcuni tifosi di Moser, quanto incideva che fossero tutti un po’ alticci? O su questo si è un po’ troppo romanzato?

«Che Trentino, Friuli e Veneto siano terre vocate all’enoico… Noi magari lo chiamiamo il trentinismo, questa roba un po’ greve, a volte un po’ rozza, così, ma ci sta anche… il trentinismo moseriano. Se vai a rileggere – come faccio io, in maniera random, un po’ anarchica – i quotidiani, le vecchie raccolte del Corriere o l’Unità, La Stampa, scopri delle cose e vedi qual era l’interesse. Vini e liquori qui sono decisivi anche dal punto di vista economico».

- E scopri anche che grandi inviati c’erano a seguire le corse.

«Io ho riscoperto l’Avanti, su internet adesso è disponibile l’intera raccolta. Andavi su l’Unità e trovavi Gianni Rodari. Al Giro d’Italia andavano Vasco Pratolini, Alfonso Gatto. Per Repubblica negli anni Ottanta c’era un mostro come Mario Fossati, uno che ha fatto la campagna di Russia. Io ho riscoperto Vladimiro Caminiti, una scrittura straordinaria. Il problema di adesso, è inutile che lo dica a te che sei sul fronte televisivo, è che non esiste più la scrittura».

- Oggi c’è ancora qualcuno che, leggendolo, ti attacca al foglio?

«Gianni Mura la domenica [per la rubrica "Sette giorni di cattivi pensieri" su la Repubblica, nda]. No, no: poi basta, è finita».

- Dimmi qualcosa che vorresti raccontarmi e di cui non ti ho chiesto.

«Dovresti parlare con chi , in quegli anni lì, era il responsabile delle pagine sportive dell’Alto Adige. Un personaggio… Franco Melchiori, non so se riuscirai a trovarlo, perché è sparito. Era uno che, quando Repubblica aprì, gli avevano offerto di andare a lavorare lì. Io l’ho sempre considerato un genio totale. Il mio primo libro l’ho dedicato a lui… Mi ricordo il giorno in cui Moser vinse la crono a Verona al Giro ’84, era una di quelle domeniche in cui io lavoravo a Bolzano…».

- E lui era là?

«Forse sì, andò a Verona e fece uno di quei pezzi suoi, lui scriveva poco. Era uno non vorrei dirti alla Bianciardi però…».

- Tu da trentino sentivi la rivalità Saronni/Moser?

«Non la sentivo».

- E trentino invece ti ci senti?

«Guarda, mi piace sentirmi trentino rispetto al contesto, alla natura, ai posti, così…».

- E per la mentalità?

«La mentalità, non è che siamo proprio… A volte ci sono delle chiusure che non mi piacciono. Ho girato molto il mondo, per fortuna…».

- Colpa (anche) dalla vita di montagna? Per esempio Remo Rocchia, gregario degli anni Settanta, nove figli, nato in una stalla, è cresciuto nel Cuneese, tagliato fuori dal resto del mondo. E lui ha patito molto per questo isolamento, per l’arretratezza, non solo economica. La montagna, specie nei lunghi inverni, rendeva difficili i collegamenti e quindi sfavoriva lo sviluppo. La Torino-Asti mai completata rende l’idea…

«Il mare apre, la montagna chiude, eh. Non c’è niente da fare. Io, quando vado in pianura, posso vederci dei limiti ma anche delle grandi aperture, mentre qua… Poi, sai, la montagna è anche dura. La vita qua…».

- …è dura. Lo dicevamo prima, ma in negativo. L’aspetto positivo è che, tra clima, fatica, difficoltà logistiche, la gente di montagna è tosta, non l’ammazzi mica…

«No, no…».

- Guarda il nucleo storico dei bresciani alla Carrera: Leali, Bontempi, gente scolpita nella pietra…

«È vero. Però poi mi chiedo: c’è la voglia, a volte, di aprirsi, di fare gruppo, di “vivere” la compagnia della comunità?».

- Forse se sei dei loro. Uno come Chiappucci, per esempio, l’hanno respinto.

«Bravo, esatto». 

- In gruppo c’era del “nonnismo”, e tanta invidia. Per esempio, per Fondriest che da neo-pro’ ottiene un contrattone (150 milioni di lire, nel 1987, eran tanti soldi). Saronni mi ha confermato che quello era un mondo chiuso e che se non avevi quel tipo di personalità, ti schiacciavano. Moser, poi, oltre ad avere un carattere così dominante, per il movimento era un tale traino da orientare – eufemismo – media, organizzatori, pubblica opinione. Tradotto: portava e spostava soldoni. La generazione di Baronchelli, Contini, e forse anche Visentini, ne è rimasta schiacciata, poi è arrivato Saronni, altro bel caratterino. «Moser ha trovato uno come me. Ha trovato pane per i suoi denti», mi ha detto lui stesso. Intelligente, Saronni. E furbissimo. Scaltro e sveglio lo è anche Moser, ma la sua è più un’intelligenza contadina, montanara. Ne convieni?

«Moser ha un’intelligenza pratica, utilitaristica. Si è affinato molto, è molto migliorato. Perché girando il mondo… Pensa che quando, un paio d’anni fa, ho fatto un viaggio in Olanda, sono andato in libreria e ho visto la rivista Bahamontes. Compro, apro, c’era un servizio bellissimo sui Moser. Sai qual era il titolo? “Papa Francesco”. In italiano, ovviamente, il titolo. Tu immagina una rivista olandese, in questa lingua che dire ostica è dire poco… Quando ci siam visti gliel’ho detto».

- In due parole c’è tutto…

«C’è tutto. Un capitolo puoi intitolarlo “Papa Francesco”. Sei a posto, tanto…».

- Il capitolo suo, di sicuro.

«Hai visto? Non ti ho detto niente di serio ma qualcosa ti ho detto».

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