CAPITOLO 32 - Questione di Philing


"Il sogno di ogni allenatore. Il gioco di gambe, i passaggi, il saper leggere le difese sono incredibili; e sa accettare le critiche. Se gli dici ‘pessimo tiro’, ti risponde ‘Sì’, non si mette a discutere. E la volta dopo ti dirà: ‘Ho sbagliato. Forse quel tiro non avrei dovuto prendermelo..."
- Phil Jackson, head coach Chicago Bulls (1989-1998)

"Phil è speciale. E anche Jerry Krause lo sa."
- Michael Jordan

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air" Jordan
© Rainbow Sports Books

Se al college, per il giovane Michael, coach Smith era stato una specie di padre putativo da amare con affetto quasi figliale, poiché lo aveva fatto crescere nel complicato passaggio dalla piccola realtà locale di un liceo di campagna a una tra le primissime ribalte nazionali del basket universitario, per l’adulto Jordan, Phil sarebbe invece diventato una sorta di Grande Fratello. Che è un qualcosa di più e di diverso da un fratello grande. 

“Io considero Phil Jackson come il Dean Smith del gioco professionistico”, taglia corto Jordan, mai così convinto e convincente. “Coach Smith si prende veramente cura dei suoi giocatori alla University of North Carolina. Allo stesso modo fa Phil con i Bulls. Anche lui ha le sue idiosincrasie ed impiega quella sua guerra psicologica per farti meditare sugli errori commessi o per comprendere appieno il concetto di squadra. Ma io questo lo rispetto, perché lui è capace di farlo ad un livello professionale in cui deve fondere insieme tanti e tali ego così che tutti abbiano lo stesso obiettivo di squadra. Ha maturato un talento del tutto speciale in questo. E coach Smith fa altrettanto”. 

Solo che Smith lavora con degli universitari che hanno un sogno nel cuore, mentre Jackson con degli uomini fatti che hanno un conto in banca degno del bilancio di una multinazionale. Non è esattamente la stessa cosa e le difficoltà non sono maggiori o minori, sono diverse. 

“Possiamo parlare di tutto ciò su cui potremmo essere in disaccordo”, ha dichiarato Michael nel 1995 sul suo franco rapporto con Jackson, aggiungendo che “coach Smith era un po’ diverso perché a quei tempi io ero sotto la sua ala, provavo molta soggezione nei suoi confronti. Qualsiasi cosa diceva, l’accettavo immediatamente. Per quanto riguarda Phil, lui ti dà un po’ più di spazio per essere te stesso, per farti sentire indipendente e per farti prendere decisioni che tu ritieni siano nel miglior interesse della squadra. Molti allenatori non lo farebbero mai”. 

Nel tentativo di controllare tutto, alcuni alti strateghi della panca non si accorgono che così facendo rischiano di “controllare” anche le sconfitte. 


I Phil good 

Jordan era reduce dalla lotta (di nervi) continua che aveva contraddistinto ogni sfaccettatura del suo rapporto con il “duro” (nel senso della feroce intensità profusa, non dei metodi) Doug Collins, quindi per lui, in vista della stagione 1989-90, ritrovarsi con Jackson capoallenatore dovette essere un’esperienza rigenerante, come rituffarsi in un’oasi di pace e tranquillità dopo aver attraversato un deserto di stress e di tensioni. 

Collins era uno che metteva tutto se stesso nel lavoro, ma proprio questa sua incapacità di saper allentare le briglie quando era ora, alla fine, gli era stata fatale. 

“Una delle maggiori differenze tra Phil Jackson e Doug Collins - ha raccontato Michael - era l’atmosfera durante l’huddle e in panchina, nelle partite tirate. Con Doug, non potevi non avvertire la tensione, mentre Phil era sempre equilibrato. Lui non aveva paura di mostrarti come si sentiva esattamente. Come giocatore sei per forza legato all’atmosfera che il coach ha creato. Con Phil, era come se fossimo tutti in armonia l’uno con l’altro nel bel mezzo della mischia. Eravamo a nostro agio non solo tra di noi ma anche nelle varie situazioni, a prescindere da quanto fosse difficile il momento. Eravamo in grado di trovare la calma in mezzo alla bolgia e questo ci permetteva di capire quelle che erano le nostre opzioni, di azzeccare le soluzioni e di chiarirci abbastanza le idee per metterle in pratica. Ecco che cosa ha portato Phil Jackson ai Chicago Bulls ed ecco che cos’era a tenerci tutti legati. Questa è una delle ragioni per cui abbiamo vinto tanto e così a lungo. Ed ecco perché poi, alla fine, siamo riusciti a strappare via il cuore a Detroit. Quella presenza di spirito, quella serenità interiore, quell’unione tra la squadra e il coach avevano più valore di quanto si potesse immaginare. Ma Phil era così. Tutto questo era al centro del suo modo di essere, non era una cosa artefatta. La filosofia del buddismo zen, l’approccio “a metà strada” alla vita: Phil viveva quella filosofia ogni giorno e ne aveva introdotto in squadra alcuni elementi. Ci insegnava a trovare la pace interiore dentro di noi e ad accettare le sfide, qualsiasi esse fossero, e in qualunque momento esse si presentassero. Non era solo uno scambio di conoscenze culturali, noi riuscivamo a constatare la messa in pratica di quei concetti tutti i giorni. Phil viveva secondo quei principi. E niente era cambiato con tutti quei successi. Anche se avevamo vinto dei campionati, Phil era sempre rimasto lo stesso, nei confronti della squadra”. 

Non vorremmo che dal quadretto dipinto da Michael uscisse un’immagine troppo cloroformizzata di Jackson. 

Lungi dall’essere uno di quei tecnici “addormentati”, Phil Jackson, casomai, è il contrario: nel profondo, dietro a quegli atteggiamenti sempre misurati e controllati, si nasconde uno spirito guerriero, molto ben celato ma che pure gli si legge negli occhi. La verità è che nel corso della sua carriera il buon Phil ne aveva viste così tante da ritenere di dover adottare un approccio diverso con i giocatori e nei confronti del gioco: un atteggiamento più morbido ma non certo supino. 

E che Jackson non fosse una mammoletta lo si evince dalla accurata descrizione fatta da MJ in occasione dei grossi contrasti, soprattutto tra Phil e il GM Krause, che hanno accompagnato a lungo la sua permanenza a Chicago. “Avremmo forse potuto vincere di più se Phil fosse stato più aziendalista”, ha detto Michael nel 1998 “ma non credo che la nostra alchimia sarebbe stata altrettanto buona. Non avremmo avvertito gli stessi obblighi. Non sono sicuro che alcuni degli altri giocatori avrebbero coperto quel ‘miglio in più’. Phil stava con noi tutti i giorni e capiva quanto i nostri obiettivi fossero un tutt’uno. Ha sempre capito, dal primo giorno all’ultimo, quello che ci succedeva individualmente e collettivamente. Era l’unico a saperlo. Nessun altro dell’organizzazione aveva quel grado di penetrazione nello spogliatoio. Come avrebbero potuto? 

Phil conosceva le nostre forze, conosceva le nostre debolezze. In teoria, se avevi una lite con l’allenatore, il giocatore o l’agente del giocatore potevano andare dal management e lamentarsi. Ma noi non avevamo contrasti con Phil perché sapevamo che il suo obiettivo primario era quello di mettere insieme la miglior squadra possibile. Tutti noi avevamo lo stesso obiettivo e Phil conosceva meglio di chiunque altro i singoli “pezzi”. 

Ragazzi come Jud Buechler dipendevano da Jerry Krause per un contratto, quindi dovevano rimanere nelle sue grazie. Ma dipendevano anche da me, da Scottie e da Phil. Io avevo voce in capitolo e potevo scegliere, allora qualche giocatore cercava di entrare nelle mie grazie quando arrivava il momento di trattare con la dirigenza. Io non ho mai usato mezzi termini con Jerry. Gli ho sempre detto in faccia quello che pensavo veramente. 

Come giocatori, tiravamo una linea tra la squadra e il resto dell’organizzazione. Sapevamo che Phil voleva esattamente quello che volevamo noi. E ci regolavamo di conseguenza. Io credo che la differenza fra il nostro rispetto per Phil e la generale mancanza di rispetto per Krause sia ciò che ha dilaniato i Chicago Bulls. Krause ha mentito su piccolezze sulle quali avrebbero mentito i miei figli. E a che scopo? Per far vedere chi comanda? Avevamo una delle squadre più vincenti nella storia degli sport di squadra e questo qui si presenta per perdersi in bassi giochetti con i suoi stessi giocatori? Io non ho mai capito tutto questo né mai lo capirò. 

I rapporti tra Phil e Krause si sono incrinati prima che iniziasse la stagione 1997-98. Phil disse a Jerry: “Piantala di sentirti come se fosse sempre tutto merito tuo. Io sono una delle ragioni per cui questa squadra vince, tanto quanto lo sei tu”. Ma quella strigliata peggiorò le cose. Krause sarà anche stato di un’altra epoca, ma io credo che avesse compreso la profondità dell’impatto di Phil nella squadra. Lui sapeva perché Phil piaceva ai giocatori e sapeva che noi ci saremmo fatti spaccare il c. per Phil. Ma Krause voleva essere lui la ragione per la quale giocavamo duro. Voleva essere lui quello che i giocatori rispettavano e col quale parlavano. Quando Phil firmò il suo ultimo contratto, Krause gli disse: “Non m’interessa se finisci 82-0. Tu la prossima stagione non torni”. 

Ecco perché Phil già a inizio stagione sapeva che era finita. 

Tutto quel gran parlare di riprenderlo per un altro anno e di tenere insieme la squadra dopo il nostro sesto campionato erano solo pubbliche relazioni. Il management sapeva che Phil non sarebbe mai tornato e Phil sapeva che il management non lo avrebbe mai rivoluto. Come si fa? Come si fa a fare affidamento su uno come Jerry Krause? Uno che non ti direbbe neanche se fuori c’è il sole. Inoltre, i giocatori non avevano un rapporto quotidiano con lui. 

Jerry provava del risentimento nei confronti di Phil perché il coach e i giocatori sentivano un profondo rispetto reciproco. Ma tutti noi ci eravamo guadagnati quel rispetto l’uno con l’altro. Sapevamo che Phil era uno “vero” perché potevamo vederlo ogni giorno. In nessun modo la dirigenza avrebbe potuto forzarlo a diventare qualcun altro. Lui aveva un legame diverso. Comprendeva le esigenze del management, ma credeva anche nel trattare i giocatori come individui all’interno del gruppo. In un certo qual senso, quello era il dono che ci faceva. Phil era speciale. E anche Jerry Krause lo sa”. Lo sapeva eccome, altrimenti non si sarebbe industriato tanto per mandarlo via. 


Phil dei fiori 

Nato nel ‘45 nel Montana e allevato in una rigorosa e severa famiglia di rigide tradizioni religiose, il Philip D. Jackson giocatore fu un buon back up center di 2.03 m, il centro di riserva dei grandi Knicks che dominarono la scena NBA nei primi anni Settanta . Dopo aver chiuso la carriera nei Nets, dove iniziò subito il suo lavoro in panca come assistente, allenò cinque anni nella CBA, quattro estati trascorse a Portorico (‘84-87) e, proprio quando era sul punto di mollare tutto, mentre stava decidendo di riprendere gli sudi in legge, nel 1987 fu chiamato da Jerry Krause, GM dei Bulls, per ricoprire uno dei ruoli di assistant coach di Collins. Dopo due stagioni diventa capoallenatore e, da quel momento in poi, dopo un’iniziale diffidenza con il vero “padrone” della franchigia, Michael Jordan, tra i due incomincerà uno dei più sinceri, e produttivi, sodalizi allenatore-star nella storia del basket professionistico. 

Swift Eagle, Aquila Veloce, secondo il nome “indiano” affibbiatogli nel 1973 dall’allora compagno di squadra Bill Bradley, è un allenatore che stravolge ogni stereotipo sui coach NBA. Certo anche lui passa ore di sedute video a esaminare nastri della propria e delle altre squadre, ma non è ossessionato da schemi, preparazione della gara e tutto il resto. é un uomo sensibile, che ha una testa per pensare anche al di là del basket, e questo senza che ne sia minimamente intaccata la sua straordinaria voglia di vincere. Altrimenti non potrebbe aver legato con Michael. Ex figlio dei fiori, anti-interventista ai tempi del Vietnam, convinto e ribelle negli anni della contestazione, non ha mai negato di aver fatto uso anche di sostanze stupefacenti (marijuana) che all’epoca erano quasi un segno distintivo della cultura giovanile, soprattutto tra gli universitari. Studioso e discepolo della cultura dei Native Americans, ne apprezza in particolare la profondissima spiritualità. Al Berto Center, la struttura dove la squadra si allena, c’è (o forse è meglio dire c’era) una saletta che è un po’ il sacrario di tutta la sua filosofia; e quando è lui a raccontarsi, come nella sua bella autobiografia, Sacred Hoops, sembra quasi di sentir parlare uno sciamano, più che un coach stramiliardario della pallacanestro professionistica. Per capirci, siamo distanti anni-luce non diciamo tanto da un grande motivatore alla Pat Riley, il che sarebbe lapalissiano, ma anche soltanto da un allenatore “normale” alla Jeff Van Gundy, l’attuale coach di New York, giusto per fare un nome di un collega che, Jackson, proprio non riesce a sopportarlo. Fra i due c’è ruggine a tal punto da far arrivare il capoallenatore dei Knicks a dichiarare pubblicamente che dietro alle “magie” e alla filosofia di Jackson ci sia un segreto mica poi tanto tale: un segreto che gioca indossando il numero 23 e che si chiama Michael Jordan. Può darsi che abbia ragione lui, ma la controprova non c’è e, in ogni caso, pur ammettendo l’ovvietà che MJ volesse e potesse dire la sua anche voce anche sulle decisioni tattiche, chi se la sente di sostenere che non fosse giusto? Noi no. 

“Lui [Jackson, N.d.A.] mi dà una certa responsabilità riguardo alle decisioni sulla squadra”, ha dichiarato Michael, “Mi lascia usare il mio metro di giudizio. Se crede di avere il dovere di correggermi o di dirmi qualcosa che è nel superiore interesse della squadra, io lo accetto e lui lo sa questo. Sono convinto che abbiamo un buonissimo rapporto. Tante volte si vedono gli scontri tra allenatori e star. Ma io rispetto tutte le critiche che potrebbe rivolgermi. Non le scredito né le sfido. So ancora discernere che è lui l’allenatore ed io il giocatore”. 

Tra Jordan e Jackson, si è capito, la stima è immensa, ma, talvolta, soprattutto agli inizi, lo stesso Jordan aveva ironizzato non poco su certe “strane” abitudini del suo coach: le meditazioni zen, le sedute video che mostravano spezzoni di partite alternati nel montaggio a scene di film (in genere immagini di guerra, o, comunque, situazioni con significati mirati, il tutto allo scopo di tenere desta l’attenzione del gruppo), o il rituale, che si ripeteva ogni anno, di regalare “certi” libri ai propri giocatori per far passare un “certo” messaggio. “Lontano dal basket, non lo conosco così bene”, ha scritto Michael in una delle sue ormai innumerevoli autobiografie, I’m Back! More Rare Air, uscita nel 1995. “Credo che abbai dei grandi valori in termini di come accostarsi alla vita e di cosa ottenere da essa relativamente alle proprie necessità e ai propri desideri. Standogli accanto, c’è solo da imparare a come si diventa un cestista migliore così come una persona migliore. Si riesce ad avvertire la sua buona guida paterna che ti fa crescere in termini di cosa è giusto e cosa è sbagliato, essere se stessi e attenersi fermamente ai propri principi”. 

Ma Michael non era sempre stato convintissimo delle rivoluzionarie teorie jacksoniane sulla psicologia “da spogliatoio”, tanto che più di una volta non aveva nascosto il suo scetticismo. Poi, improvvisamente, sulla via del Berto Center, la conversione. “Io non pratico lo zen e non mi siedo in una stanza a meditare”, sono parole di Jordan, “ma Phil offre a ciascuno di noi un qualcosa che potessimo inglobare nelle nostre vite. Lui non c’impone nulla con la forza, ci dà solo delle opzioni. Ci espone le sue idee in modo intelligente. C’è qualcosa di saggio nel suo approccio. Lui sembra sempre rivolgere un pensiero o un concetto all’intera squadra, ma di solito il messaggio è rivolto ad un singolo giocatore. Se sei tu quel giocatore, cogli il messaggio anche se questo è stato indirizzato a tutto il gruppo. Quella è una delle doti di Phil, la sua capacità di parlarci individualmente all’interno del collettivo. È questo che ci pone tutti sullo stesso piano. In uno dei primi allenamenti mi resi conto che Phil stava parlando di cose che io avevo fatto in modo naturale per tutta la mia vita. Per esempio, Phil assunse uno psicologo dello sport per parlare di come si raggiunge la zone. Be’, io c’ero già passato perciò afferravo il concetto. Comprendevo la successione dei momenti e come la partita incomincia a fluire verso di te. Solo che io non capivo come portarmi nella ‘zone’ in modo coerente alla situazione. Lui ci forniva metodi ed esercizi specifici per portarci nella ‘zone’ in continuazione. Per raggiungere quel livello di presa di coscienza e di comprensione ci voleva veramente un livello prossimo alla perfezione. Non sono ancora sicuro che riuscissimo a comprendere come pensare in maniera tale da consentire a un giocatore di trascorrere gli interi 48 minuti in the zone. Io facevo affidamento sulle situazioni di gioco per trovare quel ritmo, ma tutti quei concetti mi davano qualcosa a cui pensare, per sfidare me stesso mentalmente. Certe volte era dura trovare una vera sfida sul piano fisico, specialmente quando sono ritornato dal baseball. Io mi sono sempre sentito in sintonia con il mio corpo. Quando incominciammo a meditare durante lo stretching prima dell’allenamento, pensai che fosse da pazzi. Io chiudevo un occhio e tenevo l’altro aperto per vedere se qualche altro scemo, oltre a me, lo faceva. Alla fine diventai più disponibile perché vedevo che tutti si sforzavano. Aprii la mia mente alla meditazione e agli insegnamenti di Phil. La mia mente vaga ancora un po’, ma Phil ci ha insegnato a concentrarci sulla respirazione per riportare la mente al centro. Ci sono delle volte in cui riesco a fondere quei pensieri nella mia vita quotidiana, ma di certo non mi sono ancora impadronito completamente di quei concetti”. 

Ma oltre a “quei concetti”, come li chiama Michael, Jackson dovette faticare per fargli ingoiare anche un altro brutto rospo, quello dell’Attacco a Triangolo. Phil era consapevole delle difficoltà insite nell’operazione di convincere Jordan a dividere tutto il peso offensivo con i propri compagni di squadra, ma non si arrese e, alla fine, l’ebbe vinta. Dai e dai, anche quella testa dura di MJ si sarebbe convinto e i risultati sarebbero arrivati. Ma non sarebbe stato facile.
CHRISTIAN GIORDANO
Michael Air Jordan

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