CAPITOLO 33 - Occhio di Falk, il ProServ fedele
"Una superstar come Michael devi renderla abbastanza irraggiungibile da risultare interessante, e abbastanza alla portata di tutti da essere popolare; é un continuo gioco di equilibri."
- David Falk, agente di Michael Jordan
di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air" Jordan
© Rainbow Sports Books
Se Michael Jordan, sul parquet, è L’Uomo dei Miracoli, il merito è suo. Ma se lo status (non solo economico) del cestista più famoso al mondo, al di fuori delle lucide strisce di linoleum, è quello che è, buona parte dei ringraziamenti (lautamente retribuiti) sono da ascrivere a chi è ed è sempre stato al suo ProServizio.
Questo gioco di parole non è altro che un utile espediente che ci consente di introdurre una figura che, dal 1984 ad oggi, è stata a dir poco determinante per tutto ciò che Jordan ha significato e continua a significare al di fuori del campo di basket. O forse anche sul parquet stesso, come insinuano ormai in molti. Ma di questo parleremo più avanti. La figura a cui ci riferiamo, non ci vuole un indovino per intuirlo, è colui che per MJ rappresenta appena qualcosina di più di un semplice agente: David Falk, quello che viene sovente descritto come l’uomo-ombra di Jordan, anche se mai, prima dell’astuto David, si era vista un’ombra di così palpabile presenza.
Per inquadrare il personaggio in questione, possono bastare un paio di episodi che lo hanno riguardato qualche tempo fa. Il primo risale al ritorno agonistico di Michael, rientrato per la prima volta sul parquet al Market Square Arena di Indianapolis, il 19 marzo 1995. Come molti sapranno, le partite della NBA vengono trasmesse (tv via-cavo escluse) da uno dei tre più grandi network televisivi americani, la National Broadcasting Corporation, che fa del suo NBA on NBC uno dei programmi di punta del proprio palinsesto.
Ebbene, all'epoca del ritorno sulla scena agonistica di MJ, lo spudorato Falk ebbe l'ardire di inoltrare una richiesta al presidente della NBC Sports, Dick Ebersol, affinché questi quantificasse, a titolo di riconoscenza, i benefici (impennata della raccolta pubblicitaria, conseguenti rialzi azionari, eccetera) che la sua televisione aveva tratto dal rientro di Jordan. Falk stava scommettendo sul nulla, era ovvio, perché il contratto per lo sfruttamento dei diritti televisivi era stato firmato ancor prima che Jordan si ritirasse e quindi le pretese di Falk, oltre che fuori luogo e ridicole, non avrebbero avuto ragione (legale) di esistere.
Proprio su quest’ultimo episodio avrebbe fatto perno l’inevitabile risposta di Ebersol, che, anzi, ebbe la prontezza di spirito di ribattere a Falk che, casomai, assurdo per assurdo, sarebbe stata la NBC a dover essere risarcita per i mancati introiti derivanti dall’imprevisto addio al basket di Jordan avvenuto un anno e mezzo prima. La vicenda non era altro che una bolla di sapone e, come tale, aveva fatto la medesima fine: era morta da sé dopo pochissimo tempo, ma, intanto, Jordan, Falk e, perché no, la stessa NBC si erano fatti, e gratis, una gran bella pubblicità.
Un’altra chicca epocale, Falk, che, in effetti, deve essere un uomo dalla robusta autoironia per fare le figure che fa, la mise a segno durante la parentesi nel baseball che il suo illustre assistito aveva deciso di concedersi con i Birmingham Barons. In quel periodo, Lo Squalo, alias Falk, fece pressioni sui dirigenti della società-satellite dei White Sox affinché venisse respinta ogni richiesta del giornalista Jim Patton che voleva fissare con l'irreperibile Air un appuntamento per un'intervista. Patton, che stava scrivendo il volume Rookie, una monografia dedicata appunto alla matricola eccellente del baseball, riuscì a completare l’opera nonostante i divieti e l’incredibile pretesa da parte di Falk di ottenere dallo stesso Patton, appunto in cambio dell’esclusiva, una donazione per i figli di Jordan.
Ma prima di parlare del Falk di oggi, l’agente in assoluto più potente, famoso, temuto e cattivo del mondo, potrebbe essere utile ripercorrere qualche tappa significativa della scalata che lo ha portato dove lo ha portato, e cioè in cima al basket mondiale. O forse anche più in alto.
Donald & David
Falk non è sempre stato il numero uno della ProServ, l’agenzia che ha curato gli interessi, si dice così no?, oltre che di Jordan, di una quarantina circa dei più grandi nomi della NBA; non sempre ha posseduto un’agenzia tutta sua (la Fame ): Falk si è fatto da sé, insomma. E non sta a noi giudicare se Mr. Tot%, durante il suo cammino lungo l’impervia strada verso il potere, si sia un po' sporcato di fango.
Quando il giovane David Falk non era che un avvocatino inesperto alle prime armi, fu assunto alla ProServ, un’agenzia che si occupava di consulenze d’immagine e legali, procure di atleti e altre pratiche del genere. Quella fondata dal boss Donald Dell era una società di servizi che, per farla breve, si poneva al… Servizio dei Professionisti come lasciano intuire le iniziali.
Falk, all’epoca, era quindi alle dipendenze di Dell, un nome, dalle parti di Washington, come procuratore e legale di personaggi sportivi ma legato prevalentemente all’ambito del tennis in virtù del suo passato di buon giocatore.
Il brillante Falk incomincia dal basso, compie per un po’ la necessaria gavetta, ma, essendo un tipo che apprende in fretta, inizia presto a farsi conoscere ed apprezzare. Non gli ci vuole molto per mettersi in luce e incominciare la propria arrampicata verso i vertici.
Il brillante avvocato fa carriera nello studio, inteso come ufficio e non come utile esercizio anti-atrofizzazione del cervello, ma non gli basta. Lui vuole di più. Contando su gomiti appuntiti e fare deciso, piano piano la sua inarrestabile ascesa lo porta a diventare socio in affari dello stesso Dell come comproprietario della ProServ. Spartendosi i compiti con il suo ex capo, Falk è quello che si interessa di basket mentre Dell continua ad occuparsi prevalentemente di tennis.
Il Gatto e La Volpe, ovvero Donald & David, costituiscono un mix perfetto essendo fondamentalmente complementari, quindi, in potenza, nati per lavorare assieme: tanto è elegante, ammanierato, gentile Dell, tanto è aggressivo, duro, ispido Falk. Dell è un signore, un uomo, per certi versi, quasi d’altri tempi. Falk è un guerriero, un vecchio pirata, seppur geniale, che sa solo andare all’arrembaggio.
Ma se le guerre le decidono i signori, in trincea ci vanno poi i soldati, ed è lì che Falk sa dare il “meglio” di sé. Tanto per rimanere in metafora, l’occasione che trasformò il mondo del basket nel personale campo di battaglia di Falk si presentò tramite John Thompson, il gigantesco, bravissimo ma sempre un po’ polemico coach della Georgetown University, college che prende il nome dal quartiere più antico di Washington che, guarda caso, è la stessa città dove aveva sede la ProServ. Dell, che aveva soprattutto clienti legati all’inamidato mondo del tennis, aveva tra i suoi assistiti anche Thompson e la cosa non deve sorprendere più di tanto perché i due erano amici.
Ora, caso volle che al tecnico di GU fossero piovute offerte dal piano di sopra (leggasi NBA) per allenare nei pro e, per farla breve, allo scopo di assicurare al coach un trattamento in guanti bianchi, Dell passò il cliente a Falk, l’esperto di cose cestistiche, che, da quel momento in poi, avrebbe rappresentato direttamente l’allenatore degli Hoyas. E, in seguito, anche i relativi pupilli. Le trattative per l’eventuale approdo nella NBA di Thompson furono seguite in prima persona da David Falk, ma poi non se ne fece più nulla. Coach T non andò mai nei pro e rimase vestito del grigioazzurro di Georgetown. Falk, che è tuttora l'agente di Thompson, stando ai consueti si dice, svolge gratuitamente l'appagante funzione, ma siccome in questo mondo difficilmente troverete qualcuno che faccia niente per niente, pare anche che, per sdebitarsi, il buon John consigli caldamente ai suoi ragazzi di scegliere Falk stesso come proprio procuratore.
E la cosa non sembra campata per aria, se consideriamo che i vari Patrick Ewing, Dikembe Mutombo, Alonzo Mourning ma anche Reggie Williams e – eh, beh… Othella Harrington – insomma tutti gli Hoyas di un certo livello, chissà come mai da quindici anni a questa parte sono andati tutti a finire sotto l’accogliente ala di David Falk. Forse sarà perché con il munifico David c’è sempre spazio (sotto il tetto salariale) per tutti.
Ah, una piccola annotazione: Thompson e Falk sono membri del consiglio di amministrazione di una certa azienda… molto "vicina" a Jordan.
Per dovere di cronaca, va però sottolineato che la questione non è così torbida come sembra. Coach Thompson, infatti, che ha piena fiducia in Falk, i suoi gioielli glieli manda ben volentieri perché è consapevole che il Michael Jordan dei procuratori, con il potere e gli agganci di cui dispone, farà sempre riservare, a quelli che per l'ex tecnico degli Hoyas saranno in eterno i suoi ragazzi, un trattamento economico di prim’ordine.
Per la verità, anche Falk si fida del tecnico di Georgetown: è conscio che non gli rifilerà brutte sorprese, perché la sua scuderia non può permettersi, se non altro per questioni di immagine, di rappresentare delle bufale. Thompson naturalmente si rende conto che lo stesso Falk ci guadagnerà alla grande, ma è anche certo che non li strangolerà con percentuali esose come fa la gran parte dei suoi colleghi procuratori.
David, per fare un esempio non banale, con Ewing viaggia al 3% su tutti i suoi proventi, sia su quelli che gli derivano dal contratto con i Knicks sia sugli introiti extra-basket (pubblicità, diritti per lo sfruttamento dell’immagine, eccetera). Il tutto mentre in genere le cifre ufficiali di un qualsiasi procuratore NBA non scendono sotto il 4% sul contratto che il proprio assistito stipula con la franchigia della Lega e il 10% (leggasi dieci per cento!) su tutta la pubblicità. Ewing, per esempio, si fida di Falk perché è uno che non si accontenta mai quando deve fargli ottenere ottimi contratti mentre si accontenta quando deve prendere la percentuale per sé.
Con Jordan è sempre accaduto lo stesso, ma su scala infinitamente superiore. A Falk Michael gira il 15% (il quindici), il che lo ha reso ultramiliardario e, inevitabilmente, in qualche misura, Jordan-dipendente.
Un caso, in questo senso, clamoroso scoppiò proprio ai tempi della rivalry Chicago-New York. La bomba esplose dopo che Falk, agente contemporaneamente di McDaniel e di Ewing, allora compagni di squadra ai Knicks, ma anche di MJ dei Bulls, venne duramente attaccato dal presidente dei Knickerbockers, Dave Checketts, che lo accusava di essere schiavo di Jordan e da questi talmente condizionato che Falk, pur di ingraziarselo ulteriormente, non avrebbe esitato a indebolirgli la concorrenza, nella fattispecie i suoi Knicks, per diminuire il lotto delle pretendenti all’anello di campione NBA.
Ricordiamo che era il periodo in cui Chicago faticava contro i nemici storici newyorkesi e l’avere un duro in meno come l’ex Mister-X nelle file dei bluarancio sarebbe stata cosa ben gradita dalle parti della Windy City.
Falk, fino al 1991, ha percepito una bella fetta dei guadagni di MJ, che gli allentava il venti per cento dei suoi introiti, poi anche Air si è accorto che forse quella fetta era un po’ troppo grossa e ha fatto marcia indietro scendendo a un 15% che sono tutt’altro che noccioline.
Ma se McDaniel, Ewing – di Jordan tacciamo per pudore – e compagnia bella stravedono per Falk, negli anni passati ci fu anche chi ebbe qualcosa da perdonargli. Il compianto Reggie Lewis, per dirne uno, prima di affermarsi definitivamente, lamentò di aver incontrato quello che doveva essere il suo agente due volte in tutto: la prima, per firmare il contratto con cui lo autorizzava a rappresentarlo; la seconda, quando, di quel contratto, doveva firmare la rescissione. Nel bene (dei suoi assistiti: Jordan, Thompson, Ewing, Mutombo, Mourning, McDaniel; Nike) e nel male (Lewis, lo stesso McDaniel), questo è David Falk.
Sì, è proprio lo stesso David Falk che, assieme ad alcuni suoi colleghi, nel maggio del 1984, con una presentazione di circa un’ora e mezza, aveva fatto colpo su un giovane campagnolo del North Carolina, tale Michael Jordan, che aveva da poco annunciato in conferenza stampa di essersi dichiarato eleggibile, con una stagione d’anticipo, per il draft della NBA di quell’anno.
All’inizio di quell’estate, Jordan si convinse che sarebbe stata proprio quella la società che faceva al caso suo per difendere i propri interessi, quindi scelse Falk della ProServ, che lo aveva così favorevolmente impressionato, come suo agente. Naturalmente nessuno dei due avrebbe mai potuto immaginare che cosa sarebbe seguito a questo connubio.
La ProServ era già allora un gruppo ambizioso e all’avanguardia nel procacciare contratti pubblicitari, in particolare per atleti degli sport di squadra. Il concetto di ingaggiare degli atleti per reclamizzare prodotti non aveva ovviamente nulla di nuovo.
Qualsiasi ragazzo americano che avesse la possibilità di scartabellare vecchie riviste sportive, vi troverebbe autentiche leggende del baseball come Mickey Mantle giurare fedeltà a quella marca di sigarette, a quell’altra di cereali o a quell’altra ancora di automobili. Lo stesso potrebbe fare un ragazzo italiano con in mano qualche sgualcita copia di Il calcio e ciclismo illustrato.
L’unica differenza riguarderebbe la nostra carta povera delle riviste pre e post belliche e il fatto che, invece dei campioni del batti e corri, su quelle pagine, apparivano i volti dei nostri eroi del pallone e delle due ruote. Come dimenticare un imbrillantinato Boniperti che reclamizza le mutande Enea?
Per tradizione, nel passato, i contratti più sostanziosi erano sempre andati principalmente alle star di alcuni sport individuali come il golf, il tennis e l’automobilismo, e questo per via della vasta riconoscibilità del loro nome. O perlomeno quella era la spiegazione ufficiale.
Motivando il fenomeno da un punto di vista commerciale, infatti, si affermava che fosse facile distinguere quei personaggi individualmente, come figure televisive non associate ad una squadra specifica. Nessuno ha però mai menzionato il fatto che quegli sport fossero in gran parte, per non dire esclusivamente, dominati da atleti bianchi. L’unica disciplina capace di scavare una piccola crepa in questo spesso muro di pregiudizi fu proprio la pallacanestro con Dr. J., il quale, negli anni Settanta, realizzò alcuni commercial per delle bibite analcoliche e per la Chapstick, oltre a qualche altro giocatore che aveva pubblicizzato delle linee di palloni.
Ma ora la triade formata da David Falk, Michael Jordan e Nike stava per stravolgere questa sorta di ordine precostituito. A quei tempi (stiamo parlando solo di una quindicina di anni fa, eppure sembra mezzo secolo!), la maggioranza dei migliori prospetti lanciati verso la NBA firmava un contratto con un’azienda calzaturiera subito prima della stagione da matricole, quindi ancora prima di giocare una partita nei professionisti.
Ma, d’altra parte, il format di questi contratti era in genere abbastanza standard: il tutto si riduceva ad un accordo secondo cui il giocatore si prestava a fare un servizio fotografico e si impegnava a calzare quelle date scarpe, in cambio di qualche migliaio di dollari e, naturalmente, di una fornitura pressoché illimitata di calzature fatte su misura.
A Falk, però, tutto questo andava stretto, lui voleva qualcosa in più, qualcosa di più ambizioso: una nuova linea firmata Michael Jordan. Non un solo modello, quindi, ma una vera e propria linea di produzione con la firma del suo assistito. Falk voleva poi che la nuova linea venisse spalleggiata dal lancio di un’imponente campagna pubblicitaria che avrebbe fatto guadagnare al suo cliente degli ulteriori introiti per via delle royalties, il compenso sui diritti d’autore, da calcolarsi sulla base di ogni paio di scarpe venduto.
Oggi, il fatto che debbano essere riconosciuti all’atleta i diritti per lo sfruttamento della propria immagine da parte dell’azienda sembra perfino banale, ma nel 1984, cioè appena tre lustri fa, si trattò di una vera e propria rivoluzione copernicana nel mercato delle scarpe sportive. E il Copernico delle sneakers non fu altri che lui: David Falk.
Ma, come tutte le rivoluzioni, anche questa non venne subito accettata di buon grado e anche un genio come Falk dovette prendersi la sua buona dose di porte in faccia, prima di veder dapprima compresa, quindi sottoscritta e infine realizzata la sua grande intuizione.
Due anni addietro, sempre Falk aveva fatto la stessa identica proposta in rappresentanza di James Worthy, compagno di squadra di Michael quando questi era freshman a UNC e stella della squadra che in quell’anno aveva vinto il titolo NCAA proprio con il primo dei tanti The Shot di MJ, ma allora gli venne risposto picche. Questa volta, evidentemente, la differenza fu nella diversa reazione dell’azienda interpellata, oltre che nella diversità del momento e dell’atleta in questione.
A chi non è molto ferrato in storia di basket americano, potrà sembrare scontata l’equazione che, mentre al binomio Nike-Jordan i manager della casa dell’Oregon avessero risposto di sì, a quello Worthy-Nike gli stessi avessero opposto un secco diniego. Può anche darsi che fosse andata così, ma è più probabile che, all’epoca, avessero influito altri fattori più contingenti (situazioni di mercato proprie della Nike, in primis) perché vi assicuriamo che al momento delle rispettive uscite dei due atleti da Chapel Hill, il più quotato dei due era senza dubbio proprio Worthy.
James, uno junior in quella stagione 1981-82, era la stella dei Tar Heels, aveva appena vinto il titolo universitario - anche se, come precisato un milione di volte, con il tiro decisivo di Michael - ed era stato nominato MVP sia delle Final Four sia della finale.
Prima scelta al draft 1982 - anch’egli lasciò il college con un anno d’anticipo - Worthy si accasò ai Lakers. Jordan era stato sì Giocatore dell’anno di college per due anni consecutivi (1983 e ’84) ma venne scelto solo col numero tre alla lottery e più di qualcuno aveva dei dubbi su di lui e soprattutto sul suo ruolo in campo.
In Michael Jordan, vuoi per esigenze di bilancio, vuoi per più o meno meditate strategie di mercato, la Nike vide l’uomo sul quale scommettere il proprio futuro. E scommettere forte: David Falk convinse la Nike a investire, praticamente ad occhi chiusi, un milione di dollari (del 1984!) all’anno per lanciare una linea di scarpe con il suo nome (di Air, non della Nike) stampato sopra. Da quel momento in poi, tutto sarebbe cambiato.
CHRISTIAN GIORDANO
Michael Air Jordan
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