PHILIPPA YORK - Il resto della mia vita



La storia di Robert Millar, oggi Philippa York, riveste un’importanza capitale.

di DAVIDE BERNARDINI
SUIVEUR, 5 settembre 2019

Capelli lunghi che escono dal casco, stile invidiabile, bicicletta e abbigliamento sempre in ordine: chi vede passare questa donna si ritrova a fare sempre più spesso considerazioni del genere. Vive con un’amica, sembra felice (“normale”, si vergognano a dire in molti). Tuttavia, nessuno sa chi sia né da dove venga: e soprattutto, cosa l’ha portata in quel piccolo paese del Dorset

Nei primi anni Duemila, la situazione si fa sempre più chiara: di tanto in tanto appare qualche giornalista che scruta, domanda, indaga, e l’oggetto della curiosità è la donna che va in bicicletta. Nel 2007, gli articoli si intensificano sempre di più; uno di questi è de La Gazzetta dello Sport e al suo interno viene riportata la dichiarazione di un abitante del paese: “Tutti qui sanno che Philippa una volta era un uomo, ma siamo troppo educati per chiederle i dettagli della sua vita passata”. I titoli a riguardo non lasciano spazio all’equivoco; Philippa è Philippa York, ma fino a poco tempo prima era conosciuta in tutto il mondo con un altro nome: Robert Millar.

Il più grande atleta scozzese

In un articolo del 2017, Tuttobiciweb ha ripercorso con completezza la prima parte della carriera di Robert Millar. Nasce a Glasgow nel 1958 e cresce a Shawlands, nella parte sud della città. È protestante, dunque dovrebbe tifare Rangers, ma il calcio non gli interessa: l’unico sport che lo attrae è il ciclismo. La quotidianità di uno scozzese dell’epoca poggia su tre mattoni: fabbrica, birra e pallone. Gli ultimi due non attirano Millar; neanche il primo, a voler essere sinceri, ma gli tocca. Tuttavia, capisce in fretta quello che vuole dalla sua vita: diventare un ciclista professionista, non marcire tra un posto di lavoro che non lo appaga e un locale che lo rattrista.

Si allena prima e dopo l’orario lavorativo pedalando su dei "cancelli", ma alla fine ottiene la chance di giocarsi le sue carte nel ciclismo che conta: quello continentale. Nel 1979, a quasi ventuno anni, le sirene della Francia diventano irresistibili. Per un ragazzo così motivato e serio, trasferirsi a Parigi non sembra un problema: nemmeno con la famiglia, con la quale ha un pessimo rapporto, tanto da non avvertirla quando nel 1979 aveva vinto la prova in linea dei campionati britannici riservata ai dilettanti – a dire la verità, loro nemmeno sapevano che avrebbe partecipato.

Alloggia in Rue de Sèvres, Boulogne-Billancourt, struttura che la ACBB mette a disposizione dei ragazzi che vengono da fuori. Billy Bilsland, il primo allenatore di Millar, ricorderà con piacere quei giorni quando molti anni più tardi verrà raggiunto dalla BBC: “Non avevo dubbi sul suo successo. A quel tempo, i britannici che cercavano fortuna in Europa non erano così diversi dagli africani che ci provano oggi: sapevano di avere poche chance, venivano guardati con ostilità, anche imparare il francese poteva risultare insufficiente per integrarsi”. Millar non è l’unico atleta di lingua inglese che intraprende quel percorso: ci sono anche LeMond, Roche, Kelly e Anderson, americano il primo, australiano l’ultimo e irlandesi i restanti due. La geografia del ciclismo stava irreversibilmente cambiando e Millar ne avrebbe fatto parte.

Divide il suo appartamento con John Parker, che viene da Southport, Liverpool; per affinare il loro francese stringono un patto: non si parla inglese dalle 9 alle 17. Le giornate di silenzio si susseguono ma Millar non le patisce: Parker sì e infatti se ne torna a casa. Nel 1980, dopo solo una stagione in continente, Millar approda nel professionismo: correrà con la Peugeot per 4250 franchi al mese, dopo esser stato insignito del Merlin Plage, un riconoscimento assegnato al miglior dilettante dell’anno. Alla squadra lo ha consigliato Jack André, un direttore sportivo che ha base a Troyes e che ha un occhio attento quando si parla di pepite:

“Ho fatto diverse esperienze, guerra d’Algeria compresa, eppure non ho mai conosciuto un ragazzo tanto eccezionale quanto Millar”.

Oltre ad essere un bel corridore, Robert Millar era anche un autentico personaggio con un campionario di manie e stranezze da far impallidire un istrione: era vegetariano, si allenava con dei pesi alle gambe, perlustrava ogni albergo nel quale alloggiava in cerca di tanti posacenere così da poter rialzare una parte del letto e appoggiarvi le gambe – per favorire la circolazione e dunque un recupero migliore, gli aveva suggerito qualcuno. Celebri erano anche le sue sfuriate, che in molti hanno paragonato al modo di fare che avevano McEnroe e Cantona: ad un giornalista che indagava sul suo stato d’animo in seguito ad una caduta, Millar consigliò di gettarsi dalla bicicletta in un tratto di discesa e ad una velocità elevata “per capire meglio”; per provare che il piatto di pasta portatogli da una cameriera era immangiabile, Millar lo scagliò verso il soffitto e i suoi commensali furono costretti a dargli ragione: la pasta rimase attaccata.

Un perfezionista, un maniaco della scienza e dell’alimentazione, uno dei pochissimi che non si stupirà quando il Team Sky comincerà a parlare di marginal gains, “metodi che noi chiamavamo in maniera diversa ma che sostanzialmente funzionavano nello stesso modo”. Molti compagni di squadra ricordano quanto fosse esigente con loro, ma concordano tutti sul fatto che lo fosse ancora di più con se stesso; un ragazzo lunatico, serio in allenamento e intrattabile in corsa, amabile dopo cena e disposto a sacrificarsi se la tattica di corsa lo richiedeva. Alla stampa britannica che ne applaudiva le gesta e il coraggio dimostrato in salita, Millar rispondeva con l’unicità che soltanto chi è veramente diverso dagli altri può permettersi senza risultare esagerato:

“Le montagne”, spiegava, “sono l’unica possibilità che ho per far soffrire gli altri corridori, ma io devo soffrire così tanto per farli soffrire che la cosa non mi diverte affatto”.

E poi c’è il corridore, e che corridore: uno dei più brillanti della seconda metà degli anni ottanta. Il ciclismo britannico gli deve molto; finché non sono arrivati Wiggins e Froome, la maggior parte dei primati più prestigiosi nelle grandi corse a tappe erano firmati da lui: nel 1987, ad esempio, fu il primo corridore britannico a salire sul podio finale del Giro d’Italia – secondo dietro al Roche che in quella stagione avrebbe vinto Giro d’Italia, Tour de France e campionato del mondo, tra l’altro quella fu l’unica volta in cui Millar partecipò al Giro d’Italia; soprattutto c’è il quarto posto al Tour de France 1984, il miglior piazzamento di un ciclista britannico alla Grande Boucle – ci vorranno Froome e Wiggins nel 2012 per riscrivere la storia, in più quell’anno Millar vinse anche una tappa e la maglia a pois.

Il suo palmarès è scarno, ma è di assoluta qualità: tre tappe al Tour de France, una al Giro d’Italia, una alla Vuelta; un’edizione della Volta a Catalunya, una del Delfinato, tre tappe al Romandia e una al Giro di Svizzera; e ancora, sesto nella prova in linea dei campionati del mondo di Barcellona del 1984, quarto al Giro di Lombardia nel 1990, quinto e terzo alla Liegi-Bastogne-Liegi rispettivamente nel 1987 e 1988. Dei due secondi posti finali alla Vuelta – 1985 e 1986, senza dimenticare il sesto del 1988 -, quello che brucia di più è sicuramente il primo. Millar era il leader della corsa alla partenza della ventesima e penultima tappa, l’ultima d’alta montagna; in salita era sempre stato il più forte e il più costante, dunque non pensava che qualcuno potesse rompergli le uova nel paniere. Ma, quando forò, Delgado e Recio lo attaccarono senza pietà. Mentre il vantaggio dei due lievitava, Millar stringeva la mano ai suoi avversari e colleghi, ignaro di quanto stava per succedere. L’ammiraglia si accorse troppo tardi che il vantaggio della coppia al comando aveva ormai superato i sei minuti; in gruppo nessuno aiutò Millar, solo i suoi uomini, finché non furono costretti a fermarsi ad un passaggio a livello: non passò nessun treno. Millar non osò lamentarsi: 

“I ragazzi di Gorbals non piangono”, scrisse un giornale della sua zona d’origine.

Incapace di mettersi in proprio con regolarità, Millar cambiò diverse squadre; l’ultima, nel 1995, fu La Groupement, che tuttavia chiuse i battenti a metà stagione. A trentasette anni, Millar scelse i campionati britannici per dare l’addio alle corse: vinse lui. Bilsland è fermamente convinto che Robert Millar sia il miglior atleta che lo sport scozzese abbia mai avuto.

Faccio solo quello che mi piace

Dal 1997, dopo essersi dato al taekwondo e aver trascorso un breve periodo nei quadri della Federazione britannica, di Millar si comincerà a sapere sempre meno. Le sue apparizioni, più e meno pubbliche, saranno sempre più rare, e chi ha avuto la possibilità di scambiarci due parole lo descrive ancora più schivo e particolare del solito; alcuni tabloid, nei primi anni duemila, avanzano un’ipotesi reputata scandalosa: Millar sta diventando una donna e si sta sottoponendo da anni ad una cura ormonale.

Le indiscrezioni si rincorrono e le dichiarazioni di alcuni conoscenti ed ex colleghi raggiunti dalla stampa non fanno altro che gettare benzina sul fuoco: fanno riferimento al fisico di Millar, complessivamente diverso rispetto a qualche anno prima, e con due protuberanze estremamente simili a quelle di un seno che gonfiano il suo petto. Una fugace presenza nel 2002 ad una corsa nei pressi di Manchester non chiarisce la questione – semmai, dati i tempi stretti che la connotano, li infittisce. Poi, dal 2003, una cappa di silenzio cala su Robert Millar. Nello stesso anno viene incluso tra i quattordici nomi della Hall of Fame del ciclismo scozzese, ma nessuno sale sul palco a ritirare il premio: Robert Millar è letteralmente scomparso.

Il ragazzo che a ventuno anni lasciò la Scozia per la Francia non era soltanto coraggioso e motivato; l’apparente semplicità con cui decise di tentare la fortuna era dovuta soprattutto alla solitudine di cui godeva – e soffriva: i rapporti con la famiglia si erano già incrinati, infatti Millar non andrà né al funerale della madre né al matrimonio della sorella. Per trovare una stabile presenza femminile nella sua vita bisogna saltare al 1985, quando sposa in tutta segretezza Sylvie Transler, la sorella della moglie di Jerome Simon, maglia gialla nel 2001 e fratello di Pascal. Millar va a vivere con lei e il figlio che gli ha dato, Edward, a Bercenay-en-Othe, quattrocento cristiani e la chiesa nel mezzo al paese. Per allenarsi si affida ancora a Jack André, uno dei suoi più grandi estimatori, e sarà proprio André a raccontare uno scambio di battute che diversi anni dopo assumerà un significato completamente diverso: André era anche il parrucchiere di Millar, il quale gli chiede di tanto in tanto di fargli una permanente; “Ma con i capelli lunghi che hai finirai per assomigliare ad una donna”, gli rispondeva perplesso André.

Nel 1995, Millar abbandona la famiglia e la Francia per tornare in Inghilterra – a Daventry, nelle Midlands: sono gli anni del taekwondo, della parentesi nella Federazione britannica, delle prime illazioni e dell’isolamento. Nel 2007, quando il Tour de France parte da Londra, i principali organi di stampa britannici assicurano che Robert Millar ha completato la sua trasformazione: adesso è una donna, si chiama Philippa York e vive nel Dorset in una casa da 350.000 sterline insieme alla fidanzata, tale Linda Purr; le due avrebbero anche una figlia, Liddy, dato che la coppia si è conosciuta quando Philippa era ancora Robert. Per arrivare alla verità ci vorranno ancora dieci anni.

Nella primavera del 2017, Ned Boulting contatta Philippa: ITV4 ha bisogno di qualche figura competente che possa completare il palinsesto nelle tre settimane del Tour de France. Il telecronista britannico rimane piacevolmente colpito dalla risposta di Philippa: dammi quindici giorni di tempo. Boulting, tuttavia, sapeva di avere qualche possibilità: era uno dei pochissimi ad avere il contatto telefonico della donna, senza dimenticare che l’emittente per la quale lavora è stata la prima a trasmettere le vittorie di tappa di Millar al Tour de France, avendo dunque contribuito e non poco alla diffusione del personaggio e dello sport nel paese.

La decisione di apparire sugli schermi dev’essere necessariamente preceduta da una serie di chiarimenti sulla nuova identità di Millar: è quello che succede, infatti, con l’intervista che Philippa rilascia a William Fotheringham del Guardian e con un testo scritto di proprio pugno su Cyclingnews, sito sul quale tiene una rubrica da ormai diverso tempo. L’unico serio tentativo di far luce sulla vicenda era stato di Richard Moore, giornalista britannico che aveva intitolato un suo libro “Alla ricerca di Robert Millar”: le copie vendute furono oltre 50.000, ma il lavoro svolto era approssimativo e non portò a nulla. Di quei giorni rimane soprattutto una mail di Philippa in risposta a una precedente di Moore:

“Non sono affatto scomparsa, faccio solo quello che mi piace”.

L’intervista più preziosa, tuttavia, rimane quella che ha concesso a Jeremy Wilson del Telegraph nell’aprile del 2018. Si scopre, innanzi tutto, che Philippa si è sentita diversa fin da quand’era un bambino: aveva cinque anni e a scuola, quando arrivava il momento della ricreazione, la sua attenzione veniva catturata dalle femmine, dai loro giochi, dai loro modi. Philippa non poteva essere a conoscenza della disforia di genere, ma se lo avesse saputo si sarebbe risparmiata un’infanzia di dubbi e di incertezze.

Il suo approccio al ciclismo si può capire soltanto in funzione della sua situazione: un ambiente prettamente maschile all’interno del quale risultava migliore degli altri, mettendo a tacere qualsiasi chiacchiericcio; una valvola di sfogo sulla quale concentrarsi con voracità per dimenticare tutto il resto, compreso se stessa.

“La competitività prese il posto della felicità”, confessò al Telegraph. “Come se avessi spento il mio sistema emozionale: operavo con la freddezza di un robot”.

Nonostante un’identità sempre più scissa, Robert non ha mai tradito Philippa: nessun compagno, collega o direttore sportivo ricorda movenze o atteggiamenti femminili. “Non potevo permetterlo: dovete ricordarvi chi ero e il mondo di cui facevo parte”.

Poi, grazie al tempo che passa e al materiale che consulta personalmente, Robert comincia a familiarizzare con la sua situazione: si rende conto di non voler morire nel corpo di un uomo, di non essere felice, di recitare una parte che non è la sua. “Il disturbo dell’identità di genere non è né una scelta né tantomeno un disturbo mentale, bensì un malessere, direi una condizione medica: il tuo cervello ripete che il ruolo che stai ricoprendo, e che gli altri si aspettano che tu continui a ricoprire, non è quello giusto per te”. Intraprendere la cura ormonale non è stata certo la parte più semplice: da un punto di vista sportivo gli costò una squalifica alla Vuelta del 1992 – evento che all’epoca venne bollato come mera volontà di migliorare la prestazione: doping, insomma; da un punto di vista squisitamente personale, invece, si tratta di ben altro: il corpo che muta, lo stato d’animo che cambia in continuazione, la sensazione che la propria figura potrebbe addirittura non diventare quanto prospettato.

In più, come se tutto questo non bastasse, Robert aveva una famiglia a cui pensare. “Sono davvero fortunata ad avere una compagna come Linda”, ha proseguito Philippa sul Telegraph. “Non è stata una passeggiata, anzi: ma chi non sarebbe rimasto schockato di fronte ad una volontà del genere? Me lo sono chiesta molte volte: cos’avrei fatto, se fosse stata Linda a presentarmi un’eventualità simile? Sarei rimasta di sasso ma probabilmente avrei accettato, perché quello che voglio è vederla felice”. E la certezza che se avesse potuto, avrebbe cambiato sesso già a sedici anni, annullando quindi qualsiasi possibilità di diventare uno dei ciclisti britannici più forti di sempre. “A volte penso a tutta la fatica che ho fatto”, ha riflettuto ancora Philippa.

“Non credo che la mia vita andrà oltre i sessantacinque anni: la natura ti mette a disposizione solo un certo numero di battiti, e se la maggior parte di questi li bruci scalando le montagne di tutto il mondo, da dove ne prenderai altri quando ne avrai bisogno?”.

La felicità è tutto ciò che conta

“Perché no?”, ha dichiarato d’essersi chiesta Philippa York alla richiesta di Boulting. “In fondo, si trattava pur sempre di tornare a commentare l’unico sport che ho amato”. Liddy, la figlia nata dalla seconda unione, ha avuto un ruolo fondamentale: ha parlato a lungo con Philippa, tranquillizzandola su quello che sarebbe potuto succedere, “magari non si può ancora parlare di tolleranza, ma finalmente in molti stanno cominciando a capire che non tutti siamo fatti nella stessa maniera”.

Liddy ha ragione: all’inevitabile sorpresa del primo momento è seguita un’ondata di affetto che Philippa non credeva possibile. Il ciclismo, uno sport che come tanti altri sta combattendo l’omofobia soltanto in tempi recenti, ha dimostrato maturità e sincerità. Uno dei commenti all’articolo scritto da Philippa e comparso su Cyclingnews viene da tale Michael ed è toccante: “Eri il mio eroe negli anni ’80, sei la mia eroina adesso. Chapeau, Philippa!”.

Warren Barguil, che nei giorni immediatamente successivi alla rivelazione veste la maglia a pois, viene circondato da un nugolo di giornalisti a cui la casualità non sembra vero: una delle sorprese del Tour de France 2017 è un giovane schietto e diretto che conquista la maglia che lanciò Robert Millar una trentina d’anni fa, proprio nelle ore in cui Millar afferma d’aver lasciato il passo a Philippa. Cosa ne pensa Barguil? “Niente, non c’è assolutamente niente di cui discutere. Ognuno è libero di scegliere il suo stile di vita e lei l’ha fatto”. I tempi sono davvero cambiati. Stephen Roche, che con Millar condivide il ricordo delle giornate in Rue de Sévres, lo ha applaudito “perché per l’ennesima volta ha dimostrato un gran coraggio, come quando correva”.

Anche Jack André ha dimostrato di non aver dimenticato Millar. “Non lo vedo da venticinque anni. Che abbia dei seni o no, per me non cambia nulla. Resta il mio amico o amica, non importa, e ricordo le grandi emozioni che abbiamo vissuto insieme”. Forse, le parole più belle sono quelle di Ronan Pensec, che non può scordare l’abnegazione con la quale Millar si sacrificò per lui e per non fargli perdere la maglia gialla sulle rampe dell’Alpe d’Huez al Tour de France del 1990: quel giorno vinse Bugno, ma Pensec seppe resistere altre ventiquattr’ore, quando a strappargli l’insegna del primato fu Chiappucci. “Io non ho nulla a che vedere col suo cambio di genere”, ha chiarito. “Piuttosto mi piacerebbe rivederlo, o rivederla, fate voi: quello che mi resta nel cuore sono i momenti che abbiamo vissuto insieme”.

Superati i timori iniziali, Philippa ha preso sempre più fiducia e sicurezza, ritornando nel microcosmo che l’ha resa famosa – e che lei ha contribuito ad espandere – senza nessun complesso d’inferiorità. Dopo tanta sofferenza e tante menzogne sul suo conto – come quelle di chi, ad esempio, diceva di aver visto Robert Millar vestito da donna mentre si allenava in Australia, e Philippa in Australia non c’era mai stata -, la donna ha preso in mano la situazione, ovvero la sua vita e il suo nuovo, importantissimo, ruolo. “Reputo giusto sfruttare la mia popolarità e la mia storia per far passare un messaggio finalmente diverso: non è credibile che nello sport non ci siano atleti omosessuali; voglio dire, in ogni ambito c’è una piccola percentuale che in quello sportivo risulta assente, pari a zero. Questo cosa vuol dire? Che ci sono gay e lesbiche che hanno timore di mostrare e ribadire il loro orientamento sessuale perché la loro vita e la loro carriera ne risentirebbe”.

Tuttavia, pur continuando a studiare il fenomeno all’interno dello sport di prima fascia, York non ne fa una questione di popolarità: “La domanda non è se sei famoso o meno; non è nemmeno se sia giusto o sbagliato, normale o anormale. La sola domanda che vale la pena porsi è: sono felice o meno? Io non lo ero e adesso lo sono; ovviamente non sono felice al 100% perché è impossibile essere contenti sempre e comunque: ma oggi, e ormai da un po’ di tempo, sto bene con me stessa”. Il tarlo che continua ad infastidirla maggiormente è lo stesso di quarant’anni fa: “Niente mi manda in bestia come l’ingenuità del tifoso che crede nella perfezione dell’atleta: come se nuotare, saltare o pedalare meglio di chiunque altro – o quasi – significhi automaticamente non entrare in contatto con le problematiche delle persone cosiddette normali”, rivelò nel 2017 al Guardian.

E se tutte queste riflessioni potessero essere riassunte da Philippa York in un’unica frase, probabilmente sarebbe quella che affidò alle pagine del Telegraph nel 2018: “Sentivo di dover fare qualcosa di buono, giusto e utile col resto della mia vita”. L’ha fatto, Philippa York, rendendoci partecipi di una storia difficile e coraggiosa: preziosa, soprattutto.

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