CAPITOLO 36 - Role model? No, grazie


"Michael Jordan non è un role model appropriato per la gioventù nera". 
– Jim Brown 

“Non voglio prendermi in giro, io non sono Muhammad Ali e neppure Joe Louis o Jackie Robinson. Loro si sono presi sulle spalle il peso di rappresentare una razza, io non ho mai dovuto farlo”. 
– Michael Jordan 

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air" Jordan
© Rainbow Sports Books

I role model, i modelli di comportamento, come li chiamano in America, costituiti dai campioni dello sport sono oggi sempre più importanti o, come sostengono alcuni, addirittura potenzialmente devastanti nella formazione dei giovani. Il perché, fin troppo ovvio, di queste preoccupazioni, è che tali modelli da imitare vanno sempre più sostituendosi a quelle istituzioni che, per definizione, dovrebbero assicurare loro la formazione e seguirla. A non preoccuparsi troppo della situazione, anzi, a cavalcare allegramente l’onda del fenomeno, ci sono alcune tra le maggiori aziende, non necessariamente legate al mondo sportivo, che attualmente stanno dirigendo le loro politiche commerciali verso una figura relativamente nuova, rispetto agli ultimi tempi, di testimonial sportivi: le nuove strategie di marketing cercano di imporre che gli atleti debbano essere, preferibilmente, degli esempi positivi anche, se non soprattutto, fuori del campo di gioco o di gara. La nostra riflessione vuol solo essere un modo per soffermarsi su una realtà che, di fatto, è presente e, più o meno supinamente, accettata da tutti, ma che in molti continuano a sottovalutare o addirittura, chissà perché e fino a che punto inconsciamente, a non considerare affatto. 

Inutile nascondersi dietro a un dito: da ogni frase pronunciata, da ogni gesto compiuto, da qualsiasi atteggiamento tenuto da Michael Jordan, un mito vivente per milioni di persone, in prevalenza ragazzi (almeno speriamo, ma non ne siamo del tutto convinti), può scaturire un impatto di portata mondiale e le conseguenze, di tale impatto, sono del tutto imprevedibili. 

Fino a che punto, ci interroghiamo riferendoci soprattutto ai più giovani, saremo in grado di riconoscere ciò che è “finzione”, pubblicità, montature e campagne chissà quanto interessate, realtà massmediatica, da ciò che è realtà “vera”? 

Un tipico atteggiamento di reazione che, al primo contatto con tutto ciò che proviene di là dall’Atlantico, abbiamo noi europei, dopo il primo, irrefrenabile impulso di attrazione, è quello di chi si concede un sorrisino quasi di scherno, per via della tanto proverbiale quanto presunta naïveté tipicamente americana. Sarà per via di quei millenni di storia che ci portiamo appresso e che, inevitabilmente, ci differenziano, ma, ammettiamolo, talvolta, nei loro confronti, ci sentiamo come se dalle nostre parti ne avessimo viste un po’ di più di quante non ne abbiano passate nel Paese dello Zio Sam. 

In buona probabilità fu anche per questa sorta di grande ovatta culturale che, una volta rimbalzato dalle nostre parti, fece un po’ meno rumore uno spot televisivo cult di qualche anno fa, quello della nota bevanda, un famoso reintegratore salino per gli sportivi, che vedeva protagonista un Michael Jordan sorridente che strizzava l’occhio ai ragazzini (ma forse non solo a loro) rimbambendoli col jingle di “be like Mike”. Il problema, però, esiste tuttora e va valutato senza eccedere in pessimismi cosmici né minimizzandolo. 

Nella nostra epoca, dominata dalla tirannia delle immagini e dell’immagine, sostenere che un grande atleta (figuriamoci il più grande) non influenzi in qualche modo le giovani generazioni appare, in tutta franchezza, semplicemente ridicolo. Una cosa talmente fuori del mondo da non essere neppure presa in considerazione. Al contempo, l’unica generalizzazione da fare è che, come per tutte le vicende umane, non ci sono generalizzazioni che tengano. 

Uno degli aspetti della discussione che, in ogni caso, ci sembra meriti un approfondimento riguarda anche l’eventuale consapevolezza, da parte degli atleti, di ciò che essi possono rappresentare nei confronti di chi li guarda, dal vivo (sugli spalti), via etere (in televisione), o li vede (come punti di riferimento). 

In altre parole, ci chiediamo se un Michael Jordan o un (sic) Dennis Rodman, tanto per prendere due tipini che difficilmente qualcuno scambierebbe come gemelli, vogliano (o sappiano) davvero portare sulle spalle quel peso di ciò che essi possono o potrebbero rappresentare, nel bene e nel male, per i ragazzi. E qui ci limitiamo a parlare solo dei ragazzi perché è auspicabile che quelli che sono un po’ più avanti negli anni abbiano ormai acquisito quegli strumenti (verrebbe da dire anticorpi) culturali ed educativi che li rendano capaci di saper discernere da soli. Oh no? 

Tutti sappiamo che oggi, per promuovere meglio i loro prodotti, le grandi aziende vanno sempre più alla ricerca di atleti che siano un esempio anche al di fuori dell’ambito agonistico, ma davvero i vari Jordan (o chi per lui) possono educare i giovani? Cerchiamo di capirci qualcosa senza che quel qualcosa ci sia imposto dalle multinazionali degli articoli sportivi. 


Guadagno, ergo sum. A posto 

In tale categoria, quella del guadagno quindi sono a posto, sarebbe fin troppo facile mettere, tanto per dirne uno, proprio il sopra citato numero 23 dei Chicago Bulls, l’atleta più pagato di ogni tempo e luogo. Invece, se vi appartiene, egli probabilmente vi rientra per l’incredibile quantità di quattrini che guadagna e che, in altre mani, avrebbe presumibilmente potuto diventare davvero fuorviante. Ma per tutto il resto, il modello che Jordan rappresenta, credeteci, è molto più positivo (o, se preferite, non negativo) di quanto certi detrattori moralisti (o soltanto invidiosi) vorrebbero far credere. 

I suoi numeri, con e senza virgolette, hanno sempre fatto impressione, ma quelle vagonate di milioni di dollari che ha incassato, soprattutto negli ultimi anni di carriera_, Jordan le è sempre valse, ammesso e NON concesso che un individuo possa valere quei soldi. Anzi, per dirla tutta, ai Bulls è andata di gran lusso per averlo sottopagato per almeno dieci anni buoni. È una questione di mercati, soprattutto televisivi: quelli americani riguardano un intero continente (e non proprio piccolino) mentre al confronto quello italiano, tanto per fare un esempio che ci riguardi da vicino, ha il fatturato della bancarella di frutta giù all’angolo. 

Però, tornando a noi, non siamo del tutto convinti di mettere Michael Jordan in questo girone dei cattivi, perché, oltre ad essere un giocatore straordinario, e questo è superfluo dirlo, è uno che non ha mai smesso di migliorarsi, lavorando duro su ogni aspetto del gioco e della personalità fino a diventare il migliore di tutti. Il migliore di oggi, di ieri e, chissà, forse anche di domani. Ma questo non deve portare a pericolose commistioni tra le prodezze regalate sul parquet dal Jordan giocatore e i comportamenti tenuti dal Michael persona. Abbiamo già visto, quando furono pubblicati i due libri-scandalo che lo riguardavano, quello di Sam Smith, The Jordan Rules, e quello scritto a quattro (nobili) mani da tale Richard Esquinas e Dave Distel, Michael and Me: Our Gambling Addiction …My Cry for Help!, che il Nostro ne uscì prima come una sorta di despota che maltrattava i compagni, rei di essergli troppo (sic) inferiori in allenamento o di non aver sufficiente voglia di vincere; e poi come un miliardario che, non sapendo a cosa attaccarsi pur di competere, spendeva e spandeva cifre folli (sapete, non potendo permettersele...) scommettendo sulle singole buche giocando a golf, il suo passatempo preferito, o quant’altro gli capitava a tiro. E allora, vi chiederete, il messaggio positivo? “Chi vorrà più essere come Mike, adesso?”, strillavano i giornali, sbattendo il solito mostro in prima pagina, in quella tanto tribolata stagione 1992-93. 

Nella stanza dei bottoni delle grandi corporation, fino all’avvento di Michael alquanto scettiche sull’impatto che sarebbe mai riuscito a ottenere sul mercato un atleta nero di uno sport di squadra, l’ondata dell’effetto-Jordan cancellò ogni dubbio. Colossi come Coca-Cola e McDonald’s sembravano scapicollarsi nella corsa a voler ingaggiare Jordan come unico loro portavoce ufficiale. 

La portata dell’audience alla quale Michael sarebbe arrivato diventò semplicemente (passateci l'abusato termine) globale, anche se, in definitiva, il messaggio implicito che egli recava non era poi tanto diverso da quello portato da qualsiasi altra celebrità che si era messa a fare pubblicità: Comprate questo o quel prodotto e anche se non sarete mai come me, potrete almeno sentirvi più vicini a me, sembrava questo l’unico concetto che tutte le star dello sport fossero capaci di passare. Triste, forse, ma a quanto pare sicuramente efficace, perlomeno dal punto di vista delle aziende. Al di qua e al di là dell’Atlantico. 

Un Michael Jordan è bello e vincente: è fin troppo ovvio che per un giovane rappresenti un buon modello cui ispirarsi, ma noi la pensiamo come il suo ex allenatore di liceo, Fred Lynch, che all’inviato del Raleigh News & Observer, Bill Woodward, ha rilasciato la seguente appropriata dichiarazione. ÇI ragazzini che si presentano da noi oggi sanno che lui ha giocato qui [alla Laney High School] e hanno visto con i loro occhi quel che ha saputo fare nei professionisti. Ma noi, ai nostri giocatori, parliamo di tutte le cose che lui ha fatto per arrivare dove è arrivato. Non parliamo necessariamente di ciò che faceva in campo, quanto della sua etica lavorativa. “Non sarete mai in grado di fare le cose che fa lui, ma potrete avere la sua stessa etica lavorativa.”, diciamo loro. Se lavoreranno, allora noi non avremo di che lamentarci. 

La gente parla tanto di role model ma quante persone cresceranno fino a 1.96 m e avranno le sue mani, le sue doti? È troppo raro. Le altre cose che faceva, il modo in cui si accostava al gioco, è quello ciò di cui [i ragazzi] hanno bisogno e che si deve fare in modo che acquisiscano. 

All’inizio del suo anno da junior Michael era già l’atleta che lavorava più duro di chiunque altro avessi mai visto. Era sempre in palestra tutti i sabati e le domeniche, per giocare tutto il giorno. Potevano esserci stati altri ragazzi con quasi altrettanto talento come il suo, solo che loro non hanno mai voluto pagare il dazio nel modo in cui l’ha fatto luiÈ. Un vero saggio, questo Lynch, e proprio per questo rappresenta una scommessa certa: non sarà ascoltato. 


Leader si nasce, capopopolo si diventa? 

Michael Jordan, come forse il solo Muhammad Ali prima di lui, è divenuto uno dei volti più riconoscibili del pianeta fino a trascendere il mero contesto sportivo. Tra le due figure - pardon, icone -, però, salta subito agli occhi una differenza, e questa differenza è sostanziale. 

Michael Jordan, non ci vuole un sociologo per capirlo, ha sempre rappresentato solo se stesso. Ha dimostrato di poter segnare cinquanta punti a partita, se solo ne aveva voglia, ha guadagnato milioni e milioni di dollari all’anno perché è stato il più straordinario atleta del suo tempo, non soltanto del basket ma dello sport in generale, ma anche perché il suo immediato e disinvolto appeal non offendeva nessuno. Jordan ha ragioni da vendere quando dice di non volersi prendere in giro e di non voler prendere in giro nessuno, di non essere Muhammad Ali o Joe Louis o Jackie Robinson. Mike non si è mai sentito così rifiutato dal proprio Paese come era capitato a Cassius Clay, che una volta aveva perfino dovuto affrontare l’umiliazione del rifiuto, da parte di un ristoratore, di essere servito per via del colore della sua pelle. E Clay, ancora con quel nome, aveva appena vinto il titolo olimpico nella categoria dei pesi medio-massimi ai Giochi di Roma del 1960, quella stessa medaglia d’oro che in quell’occasione, disgustato per il trattamento ricevuto, avrebbe poi gettato con disprezzo nel fiume Ohio. Clay aveva difeso i colori di quegli stessi Stati Uniti che volevano obbligarlo ad una guerra, quella del Vietnam, nella quale lui non si sentiva coinvolto, perché, dichiarò pubblicamente, non aveva nulla contro i Vietcong. Loro non gli avevano fatto nulla di male, mentre a casa sua, nel suo Paese, lo stesso per il quale aveva gareggiato e vinto nelle Olimpiadi, non era neanche libero di andare a mangiare dove voleva. 

Mike non ha dovuto lottare per difendere le proprie posizioni, a causa delle sue convinzioni extra-sportive: non è stato privato a tavolino del titolo mondiale, legittimamente conquistato, per aver rifiutato di andare a combattere, come successe a Clay. Cassius Clay ha scelto di abbracciare la religione mussulmana, di abbandonare quello che aveva definito “il mio nome da schiavo” e di diventare obiettore di coscienza. Per il suo rifiuto di andare in Vietnam, fu anche arrestato per renitenza alla leva, e per quattro anni non poté combattere per l’ingiusta squalifica che gli era stata inflitta. 

Ali, al contrario di Jordan, non ha mai nascosto le proprie idee e ne ha sempre pagato sulla propria pelle il prezzo. “La perdita di Martin Luther King ha fatto soffrire molti, ma – anche se detesto dirlo – li ha aiutati ad ottenere di più” ha dichiarato Ali all’amico giornalista-scrittore Victor Bockris. “Prendi me. Io ho rinunciato al titolo [mondiale dei pesi massimi] e ai soldi per quattro anni, e adesso sono più grande che prima, e più stimato e rispettato e onorato. Capisci, bello?”. 


Nero per caso? 

Certo, oggi la situazione è molto (molto?) diversa da quando i citati Louis, Robinson, Ali o anche Arthur Ashe, forse l’unico grande tennista nero del passato, si battevano come paladini della lotta per il miglioramento delle condizioni di vita degli afroamericani. Interpellato sull’argomento, lo stesso Jordan ha ammesso di avvertire il peso delle responsabilità che ritiene di avere nei confronti della comunità afroamericana, ma ha anche aggiunto che quelle stesse responsabilità le aveva nei confronti di tanta altra gente. Ancora una volta impeccabile, anche troppo. 

Nel 1991, tale PUSH, un’organizzazione non-profit per la difesa dei diritti civili, si batté donchisciottescamente per la causa delle classi di giovani neri indigenti sollevando l’ipotesi di un possibile boicottaggio a tappeto contro l’azienda di Beaverton. Nelle intenzioni dell’associazione, l’iniziativa doveva servire come protesta nei confronti della Nike e di Jordan al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica sul fatto che la multinazionale col baffo e il suo profeta approfittavano della passione della popolazione nera, soprattutto di quella più giovane, alla quale, in cambio di proventi a nove zeri (di dollari!), non davano null’altro che un paio di scarpe che costavano centinaia di volte il loro vero valore. Inutile dire quale sia stato il ritorno di quella timida voce di protesta: nel vuoto, si sa, non c’è eco. 

Alcuni esponenti della comunità afroamericana ce l’avevano invece con Jordan per altre ragioni: pensavano, in questo non a torto, che lui apparisse un po’ troppo riluttante ad arrivare veramente a quei ragazzini che tanto lo idolatravano e che s’identificavano in lui come una giovane persona dalla pelle nera che ce l’aveva fatta, un “fratello” che aveva sfondato. Michael era nero, ma in un modo o nell’altro l’America bianca aveva fatto con lui un’eccezione e, in effetti, gli si era concessa quasi subito, e talmente senza titubanze da restare sconcertati. O diffidenti. 

L’intero Paese era sembrato affidarsi a lui nella stessa fiduciosa e daltonica maniera in cui mamma Deloris era solita raccomandarsi ai suoi ragazzi: “Le persone non vanno giudicate dal colore della pelle”. Anni dopo, nelle occasioni in cui svestiva i panni di Air, il giocatore di basket, per diventare Mr. Jordan, l’uomo d’affari, MJ ha sempre saputo muoversi liberamente nel mondo, anche qui, in predominanza bianco, delle agenzie pubblicitarie, delle major corporation e dei network televisivi. Tutti rimanevano impressionati dai suoi modi aperti, dal fatto che si trovasse splendidamente a suo agio. Ma c’era un trucco: Michael aveva assorbito e fortificato quel tipo di sicurezza nei rapporti interrazziali a casa sua. Al 4647 di Gordon Road gli avevano insegnato che i colori sono solo colori. 

La gente sostiene che Jordan è sempre stato capace di trascendere la razza cui appartiene, anche se forse è più giusto affermare che c’erano altre sue caratteristiche (quelle riscontrabili su di un parquet) che hanno fatto del suo colore della pelle soltanto un colore e non le fondamenta della sua pubblica identità. 

Ma il rammarico per ciò che un’icona universalmente riconosciuta come Jordan potrebbe fare è troppo grande perché sia taciuto. La sua influenza su milioni di ragazzini, che lo venerano, è immensa e si spinge tanto lontano quanto il suo stile: i suoi fan si rasano la testa come lui, calzano le sue scarpe per sentirsi come lui, palleggiano tenendo la lingua fuori come fa lui. Ma quel lui manda loro pochi messaggi importanti. Manda tanti slogan, questo sì, ma pochi insegnamenti. é liberissimo di scegliere di non farlo, ovviamente, ma la sensazione di un grande spreco permane. Naturalmente sono in molti a sostenere che Jordan abbia perso, e stia ancora perdendo, una colossale opportunità di usare il proprio ascendente per diffondere dei valori, per far capire l’importanza dell’istruzione o anche solo per incoraggiare tutto quello che, in definitiva, a parte il talento fornitogli in quantità industriali da Madre Natura, lo ha portato dove è arrivato: il duro lavoro. 

Altri sono invece del parere che non sia giusto demandare un simile compito a colui che, alla fine, sarà stato, seppure grandissimo, solo un giocatore di basket. Ma si può circoscrivere al solo ambito del basket un fatto di cronaca (nera) come quello accaduto alla fine degli anni Ottanta, quando alcuni ragazzi furono assassinati con il solo scopo di rubare le Air Jordan che portavano ai piedi? E in quali pagine collocare una notizia che riporta il fatto di come l’uscita d’ogni nuovo modello svuotasse puntualmente le classi nelle scuole e i posti di lavoro di mezza America? Non sono esagerazioni giornalistiche, se perfino lo stesso Jordan si è sentito in dovere di fare delle pressioni sul suo sponsor storico per spostare (sic) alla domenica il primo giorno d’uscita sul mercato dei nuovi modelli delle Air Jordan, per non permettere così ai ragazzini di saltare la scuola, perché occupati a fare la fila (accompagnati dai genitori!) davanti ai malls_. 

Come parecchi dei look che caratterizzano i nostri tempi, le scarpe da basket sono diventate di moda prima nelle strade delle inner-cities. Là, più che avere un discreto jump shot dalla media, serve poter maneggiare parecchio contante. Tre o quattro volte più care dei vecchi modelli in tela o anche solo dei primi in similpelle che rendevano non più di centomila dollari l’anno ai vari Magic, Bird o Erving, le nuove high-tops, le scarpe a caviglia alta dai colori sgargianti della nuova generazione, continuavano a costare sempre di più, mentre le aziende s’inseguivano l’una con l’altra sfornando nuovi modelli e cercando di accaparrarsi nuovi atleti per calzarli. 

Mentre l’America della middle-class, paradossalmente (ma non troppo) la stessa dalla quale proveniva Jordan, anche se in questo caso suburbana, assaltava i centri commerciali per le Air Jordan, i ragazzini poveri stavano per farle scoprire quanto in certe zone potesse essere, diciamo così, svantaggioso apparire troppo cool (fighi) con ai piedi quegli arnesi da più di 100 dollari al paio. Presto quella fetta d’America, troppo preoccupata di guardare lontano per occuparsi di dare un’occhiata dove stesse mettendo i piedi, scivolò sulla sua più consueta e tradizionale (come la torta di mele, appunto) buccia di banana, la violenza. Gran parte del Paese non poté che rimanere scioccato dalle cronache degli episodi nei quali dei ragazzi erano stati picchiati e uccisi con il solo scopo di rubare loro le nuove Air Jordan. La gente, adesso, schiumava rabbia e Michael si sarebbe trovato al centro di quell’ingestibile bufera. 

I soliti commentatori dell’aria fritta, col suggello di qualche onnipresente associazione, che già accusavano Nike e Jordan di essere irresponsabili, avevano ora un punto a loro favore. Il sangue. Secondo un’improbabile e tutta loro interpretazione dell’incolpevole proprietà transitiva, avevano partorito il seguente, esemplare (per vacuità) assunto: era la popolarità di Jordan a far vendere le scarpe, le scarpe erano diventate un oggetto di culto e, quindi, (ai loro occhi) appariva perlomeno inopportuno che Jordan (e Nike) lucrassero, e ad un così alto prezzo di dollari e sangue, su quello smodato affetto che l’America provava per lui. In particolare l’America più debole e indifesa: quella nera e quella dei ragazzini. 

Ma ovviamente non era certo Jordan il vero colpevole. Mentre la più assurda delle violenze, che sono tutte assurde ma questa per le scarpe lo è ancora di più, non era comprensibile, essa metteva in luce più profondi problemi economici e sociali, e mostrava al mondo, ancora una volta, quanto squallida potesse essere un’esistenza quando il meglio che si poteva sperare nella propria vita era un paio di scarpe da basket nuove. 

Michael però non è mai stato un figlio delle strade delle inner-cities. Non ha mai dovuto rischiare il quotidiano massacro che un ragazzino di dieci anni si trova a dover affrontare, per gioco, nelle torri di periferia alte venti-trenta piani, per dimostrare la sua virilità, il suo essere duro, che si pratica nel vano degli enormi ascensori. Non ha mai dovuto fare l’Elicopter (o l’Action) aggrappandosi sotto (o sopra) la cabina in corsa: due ragazzi aprono a forza le porte automatiche dell’ascensore la cui cabina si deve trovare, ovviamente, ad un altro piano; nella versione Elicottero, il giovane che si appresta alla propria iniziazione deve aggrapparsi al cavo di metallo che sta sotto la cabina e un altro chiama l’ascensore da un piano superiore oppure si aspetta che qualcuno lo prenda per scendere, entri e prema il pulsante. A questo punto c’è il bello: il giocatore deve restare aggrappato durante la corsa della cabina e, se questa scende, deve staccarsi il più in fretta possibile calcolando dove andare ad attaccarsi al muro per non venire schiacciato; se essa sale, deve staccarsi il più tardi possibile per fornire prova di forza. Per sopravvivere. Soprattutto a se stesso. 

In genere il bilancio è di qualche taglio, dei lividi o, al peggio, una frattura, e questo al massimo fino all’altezza di un secondo piano, quando va bene. Quando va male, la morte. Perché, di solito è questa la fine di chi crede di vincere la gara di coraggio, vale a dire restare aggrappati un po’ più a lungo degli altri. Ma esistono anche ampie varianti e in casi come questi, è noto, la fantasia non ha confini. Action, una variante più sofisticata di Elicopter, prevede però la presenza di due ascensori affiancati e qui il caso vince a mani basse. Due ragazzi si tengono pronti sul tetto delle rispettive cabine inizialmente ferme allo stesso piano. Appena una delle due viene messa in movimento in seguito ad una chiamata, i due concorrenti si scambiano di posto con un balzo, procedura che continua ad ogni stop delle cabine. A New York, poiché i ragazzi dei ghetti non parlavano, ci vollero anni prima che vigili del fuoco e polizia potessero spiegarsi come diavolo mai cadevano o si suicidavano così tanti adolescenti in quella maniera, o ci fossero tanti incidenti con bambini o poco più incastrati fra due ascensori. 

Con la primavera, invece, ci si dedica a un’attività alternativa, il gioco dei tunnel e anche qui un buon numero di concorrenti bocciati per l’eternità, in senso letterale, non manca. Sempre a New York, ci sono gallerie che sboccano sull’East River o sull’Harlem River e che devono essere percorse a nuoto, contro corrente, fino a dei punti prestabiliti. Quei punti sono naturalmente molto strategici, e devono esserlo per forza perché la prova di coraggio deve essere portata a termine inequivocabilmente, si trovano al buio e in essi la calce dell’intonaco lascia spazio ai caratteristici mattoncini rossi. Ecco, allora, il segno tangibile da portare per il proprio avvenuto passaggio in quel punto, tornare indietro portando una scheggia rossa. Inutile sottolineare come la quantità di lavoro dei pompieri o dei sommozzatori, soprattutto nei mesi di maggio e giugno, subisca un notevole incremento quando capita loro di trovarsi di fronte ad una moria di adolescenti, invece dei soliti pesci che non hanno resistito all’inquinamento delle acque. Quei ragazzetti che, sopraffatti dall’impeto della corrente, investiti da un’onda in piena che non li ha lasciati respirare, non ce l’hanno fatta a far vedere quanto erano duri. Oppure erano talmente duri da restarci secchi, pur di non far vedere che mollavano. 

Jordan, per sua fortuna, è sempre stato un ragazzo di campagna del Sud e il suo talento gli ha permesso di sfuggire a tutto questo. Lui era un fulgido, iper-arrivato esempio della middle-class della politica moderata, e se mai ha rappresentato o è stato simbolo di qualcosa, probabilmente lo è stato del fatto che le persone motivate, di talento e con alle spalle famiglie stabili, capaci di essere di appoggio, nella maggior parte dei casi hanno successo. Ma il punto non era che la razza e le altre divisioni sociali, come per magia, erano sparite nell’irresistibile presa che l’affascinante volto di Michael aveva sulla massa, quanto piuttosto nel fatto che s’identificassero in lui persone tanto diverse e in modi così diversi. La (triste?) verità era che la gente riusciva ad amare un Michael e, tuttavia, ad odiarne allo stesso tempo un altro. Era la formula vincente. 

Tutti i comfort e le sicurezze che Jordan aveva avuto nella vita lo facevano accostare più alle vite dei ragazzi dei sobborghi, quelli che falciavano l’erba nelle loro comode e luccicanti Air Jordan senza la paura che qualcuno li attaccasse, pronto perfino ad uccidere per portargliele via. 

Questo tipo di mentalità medio-borghese di MJ avrebbe fatto riversare su Michael fiumi d’inchiostro e venti di etere di polemiche e di critiche. Jim Brown, l’ex grande giocatore di football americano, probabilmente il più forte running back di tutti i tempi, riteneva per esempio che Jordan “non fosse un role model appropriato per la gioventù nera” ed era anche convinto che gli atleti neri, come se stesso e come Michael, dovessero investire tempo e, ma guarda, denaro nelle comunità nere. 

Il professor Harry Edwards della University of California at Berkeley, sì, proprio quella dove una trentina d’anni fa ebbero origine i primi movimenti di contestazione studentesca, la pensa diversamente. Il luminare, infatti, asserisce di comprendere la frustrazione di Brown, ma, al contempo, di ritenere una perdita di tempo quella di andar dietro agli atleti neri che non si mostravano interessati alla causa. Inoltre, aggiunge Edwards, rivolgersi agli atleti per ottenere quella sorta di salvazione era un errore, perché sono i genitori che dovrebbero allevare i figli e dovrebbero farlo senza chiedere aiuto a distanti giocatori di basket. 

L'immagine della superstar, si sa, è difficile da coltivare, ma talvolta può essere ancora più difficile da conservare. Anche lo stesso Michael Jordan, la persona intendiamo, non l’idolo d’etere (tv), di celluloide (cinema) e di cellulosa (carta stampata), ha dovuto imparare a “be like Mike”, ad essere come Mike, quel Mike che, abbiamo appurato, non esiste. E qualche volta le lezioni sono state severe. 

Abbiamo spesso battuto sul tasto dell’immagine sempre esageratamente politically correct alla quale Jordan si è scrupolosamente attenuto, a volte anche sfiorando e oltrepassando i limiti. Nel 1997, per esempio, l’inaffondabile flotta Nike-Jordan dovette affrontare un altro mare burrascoso, dopo quello dei ragazzini assassinati alla fine degli anni ‘80 per le Air Jordan. All’epoca, scoppiò lo scandalo dello sfruttamento dei bambini asiatici da parte della Nike. La vicenda è nota, quindi, cinicamente, non fa più notizia, ed è quella dei piccoli operai che, come tutti sanno (senza che nessuno faccia seriamente qualcosa), sono reclutati dagli intrallazzatori locali per conto delle multinazionali che così possono disporre di alcuni piccoli vantaggi sulla concorrenza: manodopera a bassissimo costo (dalle 12 alle 16 ore di lavoro il giorno per la miseria di 10 dollari, a star larghi diciamo 18.000 lire, la settimana!), mercati fiscali e finanziari che accolgono in maniera più, diciamo così, amichevole i simpatici ospiti stranieri, e il tutto senza parlare, poi, delle condizioni sindacali ed igieniche per i lavoratori (e dei relativi controlli sulla cui severità varrebbe la pena, come potrete facilmente immaginare, spendere encomi a non finire). Il ciclone che travolse Jordan e la casa del baffo riguardava, oltre che l’ammontare della munifica paga generosamente elargita ai pargoli lavoratori, anche le particolari condizioni ambientali nelle quali essi erano costretti a produrre. In uno slancio filantropico degno forse di miglior causa, i responsabili dei fatiscenti capannoni dove erano confezionate le preziose scarpe avevano pensato bene di esporre le minorenni maestranze al dolcissimo effluvio derivante da un solvente la cui concentrazione nell’aria era presente in una misura che, secondo i giornali dell’epoca, superava fino a 177 volte la soglia consentita dalle locali norme sanitarie per la sicurezza sul lavoro. L’unica sicurezza che tali norme erano in grado di assicurare, evidentemente, era quella che vale per tutti gli uomini: la morte. Solo che lì arrivava prima, e la celerità del servizio non era particolarmente gradita dai piccoli prestatori d’opera. 

Quei minori non possono ribellarsi e, anzi, per quanto incredibile e paradossale possa sembrare, un eventuale boicottaggio dei prodotti delle aziende coinvolti in tali losche manovre, anziché migliorare la situazione, la peggiora. Quando va bene, i piccoli operai perdono il posto e, per riuscire a pagare i debiti contratti dalle famiglie, sempre numerosissime, devono andare a cercarsi qualcos’altro che, se possibile, sarà anche peggio; quando va male, invece, gli schiavi del nostro tempo non devono cercarsi più nulla: vengono ammazzati_. 

Con simili vicende, naturalmente, Jordan non c’entra nulla, ma l’atteggiamento che tenne in pubblico in quell’episodio delle esalazioni scoperte nel 1997 è di quelli a dir poco discutibili. Incalzato dai media, quella volta Air volò a quote basse: “È una responsabilità della Nike”, dichiarò scaricando poco elegantemente un pesantissimo barile, “e sono sicuro che faranno quanto devono fare. Vorrei anche andare a controllare di persona e tentare di risolvere gli eventuali problemi. A tutt’oggi, non mi risulta che la Nike abbia fatto niente di illegale o di inopportuno”. Inutile precisare che Jordan, da quelle parti, non si sia mai visto. E questo nonostante avesse comunicato pubblicamente le proprie intenzioni di recarsi personalmente nel Sudest asiatico (più precisamente in Indocina e in Vietnam) per rendersi conto di come stavano le cose. 

Un’altra occasione in cui per Michael, sempre secondo la nostra modesta opinione, sarebbe stato più opportuno verificare che la connessione cervello-bocca fosse operativa prima di azionare l’organo della parola, si presentò quando, in seguito all’assassinio del padre, avvenuto con una pistola calibro 38, fu invitato da rappresentanti di alcune associazioni a prendere pubblicamente posizione contro la diffusione delle armi da fuoco e la loro eccessiva facilità di reperimento, caratteristiche, queste, che notoriamente in America sono da sempre leggendarie, quasi una tradizione ereditata dai tempi della Frontiera. Ebbene, Michael, forse spaventato dalle eventuali reazioni che una sua esposizione planetaria sul tema avrebbe potuto provocare, soprattutto nei sensibili membri della NRA, l’associazione che raccoglie tutti coloro che hanno un legale porto d’armi, declinò ossequiosamente l’invito. 

L’ultima circostanza fu in occasione della campagna del candidato Democratico Harvey Gantt in corsa per la carica di rappresentante dello Stato del North Carolina al Parlamento Federale. A Jordan era arrivato qualche invito ad appoggiare Gantt, il candidato nero, rivale del Repubblicano Jessie Helms, il cui credo politico era sempre stato permeato da connotati razzisti. 

Al contrario del suo Maestro Dean Smith, che ha sempre votato per i Democratici, Michael dichiarò di non conoscere personalmente Gantt e quindi, non potendo giustamente votare o sostenere la candidatura di chicchessia in base al solo colore della pelle, decise di non prendere nessuna posizione. E fin qui niente da dire, più che sacrosanto. La perla, però, la regalò successivamente, e fu francamente imbarazzante. Per lo stesso Jordan, prima di tutto. Air fece intendere che in fondo “anche i Repubblicani compravano le sneakers”. 

Per il role model, si prega di ripassare. 
CHRISTIAN GIORDANO
Michael "Air" Jordan

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