CAPITOLO 35 - Il tocco di re MidAir
– Michael Jordan
"Il mio lavoro non è mai stato quello di giocare a pallacanestro. Il mio lavoro incomincia nel momento in cui metto piede fuori dal campo."
– Michael Jordan
di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air" Jordan
© Rainbow Sports Books
A prima vista, il titolo che abbiamo scelto per questo capitolo potrebbe apparire come uno dei banalissimi giochi di parole che fanno tanto impazzire gli americani – a proposito, appena qualcuno ne inventa uno, si scatena la folle corsa a depositarne i diritti d’autore – ma, in realtà, a nostro modesto parere, è semplicemente l’espressione più azzeccata per descrivere ciò che è diventato Michael Jordan fuori dal campo di basket: una specie di trattato ambulante di marketing su scala planetaria, e non solo di quello sportivo in senso stretto. Più di tante teorie socioeconomiche, pur validissime per carità, talvolta, purtroppo o per fortuna, conta ancora molto il fattore umano, se di umano si può ormai parlare quando ci riferiamo a Jordan. Tutto quello che Michael tocca o tutto quello che è da lui toccato, diventa oro. O dollari. O partecipazioni azionarie. Insomma, tutto ciò che volete purch si tratti di soldi. Soldi. Soldi. Soldi. E tanti.
Lo stesso Nostro non avrebbe mai potuto immaginare quali fama e fortuna avrebbe conosciuto nel corso della sua lunga ascesa fino a diventare il più grande giocatore di pallacanestro di sempre. Chi avrebbe mai potuto pensare che quel ventunenne ragazzino, ancora magrissimo, appena sbarcato dal suo volo per Chicago con l’aria smarrita e sperduta come un cagnolino smarritosi chissà dove, sarebbe diventato lo sportivo più pagato di ogni tempo e luogo? Quel pivellino che la stessa organizzazione dei Chicago Bulls si era dimenticata di andare a prendere all’aeroporto sarebbe decollato, portando su di sé il peso dell’intera franchigia e trascinandola verso vette inimmaginabili.
Strano a dirsi, ma, per uno che ci avrebbe abituati all’unicità delle sue imprese, gli inizi della sua carriera sembravano ricalcare orme già seguite dalla gran parte delle giovani star della lega che si ritrovavano di punto in bianco multimiliardarie. Anche Jordan, nonostante le dichiarazioni che avrebbe poi rilasciato in età matura, non si esimeva dal godersi tutte le opportunità e gli agi che il suo nuovo status di celebre cestista professionista e la relativa ricchezza gli potevano riservare.
Tanto per fare un esempio non eclatante ma forse indicativo, si può ricordare come la matricola appena uscita da UNC si fosse adattata alle noiose trasferte in pullman per le partite di preseason comprandosi un enorme stereo portatile con le casse abbastanza grandi e potenti da soddisfare una magione. Ma anche le auto, le pellicce e i gioielli che comprava, e che magari riponeva poco dopo, erano indizi di una nuova fase della sua giovane vita di neomiliardario. Michael però aveva avuto la fortuna di crescere in una famiglia nella quale non si era mai fatta la fame e forse fu proprio questo, assieme ad una educazione rigorosa e ovviamente alla sua testa, a non fargli fare scelte sbagliate.
Il tocco da re Mida di Michael – o, come qualcuno lo ha correttamente ribattezzato, il Tocco di Michael tout court – nacque dal contratto sottoscritto con i Bulls che gli rendeva una cifra vicina ai quattro milioni di dollari all’anno. Aspettate a scuotere la testa e a sorridere amaramente, sennò, poi, la stessa testa vi farà male. Questa bella sommetta che, agli occhi di un qualsiasi metalmeccanico o anche del vostro modesto scribacchino, appare già di per sé, come dire, eccezionale, diventa semplicemente (relativamente) ridicola se paragonata a quella (stimata) di 30 milioni di dollari che egli ricavava, ogni anno, dalla pubblicità. Se non ne avete ancora abbastanza, prendetevi un bicchiere d’acqua e mettetevi a sedere. La Gatorade, dopo che la Coca-Cola decise, incomprensibilmente, di non rinnovare il proprio contratto di sponsorizzazione con His Airness, firmò con lui un accordo decennale (!) per la modica cifra complessiva di 18 milioni di dollari. Forse qualcuno, anche in Italia, avrà sentito parlare del celebre Arnold Palmer, il grande golfer professionista che era stato l’apripista del cosiddetto endorsement buck tra i personaggi dello sport. Detto per i comuni mortali, con questa espressione si intendono i soldi (buck è il nick americano di dollaro) che derivano dal mercato della pubblicità e delle sponsorizzazioni (endorsements). Ebbene, Jordan lo sorpassò dopo che i Bulls vinsero il loro primo titolo NBA, nel 1991. E non poteva che finire così, visti i nomi della sua abituale lista della spesa.
Tra i clienti della multinazionale che vola da un canestro all’altro, figuravano: McDonald’s, Wheaties, Nike, Chevrolet, Wilson Sporting Goods (una potenza nel golf e nel baseball), Johnson Products e la Illinois State Lottery.
Jordan poi ha anche avuto limitate partnership in beni immobili a Miami (Florida), Kansas City (Missouri), San Clemente (California) e Washington, D.C. , Hilton Head (l’abbiamo già incontrata, ricordate?), nel South Carolina.
Tanto per capire quanto sia forte l’appeal, il richiamo, il fascino, chiamatelo come volete, che MJ esercita sulla gente, e di conseguenza sui potenziali consumatori, basti pensare che perfino sua madre (per l’Empire Carpeting di Chicago) e suo padre (per la Sara Lee) sono stati contattati per degli spot televisivi.
Con il papà, Michael girò quella divertente scenetta in cui James, guardando perplesso un paio di slip da uomo rossi che tiene fra le mani, chiede al figlio: “Piacerò alla mamma con questi?”, e il signor Jordan senior si sente rispondere dal signor Jordan Junior, con ammiccante complicità, “Può darsi”. Più che un commercial, un simpatico siparietto.
Ma se Jordan, fuori del campo, è diventato il se stesso di oggi, in buona parte lo deve a David Falk, il Jordan dei procuratori.
Michael, infatti, è sempre stato rappresentato dalla ProServ, un gruppo di management sportivo con base a Washington, il cui nome sottintende già tutto un programma: al servizio dei professionisti. Del guadagno.
Nell’estate del 1984 Jordan doveva trovarsi un agente perché aveva deciso di passare nei pro e aveva bisogno di un nocchiero esperto che gli facesse da guida nell’affrontare quel mare tempestoso che la sua nuova avventura agonistica gli prospettava. Anche se all’epoca nessuno lo sospettò, l’ora e mezza di breve presentazione fatta da David Falk e dai suoi uomini si sarebbe rivelata il miglior investimento, non solo temporale, che la ProServ avesse mai fatto prima e che avrebbe mai fatto dopo. Come lo stesso Falk ebbe poi modo di ricordare: “Era ovvio che [Michael] sarebbe diventato commercializzabile... Ma non avevamo la più pallida idea che sarebbe divenuto il più prolifico personaggio degli sport di squadra di tutti i tempi”. Lo Squalo aveva sentito l’odore del sangue: la stagione della caccia era aperta. Quello che nessuno poteva prevedere, però, è che si sarebbe mangiato tanto da fare indigestione.
All’epoca, quando Dean Smith – più un secondo padre che un coach consapevole di rischiare così di rovinarsi una stagione potenzialmente vincente – chiamò la ProServ, dopo che Michael gli aveva riferito che era stata la loro la presentazione quella che più lo aveva colpito, negli uffici degli uomini di Falk ci fu s“ contentezza ma, come per i Bulls, non c’era la minima idea del genere di locomotiva alla quale avessero attaccato il proprio vagone. Loro credevano di essersi accaparrato un altro giocatore NBA, bravo, certo, ma non un asso capace di dominare a suo assoluto piacimento la Lega intera.
David Falk, il vicepresidente responsabile dell’agenzia che aveva appena azzeccato il colpo della vita, ha potuto sovrintendere all’impero finanziario di Jordan fin dal primo giorno. L’arma segreta di Falk, oltre ovviamente al talento di Michael senza il quale tutto il resto sarebbe stato aria fritta, fu il diverso, esclusivo approccio che il suo protetto avrebbe dovuto avere con la gente.
Anziché puntare sull’impatto esplosivo (a dire poco...) che potevano avere altre celebrità dello sport americano quali, ad esempio, l’ex allenatore dei Chicago Bears di football americano Mike Ditka, l’astuto Falk vigilava attentamente scegliendo solo quelle aziende e quei prodotti che meglio riflettessero l’immagine di cui Jordan è il ritratto. O meglio: il ritratto dell’immagine che lui aveva in mente per Jordan.
Nel caso della McDonald’s, Jordan aveva piena fiducia in quella vera e propria holding del fast-food essendo stato un assiduo consumatore di Big Mac, il nome degli hamburger più diffusi, sin da quando era abbastanza alto da arrivare al bancone della cassa. Un esempio di dedizione alla causa ancor prima che essa fosse da lui abbracciata contrattualmente? Presto fatto. Nel 1984, Jordan aveva appena terminato un allenamento con la squadra olimpica USA quando il selezionatore, Bobby Knight, entrò negli spogliatoi e comunicò a diversi giocatori che erano stati scelti al draft da squadre NBA. Knight chiese loro come avrebbero festeggiato un’occasione così particolare e la gran parte di essi rispose che sarebbe andata a mangiare in lussuosi ristoranti innaffiando le esclusive pietanze con ettolitri di Dom Perignon. Ma c’era qualcuno che, allora, aveva pretese più modeste. “Be’, Jordan, tu sei stato il terzo giocatore chiamato. Che cosa farai per festeggiare? – chiese Knight – Andrò giù da McDonald’s e ordinerò tre Big Mac, con patatine fritte e una Coca grande”, rispose Michael con un sorriso. A sentire Coach Knight, andò esattamente così. A questo punto, data una tale identificazione aziendale, c’è davvero da stupirsi come mai la multinazionale del fast food sia uscita sul mercato della ristorazione veloce solo con un’edizione limitata del McJordan burger...
Lo stesso Falk, anima candida, sa però riconoscere i meriti, soprattutto quando sono lampanti. “Michael Jordan continua a soddisfare le aspettative che tutti ripongono su di lui, e in tutti i campi, dal basket al marketing” – ha dichiarato “Mr. 3%” (la quota richiesta per i suoi servigi; gli altri viaggiano minimo al 10%) – “Facendolo incontrare con alcune delle pietre angolari del marketing americano (Nike, McDonald’s, Coca Cola, Wheaties) abbiamo creato una vera e propria sinergia che lega assieme ciascuna di queste compagnie e accresce ulteriormente la riconoscibilità del proprio marchio”.
L’accordo della ProServ con la Nike, tanto per fare un esempio non banale, in effetti salvò dalla possibile bancarotta la barca dell’azienda calzaturiera oggi padrona dello sport mondiale che, onestamente, all’epoca (metà degli anni Ottanta) non navigava in acque tranquille. Ma quello che si sarebbe rivelato un binomio inscindibile tra Jordan e l’azienda con... il baffo (swoosh, l’aletta del logo Nike) non era stato un colpo di fulmine.
Dalla stagione 1997-98, invece, Michael ha aperto addirittura una sua divisione, la Brand Jordan, all’interno della corporation Nike, attenzione: non semplicemente una sua nuova linea di abbigliamento sportivo, ma una vera e propria struttura a sé stante con poteri di scelta e decisionali autonomi, che si è già lanciata prepotentemente sul mercato, in particolare – è ovvio – cestistico, strappando importanti contratti di esclusiva come sponsor tecnico di college dai programmi di basket di primo livello come il prestigioso ateneo newyorkese di St. John’s, oppure North Carolina AT & T, Cincinnati e altri.
Come pitchmen, i testimonial di lancio del prodotto, la Jordan Brand ha scelto stelle NBA già affermate e di prima grandezza come Vin Baker o Mitch Richmond; quest’ultimo, tra l’altro, era già un veterano delle Jordan, cos“ come Nick Anderson (lo stesso che nelle Finali Eastern Conference del 1995, l’anno del rientro alle competizioni di MJ, aveva bollato il suo futuro principale dicendo che il “45” poteva sbagliare, mentre il “23” era Superman); oppure star futuribili (nel brevissimo periodo) quali Ray Allen, Eddie Jones, Michael Finley, gente che quando affronta MJ lo fa con ai piedi le sue scarpe.
Ma se qualcuno crede che della torta Jordan, la fetta più appetitosa sia quella della Nike, si sbaglia. E di grosso. Dopo la casa di Beaverton, con cui, nel 1991, MJ ha firmato un rinnovo decennale, fu la volta di altri grossi nomi: i già citati Coca Cola, General Mills (questo è il nome dell’azienda ma tutti ne conoscono il prodotto più noto, i Wheaties), McDonald’s e Gatorade, ma anche WorldCom (società di telecomunicazioni, il cui legame con Jordan avrà durata fino al 2006) ed altre aziende di enorme fatturato gli procurano dai 2 ai 5 milioni di dollari all’anno. Un discorso a parte merita invece la Oakley, compagnia che produce i reclamizzatissimi occhiali da sole e che, per averlo tra i suoi testimonial (vi siete mai chiesti perché a Grant Park, a prescindere dalle condizioni meteorologiche, Michael festeggia ogni titolo, cosa che ormai succede praticamente tutti gli anni, con dei bei occhialoni da sole firmati?), gli allunga mezzo milione di dollari ogni due semestri. Dov’è il trucco? Eccolo. Un signore che risponde al nome di Michael Jordan è diventato il quinto azionista (e membro del consiglio di amministrazione) dell’impresa... Nell’aprile del 1998 MJ ha girato uno spot televisivo, una specie di brevissimo film d’azione, in cui recitava la classica parte dell’eroe buono dotato di un’ÒarmaÓ letale: gli occhiali Mars da trecento dollari il paio.
Insomma, Dove c’è profumo di soldi, c’è Michael. O chi lo rappresenta. Abbiamo detto profumo? Bene, sul quindicinale ESPN – The Magazine, splendida rivista sportiva USA ma di diffusione planetaria, non c’è numero che esca senza pagine intere, a colori, sulla nuova fragranza denominata, indovinate un po’, Michael Jordan Cologne. L’essenza, prodotta e distribuita dalla Bijan Fragrances Inc., una società con sede a Beverly Hills, California. Per lui un onorario di 250 mila dollari annui che la Bijan gli passa per promuovere i propri prodotti.
Non abbiamo ancora parlato delle altre attività extra-basket quali i tre suoi ristoranti. Può apparire paradossale, ma nel mezzo mondo che possiede Jordan non aveva un posto in cui poter andare a mangiarsi una pizza con gli amici. Per riuscirci, nel 1993, ha aperto, su tre piani, The Michael Jordan’s Restaurant.
The Restaurant senza cucina
Di ristoranti poi Jordan ne ha aperti altri due. Dalla sua inaugurazione, nella primavera del 1993, il locale è diventato un luogo di culto pagano e tappa obbligata per turisti, non necessariamente patiti di NBA o di fanatici.
Situato al civico 500 di North LaSalle Street di Downtown, lungo una parallela di Michigan Avenue, l’arteria principale di Chicago, non è più solo un ambiente accogliente e a sfondo cestistico dove poter mangiare, sperare di incrociare da lontano His Airness ed eventualmente acquistare gadget al fan shop.
È un locale alla moda, che fa tendenza, pur essendo circondato da altri a tema frequentati da top model, star della musica, della tv, del cinema: tra questi, Hard Rock Cafè, Planet Hollywood, Hooters, Rainforest Cafè.
Michael, o chi per lui, anche in questo settore ha saputo fare meglio e di più. Ha saputo osare, specie in termini di prezzo: qui tutto è carissimo, dal cibo ai gadget, e se volete mangiare il menu preferito dal re, lo pagate circa il 35% in più.
Nei tre piani dell’edificio-santuario c’è di tutto di più su Michael Jordan, o meglio: di ciò che Jordan e il suo entourage stessi vogliono che la gente creda che appartenga a Jordan. Basti pensare che il fanatismo e le esagerazioni da idolatria sono arrivati a sfociare in una tale bramosia di possedere un oggetto che fosse di proprietà del divino che i responsabili del locale sono stati costretti a cambiare l’intera fornitura (o quel che ne rimaneva) di piatti e bicchieri e ferri del mestiere vari perché gli avventori decidevano di, come dire, tenersi un ricordino del loro pellegrinaggio nella terra santa del basket. D’ora in poi solo posateria e servizi comuni, senza logo, al The Restaurant.
Fin dalla facciata esterna s’intuisce che ci si trova di fronte a una specie di mausoleo del Più Grande. E tutti fanno in modo che nessuno se ne dimentichi, neanche per un istante. Intanto si può rimanere di sasso dinanzi all’enormità del murale dell’ingresso, che reca la gigantesca immagine di un Jordan in volo mentre tiene il pallone con la mano destra (una volta accertatene le dimensioni con i propri occhi, viene il dubbio di dover andare più spesso dall’oculista per farli controllare).
Sotto la gigantografia, che ai tempi del ritorno agonistico di Michael venne adornata da un chilometrico striscione con la scritta “He’s Back!”, è posta l’infinita insegna luminosa (scritta rossa su fondo nero: i colori dei Bulls) che avverte, come gli uscieri in livrea all’ingresso al piano terreno, che il pellegrino – obolo pronta mano – è giunto alla mensa del Giusto.
The Michael Jordan’s Restaurant.
CHRISTIAN GIORDANO
Michael Air Jordan
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