Luciano Bracchi - L'Uomo Invisibile


«Io a Davide Boifava devo tutto»
    - Luciano Bracchi

di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Per quarant'anni (alla lettera) braccio destro di Davide Boifava, Luciano Bracchi su e giù di bici è stato, e ha fatto, un po' di tutto: aspirante corridore (Inoxpran), meccanico (Carrera) e poi su su fino a diventare responsabile di produzione (Podium). 
Se è vero, come è vero, che - parole sue - «a Boifava deve tutto», è vero anche che pure Boifava deve molto a lui. 
L'Uomo Invisibile eppure, dietro le quinte, sempre presente. 
Soprattutto quando il Boss era in tutt'altre faccende affaccendato. 
Bracchi, per tutti Lucianino, lo incontro quasi casualmente, in sede Podium, in una delle mille "buche" che Boifava mi ha dato. 
Sarebbero passati altri cinque mesi prima di beccare il Gran Capo in persona, e allora intanto valeva portarsi avanti col lavoro chiacchierando amabilmente con il suo storico uomo-ombra.
Bresciano doc di Paderno Franciacorta (26 gennaio 1958), Bracchi è affabile e cortese, ma è cresciuto troppo a lungo alla scuola-Boifava per lasciarsi scappare chissà quali segreti e/o confidenze. Ne è venuta fuori però una chiacchierata comunque interessante, se non altro perché figlia di mezzo secolo di ciclismo attraversato a tutti i livelli.
Amato e rispettato da ex compagni e colleghi, dal 2019 collabora con Marco Compagnoni (ex International Sales Manager alla Podium) alla KRU Cycling di Rodengo-Saiano e nel tempo libero, dopo quarant'anni, si gode la più che meritata pensione.
L'amore per la bici (e per il ciclismo), invece, no: in pensione quelli non ci andranno mai.

sede Carrera-Podium
Calcinato (Brescia), venerdì 1° giugno 2018

- Luciano Bracchi, storico meccanico Carrera, parliamo anche del Bracchi corridore: magari se lo ricordano in pochi.

«Esatto. Se lo ricordano in pochi perché, pur avendo vinto il Campionato italiano, ho fatto solo due anni, e in tempi anche abbastanza diversi da quelli del ciclismo attuale. E comunque in quei due anni mi son anche tolto delle soddisfazioni, perché ho corso assieme e contro a grandi campioni. Col senno del poi, magari son "passato" troppo giovane. Non avevo ancora la mentalità giusta per essere professionista. Però, ecco, alla fine questa è stata la mia strada. L'ho accettato, e se poi ho smesso è perché avevo dei limiti».

- Che corridore era, come caratteristiche?

«Da dilettante, perché poi da professionista non sono mai riuscito a trovare una mia dimensione, una buona condizione – forse anche perché ero troppo giovane, difatti a ventuno-ventidue anni avevo già smesso –, ero uno scalatore puro. Andavo bene in salita, era il mio terreno».

- Perché "troppo" giovane? Il salto nei pro' è stato così duro?

«Sì, nel senso fisico e mentale. Queste son cose che si dicono col senno del poi e che lasciano un po' il tempo che trovano. Però son "passato" che fisicamente ero, rispetto anche a quelli della mia età, un po' meno maturo. Avevo un fisico molto gracile. Avevo fatto solo un anno da dilettante e non ero pronto a certi sforzi, a certe distanze. E magari questo poteva anche essere un limite. Diciamo che non son riuscito a crescere, e magari a verificare se, rimanendo professionista tre o quattro anni, potevo dare di più».

- Che cosa l'ha convinta a smettere, dopo appena due anni?

«Quando fai tanta fatica e più che i risultati vedi che sei sempre a remare, più che i risultati vedi proprio che c'è un grande gap e ti dici: forse non è il mio lavoro. Forse è ora di smettere, anche se eri giovane, per cercare di trovare una propria strada».

- Comunque la passione per il ciclismo c'è sempre stata, sin da ragazzino?

«Sempre».

- Quindi, se non da corridore, ha cercato di trovare la sua strada restando nell'ambiente? 


«Sì. C'era tanta passione, come in tutti quelli della mia generazione. Adesso, non lo so, non posso dir niente».

- Soprattutto qua, nel Bresciano, c'è sempre stata una grande tradizione.

«Esatto. C'era una grande tradizione, ma anche a livello di meccanici, massaggiatori. C'era una cultura ciclistica. Questo un po' t’influenza. E l'anno dopo, nell'81, m'ha portato, per varie situazioni, a diventare meccanico aggregato alla squadra. Poi da lì ho fatto il mio percorso».

- Com'è stato il passaggio da corridore a meccanico? Come si rapportava con quelli che fino a poco prima erano stati suoi compagni o avversari? Che differenze e che ambiente ha trovato?

«Io per carattere mi adatto abbastanza facilmente, anche nei rapporti interpersonali».

- Non era un Visentini, tanto per capirci... [sorrido]

«Esatto. Purtroppo non avevo neanche le sue qualità...» [ride]. 

- Quelle non è che le avessero in tanti...

«Il primo, il secondo anno, avendo a che fare con tutti quelli della mia generazione, dici: però, magari potevo esserci, starci. Tutti rimpianti che hai, ma fa parte, penso, del percorso. Però nessuna difficoltà, anzi. Anche perché era un ciclismo diverso, più familiare. Era molto italiano, molto europeo. E perciò, dal Laigueglia al Lombardia, erano sempre quelli. Anche tutto il personale, lo conoscevo già prima. Non solo in squadra ma anche delle altre squadre. Perciò si era un gruppo, una carovana che girava per l'Europa, per il mondo, e bene o male ci si conosceva tutti. Mai avuto problemi con nessuno».

- Partiamo dall'inizio. Alla Inoxpran, con i patron Prandelli: che rapporto aveva?

«Io per i Prandelli, alla Inoxpran, correvo già da dilettante».

- Sono stati dei pionieri, perché all'epoca non era comune avere un vivaio, no? 

«Con i Prandelli e con Davide [Boifava], forse già quell'anno che io correvo e che poi son passato, c’era già un piccolo vivaio che poi è esploso gli anni dopo con la Carrera, con Davide: c'era il team Carrera prof e, aggregata, la squadra dilettanti. Un vivaio da dove poi sono usciti Chiesa, Zaina, Bordonali, tutti questi. Anche se il vivaio poi non era così facile gestirlo, nel senso che l'obiettivo di tutti i ragazzi era passare professionista. Però dire a uno, come è toccato anche a me di dire: no, non hai le qualità, diventa sempre difficile. È il momento più brutto, penso, per tutti. È normale, se hai passione, penso sia normale». 

- Il passaggio dai fratelli Giovanni, Angelo e Diamante Prandelli alla Carrera dei fratelli Imerio e Tito Tacchella come è avvenuto? Che differenze ha trovato? Era un gradino più alto?

«Il ciclismo cominciava già a evolversi. Io ne ho vissute varie fasi. Son passato, tanto per dire, dal ciclismo dell'ultimo anno di Gimondi a quello dove poi ho trovato Hinault e, da meccanico, ho ritrovato Fignon, Contini... Stavano cambiando sia la mentalità sia l'approccio - questo è il mio parere - È cambiato un pochino tutto. In tre-quattro anni ha fatto un cambiamento molto veloce. Per tanti anni siam stati fermi e poi in tre-quattro anni... Tanto per fare un esempio, dai dieci-quindici che passavano professionisti l’anno, ne son passati trenta, trentacinque, quaranta. Questo vuol dire che c'era tanto ricambio, tante situazioni molto diverse».

- Il ciclismo stava crescendo, anche dal punto di vista economico.

«Sì. Stava crescendo. Non dico a certi livelli, perché era ancora all'inizio, ma anche a livello economico stava un pochino crescendo. C'è stato tanto cambiamento quegli anni lì. Se poi vogliamo tornare dal team Inoxpran alla Carrera, diciamo che la Carrera, avendo più budget, era anche impostata diversamente. Era una squadra più "multinazionale", anche nei corridori. Facevamo un'attività molto "mondiale". Erano impostati in modo diverso».

- Voi eravate una delle poche squadre italiane ad andare al Tour.

«Tutte le classiche del nord, tutti gli anni al Tour, al Giro, facevamo anche la Vuelta. Si facevano tutte le corse».

- E poi ai tempi per andare al Tour si pagava anche una bella cifra: cento milioni di lire. Non tutte le squadre potevano permetterselo.

«Esatto, sì».

- E a differenza di tanti altri sponsor – la Del Tongo, la GiS del patron Pietro Scibilia – che avevano un mercato molto italiano, voi avevate un mercato più internazionale».

«Esatto: Carrera aveva già un mercato mondiale».

- I Tacchella volevano avere corridori stranieri, uno o due per nazione; il nucleo degli svizzeri, Schepers dal Belgio, Roche dall'Irlanda. Anche in questo eravate all'avanguardia.

«Sì, ma anche sotto l'aspetto organizzativo e alimentare. Quegli anni lì si andava al Tour e i massaggiatori si occupavano di portare il prosciutto, il grana. Era molto dura, avevamo anche una persona che si occupava di cucina. Al Tour era importante comesi mangiava, all'epoca si facevano gli spaghetti già il mattino. Avevamo una persona che andava in cucina – e a quel tempo in Francia non era facile entrare in certe cucine – a cercar di indirizzare il cuoco, cercar di farci fare delle cose...».

- È vero che prendevate in giro i corridori francesi, olandesi, belgi e più in generale del nord dell’Europa per quello che mangiavano? Un tipo di alimentazione che voi sapevate già che era superata? All'inizio magari erano loro che prendevano in giro voi, poi han capito che la strada giusta era la vostra.

«Sì, la strada giusta era quella lì, anche perché poi avevamo alle spalle delle piccole ricerche, si cominciava a farle per primi. Anche sulle posizioni [in sella], sull'alimentazione. Era l'inizio di un percorso che poi si è sviluppato negli anni».

- Siete stati anche tra i primi ad avere il pullman per i corridori. Voi e la squadra del team manager Gianluigi Stanga, che lo comprò usato dalla PDM.

«Noi siamo stati i primi, ma non avevamo il pullman. All'epoca andavano di moda questi camion grandi, i van, dove c'era la parte meccanica con la parte – chiamiamola così – di marketing-ristoro. Era stato fatto lì, con Davide Boifava. C'era una grossa carrozzeria qua a Brescia, avevamo progettato questo camion…».

- Su misura ve l'han fatto?

«Sì, su misura. In base alle nostre esigenze. Erano i primi, c’era grandissima difficoltà e costavano un occhio della testa. Però siam stati i primi».

- Tutto questo partiva solo da Boifava o anche da Gianfranco Belleri?

«Partiva tutto da Davide, che su queste cose è sempre stato all'avanguardia. Ovviamente aveva anche l'appoggio di chi gestiva la parte amministrativa. L'idea però veniva da lui, essendo il team manager. All'epoca lo chiamavi direttore sportivo, era il team manager della squadra».

- Tirava lui le fila?

«Tirava le fila della squadra e tutti facevano riferimento a lui».

- Veniamo alle grandi vittorie, agli anni d'oro della Carrera. Siete esplosi con Giovanni Battaglin che centrò la doppietta Giro-Tour nell'81. Lì è nata la grande Carrera. Perché poi se vinci, hai più richiamo per i grandi corridori e puoi vincere ancora. È una cosa che si autoalimenta. Quegli anni lì eravate all'avanguardia. Voi, le squadre di Cyrille Guimard e poche altre. Eravate al top.

«Sì, è vero. Si lottava con quelli. Anche se, senza presunzione, diciamo che abbiam vinto tante corse, dalle classiche ai grandi giri, quegli anni lì. Visentini, Roche e, di supporto, non va dimenticato [Erich] Mächler, che ha vinto la Sanremo. Non va dimenticato [Urs] Zimmermann. Era un corridore da corse a tappe e avrebbe potuto dare molto di più ma aveva una mentalità un po' strana».

- Era stato uno dei primi ad avere la fissa per certi cibi: era vegano, o vegetariano?

«Vegetariano. Studiava il “dio sole”, all'epoca [ride di gusto]. Non saprei dire. Non mi chieda, perché non saprei, però andava forte. Ha messo in difficoltà Hinault più di una volta al Tour. Ovviamente non aveva poi tutto quel che serviva per arrivare a un certo livello. Per me, alla fine, è un po' calato, anche se poi l'ha “perso” il Tour – o comunque poteva fare di più, “perso” è una parola grossa, magari poteva lottare un po' di più, tenere fino alla fine – perché aveva le sue idee. Alla fine l'hanno attaccato in discesa, con LeMond, e ne ha pagato le conseguenze. Però era un corridore, e dietro questi qua c'era anche lui. C'era gente che vinceva comunque, quelli erano anche i migliori. Quando son venuti gli svizzeri, si son presi i tre o quattro migliori. C'erano [Beat] Breu, [Stefan] Mutter, Zimmermann, Mächler. Erano quattro o cinque».

- Perché nella Carrera c'era quel nucleo di svizzeri così forti, uno chiamava l'altro?

«No, perché all'epoca correvan tutti in una squadra svizzera [la Cilo-Aufina, nda], che poi ha chiuso e son stati... Sempre per il discorso che diceva lei, che la Carrera aveva un mercato mondiale. Perciò se capitava di prender gli svizzeri o... All'epoca so che avevan trattato anche [Phil] Anderson, però...».

- Volevano prendere anche Sean Kelly, altro irlandese, che però era troppo legato alla spagnola KAS, e al suo mentore, il francese Jean de Gribaldy. A proposito, è vero che a prendere Stephen Roche vi ha aiutato Valerio “Pacho” Lualdi, che con lui aveva buoni rapporti?

«Non lo so. Questa non l'ho mai sentita, è la prima volta che la sento, ma può darsi».

- Nella lista c'era prima Perico (Pedro) Delgado, che all'epoca era un grosso nome, insieme con Kelly, che però era più per le classiche. Nell’85 Roche aveva fatto terzo al Tour, era un buon corridore. Beppe Conti ripeteva a Boifava: prendilo, guarda che è buono. Poi novembre Roche aveva avuto quell'incidente al ginocchio nella Seigiorni di Parigi che gli sarebbe costato quasi tutto l'86. E infine era esploso nell'87. Com'era fare il meccanico di quei campioni lì? Avevano qualche fissa? Non so: la sella più alta o più bassa di un millimetro, qualcosa di particolare? O da questo punto di vista erano molto tranquilli?

«Sinceramente, se ci devo pensare, io mi trovavo meglio con gli stranieri». [sorride]

- Erano meno rompiscatole? Si adattavano meglio?

«Noi dicevamo così, come meccanici. Anche per via della lingua. Ce la giocavamo lì. Eran forse meno esigenti di adesso. Anche perché c'era meno materiale. Oggi basta poco per far la differenza. Una volta il materiale era quello, per tutti. C'era poca scelta».

- È proprio vero che il “materiale era quello” per tutti-tutti? O è vero anche che Guidone Bontempi, che è sempre stato uno vulcanico, si arrabbiava se magari non tutta la squadra aveva la stessa bici da crono del capitano? Queste cose sono vere? Il che poi gli farebbe onore perché vuol dire che ci teneva.

«Sì, questo sì. Queste son vere. Come, non so, tanto per tornare al Chiappucci di quegli anni lì, o al Pantani: al Chiappa andava bene tutto. Però lui voleva sempre la novità. Difatti, per tutte le aziende che ci han sponsorizzato Chiappucci è stato un bel veicolo. Un bel testimonial. Qualsiasi cosa gli davi, andasse bene o andasse male, a lui andava bene tutto. L'importante era aver sempre qualcosa di nuovo, da provare. Gli piaceva essere sempre all'avanguardia. Poi magari si tornava indietro. Però a lui piaceva…».

- Visentini e Roche invece in questo com'erano?

«Roche era un po' pignolo, Roberto un po' più... Aveva il motore. A parte il fatto che si affidava al meccanico, nel senso di dire: va bene, basta. Anche quando ha vinto il Giro, ma anche prima, è sempre stato così. Non era pignolo: la bicicletta era quella, tu mettimela a posto bene, fammela trovare pulita, doveva essere – giustamente – al pari degli altri, o comunque qualcosina in più se c'era il tubolare nuovo, tutte queste cose... Adesso sembrano cose preistoriche. Purtroppo funzionava così, ma era così per tutti».

- Si ricorda la bici speciale “Piranha”? La fabbrica di Battaglin, insieme con la FIR, l'aveva costruita per la crono di Visentini al Giro '85, ma poi non fu omologata.

«Sì, me la ricordo bene, perché ho avuto contatto come... Da Giovanni ho visto che ne aveva una. Una ce l’aveva lui e una la usava Visentini. Lui penso non l'abbia usata a Verona, invece a Visentini l’aveva fatta la FIR del povero Arrigoni. Tramite un amico lì si era lavorato anche sulla forcella. Il problema non era tanto la ruota, che l’aveva fatta Arrigoni, era far la forcella piegata. Era stata fatta in acciaio, l'avevamo costruita qua a Brescia con un amico, un vecchio telaista che ha fatto la storia a Brescia...».

- Serena, il maestro di Mino Denti?

«Sì, Piero Serena, il maestro di Mino Denti, che è stato il mio maestro»

- Un genio anche nel metterti in bici.

«Un genio anche nel metterti in bici. Viene dalla scuola di Piero Serena. Mino Denti era il mio direttore sportivo da dilettante [alla Mariani & Calì, nda]».

- Lui ne ha fatti uscire tanti...

«Sì. Visentini, il povero [Walter] Dusi, ma anche tanti che poi non son passati professionisti».

- Claudio “Caio” Cresseri…

«Grandissimo corridore».

- Grandissimo talento. Perché per diventare corridore serve anche tanta altra roba. [sorrido]

«No, ha detto bene lei: grandissimo talento».

- Era troppo bello. È vero che in squadra avevate i due corridori più belli – Visentini e Cresseri – e il più brutto?

«Ferracina, poverino, morto anche lui. Ritornando alla forcella, io l'avevo costruita – a quel tempo ancora non ero capace di saldare – con Piero Serena, nella sua officina».

- Quindi, oltre a essersi formato lì ciclisticamente, è cresciuto a quella scuola anche come meccanico?

«Sì, io son cresciuto lì. Il mio maestro è stato Piero Serena, perché quando ho smesso di correre, è quello che poi mi ha insegnato a fare il telaista, m’ha dato le prime nozioni, m’ha insegnato a saldare: io son passato dal Piero Serena. M’ha insegnato, perché all'epoca si facevan le ruote, mi ha insegnato tutto. Più che altro la telaistica».

- Tutte cose che le sono tornate utili quando lei è entrato alla Carrera-Podium, no?

«Sì, ho avuto la fortuna di andar simpatico… Già quando correvo avevo la bicicletta “Piero Serena”, perché da Piero Serena non era facile... Non so se gliel'hanno detto...».

- Eh sì, sì: come con tutti i grandi maestri. Mai conosciuto uno “facile”.

«E l'altra fortuna che ho avuto, non so se lo conosce, è che nel mio percorso ho incontrato il Dario Pegoretti [deceduto il 23 agosto 2018, nda], quello che fa le biciclette. Lui ha proprio il marchio Pegoretti. Lì son cresciuto, m’hanno un po’ formato, bazzicando la loro officina. E comunque ho imparato tanto, m’han trasmesso tanto. Tutta gente che ha passione, tutta gente che – a parte la passione – ha competenze».

- Veniamo agli anni belli. Lei nei Giri dell'85, '86, '87 era in ammiraglia Carrera. Me li racconta quei Giri, in particolare quello dell’86 vinto da Visentini e quello dell’87 vinto da Roche?

«Cavolo. Io ho la fortuna e la sfortuna di azzerare tutto. Son passati tanti anni, mi ricordo quello vinto da Roberto. Con Roberto purtroppo sono un pochino di parte perché con Roberto ho corso assieme da dilettante».

- Roberto – nonostante le sue sparate – si è sempre fatto voler bene dai compagni, vero? Me l’han detto tutti: me lo conferma?

«Sì, sì. Per quello, sì. Ma per noi di Brescia, e specialmente di quella generazione lì, degli anni ’57-58, uno che ti vince 18 corse da allievo, che da juniores e da dilettante arriva sempre per distacco, trovi il cavalcavia e ti stacca, vai a fare il circuito e ti doppia – gli unici che lo battevano eran quelli che facevano le volate – era diventato un mito. Perciò me lo ritrovo, dopo aver corso assieme, di là a vincere il Giro… Mi ricordo solo che è l’unico anno – lui dice di no, gliel’ho chiesto tante volte –, secondo me, che era il vero Visentini».

- Era la sua corsa, vero? Sì, ok, anche la Tirreno-Adriatico, ma quella che sentiva veramente era il Giro, no?

«Sì, il Giro era la sua corsa».

- Può essere che dopo averlo vinto, e quindi aver dimostrato – prima di tutto a se stesso –, di saperlo vincere, si sia un po’ seduto?

«Ma no, perché anche prima lo voleva vincere, e anche dopo, secondo me. No, è perché quell’anno lì ha trovato l’anno giusto».

- E in quell’anno perché volava? Si era preparato meglio?

«Per una serie di cose andate al posto giusto, e perché penso – penso io – abbia fatto quel pochino di fatica in più che gli ha permesso di… Vinceva facile».

- E pure con lo scafoide rotto.

«Adesso che me lo dice, con lo scafoide rotto. Forse soffriva meno la pressione. Perché tanto, tutto quello che faccio, va bene. Magari correva [più leggero]… Perché tutti lo aspettavano, al Giro: bello, famoso, andava forte. Vinceva. O comunque, male che vada, era sempre lì. Non lo staccava nessuno. Se erano in sei, arrivava sesto. Se erano in cinque, arrivava quinto. Era sempre lì. E uno così non può non vincere un Giro». 

- L’anno dopo invece che cosa è successo?

«L’anno dopo c’è stato quel casino che è successo».

- È vero che Visentini era meno preparato rispetto l’anno prima? O son cose che si dicono col senno del poi?

«Per me, sì. Col senno del poi. Magari, vissuta allora, vedi una cosa, vissuta oggi…».

- Come ha detto Orlando Maini, per Visentini ogni corsa era una cronometro, perché Roberto correva sempre al vento, in decima posizione a destra… Quindi al Giro ’87 la crono di San Marino in cui lui dominò è stata forse un po’ illusoria?

«Anche perché non era la prima volta. Ha vinto il campionato italiano da dilettante a crono, quando c’era vento e c’erano lì dei cronomen molto più forti di lui. Come ha detto bene Maini, Roberto correva sempre al vento. Sinistra o destra, anche se la squadra si metteva a coprirlo».

- Questo perché non si fidava a correre nella pancia del gruppo?

«Non si fidava. Com’era bravissimo in discesa, a stare in gruppo».

- Il Visenta non era certo uno che limava.

«No, no. Era uno che prendeva vento tutto il giorno. E nelle corse a tappe quelle cose lì…».

- …le paghi. In preparazione, quando andavate a fare i test nel velodromo, lui se ne stava a gambe all’aria mentre facevate riscaldamento, poi lo chiamavate: dai Roberto tocca te. Lui pronti-via e staccava tutti…

«Tenga presente che nei velodromi non si andava quasi mai, perché erano anche i primi anni dove si iniziava… ma lui è sempre stato così. Anche se si allenava poco, tu andavi a fare qualsiasi corsa, sta’ pur sicuro che se arrivavano in dieci, lui nei dieci c’era. C’era sempre. Era uno che, anche se non si allenava tanto, riusciva a tenere il gruppetto dei migliori. Sempre».

- Figuriamoci quando era allenato. Si ricorda di Remo Rocchia? Lui capì di avere di fronte un campione quando – e non lo conosceva – a una corsa era in un gruppetto di corridori che provavano a chiudere il buco, tutti insieme. E non ci riuscivano. Roberto parte e da solo va a chiuderlo. A diciannove anni. 

«È che ti lasciava, come si può dire, ti lasciava un po’… Ti smontava, perché era lì sempre con quella faccia e non riuscivi a capire. Io mi allenavo anche spesso, correndo in squadra assieme a Mino Denti quando andavamo ad allenarci. Aveva sempre quella faccia e non riuscivi a capire se faceva fatica, se era stanco. Era sempre lì così e ti dici: ma questo qua... E tu eri lì a tutta, sudato, morto, questo qua… Lì capivi che era a un altro livello. Capivi che era uno dei pochi, ma era così già da allievo. Io mi ricordo, perché ho avuto la fortuna di corrergli contro – contro, per modo di dire... ho detto una parola grossa [ridacchia] – in squadra avversaria e di correre in squadra assieme».

- Per capire la differenza…

«Per capire la differenza. Perché poi il problema non è la corsa, è quando ti alleni che riesci a capire. Lui andava facile sempre, da tutte le parti. Mi ricordo che quando si correva da allievi, facevi il cavalcavia e dicevano: eh, cavolo, c’è Visentini… Eh, ma tanto c’è solo il cavalcavia, è dura che mi stacchi. Non parlavo di me, ma del gruppo il generale. Allora, occhio perché appena parte sul cavalcavia, perché lui non alzava mai il sedere dalla sella, occhio: a ruota! I primi anni, ma è impossibile, dai! Un cavalcavia… Prende cinquanta metri, due curve e cinquanta metri: impossibile, lo tiran con la moto!, si pensava persino… Per forza, dai: impossibile. Dietro, in trenta, e c’erano anche quelli che tiravan forte. Io stavo a ruota magari perché non avevo, in pianura, però c’eran dei corridori che… orco can!Venti, trenta, cinquanta: a cento metri questo qua va a un minuto. Eh, un minuto! Calerà… E questo qua arrivava con un minuto e mezzo! Lo tiran con la moto, eh… Impossibile! Eh, la moto… La moto era lui. [ridiamo entrambi] Questo ti dà l’esempio, secondo me, di quello che era per tutti – parlo di Brescia, eh. Perché poi, sempre quelli, dicevano: cavoli, uno così… Non puoi andar piano. Non può andar piano». 

- Roberto poteva fare di più? O lui quello era, nel bene e nel male?

«Per me, poteva fare di più. Lui me l’ha sempre detto che ha fatto tanta fatica. M’ha detto – io, scherzando, perché con lui scherzavo: no, tela fatica non l’hai mai fatta. Oppure: non è che non l’hai mai fatta; per te è fatica, ma la fatica che facevi tu non è rapportata a quella che facevamo noi…».

- …noi umani.

«Eh. La fatica tu non l’hai mai fatta. E lui: eh no, tu dici così – in dialetto bresciano – perché… No, Robi: la fatica non l’hai mai fatta. Cioè, no: non è che non l’hai mai fatta, la fatica, ma per noi, magari potessimo farla noi quella fatica lì e andare un quarto di quello che sei andato forte [tu]…».

- Roche invece che tipo di corridore e di campione era?

«L’opposto». 

- Più di testa che di gambe.

«Di testa. Metodico. Irlandese. Duro, tosto. Voleva arrivare, cioè proprio di quelli… Ovviamente conta anche il fisico, perché io, quando mi dicono “eh la testa conta”… Sì, è vero, però ci vuole anche un pochino di fisico. Però lui era duro, tosto. Voleva arrivare».

- Forse più intelligente? Non mi fraintenda, parlo in senso ciclistico: nel saper leggere le corse, compagni e avversari, anche in senso “politico”…

«Sì, sapeva essere più diplomatico. Sapeva calarsi in quell’ambiente lì. Sapeva rapportarsi bene con tutte le persone. Era uno che nel bene o nel male riusciva comunque a farsi voler bene, per cercare di comunicare – ecco la parola giusta: riusciva a comunicare con tutti». 

- Al contrario di Roberto…

«Roberto era più chiuso, poi era molto impulsivo e forse anche per questo…».

- Roche, che aveva sempre una battuta per tutti, diceva che Roberto appena vedeva il cartello “Chiasso” si perdeva. Questo perché Roberto era uno da corse italiane. E invece, paradossalmente, il Tour – specie in quegli anni – poteva forse essere persino più adatto per lui del Giro… Però lui non amava correre all’estero. Ne avete mai parlato?

«Non abbiam mai parlato, però lui era un po’ così. A lui piaceva tanto il Giro d’Italia…».

- Altro esempio: non era da Liegi, uno così?

«Da Tour. Era da Tour». 

- Soprattutto quei Tour là.

«Quei Tour là, con le cronometro. Anche perché c’eran le salite, secondo me, moooltopiù adatte a lui. Anche se poi la qualità dei corridori magari era…».

- E lo stress pure…

«E poi lui correva tanto al vento, e c’era da limar tanto. Non era pronti-via, al Tour, come si fa adesso. All’epoca era diverso, come mentalità. Forse magari ha sofferto anche questa cosa. Stando tanto al vento ti consumavi già solo nelle tappe “di pianura”, perché dovevi stare a ruota e dovevi star lì a lottare per entrare in una curva…».

- Al Tour dell’87, quello vinto da Roche, lei c’era?

«Sì».

- Mi racconta della tappa di La Plagne: l’ossigeno all’arrivo, Stephen svenuto dopo quello storico inseguimento alla maglia gialla Delgado. Quella tappa è entrata nell’immaginario degli appassionati.

«Quella tappa lì, secondo me, dà la dimostrazione del grande carattere di Roche».

- Anche a rivederle oggi, quelle immagini, sembra ci stia per scappare il morto…

«Lì proprio è arrivato… Lì lavoravano, era proprio sui secondi…».

- Sì, perché il giorno dopo c’era la crono finale di Digione.

«È arrivato sfinito. È la dimostrazione proprio del vero Roche, della sua grande grinta, perché secondo me quel giorno lì non era proprio neanche… Cioè, era già un pochino calante. Quello là [Delgado, nda] invece era già in fase… diciamo… in un momento “favorevole”. Ha rischiato però, perché non è successo negli ultimi chilometri: lo ha attaccato, se non vado errato, molto prima…».

- Nel ciclismo moderno, delle radioline, dei wattaggi, è difficile che possa ripetersi una tappa come quella di La Plagne? Sapresti già prima, via-auricolare, i distacchi e quindi il direttore sportivo ti direbbe: forza, oppure vai piano, rallenta perché sei già maglia gialla virtuale…

«Qua, sinceramente, faccio fatica perché non essendo all’interno delle squadre, in questi ultimi anni, faccio fatica a capire, a fare un paragone. All’epoca, non avendo queste cose, c’era molto più istinto, pressapochismo. Si correva un po’ alla garibaldina, secondo me. Era il bello e il brutto, ecco».

- C’era forse anche più fantasia, oggi vediamo troppi soldatini. Però il ciclismo sta di nuovo cambiando, basti vedere come Sagan ha vinto la Roubaix 2018 o Gilbert il Fiandre 2017…

«Sì, ma fare un paragone diventa difficile. A quell’epoca era così e oggi è… Fare un paragone diventa improponibile, ma va bene così».

- La Carrera era una grande squadra, e lei ne faceva parte come meccanico. Team Sky a parte (con i suoi 35 milioni di euro l’anno di budget), si può fare un confronto fra le grandi della vostra epoca e quelle di oggi? C’era meno distanza con le medio-piccole?

«Sì, quello si può fare: c’era meno distanza. Anche perché andavi al Giro o comunque al Tour».

- Intendevo dire che allora Guimard e Boifava “giocavano” nello stesso campionato, mentre oggi il Team Sky e la Bardiani “fanno” due sport diversi.

«Invece magari andavi di là e trovavi la Skil con Kelly che, cavolo!, vinceva le tappe, rimaneva in classifica, arrivava anche al Tour e in classifica era lì fino magari a cinque o sei o sette tappe dalla fine». 

- E non era uno squadrone, la Skil…

«No, no. Non era uno squadrone. C’erano, anche nelle squadre di fascia minore, dei bei corridori. C’eran gli spagnoli. Poi son arrivati i colombiani, quegli anni lì. Erano delle mine vaganti che decidevano, e un po’ sballavano anche, secondo me, tutti i rapporti. E in corsa creavano un attimo di difficoltà». 

- Sappada ’87: che cosa successe?

«Allora, io quel giorno lì purtroppo – dico “purtroppo” perché, a distanza di tempo, mi sarebbe piaciuto esserci – non ero sull’ammiraglia. È stato l’unico giorno che non ero sull’ammiraglia [ride…] Non mi ricordo più perché…».

- Quale ammiraglia, di Quintarelli o di Boifava?

«Né sulla prima né sulla seconda. Perché io ero andato all’albergo, a Sappada, e li avevo aspettati là. Non so cosa, ma c’era qualcosa di più importante da fare. Io facevo la prima macchina con Davide [Boifava] e tutto il Giro di solito funzionava così, la seconda macchina la faceva Patrick Valcke, che era il meccanico-tuttofare di Roche».

- Chi era il meccanico nell’altra ammiraglia?

«Frank Boifava, il nipote di Davide. E con Quintarelli c’era Valcke». 

- E quindi lei che cosa ricorda? 

«Mi ricordo che ero in albergo [l’hotel Corona Ferrea, nda] e che noi al traguardo aspettavamo sulla destra. Avevamo lavorato tutta sera nel casino lì sotto, ma alla fine io, fino al giorno dopo, non ho più visto nessuno». 

- Neanche i patron Tacchella, che arrivarono a tarda sera?

«I Tacchella sono arrivati in elicottero, quella sera lì. Noi non abbiam mangiato con la squadra ma era quasi normale perché si lavorava con orari diversi e quindi noi abbiam mangiato dopo. Però m’han detto che la squadra ha mangiato in due tranche. Prima son venuti giù dei corridori, c’era un po’ di confusione e poi, fuori, c’eran tutti i giornalisti, che chiedevano anche a noi ma noi purtroppo eravamo in mezzo a…».

- E i giorni dopo, com’era l’atmosfera: o di qua o di là? Anche se magari per voi con Roberto era un’altra cosa…

«Anche se in realtà tu sei lì… Mi ricordo che comunque il dispiacere c’era. Non so lì come son andate le cose perché poi ognuno le racconta alla sua maniera. Col senno del poi, bisognava radunarsi tutti e sentire un po’ tutto allora ti fai una tua idea. Difficile farsi un’idea. Ognuno ha la sua, secondo me. Però, da parte mia, dici va be’, oh, avendo corso assieme… Che poi in realtà son più amico di Roche, adesso…».

- Ah, sì?

«Ma sì, perché vien qua. C’era la festa, ti vedi di più, allora… E poi son passati trent’anni, tante volte non ti ricordi neanche più di certe cose… Ma a parte questo, quel periodo lì, avendo appena smesso di correre – io ho corso con Visentini, bresciano come me – lo vivi in maniera un pochino più… Però c’è stato un bel po’ di trambusto, perché ovviamente c’era chi parteggiava per Roche e chi parteggiava per…».

- Vista da chi era dentro quella squadra, c’è stato tradimento? O sono le solite esagerazioni giornalistiche?

«Secondo me c’è sempre una via di mezzo. Un po’ di esagerazione c’è stata…».

- Però non si era mai visto uno attaccare così, e più volte, un compagno in maglia rosa.

«Non si era mai visto. Però, secondo me, qualcosina c’è stato anche da parte di Roberto, magari qualche... non lo so... Conoscendo Roberto, conoscendo il prima e conoscendo il dopo, qualcosina secondo me c’è stato. Dalla parte di là, trovi uno bello inquadrato e devi stare molto attento a dire certe parole, o comunque a far uscire delle cose. Cioè: mentalità diverse, nel bene e nel male. Poi, e questo è un mio punto di vista che esula dalla squadra, c’è anche da dire questo: un corridore che viene da un anno in cui per problemi fisici è andato piano, si gioca il rinnovo, si gioca la carriera, è dura…».

- Bisogna vedere com’era, all’inizio della stagione, la gerarchia. Se c’era, una gerarchia…

«Esatto. Però io, non partecipando alla riunione, perché lì son i direttori sportivi che…».

- Boifava era un po’ tra l’incudine e il martello, perché lui di qua o di là la maglia rosa doveva portarla a casa.

«Di qua o di là, sì. Queste però, alla fine, secondo me, son cose che possono succedere».

- È lì che si è spenta la stella di Visentini? È lì che Roberto con la testa ha smesso?

«Secondo me, no. Ho letto qualcosa che lui dice che da lì ha cominciato a…».

- E perché non si fa quasi più vedere nell’ambiente, tranne qualche cena con Bontempi, con Chiesa, la pedalata benefica di Ennio Vanotti?

«Ma è sempre stato così, non da adesso, da quando poi ha smesso. Glielo può confermare anche Chiesa. Se tu gli fai una domanda: Roberto, cavolo, ma uno come te doveva correre... “Ma chi me l’ha fatto fare di correre in bicicletta…”. Adesso, sarà per battuta, però…».

- Fa parte del personaggio…

«Sì, fa parte del personaggio. È difficile definire Roberto. E sotto l’aspetto ciclistico, e…

- Mino Denti, che l’ha formato, sostiene che il peggior nemico di Visentini è Visentini. 

«Sì-sì-sì». 

- La festa per il trentennale della “Tripla Corona” di Roche, il 30 settembre 2017. Com’è stata? Che atmosfera c'era? Che cosa ha provato anche nel rivedere tanti vecchi colleghi?

«Bello. Trovarsi, anche se qualcuno mancava – ognuno aveva i propri impegni –, mettere tutti assieme, è stato bello. Secondo me è stato bello. Da parte mia, bellissimo; ma anche parlando con gli altri, è stato bello ritrovare le persone. Ti vedi molto più vecchio. E poi stai lì, parli delle cose passate e delle cose che stan succedendo adesso, di un po’ di tutto. E vedi la diversità, vedi i punti di vista. Bello scambiarseli, secondo me. E anche se non sono un nostalgico, però ritrovarsi...».

- Roberto nemmeno ci ha mai pensato a venire, vero?

«Roberto non ci ha pensato a venire. E va be’, oh». 

- Manca ancora un aspetto: il suo rapporto con Davide Boifava. Da quanti anni vi conoscete: quaranta?

«Ah, io a Davide devo tutto. Prima da corridore, dal ’79, poi da meccanico, poi quando ha fatto l’azienda [la Carrera-Podium, nda]».

- Anche lui era un bel corridore, prima che avesse problemi fisici, vero?

«Eh, io lì non mi ricordo…».
CHRISTIAN GIORDANO


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