Marco Saligari - La curiosità del Commissario


di CHRISTIAN GIORDANO ©
IN ESCLUSIVA per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Convinzione, curiosità, entusiasmo, passione: sono forse le più grandi qualità del Commissario, al secolo Marco Saligari, brianzolo di Sesto San Giovanni.

Buon gregario, che – nelle giornate di grazia e rara libertà – aveva nelle corde la fuga giusta (tre tappe al Giro, una alla Parigi-Nizza, una e la classifica generale al Giro di Svizzera le perle in carriera), grazie a un’intuizione del telecronista Armando Ceroni, si è poi reinventato voce tecnica per la allora TSI, la tv di Stato svizzera. Poi un decennio a Eurosport e infine, dalla Tirreno-Adriatico 2017, l’approdo in Rai, per la quale tuttora segue – in bici per le ricognizioni e in moto da inviato in corsa – i grandi giri e le classiche.

Classe ’65, il “Commissario” – copyright del Tista Baronchelli – non ha il forbito eloquio di Silvio Martinello né l’innata, quasi aristocratica eleganza di Vittorio Adorni; non trasmette l’istintiva empatia di Paolo Savoldelli, né le stimmate del fuoriclasse del video (e delle pr) à laDavide Cassani, tanto per citare i suoi più immediati e celebri predecessori al commento.

Sa però farsi apprezzare per carica “agonistica”, e competenza in mezzi e materiali più ancora che per le sue entrature in carovana. A volte, forse per mission aziendale (e aziendalismo) esagera nel pompare o prevedere momenti e situazioni, ma è un peccatuccio veniale, figlio – anche – di questi tempi molto, troppo social.

Il suo «Passo» – refrain col quale era solito restituire la linea, e chissà se poi davvero censurato dai vertici – era diventato il suo marchio di fabbrica, riconoscibile e apprezzato dal pubblico quasi quanto il savoldelliano «a voi!». E forse a qualcuno in alto iniziava a dare fastidio proprio per questo: perché funzionava.

Da me il Commissario si fa piacevolmente “interrogare”, a domicilio, un sabato dopopranzo, per un caffè nel suo ingresso-salotto splendidamente addobbato per Natale. Alzando lo sguardo scorgo, nel soppalco, alcune specialissime tirate a lucido, e intuisco così il vero segreto del Commissario: la passione per quello che fa. E se ogni tanto esagera (specie coi "davvero"), passi: a un innamorato non si può - non si deve - chiedere di misurare l’amore.

Paina di Giussano (Monza e della Brianza), sabato 22 dicembre 2018

- Saligari, da che parte cominciamo? Intanto come devo chiamarti: Commissario o va bene Marco?

«Tutti mi chiamano Commissario…».

- È stato Gibì Baronchelli a darti quel soprannome, perché ponevi sempre tante domande?

«Sì. In particolare lui ma perché era pilotata, la cosa».

- Spiegami.

«Abbiamo avuto in comune, da dilettanti, lo stesso coach. E proprio l’allenatore mi disse: tu, quando passerai al professionismo, ci parlo io con Gianbattista Baronchelli, che nei dilettanti è stato mio corridore. E ti preparo il terreno: tu, qualsiasi cosa…».

- Chi era l’allenatore?

«Luciano Menècola. E quindi io avevo come riferimento Baronchelli che, ti dirò, all’inizio della stagione, al Laigueglia – sai che allora c’erano il Giro di Sicilia [tornato nel 2019, nda], il Pantalica, l’Etna, il Giro di Sardegna… – mi aveva un po’ preso…».

- …sotto la sua ala?

«Certo. In un paio di occasioni mi difese, anche da [Beppe] Saronni. Perché quello era il ciclismo degli Sceriffi. Dopo ci ritorniamo. E quindi con lui ha funzionato tutto molto bene. Ha sempre funzionato bene. Tranne quella volta, al villaggio di partenza del mio primo Giro d’Italia: 1987… Ed io, con Giancarlo Ferretti [diesse], neanche dovevo farlo, il Giro d’Italia, nel 1987…».

- Perché, eri ancora troppo giovane?

«Per contratto. Perché ero giovane. Sono “passato” [pro’] giovane, e gli ho detto: “Facciamo un passo per volta”. E lui: “Diciamo che il Giro d’Italia lo farai l’anno prossimo, per quest’anno…”. Poi invece ho cominciato ad andare bene, forte, allora mi fa: “Salta a bordo…”. E quel Giro d’Italia lì, mi ricordo, all’ennesima domanda, davanti a un caffè, al villaggio di partenza, al Rancilio… Allora c’era il Rancilio, e premiavano anche la maglia bianca…».

- C’era il pullman del caffè Rancilio, no?

«Bravissimo. All’ennesima domanda, lui si gira e mi fa: “Oh, cioè… ’mazza, Marco… Sei davvero…».

- Lui, intendi Baronchelli?

«Sì, sì, sì: io e lui. Eravamo io e lui a bere il caffè. E mi fa: “Sei davvero tremendo…”».

- A proposito: e l’anno prima, al Giro ’86, a Baronchelli cos’era successo? La mattina restò in camera in albergo, non volle saperne di ripatire e si ritirò…

«Sììì. Con Gianluigi Stanga. So… Certo che so tutto. E forse aveva anche delle ragioni. Però lui era un tipo così. Lì, forse, gli si è scollegata dal resto la centralina…».

- E forse è lì che con la testa ha smesso, vero?

«Sì. Secondo me, sì. Lì è stata…».

- …la svolta? Il suo Giro era durato appena undici tappe…

«È stata la svolta. A me però ha sempre voluto, e vuole tuttora, molto bene, perché…».

- Be’, adesso ancora di più. Dopo la svolta “mistica” che la sua vita ha preso, ora lui vuole bene a tutti. Persino a Moser… [sorridiamo, nda]

«…perché in qualche occasione mi ha difeso. Ripeto: era il ciclismo degli Sceriffi. Cioè non dico che, per andare in fuga, dovessi chiedere il permesso, però…».

- Quel noviziato l’hai pagato? E se sì, come?

«No. Però, sai, io ero uno molto intraprendente, uno che scalpitava, voleva andare… Lì non è che te lo permettevano. Non è come adesso…».

- Appena sei passato pro’, l’hai fatta la cosiddetta “presentazione” ai capi del gruppo? Sai, cose del tipo: “Tu che corridore sei?”. “Uno completo”. “Eccone un altro che va piano dappertutto…”.

«Ti prendevano anche per il culo. Non poco. Oh. Ooohhh. Figurati. Ti massacravano, se non eri… Scherzosamente. Ma sai, “scherzosamente”… C’è anche chi questa cosa l’ha patita, eh. Era un po’ coma la naia… [sorride, nda] Però alla fine per me è stata anche una traccia: mi ha [formato]…».

- Dopo, quando sei diventato tu un veterano, hai fatto alle matricole le stesse cose? O il ciclismo era già cambiato?

«Era già cambiato tantissimo. Sì, l’ho fatto anch’io. Ma si faceva in maniera e con modalità completamente diverse. Non era più così. Io non ho mai sentito il bisogno di dover difendere nessuno».

- Era tutto più “bonario”, quindi, nei modi?

«Esatto. Fra i giovani che ho avuto, come primo anno in camera, e questo lo sanno in pochi, c’è stato Davide Rebellin alla GB-MG [nel 1994], sempre con Ferretti diesse. E alla Casino, i miei ultimi anni, ho avuto Aleksandr Vinokurov nel 1998: lui neoprofessionista; però era più un lavoro non di “difesa”, di tutela nei confronti dell’ambiente o dell’esterno, ma un lavoro “personale”».

- E al più ti capitava di dover portare le borse ai veterani? Queste cose qui?

«Sììì… Io ho pulito veramente le scarpe in ritiro prestagionale, al Laigueglia. E mi ricordo anche, si può fare il nome, che il mio compagno di camera era Sergio Santimaria, l’anno prima maglia rosa al Giro d’Italia [nel 1986, per un giorno dopo la sua vittoria a Sciacca, nda]. Anche lì: pulito la prima volta, pulito la seconda volta, basta. Mai più pulito niente. Era…».

- …una specie di rito d’iniziazione, no?

«Un’educazione. Sì, sì, sì: esatto. E invece con Fabio Roscioli, che era passato [professionista] con me all’Ariostea, ed era uno un po’ più burbero, un po’ più spigoloso, sono andati avanti dei mesi, eh. Perché poi ti prendevano [di mira]…».

- Come a militare: perché se reagivi…

«Come alla naia. La naia: né più, né meno. Con la differenza che non hai su un’uniforme ma calzoncini e maglietta: quello».

- Tornando al Giro ’87, perché Ferretti poi aveva cambiato idea? Ed era già il Ferretti che, in quell’Ariostea, non puntava più alla classifica generale ma solo alle vittorie di tappa?

«Ferretti, sai, la sua capacità è stata quella di prendere corridori ritenuti – da altre parti – bolliti. Cosa che ha fatto… Perché, voglio dire, quello che ha fatto ad esempio con Moreno Argentin… E, un po’ meno riuscito, con Gianni Bugno…».

- Lo stesso Bugno però mi ha detto che avrebbe voluto avere Ferretti prima, anziché a fine carriera…

«Se l’avesse avuto prima, probabilmente avrebbe fatto una carriera diversa. Non che con Gianluigi Stanga non abbia funzionato, ma Ferretti era diverso. Era diverso…».

- Sapeva forse toccargli le corde giuste, specie a quell’età lì…

«Esatto. E poi, a parte andare a prendere i big o i campioni ritenuti – da una parte dell’ambiente – bolliti, l’altra capacità di Ferretti era invece quella di motivare corridori “nella media” e farli diventare, come insieme, una delle squadre più forti al mondo. Perché come individualità non è che fossero… Restavano tali ma…».

- …era lui a farli sentire campioni: è vero che eravate i suoi marines, e che per lui correre era come andare in guerra?

«Come mentalità, sì. Tu ti alzavi dalle riunioni e avevi la pelle d’oca...».

- Mi ha raccontato lui stesso che a volte, in quelle riunioni, saliva su una sedia, con voi tutt’intorno: il generale e la sua truppa. È vero?

«No, no, no… Però io con lui ho fatto dieci anni e ti posso garantire che, in dieci anni di corse, se alla corsa c’era lui, non sono mai arrivato una volta – in dieci anni! – a fare colazione che lui non fosse già giù…».

- Il che la dice lunga…

«Eh sì. Eh sì... Poi, gli ultimi anni, anche con me, era cambiato. Secondo me, in peggio. Però i primi cinque-sei anni di Ariostea era una roba…».

- In che cosa era cambiato?

«Cominciava ad accumulare la stanchezza, probabilmente. Tenere banco con tante personalità non è facile. Gli ultimi anni pativa, era molto più scontroso».

- E anche nella vita privata ha avuto difficoltà.

«Le vicissitudini lo avevano portato a incattivirsi un po’».

- A indurirsi…

«Sì. Infatti anch’io, gli ultimi anni, [con lui] ho avuto dei problemi. Detto ciò, un fuoriclasse…».

- Adesso sembra persino accanirsi un po’ nell’opporsi all’inevitabile oblio. Insiste a parlare di un ciclismo, il suo, che però oggi non esiste più. Solo che lui non lo ammette.

«Sì, però fuoriclasse cristallino, credimi. In tutti i sensi. In tutti i sensi…».

- Con i vari direttori sportivi, altre tue esperienze?

«Io in pratica ho avuto solo lui e poi Vincent Lavenu, che poi è diventato il manager della Casino quando andai là, gli ultimi due anni: ’97 e ’98».

- Eri in squadra con Rodolfo Massi?

«Sì, alla Casino. Primo anno Casino [in realtà Casino-C'est votre équipe], secondo anno Casino-AG2R. Il direttore sportivo era Vincent Lavenu, ma era tutto un altro mondo».

- E la concorrenza? Degli altri direttori sportivi che ricordi hai? Un nome te lo butto lì io, visto che siamo arrivati all’87: Davide Boifava della Carrera.

«Sì, ricordo Boifava. E ricordo un Bruno Reverberi in erba. Ricordo che andavo d’accordo con il predecessore di Eusebio Unzué [José Miguel Echavarri, nda]. Ricordo i direttori sportivi in Mapei, fra i quali Patrick Lefevere [attuale boss della Deucenink-Quick-Step, nda], Serge Parsani. C’erano tanti direttori sportivi, Ferretti però era ildirettore sportivo. E manager. Perché lui era un manager già allora. Era già un manager allora…».

- Riassumeva in sé doti che anche altri diesse avevano magari incomplete? Si occupava lui di tutto: dalla ricerca degli sponsor alle questioni tecniche, anche perché da corridore era stato fidato gregario di Felice Gimondi, no?

«Sì. Sì. Sì. Aveva un bagaglio notevole. Notevole. La pecca che gli trovo è che tatticamente non era un genio».

- Ecco, per me questa è una novità.

«Eh sì: assoluta».

- Perché mi hanno detto tutti cose diverse.

«No, non era un genio, ma era aiutato – e molto – dal genio dei corridori che aveva. [sorride, nda] Un genio però sviluppato, probabilmente, anche per suo merito. Per suo merito. Non perché lo fosse lui, perché lui… arrivava a metà. Era un genio della tattica… incompiuto. Il resto glielo mettevano i corridori. Poi, spesso, appariva invece che fosse tutta farina del suo sacco. E te lo posso garantire perché, con l’avvento delle radioline, io ero uno di quelli che con lui aveva la radiolina… E ti posso garantire che facevamo un po’ di “testa nostra”».

- E dal punto di vista tattico chi era meglio di Ferretti? Uno che capivi subito che sapeva leggere le corse?

«Come corridore?»

- Come direttore sportivo. Uno veramente bravo?

«Be’, ad esempio, lo spagnolo…».

- Echavarri?

«Sì, ma più all’estero che in Italia».

- E in Italia, Franco Cribiori?

«Sì, Cribiori. Non l’abbiamo citato. Uno bravo, sì. Quasi al pari di Ferretti ma con una personalità diversa. Ce lo siamo dimenticati, ma lui era molto… Aveva una squadra molto, molto buona, molto competitiva, molto ben strutturata».

- Cribiori mi ha detto di aver sbagliato con il giovane Bugno. Ha provato a pungolarlo, ma senza mai riuscire a toccargli le giuste corde…

«Eh, non ha funzionato. No, no… E, infatti, Bugno s’è manifestato tale quando è andato via da Cribiori».

- E cioè quando è andato con Stanga, uno più manager che diesse, più attento al lato economico-finanziario che tecnico-sportivo, aspetto di cui si occupava più Claudio Corti…

«Anche Ferretti faceva il manager, ma era stipendiato. Era pagato, al pari dei corridori. Non voleva gestire il soldo. Se lo faceva dare, se ne faceva dare tanti ma era pagato. Ecco la differenza. E quindi non è mai stato distratto da quell’aspetto. Si concentrava solo sulla gestione della squadra e dei suoi ragazzi. Poi, ripeto, si occupava anche di soldi, della conoscenza dei budget e tutto, ma la squadra… E, infatti, le sue squadre erano sempre dei presidenti o delle aziende che le sponsorizzavano. Non aveva una sua personale società di gestione».

- Tornando a quel Giro dell’87, quando hai capito che in gruppo c’era qualcosa di strano, che i due galli nel pollaio Carrera non funzionavano?

«Da subito».

- Già dalla partenza a Sanremo?

«Ooohhh! Sì, ma chi non lo sapeva…».

- C’è chi dice addirittura prima ancora di Sanremo.

«Eeehhh. Certo. Sì-sì-sì. Non me ne voglia Visentini, però l’altro era…».

- …mentalmente di un altro livello?

«Ma anche con le gambe. Non che Visentini non fosse all’altezza. Quell’altro, però, aveva qualcosa in più. Anche in quelle, secondo me. Infatti, poi, vabbè, che stagione fece?! Neanche a farlo apposta…».

- E quindi come ti spieghi quella crono di San Marino dominata da Visentini? Al di là dei postumi della caduta di Roche a Termoli, in cui l’irlandese aveva picchiato il ginocchio, quella del famoso titolo della Gazzetta: “Bontempi ne stende cinquanta”…

«Sì-sì-sì… Arrivavamo ai sessantacinque all’ora, siam andati per terra… Anch’io caddi, in quell’occasione. Ai 65 all’ora, fuori da questo curvone, un mucchio… Ho fatto fatica a ritrovar la mia bicicletta, in quell’occasione».

- Dalla pila di bici e gente per terra…

«Sì-sì-sì. Mah, una controprestazione. Una controprestazione…».

- Lì, si è poi detto e scritto, si vide il miglior Visentini. A cronometro però è sempre andato forte, anche perché in ogni gara era sempre al vento… Me lo confermi?

«Sì, era “imbranatello”».

- E poi a Pila, nella penultima tappa, cadde in salita… Sempre per stare lì, a bordo strada, mai nella pancia del gruppo…

«Sì. Vedi? Lì, dopo, era già nella fase di “perdita di coscienza”. E lo capisco anche, il suo stato d’animo. Anche perché lì si era reso conto che l’altro era incontenibile».

- Senza quella caduta però sarebbe potuto arrivare sul podio, no? Invece…

«Certo. Sarebbe arrivato sul podio. Sai, dopo, in quelle circostanze, le menti reagiscono…».

- Per dirti, nella tappa di Sappada andò nel pallone e si dimenticò di mangiare. Oggi sarebbe impossibile.

«Eh sì».

- E una “Sappada”, invece, oggi sarebbe possibile? In questo ciclismo dell’srm, delle radioline, della diretta tv integrale, dei social...

«Mah, può succedere. Può succedere. Ce la augureremmo…».

- Uno che attacca il suo capitano e maglia rosa, e con questi contrattoni di oggi?

«Eh, se c’è una personalità spiccata, perché no? Quest’anno [2018] al Tour tra Geraint Thomas e Chris Froome sono rimasti lì. Ci fosse stata una personalità diversa, dove sta scritto?».

- Il punto è proprio il contrattone: è quello a inibire le personalità, persino quelle più spiccate. O no?

«Eh, certo».

- Prendi il Roche dell’87: per l’anno dopo rischiava di rimanere a spasso…

«Certo».

- Con il contrattone garantito, avrebbe tentato un’azione di quel genere? Era quella la mia domanda sottintesa.

«Non credo».

- Altro esempio: in uno squadrone come il Team Sky [l’attuale Team Ineos, nda] Michał Kwiatkowski, un campione del mondo, al Tour ti fa l’ultimo dei gregari.

«Certo, ma certo: sì-sì-sì…».

- E non si può certo dire che non abbia personalità. Anzi.

«Sì-sì-sì. Però, sai… Io, fossi stato Froome, con la possibilità di vincere il quinto Tour…».

- Tu andavi?

«Ma certo. Ma certo… [sorride sornione, nda] Ma chi se ne frega. Ma chi se ne frega…. Cioè: chi-se-ne-frega. Tutti abbiamo ancora negli occhi, nella mente, quel che ha fatto al Giro d’Italia [2018]. È entrato nel cuore, poi però è ritornato “nell’anonimato”, con tutto il rispetto della parola, al Giro di Francia. Son ritornati tutti nell’anonimato. Ma voglio dire: il ciclismo è altro. Il ciclismo è lo Jafferau, il ciclismo è questo. Dovrebbeessere, ma sarebbecosì. Se ci scrollassimo di dosso tutti questi contrattoni, queste… Le radioline, no. Io alle radioline non sono contrario».

- E quindi non è colpa neanche dei wattaggi…

«Assolutamente no. Della mente. Bisogna lasciare libera interpretazione alle menti. Ci sono delle menti “malate”, ma ce ne sono alcune geniali. Il ciclismo dovrebbe essere quel che Froome ha fatto al Colle delle Finestre, ma non l’eccezione: dovrebbe essere…».

- …la regola? Tipo la Roubaix 2018 di Peter Sagan, che partì ai -54 km dall’arrivo…

«Sagan è la regola. Ecco perché piace. Poi, salta per aria, rimane con un pedale su e uno giù, ma chi se ne frega… Ma-chi-se-ne-frega. Quando tu vedi cinque del treno-Sky, con il capitano quinto, si sta parlando di almeno dieci milioni di euro, in quelle prime cinque posizioni…».

- Direi anche di più…

«E vanno in salita come delle squadre Continental non riescono forse ad andare in pianura… Cioè: è un libro in cui tu sfogli le prime pagine e sai già cosa c’è scritto all’ultima; ma chi interessa? No, ti viene da chiuderlo e passare a un altro. Almeno, questo è quello che penso io. Poi, ne prendiamo atto, è un ciclismo così. Capisco che in questo atteggiamento ci siano anche delle ragioni. Non voglio dire che ci siano solo e tutte colpe. Però io mi augurerei veramente un ciclismo da poter commentare in tv con un entusiasmo diverso».

- In dieci anni di esistenza il Team Sky ha rivoluzionato il modo di fare ciclismo ai massimi livelli. E nulla sarà come prima, no?

«Ma certo. Certo. Perché la possibilità economica che il Team Sky ha messo sul piatto, gli ha permesso di avere il meglio in quasi tutti i ruoli e quindi inevitabilmente di condizionare e non poco l’andamento di una corsa. È inevitabile. È molto legato all’aspetto economico. Poi, li abbiano spesi bene, a volte un po’ meno bene, è un dato di fatto. Cioè, voglio dire, quando tu affronti il Giro di Francia con prima nove corridori, adesso otto, e hai i migliori sei al mondo nelle corse a tappe, di che cosa stiamo parlando?! Non è che il risultato sia sempre scontato, ma insomma… Eh, abbastanza. In questo, son contento che non ci sia più [dal 2019 la sponsor è Ineos del tycoon petrolcimico Jim Ratcliff, nda], per tutto il resto son dispiaciuto, come tutti».

- Volevo chiederti se in questi dieci anni c’è stato un punto di non ritorno.

«No, non c’è mai un punto di non ritorno».

- E quindi, secondo te, si può tornare al ciclismo di cui parlavi poco fa?

«Questo non lo so. Però se non ci sono più squadre che monopolizzano le corse, è chiaro che è giù un inizio al ritorno. Perché, voglio dire, è inevitabile. A questi corridori auguro di trovare uno sponsor, anzi [di trovarne uno] che investa ancora di più, cosa forse improbabile. E quindi inevitabilmente dovranno ridimensionare, non avendo più budget probabilmente dovranno lasciare liberi alcuni corridori, che andranno da altre parti e quindi…».

- Lo stesso vale per lo staff.

«Sì, ma parliamo soprattutto dei corridori, che son quelli che condizionano la corsa. E quindi…».

- Però quello che il Team Sky ha introdotto, soprattutto nella preparazione dei corridori, nella nutrizione, credo sia davvero una novità assoluta: pensa all’apporto di Tim Kerrison, di Rod Ellingworth e tutti gli altri…

«Questo sì. Hanno portato un’evoluzione nel ciclismo, ma sempre partendo dal presupposto che avevano la possibilità economica. Perché, tu pensi che a Reverberi non piacerebbe fare un ciclismo del genere, una svolta del genere? Ma hanno problemi a trovare le risorse per pagare il gasolio di una stagione di corse ciclistiche…».

- Credo anche, però, che un Reverberi sia troppo della vecchia scuola per…

«No, ma per dire. Io riconosco al Team Sky tantissimi meriti, ma [tutto questo] era già cominciato, se ti ricordi bene, col team Mapei».

- Sì, certo. Con gli studi del professor Aldo Sassi e i soldi del patron Giorgio Squinzi…

«Chiaramente un decennio prima. In dieci anni cambia il mondo. Figurati se non deve cambiare la struttura…».

- Dal punto di vista tecnico, mi paragoni Roche e Visentini? Avendoci pedalato a fianco, che corridori ricordi?

«Due corridori con una classe immensa. Entrambi. Cinque stelle a tutti e due. Cinque stelle a tutti e due… Morfologicamente, anche se [in bici] avevano posizioni diverse, erano molto simili».

- Belli da vedere, in bici, soprattutto Visentini; bravissimo a limare l’altro».

«Mah, molto bello anche l’altro, in bicicletta».

- Molto “leggero” Roche, no?

«Be’, ma anche Visentini. Visentini usava rapporti molto più lunghi. A cronometro, molto più “bello” Visentini. Visentini, a cronometro: cinque stelle; a Roche gliene riconosco “solo” quattro, anche se aveva cinque stelle come resa. La testa però era imparagonabile. La testa però era imparagonabile…»

- E per quanto riguarda il sapersi creare amicizie in gruppo? Sai, la pacca sulla spalla, Roche che ti parla in italiano, Visentini che invece se ne sta sulle sue…

«Visentini era più spigoloso».

- E a volte lanciava battute anche un po’ crude: a Torriani, a Beccia…

«Era più spigoloso. Roche era più diplomatico. La testa faceva la differenza. Non voglio dire che [Roche] fosse più intelligente, però…».

- Altro aspetto: la “fame”. Stephen ha lasciato Dublino per Parigi con la valigia di cartone o quasi. Roberto invece era benestante. Come veniva visto in gruppo tutto questo? C’erano queste invidie o un po’ sono state montate dai media?

«In parte erano montature e in parte le invidie ci son sempre state e sempre ci saranno».

- Anche perché Roberto “la vita” da corridore la faceva eccome. E non è vero che non si allenava. Anzi.

«No, anzi. Anzi… Perché quei risultati lì…».

- Massima trasgressione che si concedeva, forse, il bianchetto, che a tavola non mancava mai.

«Anzi. Anzi… È che quell’altro… Quell’altro se ne fregava di tutto e di tutti. Cosa che invece Roberto…».

- E una cosa che, giù di bici, Roche adesso sta pagando, no?

«Ma sai, in fondo era anche lui un timido, eh… Non aveva fatto una scelta differente. Sai, questo mondo tanti quando ne escono non lo amano più, e questo faccio fatica a capirlo».

- A te è capitato?

«A me no. A me no…».

- Tu quando hai smesso eri consapevole che era arrivato il momento?

«Sì, quello sì. Non sono più andato in bicicletta per due anni, ma per altre ragioni, per altri motivi. Però il mio mondo l’ho sempre…».

- Che cosa succede invece a quelli cui facevi riferimento adesso? È perché non riescono a staccare, a reinventarsi? E perché tanti, quando smettono, poi non ne vogliono più saperne? E tanti altri che magari vorrebbero rientrare invece non ci riescono?

«Non capisco. Non si riesce più a rientrare perché le squadre sono sempre meno e i direttori sportivi diventano anno dopo anno sempre di più, quindi proprio materialmente non c’è posto per tutti. E quindi è vero: anch’io, quando ho smesso di fare il direttore sportivo, sei anni fa, non ho più trovato un posto. È anche vero che non mi sono mai messo a…».

- Ti sarebbe piaciuto?

«Sì, sì, sì. Ho cercato ma ho capito subito che progetti seri non ce n’erano e quindi… Poi più passa il tempo e più perdi il treno, e difficilmente torna. Anche perché poi quelli attuali sono molto preparati, più aggiornati. Quindi restando fuori per tanti anni, fai sempre più fatica a rientrare. Nulla è impossibile, però fai più fatica. Fai altre cose. Io però ho trovato il modo di restare nel mio ambiente facendo altre cose. Voglio dire, ci sta».

- Visentini invece dell’ambiente non ha più voluto saperne per via di Sappada o pensi, per come l’hai conosciuto, che ne sarebbe uscito comunque?

«No, ne sarebbe uscito comunque. Perché…».

- Non era, o non lo sentiva, suo?

«Lo faceva [il corridore], l’ha fatto molto bene, molto bene, ma non era [una passione] viscerale, non so come dire… Forse per i campioni, per tanti campioni, vale questo aspetto. Per tanti campioni. Forse gli viene talmente facile riuscire che poi non se ne innamorano. Credo. Io do questa spiegazione. Mentre il gregario, che “raspa” dalla mattina alla sera, alla lunga…».

- Ecco, tu che “raspavi” dalla mattina alla sera, come interpreti ciò che successe in quella squadra? Quella era una Carrera un po’ spaccata. E prendo quella Carrera per fare un discorso più ampio, più generale.

«Proprio in quell’anno lì eravamo nello stesso albergo per la cronometro di Saint-Vincent…».

- E quindi l’ultimo giorno.

«Bravissimo. Ed io uscendo dall’albergo quando li guardavo dicevo tra me e me, ma penso l’abbia detto e pensato anche Ferretti: quanto bendidio sprecato così malamente…». [ride, nda]

- Vero? Parliamo di certi passistoni…

«Ma roba da matti…»

- Bontempi, Ghirotto, Leali, i giovani Cassani e Chiappucci…

«Litigavano per vincere il Giro d’Italia».

- E avrebbero potuto fare primo e secondo.

«E per me, neoprofessionista, ti lascio immaginare che cosa… Quanto bendidio sprecato. Però alla fine questa vicenda ha messo del sale e del pepe in quel Giro d’Italia…».

- Anche perché, per il resto, quel Giro fu piuttosto piatto, specie per gli italiani: solo Giupponi, quinto, s’è salvato…

«Sì, sì, sì. Se ne parlava dalla mattina alla sera della loro vicenda, quindi, a modo suo, ha dato molto interesse…».

- E perché, più di trent’anni dopo, siamo ancora qui a parlarne?

«Eh, perché è stata una cosa eccezionale. Le cose eccezionali restano».

- Quell’eccezionalità in che cosa consiste? Nell’attacco di un corridore non solo al suo capitano, ma al suo capitano in rosa?

«E certo».

- Al Giro 2004 ci fu nella Saeco il duello intestino fra Gilberto Simoni e Damiano Cunego, alla fine rispettivamente terzo e primo, ma non era la stessa cosa…

«No, no, no: non stava né in cielo né in terra. E ti posso garantire, avendolo vissuta, che il bello di quella vicenda [al Giro ’87] è che a un certo punto non si sapeva più chi e come stesse sbagliando. Perché c’era una parte dell’opinione pubblica pro-Visentini, ma era nata anche una parte di opinione pubblica pro-Roche».

- E anche nella squadra era così: un po’ di qua, un po’ di là, no?

«Eh sì. E una parte, diciamo quelli dietro, immediatamente dietro in classifica generale, che si sfregavano le mani pensando che fosse un’autodistruzione, cosa che invece non è stata. Se non per Visentini…».

- Perché speravano che tra i due litiganti a godere fosse un terzo incomodo.

«Esatto, perché lì ci stava».

- Boifava lì andò nel pallone? Perché mise i suoi a tirare se davanti aveva Roche?

«Eh be’, dopo lì, sai, non è facile. Perché comunque Visentini era pur sempre Visentini. Cioè era uno che…».

- …aveva vinto l’anno prima.

«Aveva vinto già il Giro d’Italia, quindi voglio dire, un certo peso…».

- E in più tutti gli occhi addosso…

«E quindi, sai, se non altro per rispetto, Boifava, io credo, li ha messi davanti pensando in un primo momento di riuscire a ricucire. E poi, in un secondo momento pensando, secondo me: vabbè, speriamo che non guadagnino poi troppo, via…».

- Tu con Moreno Argentin hai corso e quindi lo conosci abbastanza bene…

«Sì, certo. Lui con me ha vinto un Giro delle Fiandre, che è per antonomasia la corsa che tutti avremmo detto, io compreso, per lui impossibile da vincere. E invece [nel 1990, nda] la vinse. Arrivò con Rudy Dhaenens, pace all’anima sua, morto poi in un tragico incidente stradale».

- Te lo chiedo perché lui e Visentini, che erano stati compagni nella Sammontana, non si son mai amati…

«Eh no, perché i galli… Ricordati che c’è il proverbio che nel pollaio [“con troppi galli a cantare non si fa mai giorno”, nda]… Ma i galli in generale non vanno mai d’accordo».

- Ieri son stato da Valdemaro Bartolozzi, e me ne ha raccontate abbastanza. Tornando al clima pre-Sappada, quando si parlava di Argentin candidato alla maglia rosa, in una delle sue sparate Visentini dichiarò: quest’anno per Argentin ci vuole la sveglia, per dire dell’enormità dei distacchi che Moreno avrebbe preso. Capirai, con quell’orgoglio e quella cattiveria agonistica, Argentin se la legò al dito e, alla prima occasione, come ancora oggi ricorda, disse: te la do io la sveglia… E mise a tirare a tutta i suoi… Confermi?

«È vero. Sì-sì-sì. Eh sì, questi sono sassolini che restano nelle scarpe».

- E quindi Roberto è stato anche ingenuo…

«Eh, non dico farti degli amici, ma almeno… Certo: l’intelligenza. Perché quando si parla d’intelligenza, è l’intelligenza ciclistica che bisogna cogliere. Argentin aveva qualche sassolino e…».

- E gliel’ha fatta pagare…

«E ha trovato la giornata. E quelle personalità lì, parlo in questo caso di Argentin, trovano sempre la giornata giusta, per togliersi i sassolini. Perché aveva già avuto alcune occasioni in precedenza, ma ha aspettato…».

- Quella giusta…

«Sì, la vendetta va sempre aspettata…».

- …e servita fredda. Magari in salita.

«Cinicamente. Io l’ho conosciuto, son stato tre anni compagno insieme. È una delle persone più ciniche che io abbia mai conosciuto».

- Argentin ha l’istinto del killer, come quasi tutti i campioni…

«È anche, e parlo sempre di cattiveria agonistica, il corridore più “cattivo” che io abbia mai visto. E quindi figurati, c’è andato a nozze, in quella giornata. Dalla scarpa s’è tolto tutti i sassi».

- Il 28 aprile 2018, alla presentazione della tappa di Sappada che ci sarebbe stata di lì a tre settimane, Argentin era fra gli invitati. Quando abbiamo tirato fuori quest’aneddoto, gli vedevi ancora negli occhi lo stesso fuoco di allora. Saltava sulla sedia. Anche dopo trent’anni la ferita è ancora aperta…

«Sì, sì. E quindi un errore di Roberto, anche, è stato un po’ quello di fregarsene. Anche l’altro [Roche], ti ho detto, se ne fregava di tutto e di tutti, ma fino a un certo punto. Fino a un certo punto…».

- Quell’anno poi hai corso anche il Tour?

«No. Io ho fatto solo il Giro».

- Per il discorso che facevamo prima, perché Ferretti non ti riteneva pronto?

«Sì».

- Volevo chiederti della tappa di La Plagne: Roche all’arrivo svenne e fu soccorso con l’ossigeno. Te la ricordi?

«Vagamente».

- Parlavamo prima della sua determinazione, lì lui lottava sul filo dei secondi con Pedro Delgado e le radioline ancora non c’erano.

«So per certo però che lui, anche nei test arrivò, mi hanno raccontato, con una condizione ancora migliore di quella che aveva al Giro. E quindi cosa non facile. Cosa non facile…».

- Quelli erano gli anni a cavallo dell’èra più buia, in cui è cambiato un po’ tutto, e volevo chiederti se tra il primo e il secondo Roche hai notato delle differenze. Perché quello poi tornato in Carrera non era più lo stesso Roche… E prendo lui come metro di paragone fra le due epoche…

«Ma, sai, io credo che lì sia stato proprio lo spartiacque anche del lato… oscuro, non della forza [sorride amaro della sua stessa citazione, nda]…».

- Forse era già iniziata l’èra…

«Non della forza, ma del doping, in questo caso. Io in quegli anni lì ho avuto come medico Michele Ferrari. Era il medico della squadra e ti posso garantire che era impeccabile. Poi…».

- …è diventato il “Dottor dio”…

«Esatto. Poi, non so per quale ragione, la possiamo immaginare tutti quale fosse, sono passati al lato oscuro…».

- Non credo però, come invece pensano in molti, che dietro ci fossero solo motivazioni economiche.

«No, no, no…».

- C’era, secondo me, anche un senso – per quanto distorto – di sfida, di ricerca del limite… Sei d’accordo su questo?

«Assolutamente sì: io conosco, ho conosciuto molto bene, in quegli anni, Michele Ferrari. Non credo che sia stato solo per…»

- C’era forse anche il coler capire fino a dove ci si potesse spingere. Perché lui stesso, ottimo cicloamatore, testava su di sé i risultati dei propri studi…

«Quella era un’équipe scientifica non di alto livello: di altissimo livello».

- Tralasciamo il come hanno poi applicato, nei rispettivi campi, la propria genialità, ma sei d’accordo che sia Conconi sia Ferrari siano due luminari?

«Ma senza ombra di dubbio. Ma senza ombra di dubbio…».

- E tra i due che differenze trovi?

«Quello che sono stati capaci di fare con Moser… Tanti pensano: ma chissà che cosa ha preso.. No-no-no-no-no. No-no-no: questi applicavano. Io ho avuto Sassi come preparatore, ero ancora al mio ultimo anno da dilettante e andavo in giro con un cardiofrequenzimetro che pesava, solo il mio cardiofrequenzimetro, quasi più della mia bicicletta… Usavo il cardiofrequenzimetro nel 1985-1986. Facevo ripetute di forza e resistenza nel 1985… Altroché il dito, questi erano già sulla luna. Non guardavano il dito… Ma neanche la luna. Ci stavano già camminando, sulla luna».

- Diversi corridori mi hanno raccontato che lo stesso Sassi, agli inizi, aveva commesso degli errori sulla preparazione degli atleti. Sei d’accordo?

«Sììì. Sì, però già applicavano un sistema scientifico che gli errori li limitava tantissimo. Ecco dove sta [la differenza]…».

- A un certo punto si arrivava a livelli di empirismo: si procedeva per tentativi proprio perché ci si addentrava in territori inesplorati. Questo intendevo...

«Assolutamente sì, ma sempre con raziocinio. Non erano…».

- …dei praticoni. Ti sei spiegato. Conconi poi ha preso una direzione, Ferrari un’altra, Sassi un’altra ancora… Che cosa è scattato, dopo?

«Perché, poi, probabilmente, eticamente…».

- Ognuno è fatto a suo modo?

«Erano diversi. E quindi, senza voler giudicare nessuno, ma dopo credo sia subentrato questo».

- Conconi, a ottantatré anni, ancora lavora. Ferrari ha avuto quel certo tipo di percorso. Sassi, grazie alla lungimiranza di Squinzi, aveva poi fondato il Centro Studi e Ricerche Mapei. Indirizzi del tutto diversi, al di là del giudizio morale che uno può darne.

«Sassi non era un medico, era un preparatore. Bisogna anche distinguere le figure. Conconi e Ferrari erano medici, quindi… Poi che Ferrari facesse, ad esempio, nei miei primi anni all’Ariostea, il medico sociale e, di alcuni corridori, non nel mio caso, curasse anche la preparazione, okay. Sassi curava solo la preparazione. Non faceva il medico».

- Sono competenze diverse, ovvio.

«Chiaramente, essendo medico, conosce anche… la medicina. Sassi probabilmente aveva una conoscenza della medicina ma per sua…»

- …cultura professionale, certo. Non per mestiere.

«Credo sia stata questa la differenza, che gli ha fatto prendere strade diverse. Oltre all’aspetto etico. Chiaramente nell’etica non ci sono limiti. È l’etica che dovrebbe dartelo, il limite; ma ognuno dove la mette l’etica? Cioè…».

- Quanto ti è servito, e come influisce, incide, sul tuo modo di raccontare adesso il ciclismo ciò che hai visto e vissuto da corridore prima e da direttore sportivo poi?

«Se parliamo del doping, io non sono restio a parlarne. Io dico molto apertamente che i miei anni, e forse anche qualche anno prima, son stati gli anni peggiori da quel punto di vista lì. “Aiutati” tutti – pochi esclusi, perché chi dice che per tutti era così, a volte viene additato come… ma non è distante dalla realtà – poi a livelli e con modalità completamente diversi, questo sì, te lo posso confermare; ma che così facevan poi tutti è abbastanza vero. Non è una sciocchezza quando, da alcuni, viene detta».

- Basta andare in bicicletta per rendersene conto, no? Guarda le medie…

«Esatto. Aiutati, aggiungo, in quegli anni, molto, dai controlli. Nel senso che adesso è cambiato il mondo anche da quel punto di vista lì. Adesso hanno su il Medical, devono fare dei controlli medici che prevedono una trentina di esami, che vengono sempre, sempre, costantemente verificati, monitorati. Non voglio dire che non ci sia più la possibilità, però la maglia è molto più stretta. Uno. Due, probabilmente c’è una coscienza diversa anche nei ragazzi, adesso. E quindi il “mio” ciclismo io lo racconto, ancora oggi, sempre consapevole della fatica che ho fatto io per ritagliarmi un ruolo, e questo mi è stato di grande insegnamento. Adesso poterlo raccontare, senza fare più quelle brutali fatiche, per me è già una gioia».

- Se ad aprile dovessi commentare Andrea Tafi che a 52 anni torna correre la Roubaix, il tuo primo pensiero quale sarebbe? [Tafi poi clavicola fratturata in allenamento, nda]

«Matto. Matto… Però, massimo rispetto. Non condivido questa scelta, perché io credo che ci siano le stagioni…».

- E un tempo per tutto?

«Sì. Assolutamente sì. Mi sembra anche poco rispettoso nei confronti di chi quel giorno sarà in gara con velleità di vincerla. Mi sembra “sgarbato”, non so come dire… Per farti un esempio: è come andare al Festival di Sanremo perché sei stato spinto…».

- Magari solo perché anni prima sei stato un grande cantante.

«Sì, ma adesso stoni. Stoni. Evidentemente stonato, e vai e canti. Cioè: stoni».

- E quindi forse la vera mancanza di rispetto è verso se stessi, e ciò che si è stati, più ancora che verso chi correrà quel giorno?

«No, io in quello no. Trovo che quel che tu dici sia vero prendendo parte e puntando a vincere una cicloturistica. In quel caso sì, è una mancanza di rispetto. Per un appuntamento importante…».

- Cosa, quella di gareggiare per vincere nelle cicloturistiche, che “Tafone” fa da anni…

«Lì, secondo me, sì, dovrebbe rispettarsi di più. Ripeto, col massimo rispetto delle sue scelte, ma io non posso… Faccio fatica…».

- Diciamo che tu al suo posto non lo faresti.

«Assolutamente no. Ma se fossi al suo posto non andrei neanche a partire in una corsa cicloturistica. L’ho fatto, lo faccio, con amici, ma l’aspetto agonistico…».

- Quello no, per rispetto di ciò che sei stato?

«No, ma certo. Lo dico io che sono stato infinitamente più “piccolo” di lui. E quindi questa cosa mi stupisce. Anche se, ripeto, rispetto le scelte altrui. Poi, se mi chiedi, cosa ne penso, ti dico: io non lo farei, non son d’accordo. Però… Pazzo. Torno a dire: pazzo».

- Di tutti i corridori che hai visto ieri e oggi, a quali ti senti più legato? Non necessariamente perché più forti. Quelli che ti hanno emozionato, che ti piace commentare o che magari ammiravi quando eri in gruppo.

«Be’, quando ero in corsa, in gruppo, nei miei primi anni, ammiravo Moser, Saronni. E Baronchelli perché lui non potrebbe mancare. Lo stesso Roche, ma allora ce n’erano tantissimi… Knetemann. C’erano dei corridori pazzeschi. Poi, in una seconda fase, e che mi appartengono di più perché ci ho corso assieme, i vari Argentin, Bugno, Ghirotto. Anche corridori, tornando alla Carrera, come Leali, questi corridori. Poi, successivamente, Peter Sagan, Vincenzo Nibali, Fabio Aru…».

- Non per fare improponibili paragoni tra epoche, ma volevo sapere come motore, come cilindrata, chi metti sullo stesso piano di chi.

«Ma è cambiato il ciclismo. Adesso è un ciclismo, cominciato da Armstrong qualche decennio fa, in cui in salita si va con rapporti che ai miei tempi era impensabile montarli su una mountain bike. Adesso, senza entrar troppo nel tecnico, usano tutti il 30, il 32, viaggiano in salita a 90-100 pedalate al minuto. Ai miei tempi il rapporto massimo era il 23, e in salita si andava a 58-60 pedalate al minuto. Cioè: è cambiato il ciclismo. E non si capisce dal solo tempo di scalata, perché magari in alcuni casi andavamo più veloci noi, in altri casi no… Ma è cambiato il mondo: adesso i corridori, li vedi alla partenza… Io ancora adesso che sono nell’ambiente, quando li vedo dal vivo, rimango basito. Gli vedi delle gambe… Non hanno attaccato più niente… Noi eravamo tondi come delle palle, allora. Chi più, chi meno. È cambiato il mondo. È cambiato il mondo, grazie anche ai preparatori, all’alimentazione. È cambiato tutto».

- Però il colpo di pedale, la grandezza, quelli li riconosci subito…

«Ma certo. Il Vincenzo Nibali che ho visto al terzo tornante della Cipressa [alla Sanremo 2018, nda], daaaiii… Cioè: se non sei uno stolto, lo capiva anche un bimbo come saliva facilmente. Poi probabilmente ho avuto fortuna nel dirlo subito in diretta. Però lo vedi, se mastichi un po’ di ciclismo e stai attento. Attento. Perché siamo lì tutti, ma pochi guardano con occhi attenti quel che succede. Se hai questa capacità, ti posso garantire che qualche indicazione la cogli. Devi essere prontos e capace a farlo».

- E a questo mestiere come ci sei arrivato?

«Ci sono arrivato semplicemente. Ero ancora corridore. Era la corsa in Svizzera prima del Giro d’Italia, il Romandia. E il penultimo giorno, nello stesso albergo con la Televisione Svizzera Italiana, il telecronista di allora, il De Zan del Canton Ticino, che allora era Armando Ceroni, mi prese da parte e mi disse: “Ma tu la Vuelta la fai?”. Io ero alla Casino, il mio primo anno di Casino [1997, nda], il penultimo della carriera. Dico: “No, faccio il Giro e…”. “Ti andrebbe di venire a commentare con me la Vuelta di Spagna?”».

- E perché ha battezzato proprio te? Eravate amici?

«È la stessa domanda che… Sì, il nostro ambiente è una piccola-grande famiglia. Ci si conosce tutti…».

- Avrà visto (o sentito) in te qualcosa, no?

«È la stessa domanda che gli ho fatto io. Dico: “Perché me?”. “Perché – mi ha detto – tu puoi funzionare”. E aggiunse: “Anzi, tu funzionerai”. Ed io gli ho detto: “Ma perché, dài già per scontato che io ti dica di sì?”».

- La proposta ti ha lusingato o più che altro ti ha stimolato la curiosità e ti sei detto: vabbè, proviamo? È una cosa che avevi dentro, o no?

«No, no: mi ha stuzzicato. E mi ha lusingato. Però, su questo, quando lui aggiunse “funzionerà”, ho detto: “Ma devo sapere qualcosa che non so?”. E lì lui mi disse: “Sì, io ho già chiesto alla tua squadra. E quindi [adesso] dipende solo da te. So che la Vuelta non la farai, me lo stai confermando, quindi dipende solo da te. Perché la tua squadra mi ha già detto di sì. Devi decidere tu”».

- E allora hai provato…

«Subito. Gli dissi di sì subito, quel giorno lì. E quindi in un quarto d’ora si fece tutto. E poi ho lavorato per loro per tre anni. Ho lavorato lì anche l’anno successivo e il primo anno in cui avevo smesso [di correre]. Poi fui chiamato da Eurosport e feci dieci anni là».

- Ed è in Eurosport che hai capito di poter avere un futuro nel mestiere?

«No, l’ho capito [già] con Armando Ceroni».

- Ah sì, subito?

«Sì. Alla prima tappa della Vuelta, la mia prima telecronaca. Eravamo a pranzo e mi fa: “Hai visto? Siamo stati a pranzo un’ora e un quarto, hai visto quante cose ci siamo detti e abbiamo sviluppato?”. Dico: “Sì”. “Ecco, adesso, quando saliremo in postazione e si accenderà quella lucina rossa, tu continua a parlarmi in questo modo”. E così ho fatto».

- E l’emozione, come l’hai gestita? È così diversa da quelle che, prima della partenza, provavi da corridore?

«Sì, [più] consapevole…»

- La lucina rossa, perlomeno ai primi tempi, ti ha condizionato?

«Certo, certo. Per la consapevolezza che quel che dici non torna più indietro. Purtroppo, nelle dirette…».

- Non c’è rete di protezione che ti salvi…

«No. No… E poi, vabbè, negli anni mi sono smaliziato. Sono migliorato. Bisogna. È uno di quei mestieri in cui bisogna. Nonostante le pacche sulle spalle, nonostante tu sia bravo – tanti “sei bravo”, fortunatamente nel mio caso, e non lo dico per immodestia, ma perché è la verità, bisogna continuare a studiare. Perché sennò… Come tutti i mestieri, dal ciclista a… Anche chi è sul tornio fa corsi di aggiornamento…».

- Come ti prepari, che cosa studi, in che modo ti aggiorni?

«Mi aggiorno con una delle doti forse più belle, più importanti, che ho: la curiosità. E torno al famoso “Commissario”. Questo mi salva tantissimo. Perché la curiosità è quella fiamma che ti fa sempre cercare qualcosa non di diverso, ma di nuovo. E questo m’aiuta molto, quindi il fatto di essere curioso è già – per me – una forma di studio continuo».

- E quindi non smetti di fare domande, eh?

«Mai. Mai».
CHRISTIAN GIORDANO ©
Rainbow Sports Books ©

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