CAPITOLO 31 - The Last Dance (1997-98)


"Circa il 90% delle partite NBA si decidono con scarti di sei punti, o negli ultimi sei minuti. È un bel vantaggio avere in squadra uno come Michael, capace di chiudere la gara quando gli altri sono esausti o sono arrivati al limite."
– Phil Jackson, head coach Chicago Bulls 1989-98

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air" Jordan
© Rainbow Sports Books

Potrebbe essere un normalissimo martedì pomeriggio autunnale, quello del 14 ottobre 1997 a Parigi. Con un volo diretto Chicago-Paris, arriva nella capitale francese, città che non può non essere visitata prima di lasciare definitivamente questo bel pianeta e sede dell’edizione del McDonald’s Open Championship di quell’anno, Sua Maestà Il Basket, Michael Jordan.

Neanche il tempo di scendere dalla scaletta dell’aereo e i Bulls, reduci dall’amichevole prestagionale persa con gli Atlanta Hawks, per smaltire il fuso orario vanno subito ad allenarsi per un paio d’ore in una palestra alla periferia ovest di Parigi. Dopo aver regalato impeccabili “Bonjour” agli irriducibili fan rimasti ad attenderlo lì all’uscita, Michael, col piccolo Jeffrey in braccio e scortato dai suoi quattro “gorilla” personali, si avvia verso la suite imperiale riservatagli al quarto piano del prestigioso Hotel Intercontinental. Stavolta però France Soir e compagnia avevano esagerato. Abituati alla loro proverbiale grandeur, i parigini avevano perso ogni freno inibitore e si erano lasciati andare. “Re Sole”, lo avevano definito; e se il novello Luigi XIV, era il centro gravitazionale di tutto il sistema solare cestistico, i suoi compagni di squadra non potevano che essere descritti come i “satelliti che gli orbitano attorno”. Lui, bontà sua, si è sempre limitato ad autodefinirsi “la senape sull’hot-dog”, sottintendendo con la metafora dell’hot-dog il gioco del basket, e ad aggiungere che “L’hot-dog è buono sempre, ma la senape lo rende ancora più saporito”. Ma il pezzo forte delle esagerazioni della stampa transalpina stava per arrivare.


L'Americano a Parigi

Dopo la recente visita del Papa, ai redattori di France Soir non era parso vero di potersi sbizzarrire con i paragoni. “Michael Jordan, l'Idolo dei giovani, è a Parigi. é meglio del Papa. é dio in persona”. Amen, potevano aggiungere.

Il secondo giorno in terra francese di Michael, mercoledì 15, incomincia abbastanza presto essendo in programma la tradizionale foto ufficiale con l’intera squadra (ad eccezione di Pippen per un intervento chirurgico al piede e di Rodman, sull’Aventino per il rinnovo del contratto, che non parteciparono alla trasferta) schierata in tuta di rappresentanza, nella ormai consueta e un po’ stereotipata immagine-ricordo, in posa sotto la Torre Eiffel. Sempre nel corso della mattinata, un breve allenamento e conferenza stampa che definire solamente “affollata” è semplicemente ridicolo. Nel pomeriggio, è concessa la libera uscita.

Quanto segue potrà anche lasciare qualcuno del tutto indifferente ma a noi fa spaventare. E tanto. Jordan compie un tentativo di fare due passi in “centro” per fare shopping con moglie e figli a bordo di una camionetta. A seguirlo, in un altro veicolo, le quattro guardie del corpo che non lo mollano neanche un istante. Nella sua lista della spesa, oltre le inevitabili puntate nei più rinomati atelier parigini, l’acquisto dei pregiatissimi Havana, i sigari cubani che tanto adora. Inutile dilungarsi nel rilevare come, una vota sparsasi la voce che su quelle quattro ruote ci fosse Jordan, tutto il traffico della metropoli sia immediatamente andato in tilt. Prigioniero di se stesso e dello stesso “mostro” che ha contribuito a costruire, Michael era stato costretto a tornare subito in albergo: di Parigi, lui può dire di esserci stato, ma non certo d’averla vista.

La serata sarebbe stata di gala. Al “Buddah Bar”, ricercatissimo locale del centro cittadino dal nome forse non azzeccatissimo, gli organizzatori, in onore delle sei delegazioni presenti, hanno allestito un banchetto degno di un sultano. E, in effetti, questi c’”, anche se soltanto del basket. Da quanto riferito dalle cronache mondane, Michael, mai come in questo caso noblesse oblige, avrebbe mangiato seduto ad un tavolo a parte, assieme ai suoi bodyguard, e, udite udite, si sarebbe dimostrato molto disponibile con i giovani giocatori delle altre squadre che gli chiedevano, con occhi supplichevoli, di posare con loro nelle foto da tramandare a posteri e nipotini vari. Quegli stessi occhi, viste accettate le loro richieste, si sarebbero sgranati per lo stupore. E si era trattato di quelli che sarebbero stati i suoi prossimi avversari.

L’allenamento mattutino dell’indomani per Jordan dura una mezz’oretta in meno per via del riacutizzarsi di quel dolorino ad un dito del piede destro lo infastidisce. La sera, Michael sarebbe andato a cena con la moglie in un lussuoso ristorante nei pressi del celeberrimo Opera.

Scorse via con ovvia fretta le pagine del diario parigino del signor Jordan fuori dal parquet, è il momento di rinfrescarci la memoria con quello di lui che davvero c’interessa, le sue gesta in campo. Arrivato nella capitale d’oltralpe con moglie e i due figli più grandi, Marcus e Jeffrey, quasi come se quelli francesi fossero stati gli ultimi sette giorni di vera vacanza prima dell’interminabile stagione NBA, Michael sembrava ancora dovesse rendersi conto dell’importanza di quel torneo d’esibizione, se si trattasse di una manifestazione di rilievo o solo di un gran baraccone promozionale. Nominato naturalmente MVP della manifestazione, Jordan, prima di ricevere lo strameritato premio dalle mani di Stankovic, il numero uno della FIBA, aveva illuminato la scena. Uno show, il Michael Jordan live, allestito da “Air” a beneficio di quelle poche migliaia d’occhi europei fino a quel momento rassegnati ad ammirarlo solo televisivamente e mai dal vivo.

Contro il Paris Saint Germain Racing, partita vinta dai Bulls 89-82, Jordan dà spettacolo senza strafare: per lui, nei 35 minuti in cui è stato in campo, 28 punti, con 11/21 (52.4%) da due, 0/2 dall’arco e 6/8 (75%) dalla linea, 7 rimbalzi (3 in difesa e 4 in attacco), 6 assist, 2 stoppate, 3 recuperi e, stranamente, 4 palle perse. 

In finale, contro i greci dell’Olympiakos, suonati 104-78, negli appena 29’ disputati, Michael raccoglie 27 punti, tirando in modo invero imbarazzante dal campo (11/20, cioè il 55%, da due e 0/2 da tre) ma quasi perfetto dalla lunetta (5/6, 83.3%), e portando la consueta dote di rimbalzi (5 di cui 4 difensivi), assist (3) e recuperi (2, voce che si elide con le altrettante palle perse).

Ma non è dalle nude cifre che si evince quello che Jordan ha regalato sul parquet agli invidiatissimi possessori del biglietto. In ciascuna delle due gare giocate, MJ infila due canestri che rimarranno negli occhi dei fortunati astanti per anni. Il primo lo realizza contro i beniamini locali del PSG, il secondo contro i greci. Perla numero uno: rimbalzo offensivo-Bulls, arriva Jordan dalla stratosfera, nella quale aveva “galleggiato” un quarto d’ora, e affonda un tap-in schiacciato che ha dello strepitoso. Perla numero due: Michael, incontenibile, va in entrata dalla linea di fondo ma, vistosi chiuso il varco verso il canestro, decide di lasciar partire un’improbabile (per gli umani) parabola dando le spalle (!) al tabellone.

Un altro numero ad effetto che lascia di stucco gli osservatori europei, inevitabilmente impressionati da tanta, imbarazzante superiorità tecnica, fisica e psicologica del più grande di sempre, non ha niente a che vedere con salti, schiacciate, tiri o passaggi, è solo una finta, ma che finta.

In finale contro i greci dell’Olympiakos (allora ancora con la k), a un certo punto, Michael ha fatto capire, con una finta di spalla, al diretto avversario Tomic che sarebbe andato da una parte. Questi abbocca e, da quella parte, non solo ci va ma ci si precipita. “His Airness”, dopo essersi fermato per un istante a guardarlo, gli pianta un sorrisetto beffardo dei suoi, tira e infila senza nemmeno toccare il ferro. Il povero Tomic, a quanto ci risulta, sta ancora cercando di capire dove sia finito quel missile con la canotta numero 23...

Dopo la partita, in sala-stampa, come risposta ad un quesito sull’episodio, lo stesso Jordan non avrebbe avuto pietà: “Pensavo gli fosse partita la testa”, dichiara scherzosamente riferendosi agli effetti nefasti che quella finta strepitosa aveva avuto sullo sventurato Tomic. Approfittando della breccia aperta nella corazza dal suo buon umore, qualche giornalista temerario si azzarda a rivolgersi al marziano temporaneamente ospite qui sulla Terra chiedendogli: “Lei fa sempre restare gli altri a bocca aperta, ma Le è mai capitato d’essere rimasto Lei stesso sorpreso da una prodezza che ha realizzato?”. “Be’, devo ammettere che dopo aver segnato quel tiro all’indietro mi sono detto: “Sei stato veramente bravo”. Non credevo sarebbe entrato, ho fatto proprio una gran bell’azione”, è stata la replica di “Air”. Ma il bello doveva ancora venire.

Nel per noi lontanissimo mondo dei media sportivi americani, esistono particolari abitudini e situazioni che, da buoni europei, consideriamo stranezze o singolarità tipicamente USA. Alcune di esse vorremmo farle nostre, come per esempio la prassi, assolutamente comune là e impensabile qua, di poter intervistare i giocatori negli spogliatoi fino a 45 minuti prima della palla a due. Altre, invece, sono del tutto irriproducibili nel Vecchio Continente. Una particolarità del tutto unica del panorama NBA è che è severamente proibito, da parte degli inviati accreditati, richiedere autografi ai giocatori. Su questa materia le regole dettate dal dipartimento della NBA che si occupa delle Pubbliche Relazioni sono ferree: i giornalisti, pena la mortificante espulsione, non possono per nessuna ragione chiedere autografi agli atleti che devono (per lavoro!) intervistare. Attenzione: le disposizioni valgono per ogni giocatore NBA, non solo per Michael Jordan. Come avrete già capito, le evoluzioni e i piccoli, grandi sotterfugi ai quali ricorrono i cronisti per aggirare il divieto stanno a metà strada fra l’assurdo e il ridicolo.

La lunga ma necessaria premessa serviva per introdurre l’emblematico epilogo dell’avventura parigina dell’icona col numero 23. Dopo la finale, nella tradizionale conferenza stampa di chiusura del torneo, l’addetto alle interviste, lanciato ai cronisti il consueto “ultimatum” “Last question for Michael”, che annuncia l’ultima domanda per Jordan, si appresta a porgere il microfono al giornalista che se la conquista. Ma il malcapitato addetto-stampa non avrebbe mai potuto prevedere che genere di “domanda” sarebbe stata posta al cestista più famoso del mondo. Con un movimento fulmineo degno di un campione d’arti marziali, il più lesto ad alzare la mano è l’inviato boliviano, che, guadagnatosi così il diritto a formulare quell’ultimo interrogativo, s’impossessa del “gelato”, come viene chiamato in gergo televisivo il microfono, e spara: “Michael,” – attacca proprio così, chiamandolo solo per nome – “non vorrei farle nessuna domanda sulla partita o sul basket, Le vorrei chiedere una cosa diversa. In Bolivia c’è un ragazzino poverissimo che ha un solo grande sogno nella vita, avere l’autografo di Michael Jordan. Sarebbe disposto a fargli questo piccolo regalo? A Lei non costerebbe nulla e per lui averlo sarebbe come toccare il cielo con un dito”. 

Gelo totale. Tra l’imbarazzo generale, quasi tangibile quello dell’entourage della NBA, Jordan accusa il colpo e accetta di buon grado. A puro titolo di cronaca, precisiamo che quel giornalista, comunque un grande ai nostri modesti occhi che pure non hanno mai letto nessun “pezzo” suo, non è stato allontanato. Il fatto che non sia stato mandato via non è così scontato come dovrebbe essere, quindi, almeno in quell’occasione, era andata bene. Anche i dirigenti NBA, dopotutto, avevano un cuore.

Per chi ancora non si era reso conto di che cosa significasse la Jordan-mania nel Villaggio Globale, la botta era stata forte: quel “Michael”, così, senza cognome, non solo era l’atleta più ricco e famoso del mondo, era anche il più “riconoscibile”. E tutto questo non poteva essere esclusivo merito degli esperti di marketing. In gioco qui c’erano anche altri valori, tecnici, spettacolari, carismatici, in una parola un “impatto”, il tanto decantato “Jordan-impact” che, in una qualche misura, poteva forse anche essere stato pianificato, ma certo non fino a quel punto. Era Jordan, punto e basta. Che si tratti dell’Opera di Parigi o dei barrios della Bolivia, di tutta America o della Cina (dove, pare, è più popolare del Papa!), l’ammiccante faccione di Michael è un po’ come il cielo (“c” minuscola, please): si vede da ogni angolo di mondo.


Per un pugno (di milioni) di dollari

Michael Jordan per tutta l’estate aveva fatto ventilare la possibilità di andarsene. Non eravamo al ricatto perpetrato ai danni della dirigenza ma poco ci mancava. E il bello era che aveva ragione lui. Un elemento, di importanza tutt’altro che trascurabile, riguardante la corsa al sesto titolo dei Bulls fu dato, infatti, dai continui interrogativi sul futuro. Di Jordan. Di Jackson. Di Pippen. Di Rodman . Della squadra, della franchigia e della NBA stessa. Sarebbe stato o no l’Ultimo ballo per i Bulls? Ci sarebbe stato un altro assalto al titolo nel ‘98-99? Ma, più di tutti e di tutto, Michael si sarebbe ritirato? Troppe domande e tutte troppo difficili.

Il front office, con in testa l’odiatissimo (da Mike in primis) GM Jerry Krause, fremeva per avviare la rifondazione della squadra e voleva decidersi a farlo per tempo, smantellando scientificamente quel fantastico gruppo prima che fosse troppo tardi. Come dimostra la stagione attuale (il roster ’98-99 dei Bulls è semplicemente ridicolo), Krause non aveva tutti i torti. Ma, come avrebbe dimostrato la stagione 1997-98, Jordan aveva tutte le ragioni. “Air” non ne poteva più di sentire le voci che davano, un giorno sè e l’altro pure, come scontata la mancata riconferma del suo coach, Phil Jackson, l’unico allenatore per il quale Michael aveva sbandierato ai quattro venti d’essere ancora disposto a giocare. Non ne poteva più di dar retta alle chiacchiere, divenute anch’esse sempre più insistenti, che volevano ceduto a questa o a quell’altra franchigia il suo fratello siamese Pippen. Scottie, che pure aveva ancora un anno di contratto, proprio in virtù di quel vincolo poteva essere sfruttato da Chicago come formidabile pedina di scambio prima di perderlo, una volta diventato free-agent, in cambio di nulla.

Anche se i Bulls volevano cedere Pippen non tanto per soldi quanto per avere in cambio giocatori e prime scelte future in modo da avviare il difficile rinnovamento, in quel periodo Jordan non trattenne qualche amara considerazione nei confronti della dirigenza, che mai come in quel frangente aveva sentito lontana da sé. Come ricorderete, dai tempi della sua seconda stagione con i Bulls, quella del grave infortunio che gli fece perdere gran parte della stagione 1985-86, le vedute di Jordan e del duo Reinsdorf-Krause, quando si trattava di questioni di politica societaria, non è che collimassero granché, e anche questo caso non sarebbe stato un’eccezione.

Jordan, pur di difendere quella che riteneva una più che giusta causa, vale a dire chiedere la riconferma in blocco del trio delle meraviglie in campo (se stesso, Pippen e Rodman) e del quarto moschettiere in panchina (Jackson), non si era fatto problemi. Potendoselo permettere, si era esposto in prima persona e parlando a cuore aperto chiese pubblicamente di non smantellare quel nucleo che era stato capace di produrre l’incredibile impresa di vincere cinque campionati in sette anni.

“I soldi non hanno mai avuto niente a che fare con me nel giocare a basket” avrebbe poi dichiarato Jordan nel 1998. “Ma il denaro trova sempre un modo per diventare un motivo di discussione per qualcuno e certamente è sempre stato un motivo di discussione per Jerry Reinsdorf”. Michael aveva capito che, sotto la troppo sottile patina della presunta ricostruzione tecnica della squadra, si nascondevano altri, chiamiamoli così, “dettagli”.

Forse Reinsdorf e Krause volevano coronare il sogno impossibile di vincere un Anello senza il sempre più “ingombrante” Alieno, forse non sopportavano più coach Jackson, il quale, in occasione del McDonald’s Open dell’ottobre ’97, era apparso particolarmente distaccato dai vertici societari, o forse tutte queste cose assieme. Sta di fatto che, nella franchigia della Città del Vento, sembrava esserci ormai come una sottile linea… rossonera, segnale di un’insanabile frattura: da una parte, i tifosi, Michael, Phil e il resto della squadra (in altre parole, chi aveva vinto e si riteneva in diritto di provare a continuare a farlo); dall’altra, Krause, Reinsdorf e basta. E nessuno aveva la minima intenzione di fare un passo verso la controparte. Insomma, non ancora separati in casa, ma poco ci mancava.

La versione di Jordan non fa una piega. “I Bulls sapevano che non sarei tornato a giocare per nessun altro che Phil. Dopo la vittoria del campionato del 1997, [Krause e Reinsdorf] sapevano di dover firmare Jackson prima di correre dietro a me”. E i due Jerry lo avevano fatto, ma quello che non era tanto andato giù a Mike era come lo avessero fatto, così come non sarebbe andato giù a chiunque non piaccia sentirsi prendere in giro. “Avevano inserito una clausola nel contratto di Phil – continua nella sua lucida analisi “Air” – secondo la quale, se io non avessi firmato entro una certa data, il suo accordo sarebbe stato invalidato. Quando incominciammo a negoziare il mio contratto per la stagione 1997-98 tutti erano consapevoli di quanto avessi fatto l’anno prima. David Falk disse ai Bulls che io meritavo un aumento del 20 percento, il massimo consentito. Il suo convincimento era che avessi fatto tutto quello per cui ero stato pagato: avevamo vinto un altro campionato, io avevo vinto un altro titolo di capocannoniere e avevo fatto parte del primo quintetto difensivo. L’opinione di Jerry [Reinsdorf, non Krause – N.d.A.] era che io fossi stato lautamente retribuito per quelle prestazioni e che quindi non dovessi prendere di più. In un modo o nell’altro la discussione alla fine ritornò ai miei due primi contratti, di come fossi stato pagato al di sotto del mio valore di mercato dell’epoca, tanto che gli ordini di grandezza delle cifre attuali avrebbero potuto in qualche maniera pareggiare i conti. Alla fine, gli dissi: “Guarda, Jerry. Il mio agente è qui, tu sei là, perché non facciamo un passo per ciascuno e c’incontriamo a metà strada, ci stringiamo la mano e ce ne andiamo fuori di qua? Io non sono venuto qui per cercare di fregarti. Voglio solo che tu sappia che ho onorato al meglio la mia parte dell’accordo. Ho svolto il mio compito e tutto quello che chiedo è un aumento. Poi potrà essere di un dollaro o di sei milioni di dollari. Voglio solo un riconoscimento da parte tua che ho fatto il mio dovere”. Tutto ciò che volevo era la squadra intatta così che potessimo difendere il nostro titolo. Ritenevo che così facendo entrambi potessimo salvare la faccia. Io sarei stato capace di farmi ricompensare per le mie performances e Jerry avrebbe potuto dire: “Ok, ti abbiamo pagato un sacco di soldi, ma ti abbiamo anche ricompensato con una cifra che ritenevamo adeguata”. Il mio primo pensiero fu “Grande! Adesso scendiamo in campo e ci ripetiamo di nuovo”. Ma ero consapevole che non saremmo mai arrivati a fare quel tipo di discorso. Ci trovavamo ben lontani da quel punto d’incontro, e lo eravamo particolarmente dopo quello che era successo l’anno prima. A partire dalla stagione del 1996 ho sempre firmato accordi annuali. Prima che lasciassi l’ufficio, Jerry disse una cosa che non dimenticherò mai e che avrebbe cambiato l’opinione che mi ero fatto della persona Jerry Reinsdorf. Ci stringemmo la mano e mi disse: “Un giorno, so che rimpiangerò quanto abbiamo appena fatto”. Dopo tutti questi anni, dopo tutti quei campionati vinti, dopo tutto quello che ho cercato di fare per l’intera organizzazione dei Bulls, dopo tutti quegli anni in cui ero stato sottopagato, tu rimpiangi di avermi corrisposto quello che è soltanto il mio valore di mercato? é stata come una pugnalata al cuore”.

Alla fine, il management scartò la folle idea di cedere Pippen e si decise a rifirmare con contratti annuali sia Jordan sia Jackson. Tutti, dalle parti della Windy City, sapevano che quella del 1997-98 sarebbe stata l’ultima stagione insieme, a prescindere dai risultati. Ma sarebbe stato troppo bello far capire a “qualcuno” che non ci sarebbe stato nulla da rimpiangere, a fine stagione.

In mezzo a tutte queste distrazioni, aumentate dall’incertezza se la sua sarebbe stata o no l’ultima stagione coi Bulls, prima della loro demolizione, o addirittura la sua ultima in assoluto, Michael si godette una delle sue tipiche straordinarie campagne di regular season, aggiudicandosi gli onori di MVP della Lega per la quinta volta nella sua carriera. Il premio, ritirato da MJ il 18 maggio 1998 direttamente dalle mani di Bill Russell , l’altro umano capace di assurgere per cinque anni al ruolo di miglior giocatore del campionato nei dinastici Celtics degli anni Cinquanta-Sessanta, lo avrebbe vendicato dell’affronto subìto l’anno prima. Con 92 voti sui 116 disponibili, Jordan si piazzò al primo posto davanti proprio a quel Malone (per lui appena 20 punti) che solo dodici mesi prima lo aveva battuto allo sprint, per usare un termine ciclistico. In un sondaggio condotto dal quotidiano USA Today, che per l’occasione aveva interpellato 493 addetti ai lavori fra giocatori, allenatori, preparatori atletici e general manager, pare che dei 309 (il 63%) votanti che avevano risposto all’invito, in ben 253 (l’82%) lo avessero indicato come proprio personale MVP davanti ancora a Malone, piazzatosi appunto molto lontano, con le sue 35 preferenze (pari all’11%).

La stagione d’addio di MJ fu una sorta di compendio della grandezza che lo aveva contraddistinto nelle sue precedenti dodici stagioni NBA. Jordan, fisicamente più integro che mai, non saltò nemmeno una partita e naturalmente giocò dall’inizio in tutti e 82 gli incontri di regular season. E, giusto per far vedere che non aveva avuto alcuna intenzione di risparmiarsi in vista dei playoff, fu il primo dei Bulls per minuti giocati (3181) e per recuperi (141). Altre pillole di quotidiana eccezionalità. Il 12 dicembre ‘97 Mike andò in doppia cifra nei punti segnati per la 788-esima gara consecutiva (!) di stagione regolare, superando così il primato NBA stabilito da Kareem Abdul-Jabbar. Quello stesso primato che Jordan avrebbe continuato a spostare più in avanti ogni partita di campionato: a fine regular season, il nuovo record sarebbe stato di 840 partite in fila in cui Jordan aveva segnato almeno dieci punti. Ora, per far capire la portata di un simile dato numerico, faremo un rapido calcolo: ogni regular season NBA consta di 82 partite; Michael era andato in doppia cifra per 840 gare, ergo: 840/82 = 10,24, “è come se Michael avesse realizzato almeno una decina di punti per 82 gare l’anno per dieci e rotti anni filati”.

Ma non è finita qui. Estendendo quella incredibile serie agli incontri di playoff di quella magnifica stagione di chiusura della favola jordaniana, l’8 marzo Michael raggiunse il mirabile traguardo di 1000 partite consecutive in doppia cifra nei punti. Jordan avrebbe terminato l’annata’97-98 e, con essa, la sua carriera, al terzo posto assoluto, a quota 29277 punti, nella classifica all-time dei marcatori NBA, dietro ai soli Kareem Abdul-Jabbar (38387), che però nella Lega ci è rimasto per 20 (!) anni, e Wilt Chamberlain (31419), la più devastante macchina da canestri che la storia del basket ricordi, ma più macchina da canestri rifilati, appunto, che evitati.

Tornando alla marcia in campionato dei Bulls, con la vittoria del 18 aprile sui Knicks, essi riuscirono a chiudere la stagione al comando della Eastern Conference con un record di 62-20 che andava ad eguagliare quello degli Utah Jazz nella Western come miglior bilancio di tutta la NBA. Un segnale, questo, che i più attenti avrebbero colto come avvisaglia di una probabile rivincita da fissarsi nell’ultimo atto, le Finali.

A proposito di bilanci-record e record di bilanci, qualche pazzo con, evidentemente, parecchio tempo libero a disposizione nella vita, si è divertito a calcolare che, nelle tre stagioni NBA disputate a tempo pieno da Jordan dopo aver abbandonato il baseball, i Bulls erano arrivati alla bella soglia di 203-43 nel quoto vinte-perse. La percentuale dell’82.5% che avevano stilato in quel triennio era il miglior risultato di sempre nella storia della lega. Solo un caso?


New York New York

Tra i momenti degni di nota di quel lungo cammino che precede i playoff, va ricordato quello che sarebbe stato l’ultimo All-Star Game dell’Uomo Volante di Chicago. Nel 1998 la sede prescelta per la consueta manifestazione di metà annata sarebbe stata quanto mai storica: il Madison Square Garden di New York, “The Main Arena”, e crediamo che in questo caso non serva traduzione.

Jordan, che prima di quell’8 febbraio, data della Partita delle Stelle, era già stato nominato per tre volte Player of the Week, e per due Player of the Month, si sarebbe assicurato il premio di MVP dell’All-Star Game (ormai il terzo) nel quale avrebbe apposto la sua firma di 23 (poteva essere altrimenti?) punti.

Esattamente un mese dopo, l’8 marzo, Michael tornava sul luogo del delitto e, questa volta, anziché vestito della divisa della selezione All-Star dell’Est, lo faceva con la maglia (nell’occasione, nera) dei Bulls. Ma un altro più significativo particolare del suo abbigliamento da gara che si sarebbe differenziato dal solito avrebbe riguardato le sue scarpe. No, nessuna mossa pubblicitaria (o forse s“?), stavolta. Piuttosto un moto del cuore, della memoria. Ormai è arcinoto a tutti il debole di Jordan per certi impianti che “trasudano” tradizione e storia cestistiche. Abbiamo già visto che cosa era stato capace di fare al Boston Garden (63 punti nell’86 dopo che era stato fuori per gran parte della stagione a causa del piede rotto), o allo stesso Madison di New York (55 punti, quel famoso double nickel rifilato ai Knicks quando era tornato a giocare da appena cinque gare), quindi nessuna meraviglia per quanto sarebbe accaduto per quella che avrebbe potuto essere, e sarebbe poi in effetti stata, la sua ultima apparizione sulle nobili listelle di linoleum newyorkese. Quello che nessuno avrebbe mai potuto prevedere, invece sarebbero state… le sue scarpe. Già, e più precisamente le scarpe con le quali Mike avrebbe deciso di deliziare, per l’ultima volta, i competentissimi tifosi e i velenosissimi media locali.

“La sera prima che partissimo per andare a giocare la nostra ultima partita a New York del 1998 ,” racconta Michael a proposito di quella pazza idea che gli sarebbe venuta di lè a poco “mia moglie stava facendo un po’ di pulizie di primavera e aveva spostato le scarpe da un ripostiglio ad un altro. Pensai: “Questa potrebbe essere la mia ultima volta a New York, allora perché non tornare agli inizi e calzare le stesse scarpe?”. Perché il piede nel frattempo gli era cresciuto di un paio di numeri, potrebbe essere una buona risposta. Eh s“, avete capito bene: la suggestiva e romantica trovata di Michael era stata quella di rinfilarsi ai piedi non lo stesso modello di 14 anni prima ma quelle che proprio materialmente erano le stesse scarpe di allora!

“Le provai prima in allenamento e mi accorsi che erano troppo strette. Ma si trattava di New York, perché non provare qualcosa di diverso? Nessuno sapeva che avevo quelle scarpe in borsa fino a quando non ho iniziato ad allacciarmele. Non ero ancora sicuro che le avrei usate in partita fino a dopo che le ebbi provate durante il riscaldamento. In quel momento le scarpe avevano già catturato l’attenzione della gente, quindi perché non assecondarla? Ecco come mi sono accostato a quella partita. Volevo calcare quel parquet e divertirmi. Era una specie di dichiarazione d’amore, di quello che sento per New York. Mi è sempre piaciuto giocare a New York, dagli inizi alla fine della mia carriera. In più, vincemmo anche la partita [102-89]”.

Anche ai newyorkesi era sempre piaciuto veder giocare Michael, anche se questi sembrava avercela con loro, vista l’incredibile quantità di memorabili prestazioni (inferiore, per numero, forse solo a quella riservata ai derelitti sostenitori di Cleveland) che aveva inflitto loro.

“Il loro tributo nei miei confronti fu la standing ovation che mi concedettero quando lasciai il campo”, furono le parole di riconoscenza di Michael verso i newyorkers che si erano visti ripagati con l’ennesima prestazione-monstre, 43’ di basket di squisita fattura corredati da 42 punti (17/33, il 51%, dal campo; 7/9, il 77.8%, dalla linea), 8 rimbalzi, 6 assist, 3 recuperi e una stoppata.

“Amo questo posto e amo quest’arena” ha sempre entusiasticamente dichiarato Jordan di N.Y. e di “The Garden”, solo che, perlomeno dal punto di vista dei risultati, i poveri tifosi dei Knicks, di questo tipo di dimostrazioni d’amore, avrebbero volentieri fatto a meno. Se invece parliamo di basket non accecato dal tifo, allora beati loro: quelle sue manifestazioni d’affetto, quei modi tutti jordaniani di esternare i propri sentimenti filo-newyorkesi erano veramente spettacolo puro.

Erano passate 14 stagioni da quando quel sottilissimo rookie era sceso per la prima volta su quel magico parquet. In quell’occasione, l’8 novembre 1984, Jordan, non ancora “Air”, aveva regalato alla platea 33’ di spettacolo: attorniato nello starting lineup da poco più che carneadi che rispondevano ai nomi di Ennis Whatley (la point guard), di Caldwell Jones (il centro), di Steve Johnson e di Orlando Woolridge (le due ali), Jordan giocò praticamente da solo accumulando 33 punti (15/22, il 68.2%, dal campo, 3/4, il 75%, dalla lunetta), 8 rimbalzi, 5 assist, 3 recuperi e 2 stoppate, nella vittoria (anche allora, poveri Knicks) dei Bulls per 121-106.

Ora, quattordici stagioni dopo, con una massa muscolare che faceva spavento e al fianco di super stelle che si chiamavano Ron Harper (prima guardia molto fittizia), Scottie Pippen (ala piccola), Toni Kukoc (ala grande) e Dennis Rodman (in quella gara al Madison, centro), Michael si apprestava a chiudere la sua parabola agonistica infilandosi al dito un altro Anello. Solo che ora una mano sola non bastava più, sarebbe stato il sesto.

Come al solito, il segnare in quantità industriali aveva continuato a far parte del naturale modo di giocare di Jordan, ma c’erano altri piccoli particolari che facevano capire quanto caduche fossero le “promesse” estive espresse da coach Jackson che voleva dare un po’ di riposo alla sua star, giunta ormai alle 35 primavere. Michael sarebbe sceso in campo per 38.8 punti a partita. Avrebbe rubato 1.72 palloni a gara, secondo della squadra, accumulando anche le considerevoli (per il ruolo) medie di 5.8 rimbalzi e 3.5 assist, terzo del team nelle relative categorie. Tutto questo sarebbe stato coronato dal maggior numero di preferenze (25 su 29) raccolte nella tradizionale votazione per i primi quintetti difensivi operata dagli allenatori della Lega. Il 6 maggio, giorno delle nomine per il Primo quintetto difensivo, Michael ne avrebbe fatto parte per la nona volta in carriera, altro record NBA. 

Jordan avrebbe centrato l’ennesimo record assicurandosi il decimo titolo di capocannoniere (il terzo consecutivo dopo la parentesi nel baseball), e questa volta lo avrebbe fatto quasi sotto media per uno come lui: 28.7 punti a partita. Ma per far capire come quei quasi 29 punti di media non fossero certo pochi si possono usare le stesse parole che Mike avrebbe rivolto, a stagione conclusa, al suo biografo ufficiale Mark Vancil: “Non c’” nulla di facile nel guidare la NBA nei marcatori. Io so per certo che certi giocatori sono convinti che avrebbero potuto fare quanto ho fatto io se avessero potuto avere la stessa libertà di cui ho goduto io. Ma loro non hanno neanche la minima idea di che cosa significhi essere così costanti nell’arco di 82 gare di regular season. 

Prima della stagione 1997-98 Penny Hardaway mi disse che avrebbe finito per vincere il titolo di capocannoniere, e con 40 punti di media. Shaquille O’Neal se ne era andato e Hardaway pensava che gli sarebbe spettata ogni opportunità. E ci stava serio, anche. Ma ti rendi conto di quanto sia difficile tenere una media di 40 punti a partita? Sono 10 punti per quarto, per ciascun quarto di ogni partita. E questo solo per stare in media. Se poi non ne segni almeno 10, devi segnarne ancora di più dopo.

E devi fare tutto questo mentre l’intera difesa è completamente concentrata nell’impedirti di andare a realizzare. Il che significa che devi battere i raddoppi, andare in lunetta e buttare dentro almeno l’80 percento dei tuoi liberi. Tutte queste cose devono succedere tutte le sere . Segnare tanto quanto segno io non succede perché cambia una data situazione o un giocatore decide, così su due piedi, di diventare più aggressivo. Devi saper leggere il gioco, saper trovare le opportunità. Quelle che trovi una sera potrebbero non esserci in quella successiva. Devi capire il modo per superare praticamente ognuno dei tuoi avversari perché puoi stare maledettamente certo che, se stai segnando così tanti punti, ogni tuo avversario si sente in dovere di sbarrarti la strada. Ogni volta devi essere aggressivo mentalmente, per saper poi cogliere e scegliere quando attaccare fisicamente. Quei ragazzi non capiscono queste cose. Loro non hanno neanche una lontana percezione degli aspetti mentali necessari per segnare 40 punti anche una sola sera.

Bisogna essere in grado di adattarsi continuamente. Riesci, al primo attacco, a modellare a tuo vantaggio l’intera partita? Cerchi di mantenere tutti gli altri [tuoi compagni] coinvolti così che anche loro possano risultare pericolosi e aprirti degli spazi in campo? E non ho ancora parlato di ciò che devi fare nella tua estremità difensiva per ottenere poi dei canestri “facili”: recuperi, stoppate, contropiede e tutte le altre situazioni che si presentano in una serata da 32 punti. In questa fase della loro carriera, tipi alla Hardaway e alla Grant Hill fanno punti soprattutto grazie al loro talento fisico. Spostiamoci adesso col discorso ai playoff, dove ti può capitare di giocare contro la stessa squadra anche per sette volte. Gli aggiustamenti devono avvenire con più rapidità, talvolta perfino tra un’azione e l’altra. E devi fare tutte queste cose con l’unico obiettivo di vincere la partita. Io non credo che nessuno di loro sia ancora pronto per questo”. Afferrato dove sta la “grandezza più grande” di Michael? Nella zucca. È lì che “Air” incomincia a vincere le partite, i premi, i campionati: esattamente dove gli altri incominciano a perderli. Che poi MJ possa saltare 1.10-1.20 m da fermo non è che una dolcissima ciliegina, ma la torta delle vittorie è da un’altra parte.

Arrivano i playoff e Jordan, che si appresta a condurre i suoi al sesto titolo in otto anni, si consacra come capocannoniere di tutti i tempi per quanto concerne le gare di postseason, avendo di media 32.4 punti per gara. In quell’edizione dei playoff, “Air” avrebbe segnato la bellezza di 680 punti che, nella speciale classifica all-time, gli avrebbero consentito di toccare quota 5987 e di superare il totale dell’ex detentore del primato, il “solito” Jabbar con 5762 (traguardo raggiunto in 237 partite che gli danno la bella media di 24.3 ppg). Nel turno d’apertura, i Bulls affrontavano gli emergenti New Jersey Nets, che però capirono in fretta di aver scelto l’anno sbagliato per coltivare delle ambizioni. Michael, solitamente uno che non si spreca troppo, si era sentito in dovere di manifestare a Jayson Williams il proprio apprezzamento: “Avete una buona squadra, giovani d’avvenire . Adesso che avete una squadra che sprizza energia, che corre, che gioca duro, dovete tenere insieme questo gruppo”. Ma, a parte i complimenti di Jordan, la serie finì con lo scontato sweep da parte dei Tori che, con un Jordan in vena (36.3 di media), si sarebbero sbarazzati, seppur non così facilmente come potrebbe indicare la “spazzata”, dei “cugini” dei (da sempre) più famosi e popolari Knicks, i loro illustri dirimpettai dell’altra parte del fiume Hudson.

Nelle Semifinali di Conference, contro gli Charlotte Hornets (che sarebbero passati, per via della grande difesa dei Tori, dai 96.6 ppg di regular season ai soli 80.2 ppg nella serie), le cose cambiarono appena di un pelo. La media realizzativa di Jordan scese un po’ (29.6 ppg) e i Bulls ci rimisero le penne in un’occasione, Gara-2 allo United Center, ma il 4-1 finale non spostò nulla nella sostanza delle cose: Chicago, vittoriosa nei quattro incontri con uno scarto medio di 12.5 punti, era ancora in Finale nella Eastern.

E lì i Bulls avrebbero trovato ad attenderli i Pacers, forse la squadra rivelazione dell’anno, guidati in panchina da quello che al suo esordio su una panca NBA stava per essere nominato come Coach of the Year, Larry Bird. Come avvenuto per la squadra che allenava, anche il fatto che il neotecnico di Indiana potesse avere successo come head coach poteva suonare come una rivelazione. Agli sciocchi.

Jordan ebbe 31.7 punti nella serie, ma i Bulls passarono il turno soprattutto per aver dominato i tabelloni (indovinate con chi): 304-249 il bilancio delle carambole finite in maglia rossonera. Reggie Miller (grandissimo in Gara-4, da lui decisa a sette decimi dalla fine) & soci (superbo Travis Best che in Gara-6 realizzò 4 punti negli ultimi 60”) fecero comunque soffrire di brutto i Bulls, andati subito sopra 2-0, che solo alla fine della settima partita di una combattutissima serie riuscirono ad arrivare là dove erano giunti l’anno prima: il secondo showdown con i Jazz era fissato. E questa volta non ci sarebbe stato appello, sarebbe stata l’ultima chance, per i “vecchietti” terribili Stockton e Malone, di vincere un Anello NBA. E di vincerne uno “vero”, cioè con lui in campo.


11 secondi per l’eternità

Michael Jordan non avrebbe potuto essere più esausto in quella snervante, asfissiante Gara-6 delle Finali NBA 1998, di nuovo contro quei tosti nonnetti dei Jazz. Quel Jordan insolitamente impreciso, distrutto dalla fatica, aveva già sbagliato 20 tiri, più di quanti un comune mortale avrebbe anche solo tentato, non diciamo fallito. Costretto a portare sulle sue spalle, ingobbite dallo sforzo, gli interi Chicago Bulls per via dei grossi problemi alla schiena di Pippen e di quelli di falli che limitavano Rodman e qualcun altro, Michael aveva cercato in tutti i modi di tenere in partita i suoi per evitare una settima partita che si sarebbe rivelata pericolosissima per quei Tori così feriti, affaticati e malmessi.

Fino a quel momento la serie era stata una corsa a handicap per entrambe le contendenti. Aveva incominciato bene Utah, che il 3 giugno si era portata sull’1-0 vincendo, 88-85 al supplementare, il primo dei suoi due appuntamenti casalinghi consecutivi.

Jordan, che era alla sua partita numero 30 nelle Finali NBA, non aveva mai segnato meno di 20 punti negli incontri che decidono la serie per il titolo. In questa occasione era partito piano (appena 5 punti nel primo quarto), come gli capitava ormai abitualmente, nella sua terza parte di carriera, per cercare di coinvolgere in attacco tutti i compagni. Poi era esploso nel secondo segnandone 15 e, già all’intervallo, la striscia di 20 ppg nelle finali era salva, adesso si trattava “solo” di vincere l’incontro. Alla fine, avrebbe giocato 46’ raccogliendo 33 punti (13/29 dal campo di cui 1/2 da tre, 6/8 dalla linea), 3 rimbalzi (uno solo in attacco), 2 assist e 2 stoppate, con nessuna palla persa o recuperata e 3 falli personali. Ma non sarebbe bastato, forse anche per via dello stiramento ai legamenti del pollice destro di Rodman, che chiuse a 10 rimbalzi (cinque sotto media rispetto alla stagione regolare), e dell’ottima prestazione di Russell (asfissiante difesa su MJ, Pippen e Kukoc, condita da 15 punti, piuttosto insoliti per uno che in campionato viaggiava sui 9 a gara).

Due giorni dopo, però, Chicago aveva saputo rispondere prontamente violando, per 93-88, il Delta Center in Gara-2. Michael stavolta aveva messo a referto 37 punti, (14/33 al tiro, 0/2 dall’arco e 9/10 dalla lunetta), 5 rimbalzi (3 quelli offensivi), 3 assist, un recupero e una stoppata oltre alla solita casella bianca nelle palle perse, mentre i falli, stavolta, erano stati 2.

Il terzo incontro, previsto il 7 giugno nella Windy City, sarebbe stato un massacro per i Jazz, che non entrarono veramente mai in partita cedendo con un umiliante 54-96 pur con un Jordan stranamente col freno a mano tirato. Per Michael “solo” 24 punti (7/14 dal campo, nessun tentativo da tre e 10/11 ai liberi) in 32’, con 3 rimbalzi (2 difensivi), 2 assist, un recupero, una stoppata, un solo fallo personale ma due palle perse.

Abbiamo già accennato alle maglie che sono state ritirate dalla franchigia dell’Illinois e tra queste c’è quella di Jerry Sloan, ex grande mastino difensivo dei Bulls nel decennio 1966-76. Il buon Jerry però non avrebbe certo alzato lo sguardo volentieri per osservare la sua maglia pendere dal soffitto dello United Center perché avrebbe rischiato di incrociare il tabellone con lo score conclusivo di quella Gara-3, tanto imbarazzante da fargli dire: “Ah, è questo il vero punteggio finale? Pensavo fosse 196…”.

Gara-4 fu ancora appannaggio dei Bulls che si vedevano così ad un passo dal titolo: vincendo in casa, 86-82, quel 10 giugno, si erano portati sul 3-1 e ora avevano pronta, servita su un piatto d’argento, l’occasione per conquistare, ancora una volta entro le mura amiche, il loro sesto titolo di campioni. “I Still Believe” (Io ci credo ancora), recitava un cartello innalzato da uno degli sparuti tifosi di Utah presenti allo United Center. Sembrava l’unico. A rendere meno credibile la candidatura dei Jazz nella campagna al titolo 1998 ci si era messo anche il solito Jordan, che aveva svolto il suo solito compitino, durato stavolta 43’, nel quale aveva “scritto” 34 punti (12/27 al tiro, niente da tre e 10/15 dalla linea), 8 rimbalzi (3 presi là davanti), 2 assist, 2 recuperi e nessuna stoppata, e con 3 palle perse e un fallo come unici “errori”.

Ma la Gara-5 di due giorni dopo avrebbe rovinato i piani di festa dei Tori, che probabilmente avevano sottovalutato l’immenso orgoglio di Utah. Michael, per lui 4 rimbalzi (1 in attacco), 4 assist, 3 stoppate, tante palle perse (4) e tanti (per lui) falli (4), ebbe una pessima giornata al tiro in azione (9/26, 0/2 da tre) pur essendo quasi perfetto in lunetta (10/11). Malone e compagni vinsero così, abbastanza imprevedibilmente (83-81) quel cruciale quinto incontro, riportando la serie in casa loro.

La situazione ora vedeva i Bulls avanti 3-2, ma era ancora tutto da vedere. Domenica 14 giugno, giorno di Gara-6, era sensazione comune che si sarebbe capito chi sarebbe stato ad infilarsi quel benedetto Anello.

Abbiamo già accennato alla stanchezza di Michael e la cosa, se non una certezza, era certamente di più di una semplice sensazione perché, se è vero che i Bulls erano rimasti incollati ai Jazz durante i primi tre periodi del sesto match proprio grazie alle sue risorse offensive, nel quarto periodo i suoi tiri eccessivamente corti incominciavano ad essere un po’ troppi . E quale segnale di stanchezza più chiaro può esserci di un Jordan che con le sue parabole tocca sè e no il ferro?

Ma prima che nei presenti e nei tele-collegati di tutto il mondo potesse insinuarsi il minimo dubbio che “Air” potesse avvertire il peso dell’età, che, dopotutto, potesse essere umano, che l’impossibile (ovvero lui che non “decide” proprio quando più conta) potesse, via via che scorrevano i secondi, trasformarsi in possibile, si doveva aspettare ancora qualche secondo. Undici, per l’esattezza. Quando Stockton aveva infilato quella tripla a 41.9 secondi dal termine, portando i suoi sul 86-83, il Delta Center era esploso sentendo già in bocca la dolcissima acquolina della vittoria che avrebbe rimesso tutto in parità nella serie. Ma un miracolo sotto forma di canottiera numero 23 era in arrivo.

Il racconto di come andarono le cose lo facciamo fare a Michael, che sul quel parquet c’era. “Tutto quello che avrebbe portato a quel tiro contro Utah in Gara-6 era ben vivido nella mia mente. Era come se ne stessi guardando l’intero svolgimento al rallentatore, in televisione: io che rubo palla, guardo in alto cercando il cronometro e poi riabbasso lo sguardo sul parquet. Riuscivo a vedere dov’erano tutti gli altri giocatori e ricordo ancora esattamente dove si trovavano mentre io salivo in attacco. Steve Kerr era all’angolo, John Stockton mi aveva fatto una finta e stava venendo verso di me. Io mi trovavo all’altezza del cerchio dell’area. Dennis [Rodman] stava come rannicchiato nelle vicinanze del post basso in fondo a sinistra, Scottie era dalla parte opposta, l’ultimo a destra. Sentivo dei suoni, ma era come se fosse stato rumore bianco. In quel momento non riuscivo a distinguere un suono da un altro, ma ero in grado di valutare ogni opportunità in campo. Stavo andando verso destra perché sapevo che avrei potuto liberarmi per il tiro. Tutte le volte che avevo bisogno di fare un tiro mi spostavo sulla mia destra fino a quando la difesa non commetteva un errore e apriva un varco sulla mia sinistra. Quando ti muovi sulla tua destra il difensore si trova davanti il tuo corpo prima di poter arrivare al pallone. In Gara-1 delle Finali 1997, sempre contro Utah, sono andato verso sinistra, quando ho infilato il tiro decisivo, perché Bryon Russell si era allungato sulla sua sinistra, il che lo aveva fatto andare fuori equilibrio. 

Nel 1998, feci in modo di andare ancora verso destra, partendo dal lato sinistro del campo. L’unica cosa che non volevo fare era incrociare perché questo avrebbe rimesso la palla in gioco. Tutto questo lo sapevo, ma mentre il tiro lo vedevo in svolgimento, queste altre opzioni le avrei condotte a buon fine istintivamente. Tutto si svolgeva abbastanza lentamente da permettermi di valutare ogni singola cosa che stava accadendo. Ero in grado di valutare l’errore che Russell avrebbe fatto di nuovo – sempre lui, poverino, ma che ti ha fatto, Mike? – e di sfruttarlo diversamente. Stavolta, quando si è allungato, sapevo esattamente cosa fare. Io stavo andando dalla parte di Steve Kerr, John Stockton non stava per lasciare Steve smarcato come aveva fatto quando questi aveva segnato il tiro vincente in Gara-6 delle Finali 1997. Così Stockton fece finta di venire verso di me per poi tornare su Kerr. Non avevo alcuna intenzione di passare la palla, in nessun caso. Immaginavo che avrei rubato la palla e quella era la mia occasione di vincere o di perdere la gara. Mi sarei preso quel tiro anche con cinque persone addosso. Ironicamente, io che di solito ho problemi nell’andare verso destra per l’arresto-tiro in sospensione, perché ho la tendenza a farlo corto, normalmente ricado sempre un po’ all’indietro, ma in quel tiro non ho voluto farlo perché gli ultimi tiri che avevo fatto erano stati tutti troppo corti. Rifletteteci. Ho avuto abbastanza tempo per pensare a tutte queste cose. È incredibile, perfino per me. Eppure è così che è andata: sono andato su dritto e sono tornato giù dritto. Ho esteso consapevolmente la mano in alto e verso l’esterno all’indirizzo del bersaglio perché ci stavo arrivando corto. é sembrato come se mi stessi atteggiando, ma in fondo non era che un tiro estremamente naturale. é davvero incredibile come possa aver spezzettato un finale di partita in tutte quelle particelle in quella quantità di tempo e poi abbia eseguito la giocata. E tutto questo è successo in 11 secondi circa”. Undici secondi indimenticabili.

Jordan non è mai stato più irresistibile di quanto lo fu in quegli ultimi istanti di Gara-6 al Delta Center di Salt Lake City. Dopo che Stockton aveva portato Utah a +3 azzeccando quella tripla a 41” e rotti dalla fine, Michael era stato capace di segnare in entrata (a 37”.1 dallo scadere, ancora 86-85 per Utah), di portare via il pallone a Malone su un raddoppio nell’azione seguente, quindi di scrollarsi di dosso Russell staccandosi verticalmente per far partire il jumper che, col cronometro fotografato sul 6”.6 dalla sirena, avrebbe deciso tutto. Se però il jumper che “The Stock” scoccò a 2”.9 non fosse rimbalzato sul ferro ma dentro, ferme restando le opere d’arte di Michaelangelo, forse avremmo scritto un’altra storia.

“Phil ha chiamato un isolamento per me, per segnare e costringerli a farmi fallo o a lasciarmi un canestro facile, cosa che poi ho fatto” avrebbe poi raccontato MJ di quello splendido ultimo spezzone di gara. Mike era entrato dal lato destro della corsia centrale per quella facilissima segnatura che aveva ridotto lo svantaggio dei suoi a un solo misero punto. Utah aveva poi avuto la sua brava chance per ampliare il proprio vantaggio, ma l’aveva sprecata perché il suo ultimo tiro non avrebbe mai potuto infilarsi a canestro. Perché? Semplice: non sarebbe mai partito. I Jazz avevano servito in post basso, col più classico degli stockton-to-malone, il Postino, che si era attestato sulla sinistra del fronte offensivo. Ma Jordan, che marcava Jeff Hornacek mentre su Malone c’era come al solito Rodman, intuiva che l’imminente taglio (da sinistra verso destra) del Ragioniere non era mirato a ricevere palla sul lato debole per poi effettuare la conclusione, ma solo a depistarlo per aprire lo spazio al poderoso uno-contro-uno di The Mailman sulla linea di fondo. Michael, però, lucidissimo, non solo avrebbe mangiato la foglia, ma avrebbe addentato l’intero albero, radici comprese: MJ finse di seguire il movimento ingannatore di Hornacek, poi fece dietrofront e rubò palla al povero Karl sbucando dal lato cieco, dove il povero Malone, appunto, non avrebbe mai potuto vederlo. Strappando la palla (carambolata a terra per un momento ma subito recuperata da Mike) dalle mani del numero 32 di Utah, Jordan, con soli 18”.5 da giocare, aveva regalato ai suoi un possesso palla vitale. Ora i Bulls non potevano fallire. Anzi non poteva fallire lui, perché Michael, quella palla, non l’avrebbe passata a nessuno al mondo. E questo nonostante ai lati avesse avuto due frombolieri del calibro di Tony Kukoc (a sinistra) e Steve Kerr, l’eroe dell’anno prima (a destra). 

Ma il 1998 non era il 1997 per il semplice fatto che non ci sarebbe stato un 1999: il Grande Artista salutava il Palcoscenico, e l’Ultima recita doveva essere la sua. “Fino a quel punto avevamo sempre cercato di raddoppiare su Karl Malone” avrebbe poi raccontato di quello straordinario recupero Jordan. “Hornacek stava provando, credo, a chiamare un blocco per lui ma non gli ha mai aperto il varco e questo mi ha dato l’opportunità di tornare indietro. Karl non mi ha neanche visto arrivare e sono riuscito a portargli via la palla”.

In una situazione come quella, il buon senso ti direbbe di chiedere un time-out per chiamare lo schema finale, ma che te ne fai del buon senso quando hai Michael Jordan in squadra? Gli dai la palla, e tutti a casa. Altro che buon senso!

“Quando ho preso palla ho alzato lo sguardo e ho visto che mancavano 18.5 secondi dalla fine,” ha dichiarato il protagonista dopo la gara “e avevo la sensazione che non potessimo chiamare time-out perché avrebbe dato alla difesa l’opportunità di schierarsi. Era una tipica situazione da vincere o morire.

Nell’attimo in cui ho conquistato quella palla, il mio atteggiamento mentale era estremamente positivo. Il pubblico era ammutolito. Il momento incominciava a diventare il mio momento. Ecco dove viene fuori la parte degli insegnamenti del Buddismo Zen. Una volta che entri in uno di quei momenti, hai la consapevolezza di trovartici dentro. Le cose incominciano ad evolversi lentamente, tu cominci ad avere una perfetta visione del campo, incominci a leggere cosa sta cercando di fare la difesa. Ed io riuscivo a “vedere” quel momento. Qualora avessi intravisto un’opportunità, ne avrei tratto vantaggio.

Ho lasciato scorrere il tempo per guadagnare quella porzione di campo verso destra dove volevo arrivare. Stockton stava sul lato destro accanto a Steve Kerr e non poteva rischiare perché Steve li aveva già ammazzati [l’anno prima]”.

Appena si fosse creato lo spazio sufficiente, Arma Letale avrebbe colpito. Mentre Jordan incominciava il suo movimento verso il canestro, Russell si spostava verso di lui ma commetteva un errore capitale tentando di difendere con le mani e non con i piedi. Michael aveva protetto la palla e Russell, nel goffo quanto disperato tentativo di recuperare, si era sbilanciato. Ciao ciao, Bryon.

Per Jordan era lo zenit di una carriera di zenit. Aveva chiuso la sua avventura nella NBA con una prestazione da paura, e che difficilmente le statistiche potranno mai descrivere: 45 punti in 44’, 15/35 al tiro con 3/7 dall’arco (curiosamente la percentuale, sia oltre sia dietro la linea dei tre punti, fu la stessa: 42.9%), 12/15 ai liberi, un solo rimbalzo (difensivo), un assist, 4 palle rubate (compreso il “miracolo” ai danni di Malone), una palla persa, un solo fallo e nessuna stoppata. The End.

Raccontare quegli ultimi 127 secondi di partita può sembrare un film dell’orrore o una splendida storia d’amore (per il basket), dipende dal tifo. In poco più di due minuti, gli ultimi due minuti, e la precisazione non è inutile, Jordan ha segnato gli otto punti conclusivi della sua squadra e ha sottratto all’ala dei Jazz il pallone che avrebbe potuto significare il tiro della loro vittoria. Michael aveva chiuso l’incontro a quota 45, la ventitreesima volta che segnava 45 o più punti nei playoff, e la serie alla media di 33.5 punti, 4 rimbalzi e 2 assist a partita. 

Per tutte e 21 le gare dei playoff (con Chicago a 15-6), ha avuto 32.4 ppg. Per l’undicesima volta nelle sue 13 stagioni di playoff, la sua media nella postseason aveva addirittura superato quella di stagione regolare.

Quella che segue è la cronistoria di due minuti di leggenda. L’ultima di una carrellata infinita.
2’07” – Jordan segna i due tiri liberi, Utah conduce 83-81.
1’30” – Jordan sbaglia la conclusione dai 4-5 metri.
1’08” – Jordan prende il rimbalzo su un errore di Utah.
59.2” – Jordan realizza i due liberi, il punteggio è di parità: 83-83.
49.1” – Stockton infila la tripla che porta avanti i Jazz: 86-83.
37.1” – Jordan segna in sottomano. Utah ancora davanti: 86-85.
18.9” – Jordan ruba palla a Malone.
6.6” – Jordan, unico Bull a toccare palla da quando essa è stata rimessa in gioco, sale in attacco si arresta e fa partire il jumper vincente.
2”.9 – Stockton tenta il tiro della disperazione, ma la palla finisce sul ferro. 
Game Over, 87-86 Bulls.

“Guardiamo in faccia la realtà – è la spietata, ma onesta analisi di Kerr – siamo saltati in groppa a Michael. È stato lui a sollevarci di peso. Era la sua partita, stasera. Quel ragazzo è stato assurdo. È talmente forte che fa spavento”.

Secondo Pippen: “Adesso è probabilmente il momento in cui lo vediamo al meglio del suo gioco perché ha raggiunto un livello tale di consapevolezza da eguagliare le sue doti fisiche. Michael potrà avere forse altri cinque anni di carriera davanti, prima che potremo accorgerci del suo declino. Ha una tale conoscenza del gioco… E ci sono anche altre cose che fanno parte del suo bagaglio che lui sa di tenere in attesa e di poter sempre tirare fuori”.

“Michael è uno che viene sempre fuori quando conta” è il pensiero di Phil Jackson. “È un vincente e lo ha dimostrato migliaia di volte. Quante volte ancora dovrà dimostrarci che lui è un eroe della vita reale?”. Ehi, Coach, andiamoci piano: d’accordo, Mike è un super, ma metta almeno un paio di sane virgolette su quella parolina così pesante. “Non pensavo potesse superare se stesso, quella prestazione che aveva fatto l’anno scorso, nella quinta partita, sempre qui nello Utah, quando veniva da un disturbo intestinale e ci ha condotti a una vittoria decisiva, eppure stasera l’ha superata. Io credo che quella di oggi sia stata la miglior prestazione che io abbia mai visto in una situazione decisiva. Neanche un romanziere sarebbe riuscito a ideare una trama così drammatica come questa”.

Ma se qualche eretico potrebbe accusare Phil di partigianeria nei confronti di “His Airness” per via del profondo legame che li unisce, sentite un po’ che cosa ne pensa uno che Michael proprio non l’ha mai amato (anzi): Isiah Thomas. “Michael Jordan ha portato il basket a vette che non abbiamo mai nemmeno pensato potesse raggiungere” ha detto l’ex star dei Detroit Pistons che, dopo la poco brillante carriera prima come GM e poi come presidente (non proprietario) dei Toronto Raptors, si era riciclato come commentatore televisivo seguendo le Finali del 1998 per NBC Sports.

“Quando c’erano Magic e Bird ad affrontarsi [nelle Finali] negli anni ‘80, eravamo convinti di essere sul pinnacolo del successo. (É) Ma Jordan ha portato questo sport a livello internazionale e l’ha reso più grande di quanto ciascuno di noi avesse mai sognato”. Thomas aveva ragione.

Così come ce l’hanno i depositari degli illustri pareri che seguono: difficile dissociarsi.

“Non vorresti mai contrariarlo o deluderlo, anche come compagno, a lui non serve alcuna motivazione extra” ha detto Steve Kerr che, pure, con Jordan, durante un allenamento, aveva avuto un diverbio nel quale era volata anche qualche “castagna” (una di queste in un occhio del “povero” Steve). “Ma a causa della sua presenza tutti noi siamo convinti di vincere ogni partita. Non potrebbe in alcun modo essere così senza di lui”.

Il suo ex coach Doug Collins, deferente, si inchina: “Il suo talento è sempre stato incredibile, ma quello che più di ogni altra cosa mi colpisce di lui è la sua volontà di competizione e la maniera in cui si allena giorno dopo giorno”.

Un parere illuminante sulla maledizione di incontrare “Air” lungo il proprio cammino sportivo viene anche da Jerry Sloan, che per due anni consecutivi si è visto sbattere in faccia dalla cruda realtà dell’esistenza di Jordan la porta del sogno di vincere il campionato. Fatto a fette più o meno sottili dalla critica, che evidentemente non accetta che ci sia qualcuno che ti è superiore e che per questo ti batte, a Sloan è stata addebitata la responsabilità di non aver messo due, tre o più uomini su Michael per cercare di portargli via il pallone in quelle ultime due fatali azioni.

“Potevamo averlo raddoppiato,” ha ammesso il coach dei Jazz “Sapevamo che sul filo di lana avrebbe tirato bene, ma volevamo costringerlo ad andare nel mezzo. Sono quelle le cose che puoi fare. é stata la nostra filosofia per 13 anni, da quando siamo qui, e dobbiamo continuare a provare a fare in modo che quelle cose funzionino”. Poi Sloan, una volta capito che perseverare in quella strada avrebbe automaticamente significato infilarsi nel buio tunnel della sconfitta eterna, sarebbe passato al contrattacco rivolgendosi ai soliti, forse “incompetenti”, certamente poco sportivi media. “Dovete dargli i meriti che gli spettano. Tutte le vostre filosofie potete anche buttarle dalla finestra. Puoi raddoppiarlo, spingerlo nel mezzo, ma i grandi giocatori trovano sempre il modo di fare quel tipo di giocate. E lui è il più grande giocatore che questo sport abbia mai avuto”.

Michael aveva conquistato il suo personalissimo grande slam: MVP del campionato, dell’All-Star Game e delle Finali. Quale miglior modo di concludere una carriera assolutamente devastante (per gli avversari)?

Quel sesto Anello era stato il canto del cigno di una squadra irripetibile che ha reso immortale la franchigia dell’Illinois. Era stato l’Ultimo Ballo, è vero, ma che musica, ragazzi.
CHRISTIAN GIORDANO
Michael Air Jordan

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