Claudio Chiappucci - El Diablo veste Carrera


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Tutti a dire: ah, se il Gianni avesse avuto il carattere del Chiappa e il Chiappa il motore del Gianni, avremmo avuto un altro Merckx. Balle. 

Chiappucci è diventato “el Diablo” proprio perché ha saputo andare persino oltre i propri limiti. Bugno è stato Bugno. Perché campioni si nasce. Anche se – come il Gianni – si può passare una vita senza rendersene conto o magari neanche ammetterlo. L’autostima di Claudio invece va oltre la lucida follia: quella che gli ha permesso di compiere imprese impensabili anche solo sulla cartina. 

La fuga dal chilometro 14 conclusa con la storica vittoria al Sestriere, pensata e pianificata al punto da strappare al team manager Gianfranco Belleri prima, non dopo, il premio doppio. La folle Sanremo ’91 vinta «alla sua maniera» e cioè scappando non sul Poggio, bensì addirittura sul Turchino, l’ultimo a riuscirci.

Tre podi al Giro e al Tour, e il primo – nel ’90 – poteva benissimo essere giallo e invece sfumato in secondo posto, come l’iride di Agrigento ’94, per più che probabili fronde interne o esterne. Amato più dalla gente che da gruppo e compagni il Chiappa, per il quale invece stravedeva alla Carrera il secondo diesse Quintarelli. 

Vado a trovarlo un pomeriggio di gennaio nella sua casetta di Uboldo, in una delle poche pause che la sua intensa attività di testimonial di se stesso gli consente. È tornato da poco dopo il Natale trascorso a Lille, dove abitano i genitori della sua compagna Clémentine Guillot. Ha voglia di parlare Claudio, ma non è uno incline a perder tempo. Lo s’intuisce anche da quell’«eh» usato come secco intercalare alla fine di quasi ogni frase. Gli argomenti scorrono veloci; da Sappada agli infortuni, dagli esordi al ciclismo di oggi, che – fatta eccezione per Sagan – non gli piace granché: troppo meccanizzato, pieno di automi radiocomandati e corse sempre tutte quadrate. Tempi duri per chi ama la fantasia al potere, anche perché di nuovi Chiappucci, anche solo potenziali, non se ne intravedono neanche alla lontana. Figuriamoci dal chilometro 14. 

Uboldo (Varese), giovedì 18 gennaio 2018

- Claudio Chiappucci, se ti dico “Sappada”, trent’anni dopo, che cosa ti viene in mente?

«Sappada… L’anno in cui è successo il famoso qui pro quo tra Visentini e Roche. Io c’ero. Ero giovane, ero appena passato professionista, da due anni. Ero un ragazzino. E tra l’altro era il Giro, quello lì dell’87, in cui avevo appena ripreso, perché nell’86 avevo fatto un incidente al Giro di Svizzera. Clavicola e piede sinistri. Ho ancora i segni dell’operazione [mi mostra la parte sotto la caviglia, nda]».

- In molti hanno paragonato quel tuo incidente a quello di Pantani nella Milano-Torino del 1995.

«Molto peggio, questo: io avevo il piede bloccato». 

- È vero che ci sono voluti i migliori specialisti per rimetterti in bici?

«Gavazzeni [la clinica specialistica di Bergamo, nda]. Però, sai, ero al primo anno da professionista, iniziavo il secondo e lì ho rischiato la carriera io, eh. Quello è stato un momento importante della mia carriera. Uno dei primi momenti importanti, perché ci son stati tanti momenti importanti. Quella è stata la prima svolta, proprio quando pensavo di fare qualche… Era il mio mestiere, cioè: avevo ambizioni, no? E stavano svanendo. Mi son detto: ma come? Ancora devo cominciare, neanche ho potuto dimostrare… E mi capita questo incidente, rischiavo già di smettere. E quindi quello è stato il primo momento bruttissimo della mia carriera. Tanto è vero che poi, l’anno seguente, col mio primo Giro d’Italia, è stato quello famoso, di ripresa. Io ho perso un anno, in pratica, per quell’incidente. Però son riuscito a ritornare, grazie anche alla squadra, che ha voluto fortemente confermarmi, nonostante tutto. Sai, la mia paura era di… Allora erano due anni di contratto, poi scadeva. E se io non avessi firmato, probabilmente sarei rimasto a piedi».

- Tu però non eri un signor nessuno, eri stato campione italiano dilettanti…

«No, no: io non son passato [professionista] come signor nessuno. Son passato magari più umile di molti altri. Non con la “camicia” di dire che questo non sarà un grande, non sarà un fenomeno, però comunque son passato, nell’84, che son stato il miglior dilettante d’Italia, eh. Son stato premiato Miglior dilettante d’Italia. Avevo vinto undici corse, eh». 

- A Boifava ti aveva segnalato Maggioni?

«No, Maggioni mi voleva far passare alla Malvor di [Dino] Zandegù, che è stato il primo a credere [in me], lui voleva prendermi. Mi aveva già proposto il contratto».

- E poi che cosa o chi t’ha spinto verso la Carrera?

«No, m’ha “spinto”, non so perché… La “fisionomia” dei corridori oggi, rispetto ad allora, è cambiata. Per me arrivare al professionismo era un traguardo importantissimo, bello. Era il mio sogno, no? Coronare il mio sogno di diventar “professionista” era una parola grossa. E non so perché ma mi ero appassionato a questa maglia della Carrera, mi piaceva. Mi piaceva il colore proprio e non era ancora Carrera: era Inoxpran. Mi piaceva questo logo Inoxpran, questo simbolo, no? Biancorosso, e così mi son fatto prendere da questo… L’immagine. Non perché la squadra, non perché… Tra l’altro, l’anno che son passato io, l’85, smetteva Battaglin, al Giro di Lombardia, a Como. E poi Boifava, da Como, è venuto qua [a Uboldo, nda], abbiam parlato e abbiam firmato il contratto». 

- Battaglin forniva già le bici alla squadra di Boifava, no?

«Sì, sì. E poi è diventata Carrera-Battaglin. Poi è nato il marchio Carrera sia come squadra sia proprio di biciclette».

- La Carrera era avanti in tante cose, all’epoca…

«Sììì. Se guardiamo il look, è stato il più venduto di tutti, in generale, il più apprezzato. Io ancora oggi trovo gente che mi dice: Eh ma cavoli, quei pantaloncini, quella maglietta… Quindi, guardando trent’anni addietro, quanto eravamo già avanti rispetto quelli di oggi. La nostra maglia non era un giornale. La nostra maglia era pulita, bella da vedere. Piaceva alla gente da metter su, anche se magari non andava in bici, perché rappresentava proprio il marchio jeans e uno stile diverso, no? Non era in jeans ma quel tessuto da “ciclista” che è diventato poi di moda».

- È vero che viaggiavate in prima classe, e i trasferimenti erno organizzati per essere il più possibile comodi per voi corridori?

«Be’, noi eravamo una signora squadra. Eravamo organizzati per quello che era all’epoca, con quella che ovviamente era la tecnologia. È chiaro, se fai riferimento a oggi, è impensabile…».

- Ci può stare un parallelo tra il Team Sky attuale e la Carrera di trent’anni fa? 

«Tornerei alla Carrera di trent’anni fa, non andrei alla tecnologia così… Secondo me si fatica anche mentalmente. Una persona che è stata nella nostra epoca, la vedi ancora, in carne e ossa, che sta bene. Uno che fa la carriera attuale, nell’ambiente di oggi, è troppo stressato da quello che son le regole, i modi di pensare, la tecnologia da precisione. Il ciclismo è sempre stato anche un po’ la fantasia, no?».

- Tu in questo senso ne sei stato l’emblema, no?

«Io son stato uno degli emblemi anche di quello, è vero; ma il bello del ciclismo è questo. È quello che è sempre piaciuto alla gente. È quello che ti dà lo stimolo, non devi seguire strategie come invece succede nel calcio: la fascia destra, las fascia sinistra… Qua, è una corsa che si svolge nell’arco di ore, e può cambiar tutto. Può cambiare il tempo, la condizione, può cambiare con una caduta. Magari anche una carriera, con una caduta. Ci son troppe variabili e troppe situazioni contingenti diverse, il ciclismo non può essere di una precisione come un orologio. Deve essere qualcosa che si ha: l’istinto fisico o naturale per cambiare quello che è. Non ci deve sessere per forza una strategia. C’è, di base, ma poi non può essere…».

- Mi dai un assist: c’era una strategia in quella Carrera all’inizio del Giro ’87? Visentini capitano e…

«Certo. C’era, però io mi ricordo da gregario allora – ben felice d’averlo fatto, perché ho imparato, ho avuto esperienze e delle basi – che tra i due c’era uno scambio, no?, diciamo “commerciale”, cioè: uno aiutava al Giro e l’altro doveva aiutare al Tour de France. E invece questo non c’è stato, ma perché Visentini l’ha fatto capire – e notare – che non sarebbe andato al Tour». 

- È vera la frase che avrebbedetto: io a luglio voglio starmene con le balle a mollo?

«Lui l’ha detto. L’ha detto spesso, l’han sentito tutti. Però io ero un “piccolo” corridore, non potevo esprimermi e neanche volevo… Perché, sai, già arrivavo dal problema di una caduta. E quel giorno lì, a Sappada, quando è arrivato anche il presidente [Tacchella, nda], dopo che Visentini aveva detto “stasera qualcuno va a casa”, io mi son sentito un po’ a disagio. Perché ho detto: cacchio, son appena rientrato da un problema, sono rientrato, sto cercando di farmi le ossa e succede questa cosa qua che io non c’entro niente… Tra l’altro io in quel Giro ho sempre eseguito quello che dovevo fare…».

- Quali erano i tuoi compiti in quel Giro?

«Io ero per tutti e due. Finché non c’è stata la “separazione in casa”, chi da una parte e chi dall’altra… Ma non è che io ho detto: voglio andar con lui, voglio andar con l’altro. Mi han piazzato da una parte, gli altri li han piazzati da un’altra e quindi è stato così… Non c’è stato un tradimento, per dire, verso l’uno o verso l’altro. Mi han piazzato verso Roche e non verso Visentini, però in quel frangente, quando è successo quell’attacco, io mi son trovato al fianco di Visentini, lui mi ha ordinato, mi ha detto che dovevo tirare per andare a prendere Roche. Ed io, sai, in quel momento lì non riuscivo a capire perché dovevo io tirare per andar a prendere Roche quando Roche era davanti e faceva comodo anche a noi per far sì che le altre squadre lavorassero. Io dovevo impormi… Io e Ghirotto eravamo rimasti vicino a lui, mi ricordo. E ci ha fatto tirare e quindi, sai, questa per me è stata un po’ una forzatura ma anche una delusione. Perché non era normale fare quello che stavo facendo. Però io non dovevo ragionare più di tanto, o capire. M’ha detto questo e io ho fatto quello che… io ho rispettato quello che è stato detto».

- Ma i 6’47” di ritardo li ha presi per crisi di nervi prima ancora che di fame o altro…

«Sì, ma lui era uno molto sensibile alle crisi, eh. Perché fisicamente poteva far sfracelli, perché era dotato. Avrebbe potuto fare veramente tante cose. E in realtà ha raccolto poco nella sua carriera di quello che lui… Però lui era sensibile, in quel senso lì. Già con la storia di Moser, all’epoca, per le famose “cordate di Sant’Antonio” [il riferimento è alla “compagnia delle spinte”, nda], era venuto fuori casino… Aveva segato la bici… Ecco, c’è anche questa cosa qua, quindi... Purtroppo lui era tropposensibile, cioè non aveva neanche un limite di “assorbimento”, di un problema, cioè lui… pam! E già saltava per aria lì, in un istante, neanche il tempo di ragionare, di parlare… È vero, non c’erano gli auricolari, non c’era niente. Però neanche il tempo di dire perché, percome e lui subito: ah, bisogna tirare perché c’è davanti Roche… Eh, sinceramente, è difficile capire questa cosa, no?».

- Tu credi alla versione di Roche, che dice di essere partito dietro Bagot, Salvador, Muñoz eccetera?

«Allora, Salvador è partito con un altro, forse era Bagot, non mi ricordo. Roche, allora: caratterialmente son due persone diverse. Roche è molto più furbo, molto più intelligente…».

- Intendi tatticamente, nel saper leggere la corsa?

«Sì, nel modo di muoversi. Visentini invece era più istintivo. E quindi Roche, secondo me, ha preso la palla al balzo per andargli dietro, anche per vedere cosa sarebbe successo. Secondo me. È un pensiero mio, non ho mai capito se realmente è stato così o no. Perché, ripeto, non potevo andare io a romper le balle o a raccontare o a chiedere chissà che cosa, perché era un momento anche di difficoltà all’interno della squadra. Però, secondo me, è stato un po’ il saggiare anche la situazione di Visentini, visto che era calda la storia che Roberto non sarebbe andato al Tour e quindi Roche ha voluto vedere cosa sarebbe successo portandosi avanti».

- È vero che l’attacco l’aveva architettato in camera con Schepers due giorni prima?

«Be’, lui e Schepers eran sempre insieme. Che l’abbiano architettato non lo so. Schepers però, quando lui era davanti a tirare, veniva sempre a dirmi di non tirare. Schepers era lì, non tirava e diceva: non devi tirare. Ed io stavo vicino a Visentini».

- Come facevi a barcamenarti tra Boifava e Visentini che ti dicevano di tirare e Schepers che ti diceva il contrario?

«Eh, ma io mica dovevo ascoltare Schepers, cioè lui diceva questo ma io dovevo ascoltare Visentini, nel frattempo che poi ripassasse l’ammiraglia. Tanto è vero che, dopo, un’ammiraglia è stata dietro e l’altra davanti. Boifava è rimasto dietro e Quintarelli è andato davanti. Ecco. E poi comunque il risultato lo vedi anche dopo, cioè abbiam tirato, siam andati a prenderli. Roche si è fatto riprendere e Visentini “non c’era” più, perché dopo è saltato. Poi, non mi vedo, oggi, col senno di poi rispetto allora, no? Io, se fossi stato Visentini, avrei dato dimostrazione, fino alla fine, di lottare. Comunque. Invece, all’ultimo giorno, ad Aosta, si è ritirato. Avevamo in pugno un primo e secondo posto che avrebbe fatto la storia». 

- Eh, ma il giorno prima era caduto a Pila, si ruppe lo scafoide destro.

«Eh, ma lui sarebbe arrivato, mancava solo l’arrivo e basta».

- Ce l’avrebbe fatta anche con il braccio ingessato?

«Non ha fatto niente per arrivare. Se sei arrivato fino a lì, vai fino alla fine. C’è in ballo un podio, un secondo posto, un primo e secondo posto di due corridori della stessa squadra, non lo abbiamo mai più visto nella storia. Sarebbe stato un trionfo storico, no? Io ero giovane e mi avrebbe anche fatto più piacere perché avrei guadagnato due soldi, quindi noi eravamo anche un po’ arrabbiati perché avevamo perso anche un bel po’ di premi». 

- La squadra era così spaccata? Trent’anni dopo possiamo dirlo, o erano solo esagerazioni giornalistiche?

«Quell’anno lì è stata spaccata, perché poi… Cioè: è stato uno stare insieme per tirare avanti, anche perché poi Roche se n’è andato l’anno dopo». 

- Andò alla Fagor con gli amici Schepers, Millar eccetera.

«Capisci? E quindi, se fosse stato fatto tutto bene, Roche sarebbe rimasto. E credo che dovesse rimanere, perché comunque…».

- Quei soldi lì, però, Boifava non poteva darglieli: parliamo di un miliardo e duecento milioni di lire del 1988…

«Eran tanti. Tanta roba. Roche ha fatto però anche una scelta “territoriale”: sai, Visentini, bresciano, dargli un’altra chance (che poi alla fine non c’è stata)… E quindi alla fine, in quel frangente, abbiam perso un po’ di qua e un po’ di là, no?».

- Roche però alla fine ti ha restituito il favore.

«Sì, è stato bravo perché quando è ritornato [in Carrera, nel 1992, nda], è stato bello essere coinvolto nelle sue corse. Perché lui comunque mi ha dato una mano, mi ha aiutato tanto. E io comunque ho “visto” tanto da lui, no? Idealmente, non era il tipico corridore come poi sono stato io, no? Lui è stato un corridore magari meno dotato fisicamente ma molto intelligente, lui s’è sempre mosso d’intelligenza. Ha vinto le tre grandi prove, e non aveva squadra. Giro, Tour ma anche il mondiale, ha dimostrato il valore: intelligenza, senso tattico. E quello mi ha dato molto anche per proseguire poi la mia carriera. Quando è ritornato, grazie a lui son riuscito a fare grandi cose, grandi tappe. E lui si è messo a disposizione. È stato bello, per me, vedere le cose capovolte, no?».

- E invece caratterialmente non ti sentivi più vicino a Visentini? Perché anche tu, come lui, non eri uno che le mandava a dire…

«No, però… Allora: da una parte sì, ma io non avrei mollato. Visentini, la differenza, è che lui, sì, le vado a dire, però lì mi fermo. Eh no! Io vado a lottare e a dimostrare».

- Io però mi riferivo anche a certe politiche del ciclismo e del gruppo, no?

«Sì, però era qualcosa finito lì, cioè: se fai un’uscita, portala avanti però. Perché se “esci” e poi non la porti avanti… Visentini se avesse avuto questa cosa, e le potenzialità per farlo le aveva, eh, cacchio, avrebbe fatto sfracelli».

- Come caratteristiche tecniche Visentini e Roche che corridori erano? Visentini forte in salita e fortissimo a cronometro; volata, zero… Roche completo, limava anche le lime…

«Visentini: volata, zero. Roche: se il limite era lì, lui riusciva a superarlo. Visentini non è mai riuscito a superare i propri limiti. Si è sempre fatto prendere da questo dover sempre dire le cose, ma poi non ha continuato a lottare su quel binario: dico questo ma vado fino in fondo, voglio dimostrare che valgo. E a lui è mancata questa parte qua, secondo me. Roche sembrava più limitato, e invece quella sensibilità, il senso tattico e il suo modo di correre l’han portato oltre a quello che poteva fare. Cioè: uno con più potenzialità ha raccolto meno, l’altro con meno potenzialità ma con la grinta e il carattere ha raccolto di più».

- Mi parli del concedere e scambiare favori, il farsi amici in gruppo? Roche in questo era maestro. Visentini era più un solitario? 

«Io quando Visentini ha litigato con Moser non c’ero, e Moser era lo sceriffo, era il numero uno… Non so cosa quello abbia comportato. Però è vero che, tante volte, contano anche le pubbliche relazioni. La guardo anch’io dal mio lato, però pubbliche relazioni fino a un certo punto, nel senso che a me, se tutti si buttan tutti in un pozzo… Però dimostra il tuo valore. Devi dimostrare il tuo valore, non correre sempre a nascondersi dietro qualcosa, o dietro gli altri, sennò sei un codardo, non sei uno che… Il carattere del campione deve emergere, in una maniera o nell’altra».

- Però per esempio Millar invece che correre per il suo capitano Breukink della Panasonic corre più per Roche con cui aveva corso alla Peugeot e che l’anno dopo si sarebbe ritrovato con lo stesso Roche alla Fagor… e in quel senso lì invece?

«Eh ma Millar non era un campione, eh. Cioè stiam parlando di corridori forti che possono vincere, forti in salita, dei gregari capitani non campioni, un campione non farebbe quello. Il gregario ovviamente va dietro anche a quello che può essere il suo contratto, il suo stipendio: è ovvio. Il tornaconto è lontano e va meglio di là… e ci può stare».

- Questo vale non solo per i gregari…

«Ma lo vedi anche negli altri sport eh, lo vedi anche nel calcio. Se uno ha già firmato da un’altra parte lo vedi che non è più il calciatore che… è una cosa così perché è come se uno si siede no? E dice: bon, ho firmato da un’altra parte. Sei tranquillo, non hai più l’adrenalina, no? E quindi si perde quel…».

- E invece di Patrick Valcke cosa mi dici?

«Valcke l’ho visto crescere, da meccanico è diventato direttore sportivo». 

- Sai che negli ultimi anni ha fatto anche l’addetto stampa del Lens nel calcio?

«So cosa fa, perché un paio di volte è venuto alla mia gran fondo. È sempre stato anche un amico. E abita al paese della mia morosa, la mia donna [Clementine Guillot] è di Lille».

- E quindi tu fai il pendolare su e giù?

«No, lei vive qua con me. I suoi son di là. Siam andati adesso per Natale. Valcke è venuto alla mia gran fondo, aveva portato quello che aveva giocato nel Milan: Jean-Perre Papin, che è venuto a fare la mia gran fondo. L’ha portato lui, è lì è stata la prima volta che l’ho incontrato. E dopo, un casino. Però s’è ritagliato… Anche lui è stato intelligente. È partito da meccanico, era un po’ un tuttofare ma da noi era un meccanico». 

- Tra i meccanici alla Carrera c’era anche Giuliano Belluomini.

«Sì. Belluomini ha fatto un po’ meno la parte del leone. Veniva, era bravo, puntiglioso, preciso, però era già più verso la fine della carriera. Poi c’era il massaggiatore, Silvano Davo. In quell’epoca, tra massaggiatori e meccanici, avevamo il top. E di quelli usciti dalla Carrera ce ne sono ancora in giro, compreso il direttore sportivo Beppe Martinelli. Io ho fatto in tempo a correre con lui, perché ha smesso nell’85-86, poi è partito come terzo direttore sportivo [nell’88, sotto Boifava e Quintarelli, nda]».

- Boifava secondo te come si è comportato? Perché lui era tra l’incudine e il martello, e doveva comunque portare a casa il Giro: è stato bravo, umile, intelligente?

«Allora, quello che è successo quell’anno lì, erano loro, i Tacchella, che erano intervenuti. Erano venuti, eh. Erano venuti a Sappada appositamente». 

- E quella sera hanno parlato anche con voi corridori o solo con Boifava?

«Lui, Boifava, ha parlato la sera in camera con loro, non è venuto da me o…».

- In albergo c’era un po’ di maretta?

«Eh, c’era un po’ di maretta sì… Il mio timore allora non era cosa succedeva lì tra loro, il mio problema è che ero appena rientrato e mi sono ritrovato in quella situazione di merda».

- Visentini era in stanza con Cassani, Roche con Schepers. Tu con chi eri in camera?

«Forse ero con Leali. È stato il primo che ho avuto in camera da quando son passato professionista… Leali, credo lui».

- E la mattina dopo, a colazione? In squadra, fra voi, gelo totale?

«Eh, c’era un po’ di freddezza, che poi si è portata avanti fino a fine Giro. Perché poi col fatto di dividere la squadra, un po’ di qua, un po’ di là… Da una parte è stata una scelta obbligata, sennò veniva fuori un macello. Non potevi lasciare che ognuno facesse quel che voleva, dovevi per forza dividere: chi stava da una parte ad aiutar questo, chi stava dall’altra ad aiutar quell’altro. E ognuno aveva i suoi appoggi per poter vincere il Giro. Però c’è la dimostrazione che Roche, anche il giorno dopo e nelle altre tappe, era davanti, andava, e anche alla fine aveva dato dimostrazione… Ma io credo – credo, eh – che dal sentore, da quello che ho visto all’epoca, se Visentini magari non avesse fatto quelle sparate, probabilmente Roche lo avrebbe aiutato a…».

- Ah sì? A rivincere il Giro?

«Sì. Questo è un punto di domanda che rimane. Il sentore che avevo, all’epoca, era quello, me lo ricordo ancora bene. I movimenti… Roche puntava specialmente al Tour, e magari Visentini non avrebbe mai vinto lo stesso, non lo so, però Roche si sarebbe messo a sua disposizione».

- Visentini quell’anno non aveva fatto risultati, Roche invece era andato forte per tutta la primavera: aveva fatto una gran Parigi-Nizza, sfumata per quella foratura nel finale e l’imboscata di Kelly; aveva buttato via la Liegi facendosi beffare con Criquielion dalla rimonta di Argentin; aveva vinto Volta Valenciana e Giro di Romandia... 

«Era andato male dall’86, Visentini. Roche aveva già una buona condizione».

- Quella Liegi grida ancora vendetta…

«In tre. Son andati in tre, fermi. Argentin era staccato ed è rientrato…».

- Al mondiale di Villach, quello stesso anno, accadde il contrario: Argentin perso l’attimo all’ultimo giro…

«Eh… Roche è partito a un chilometro e li ha lasciati là. S’è “ripreso” il mondiale… Però, sai, le corse son anche così. Però, credimi, in quell’epoca uno squadrone così…».

- In quella Carrera c’erano tanti corridori che potevano essere capitani quasi ovunque. In questo senso vedi delle analogie col Team Sky di oggi?

«Sì, però tutto ormai è troppo studiato al computer… [sbuffa, nda] Il bello del ciclismo era com’eravamo noi: liberi. Vedi, ti muovevi, anche se al momento non c’era il direttore o la strategia. Veniva fuori la sorpresa, l’attacco. Oggi questo non succede più. Oggi le corse vanno così, tutte “quadrate”, no? Ecco perché non ci sono più le imprese… Tutto è studiato a tavolino, sul wattaggio: devo tenere 200 watt, devo fare 150 watt… Prima, ce n’ho, non ce n’ho, pim-pum-pam! Era così. Libertà pura, allo stato puro. Lì vedevi il motore umano vero. Secondo me il Froome attuale alla nostra epoca avrebbe fatto molta più fatica. E attento: Froome si sta confrontando in cronometro corte, cortissime». 

- Certo, rispetto alle vostre… Penso a quella di Futuroscope al Tour ’87: 87,5 km…

«Sessanta-settanta chilometri la cronometro, più il prologo e la cronometro a squadre. Questi a cronometro non stan facendo niente, eh. Poi, sai, lì noi non facevamo la corsa all’ultimo chilometro. La nostra corsa in salita era una battaglia dall’inizio alla fine».

- Però questi vanno a tutta dall’inizio, come delle moto…

«Ho capito. Eh, sì. Ho capito, e che corsa è? Allora tanto vale fare la corsa nel finale, e finita lì, tanto a cosa serve far prima i chilometri? Io però ho dimostrato anche di vincere una Milano-Sanremo…».

- E che Sanremo.

«Eh. E non ce n’è più così… E si lamentano: eh, ma non ci son più le salite… Io non ero un corridore da vincere la Sanremo, però l’ho voluta vincere. L’avevo persa l’anno prima. L’anno dopo l’ho vinta. Alla mia maniera, ovvio. Non è che dico: aspetto il Poggio, eh. Tutti aspettano il Poggio… Deve essere un “Poggio” lungo trenta chilometri, per fare la differenza… Non bastano cinque chilometri di Poggio per far sì che tutti… Anche un velocista “appena appena” non lo stacchi, sul Poggio. Il Poggio è una salita che fai col padellone. Non la fai come una salita vera. Da quando è nato [nel 1960], il Poggio sarà il trampolino… Eh sì, poi… mica tante volte…».

- Sagan però con Kwiatkowski nel 2017 giù dal Poggio ci ha fatto divertire…

«Eh sì».

- Forse è lui l’unico che corre un po’ come te ai tuoi tempi, no?

«Sì, ma quando lavora? Quanto tira? Eh, ma poi i risultati arrivano, vedi? E quello è il frutto del lavoro, eh». 

- E quindi nel ciclismo dell’srm, delle radioline, una Sappada – o anche un Sestriere – è impossibile?

«Non ci sta niente». 

- Per esempio Wiggins e Froome al Tour 2012 o Landa e Froome al Tour 2017?

«È successo un anno o due…».

- Poi li riprendono per un orecchio…

«Eh sì… Lì poi hai anche gli auricolari, se lo fai oggi vedi tutto… Basta fare un metro in più, “torna indietro un metro”. Allora potevi tentare, ma secondo me era giusto così. Se uno è un corridore vero, lo vedi. Fallo emergere. Emergi. Oggi si è un po’ tutto bloccato. Se sei là per Froome, devi andare per Froome. Corridori estrosi non ce ne sono più. A parte Sagan. È l’unico».

- Ne deduco che non sono tanti quelli che ti piacciono, forse uno come Ilnur Zakarin…

«Non è questione… Sagan mi piace, perché comunque è un corridore che, anche quando ha perso, vince. Ha vinto tre mondiali… Il corridore di oggi che è tanto intelligente non ha ancora capito che, dopo tre mondiali che Sagan vince di seguito, ancora lo portano lì… E non ha squadra! Cioè: questa è l’intelligenza di oggi. A cosa serve [sapere] il wattaggio? Dopo tre volte consecutive che vince il mondiale, ancora non han capito che lo devono staccare? Che arriva lì e poi li martella… Cioè: questo vince tre mondiali da solo?! Noi stiamo qua a pensare che squadra faremo, come faremo la squadra, che strategie, che tattiche, poi arriva questo da solo…».

- Però a Bergen 2017 era difficile fare di più del quarto posto di Matteo Trentin. O no?

«Ogni anno è difficile… ma ogni anno?».

- A Innsbruck 2018 sarà diverso, la corsa là si potrà farla anziché subirla.

«Siamo sempre al “forse”, ma uno come Sagan può esser forte anche a Innsbruck, eh. [sorride] Non è uno che si stacca facilmente. Ho visto andare in fuga Sagan anche in salita io, eh. Al Tour».

- E dire che pesa ottanta chili…

«Ma non vuol dire. È la potenza che hai. Perché, Indurain “cosa” pesava? E come andava in salita?».

- Era anche alto uno e novanta però, eh…

«Vabbè, non era uno scalatore… Può essere anche due metri ma il peso è quello… è comunque il rapporto peso/potenza [che conta]…».

- Ti aiutato invece l’aver fatto il ciclocross? E dire che per quello ti guardavano storto…

«Sì, perché ho ripreso dopo la caduta. Io ho iniziato a fare ciclocross per colpa della caduta. Ho finito mezza stagione senza correre, poi dovevo riprendere e ho detto: come cazzo faccio a riprendere? Riprendo col ciclocross, mi hanno aiutato a farlo e da lì ho cominciato e tra l’altro poi ho fatto cinque mondiali. Son stato anche vicino al titolo italiano, ma poi non l’ho vinto…».

- Ti ha aiutato per avere maggior proprietà del mezzo? Anche Sagan è così…

«Mi aiutato in tutto. Destrezza, paura… Dopo una caduta come la mia, la paura era: avrò paura in discesa o no? Perché a me la caduta è successa in discesa. Quando rientri, tanti che sono caduti poi non riescono più ad andar forte o comunque hanno timore…».

- Anche quando metti su famiglia: poi cambia tutto…

«Io invece sono andato anche più forte. Perché poi ho cominciato anche a essere un discesista, ad andar forte in discesa. Se vai a vedere le mie tappe di discesa… Invece il cross mi ha dato quell’opportunità di non aver paura, timori, di destreggiarmi, curve, ostacoli… Mi ha dato l’occhio. Quello è stato importante per riprendere la condizione».

- Ci sono dei personaggi che ancora non ho ben chiari: di Belleri, per esempio, che cosa mi puoi dire?

«Dell’epoca? Belleri però non aveva voce in capitolo, nel senso della squadra, per decidere questo o quello».

- Faceva un po’ da cuscinetto tra voi corridori e la proprietà, i patron Tacchella?

«No, lui più che altro era sulle buste-paga e sul discorso dello sponsor-azienda…».

- Si occupava anche dell’ufficio stampa?

«Sì, iniziava anche come ufficio stampa, che non era [inteso come] quello di oggi, ovviamente. Era totalmente diverso. Era molto più difficile destreggiarsi anche in quello, eh». 

- Una battuta cattivella di Roche diceva: Visentini quando vedeva il cartello “Chiasso” si perdeva… E dire che il Visenta, paradossalmente, era più adatto al Tour…

«Questo è un fatto che non sapremo mai. Perché non si è mai spinto all’estero, lui era un corridore come sono stati all’epoca anche Moser e Saronni, un po’ restii ad andare all’estero… Con me il Tour ha iniziato a riemergere a livello italiano. Loro il Tour lo vedevano come una corsa… non stavi bene negli hotel, non era come il Tour di oggi. Era brutto anche gestire la vita quotidiana del Tour, troppi trasferimenti, due o anche tre semitappe al giorno… Il Tour all’epoca era veramente difficile… Credo sia stato anche sull’onda di quello che Visentini poi non si sia mai spinto oltre, ma era così anche per gli italiani in generale. Non son mai riusciti a fare grandi cose all’epoca, a parte i grandi campioni…».

- Anche in questo la Carrera era diversa, era più “internazionale”…

«Massì. Noi l’abbiamo un po’ diciamo “allargato”, globalizzato. Io son stato a correre anche in Sudamerica, in Paesi di cui mi dicevano: ma sei matto? Un anno ho fatto il ClásicoRCN – che è una corsa durissima per gli europei – e l’ho persa per un pelo, per un soffio [secondo, nel 1992, dietro Luis Alberto González, 70 punti contro 100 punti, nda]. Son tornato qua e dopo due giorni ho fatto secondo al Lombardia. Mi ha battuto Rominger, che quel periodo lì volava, cazzo. Aveva fatto il record dell’ora, aveva delle gambe… Quando è partito, come una scheggia, non sono riuscito a prenderlo… Ai tempi di Moser magari mi riportavano sotto e poi magari lo riprendevo e in volata io ero più veloce».

- Da corridore ce l’avevi con chi il ciclismo lo interpretava un po’ da ragioniere, e ti contava le pedalate: che cosa volevi dire?

«Era quello che poi si è trasferito, oggi, nel misuratore di potenza. Siamo finiti a un ciclismo un po’ troppo meccanizzato».

- Che cosa si potrebbe fare per non ti dico rivivere una Sappada, ma almeno per avere più spettacolo in corsa? Che misure consiglieresti?

«Io non sono favorevole agli auricolari, per esempio. Non ci deve essere sempre qualcuno che ti deve dire cosa fare. Se fosse così, io mi sentirei ignorante, non son capace, non so fare il mio mestiere… Cioè: uno all’orecchio mi deve sempre dire qualcosa?! Uff… [sbuffa, nda] All’epoca io andavo dall’ammiraglia o l’ammiraglia veniva da noi: okay, ma non è che ogni momento qualcuno… aver ’ste robe qua tutto l’anno, alla fine sei rincoglionito… Non vedo bene quell’idea lì. Un passo indietro: io ritornerei un pochettino…».

- E invece dal punto di vista delle alleanze, dei “regalini” in corsa, dell’oggi ti faccio vincere una tappa e domani tu… Tu com’eri? 

«Se avessi fatto quello, avrei vinto molto di più. Nella mia fortuna nessuno può dire che io abbia mai fatto questo». 

- Nella tappa di Sappada ’87, Schepers e Bagot erano in fuga e Schepers l’ha lasciato vincere, poi Bagot lo ha ripagato correndo anche per Roche…

«Eh, ma io non sono Schepers né Bagot. Ero un altro corridore, di un’altra categoria. E non mi son mai permesso di fare questo. Su quel lato lì, vedi, anche lì ho voluto essere me stesso. E dire: vinco, perdo, però… me stesso, sono io. Posso vincere cinquecento corse, ne vinco cento. Però le mie cento corse hanno un bel valore».

- È appena uscita la tua autobiografia (El Diablo racconta – una vita in fuga, scritta con Beppe Conti), allora ti chiedo: in un libro che racconta non solo di Sappada ’87 ma anche quel tuo ciclismo che cosa ti piacerebbe trovare o ritrovare? 

«Quello che manca alla gente è comunque quel periodo del ciclismo. Adesso non voglio dire il mio o di altri, però un periodo del ciclismo in cui, anche per i tifosi, i corridori erano abbordabili. Li trovavi per strada, una stretta di mano, un autografo, un sorriso, una parola. Oggi i corridori son degli automi. Io ho provato a vederli, quando vado, anche per la televisione, ai grandi giri. Passano davanti così, non guardano niente. È come se esistessero solo loro e il loro mondo. Pubbliche relazioni: zero».

- Il ciclismo si sta calcistizzando, se mi passi il termine?

«Sì, secondo me troppo. Manca quest’aspetto qua, secondo me fondamentale. Il ciclismo vive molto sulle strade. Vive molto a contatto con la gente, che non deve essere vista come l’appassionato che pedala, l’amatore. Son due cose diverse. Chi pedala se ne fotte i coglioni del professionista. Lo guarda… Anzi, dirà sempre: quello è una merda, quello… All’amatore piace farla bici. Farà sempre l’amatore, però quando parla del professionista ti dirà sempre: eh, quello non mi saluta mai, quello là scappa, non riesco mai a vederli, son sempre nei bus. Cioè non son più, come noi prima, a contatto diretto. Questa, secondo me, è una cosa importante. Da non sottovalutare». 

- Non posso non chiederti la tua scelta di campo: Roche o Visentini, da che parte stai? 

«Non posso fare oggi la scelta del poi. Sono passati anni, ho avuto anch’io un’evoluzione e non posso dire: è giusto o non è giusto… Tutti e due hanno avuto il loro…».

- Secondo te è stato tradimento o una scelta di corsa?

«No, non è stato un tradimento. C’è stata molta incomprensione. È stata un’incomprensione che non è stata chiarita. E questa incomprensione si è trasformata in quello che poi abbiamo visto. E quindi non voglio dire che è stata più colpa di Visentini o più colpa di Roche. Voglio dire che uno e l’altro possono avere avuto le loro colpe, chi più chi meno; perché Visentini, per esempio, anche lui, dopo trent’anni, ancora a essere lì a non farsi vedere, a stare lontano, insomma…».

- Perché, secondo te?

«Probabilmente perché per lui il ciclismo non è mai stato una passione. È stato solo un mestiere e basta».

- Con Stephen vi frequentate ancora? O magari v’incontrate solo alla tua gran fondo?

«Quello che vedo di più, ma non perché lo vado a cercare, è Roche. È nell’ambiente, c’è un evento e magari mi chiama, c’è un evento e magari lo chiamo, o ci sono altri eventi e ci rincontriamo. E mi ci trovo di più, ovviamente. Visentini si è un po’ eclissato».

- E come te li ricordi, come li vedi tu, oggi?

«Visentini è sempre stato uno caratterialmente più chiuso, meno espressivo, con delle qualità che secondo me andavano ben oltre, ben sopra di quello che ha poi dimostrato. Secondo me poteva fare molto, molto, molto, molto, molto di più. Stephen invece è stato un corridore, un personaggio che ha saputo essere intelligente. Ha saputo destreggiarsi in un ambiente difficile, ha tirato fuori il carattere, la caparbietà, nei momenti in cui c’era da tirarli fuori. È sempre stato capace di fare pubbliche relazioni. È stato un corridore che i successi li ha raggiunti perché li voleva. Aveva voglia di raggiungerli».

- Dell’ultimo Roche, quello tornato in Carrera, quale idea ti sei fatto?

«Purtroppo, quando sei a fine carriera, ci sono sempre dei problemi. È un po’ l’assestamento della persona, ma io credo che comunque Roche anche oggi sappia destreggiarsi bene».

- Nella vita, fuori delle corse, non è stato sempre fortunato.

«Sono cose classiche della vita che possono succedere a tutti. Quelle di Visentini non le conosciamo, ma anche lui avrà avuto i suoi problemi. La ruota è rotonda, e a tutti possono capitare».

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