Francesco Conconi: ho fatto il Test
«Ho lasciato il suo gruppo perché non mi dava lo spazio che mi merito.
Ho continuato la ricerca, e i risultati si vedono.
Mi ritengo più avanti di Conconi perché lui è un retorico dell'allenamento,
riceve nel suo studio, il mio laboratorio invece è la strada.
Io vivo con i corridori.»
- Michele Ferrari a Titta Pasinetti, Il Giornale, 22 aprile 1994
di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©
Cinque mesi d’inseguimento telefonico. A settembre, «appena rientrato dalle vacanze», aveva «troppo lavoro arretrato da smaltire». Poi era «sempre via per convegni in giro per il mondo», poi mi «avrebbe fatto sapere» lui. Seh, ciao. Alla fine, due giorni dopo un mio sms educato ma fermissimo, riesco finalmente a fissare l’appuntamento per l’intervista.
Il professor Francesco Conconi è un mattutino. Operativo «dalle 9 in poi» nel Centro di Studi Biomedici Applicati allo Sport da lui stesso fondato e oggi diretto dalla professoressa Annalisa Cogo. Dall’esterno il Centro sembra un antico casolare, e difatti è situato fuori città, nella pace della nebbiosa campagna ferrarese.
Comasco di Ronago, classe 1935, Conconi vive a Ferrara dal 1964. Vi arrivò per studiare Medicina, e della città s’innamorò al punto da sceglierla per viverci e prenderne un leggerissimo accento. Mi accoglie con cortese ma rigido “approccio scientifico”. Poi via via si apre fin quasi, forse m’illudo, a prendermi in simpatia e a sciogliersi in una conversazione persino calorosa quasi come la sua bella voce. Il cui tono appena s’infervora e s’increspa quando tocchiamo temi e personaggi a lui cari (il suo Test, lo sport e soprattutto il ciclismo, la fisiologia, Moser, Pantani) o invisi (l’incompetenza, i media, la Giustizia e la politica in Italia, il suo ex specializzando Ferrari, Donati, i pmsuperstar Guariniello e Sorbini).
Nell’SMS di fuoco gli avevo scritto che «non ero il solito giornalista a caccia di scandali che veniva lì a chiedergli le solite cose su doping, Epo, autoemotrasfusione eccetera» e che «se aveva cambiato idea, che almeno me lo dicesse così non perdevamo tempo in due. Non sono un bambino né uno sprovveduto». Com’è, come non è, due giorni dopo l’ho chiamato e non solo mi ha risposto ma mi ha buttato lì che il venerdì mattina poteva andar bene. Era la mia chance.
Ho subito avvertito però che, per fare breccia tra le sue difese, non avevo che un’arma, la credibilità. M’è venuto in mente che con quella parola-chiave Pat Riley, neo-coach dei New York Knicks, nel 1991 scalfì il muro di scetticismo che il Patrick Ewing, icona-totem prima ancora che miglior giocatore della squadra, nutriva non sull’allenatore dei cinque titoli NBA con i Los Angeles Lakers ma sull’ennesimo santone della panchina chiamato al capezzale di una franchigia convalescente da diciotto anni.
«Ricordo ancora il mio primo incontro con Patrick, a Washington – racconterà Riley –. Mi chiese: “Perché credi che con te sarà diverso? Sei solo il sesto allenatore arrivato qui in cinque anni. E probabilmente mi dirai le stesse cose che hanno detto gli altri”.
“Forse hai ragione, ma l’unica cosa che posso cercare di portare è la mia credibilità”».
Ecco, credo sia stata forse quella, la credibilità, a indurre lo scettico Conconi a dare una possibilità all’ennesimo giornalista venuto a chiedergli «le stesse cose che gli avevano chiesto gli altri». Ma per avere credibilità avevo lavorato duro. Mi ero documentato (e Conconi durante l’intervista me lo chiederà pure: hai studiato o no?), anche su argomenti ostici e odiosi; a costo di dormire tre ore (e guidare per sei tra andata e ritorno) per essere, e non solo apparire o sentirmi, preparato.
Per rompere il ghiaccio esordisco con la stessa “entrata” che avevo usato con Boifava: «Ero indeciso se presentarmi con un mazzo di rose rosse. Sa, dopo cinque mesi di corteggiamento…». Conconi mi guarda e mi spiazza con un perplesso «cosa c’entra Boifava?». Intuisco subito che non sono i convenevoli bensì la concretezza, non direi il cinismo, il primo, vero tratto distintivo del professore che ha rivoluzionato la Scienza dello Sport tout court.
Lui si schernisce ma l’assunto è innegabile: nella scienza sportiva c’è un a.C. e un d.C., un avanti-Conconi e un dopo-Conconi; e non soltanto per il celeberrimo omonimo Test da lui inventato giusto quarant’anni fa, o per i suoi rivoluzionari studi di ricercatore. Conconi è uno scienziato di fama internazionale. E in pochi lo sanno ma è stato anche un atleta amatoriale di ottimo livello, uno che a 56 anni scalava lo Stelvio in 1h45’29”. E che forse lo è tuttora, alla soglia non anaerobica ma anagrafica degli 84 anni. Portati benissimo.
Nel bene e nel male i suoi studi di biochimica e fisiologia sull’ossigenazione del sangue, l’autoemotrasfusione (che Moser nega d’aver praticato, anche se ai tempi non era vietata, nda) hanno radicalmente cambiato per sempre lo sport e le scienze a esso applicate e/o relative. Conconi però è “solo” quello è sempre stato: un grandissimo ricercatore che mai s’è piccato anche solo di atteggiarsi ad allenatore, preparatore né, tanto meno, stregone.
Negli anni Ottanta, è bene non dimenticarlo, era medico ufficiale del Coni. Nel Processo di Ferrara è stato assolto, anche se con una sentenza, quella del giudice Oliva, che fa riflettere. Nonostante il cancan mediatico di quel processo, Conconi è stato rieletto per il secondo mandato come rettore dell’Università di Ferrara. Questi sono fatti. E bisogna tenerne conto. Poi possiamo avere tutti i dubbi etico-deontologici del mondo, e farci tutte le domande che vogliamo. Alcune risposte non le avremo mai, altre possiamo solo serbarle dentro di noi. E ciascuno ha le proprie.
Qui, ho provato a fargli dire le sue.
Centro Studi Biomedici Applicati allo Sport - Centro Interdipartimentale dell’Università di Ferrara
Ferrara, venerdì 18 gennaio 2019
- Io lo so perché lei continua a tenersi così impegnato, a girare il mondo per convegni e conferenze. Conosco il suo segreto: lo fa per sentirsi vivo e per tenere lontano The Grim Reaper, o come diremmo noi la signora con la falce.
«Eh, il Grim Reaper: quello tocca a tutti».
- Lasci che aspetti: meglio tardi che prima. Cominciamo. Francesco Conconi, quando e come si è avvicinato al ciclismo?
«Fin da bambino».
- Per un campione che la ispirava o la emozionava particolarmente?
«No, mio papà m’ha regalato una bicicletta. E poi una bicicletta da corsa, dopo sono andato a correre».
- Lei, comasco di Ronago, classe, 1935, di che origini è? La sua era una famiglia umile?
«Umilissima».
- Mi racconta un po’ anche il Conconi che la gente magari non conosce, o conosce meno?
«Quattro figli, mia mamma ci ha voluto mandare tutti a scuola. E siamo andati».
- Quindi potevate permettervelo? Perché non era così scontato.
«No, non era così scontato. Si sono spaccati in due per mandarci a scuola».
- Suo papà che cosa faceva?
«C’era una casa di spedizioni, a Chiasso. Noi eravamo sul confine e c’era la dogana import/export. Lavorava lì».
- E lei come ha scelto l’indirizzo di studi? Che cosa le piaceva, perché è arrivato a fare quello che ha fatto?
«Mah, andando a scuola, coi compagni ci si parlava e ho pensato di far Medicina».
- Lei era una specie di bambino-prodigio?
«Ma no, no: normale».
- Normalissimo?
«Normale. Piuttosto i miei fratelli erano…».
- …delle belle teste?
«Sì».
- E com’è arrivato a studiare negli Stati Uniti? Dev’essere stato un bel viaggio, specie in quegli anni.
«Eh, la storia è lunghissima.
- Me la vuole raccontare, magari in breve?
«Ma niente, la vita vuole che, dopo che avevo fatto il clinico-medico a Modena, il professor Mario Coppo mi disse che secondo lui ero tagliato per la ricerca, così mi mise in contatto con un biochimico. Andai a lavorare con un biochimico, Sandro Pontremoli, che è stato anche rettore all’Università di Genova [dal 1° novembre 1990 al 31 ottobre 2004, nda], dopo un anno sono andato negli Stati Uniti. Ho lavorato alla Columbia University».
- Lì avrà conosciuto Furio Colombo, o erano anni diversi?
«No, diversi. La Columbia, la parte medica. C’è la Columbia cosiddetta “downtown”, che è per le discipline letterarie, poi c’è la parte medica.
- Gliel’ho chiesto perché Furio Colombo alla Columbia è stato docente di giornalismo e dal 1991 al 1994 ha diretto l’Istituto italiano di Cultura.
«La clinica era su alla 168ªesima Strada, dove c’è ancora, il Columbia Medical Center».
- L’Italian Cultural Institute è invece a Park Avenue. Torniamo a noi. Nella puntata de “L’intervista a tu per tu con” dell’aprile 2017, in studio a Telestense dalla sua amica Dalia Bighinati, lei ha raccontato che, da giovane biochimico appena rientrato dagli Stati Uniti, aveva proposto al professor Antonio Masoni delle idee rivoluzionarie per il recupero degli infartuati: allenarli, farli muovere. È vero che Tonino Masoni, che – parole sue – «è stato un grande cardiologo», davanti ai propri collaboratori le disse: “Ma tu sei matto?!”?
«Non mi ha detto “ma tu, sei matto?!”, mi ha detto: “Ma tu, sei scemo?!” ».
- Ah, chiedo scusa: era così, testuale?
«Sì, difatti. E non erano rivoluzionarie».
- Be’, per le nostre latitudini sì, o no?
«Per allora».
- Sì, certo.
«Per allora. L’infartuato era un invalido per tutta la vita».
- Quando rientra il ciclismo nella sua vita, o non ne è mai uscito?
«Dopo ho cominciato a fare i test, le prove…».
- Prima però con l’atletica, no?
«Ho fatto il Test, l’ho fatto su di me. L’ho inventato su di me. E poi l’ho applicato a molti sport».
- Visto che è uscito giusto trent’anni fa, nel 1989, sono andato a riprendermi quel libro di Sandro Donati, Campioni senza valore. Donati lì sostiene, con tanto di valori, che all’inizio i test di Conconi non fossero così attendibili. Mi spiega perché? O non era vero?
«I test sono stati usati in tutto il mondo. Possono essere…».
- Sì, sì: non lo stavo mettendo in dubbio. Volevo capire…
«Possono essere usati bene o usati male».
- Ma quindi non si trattava di doverlo ancora mettere a punto?
«Adesso sto scrivendo una pubblicazione su come si fa il Test, quarant’anni dopo la sua invenzione. Lo pubblicherò per mettere a punto i dettagli».
- E come si è evoluta la storia della messa a punto del Test? Del come si fa questo test?
«Provando e riprovando. Sperimentando. Così sappiamo come si fa».
- Sergio Meda, che con lei ha lavorato all’Enervit e di cui credo lei sia ancora amico….
«Non l’ho mai più visto. Come sta?».
- Ha una certa età, ma sta bene. Meda mi ha detto: a differenza di altri scienziati, Conconi non si è mai piccato di sentirsi allenatore. Me lo conferma? Lei non si è mai sentito allenatore, aveva tutt’altra formazione.
«Io misuravo la gente. A dir la verità vedevo se gli allenamenti che facevano modificavano le prestazioni. Basta. Quindi a come modificare la prestazione ci pensavano degli altri io misuravo risultati».
- Lei quindi non ha mai avuto ambizioni d’altro tipo, non voleva sconfinare in campi altrui? Era questo che volevo capire.
«No».
- E che differenze ci sono nell’applicare il Test nelle varie discipline in cui lei l’ha applicato: dallo sci al ciclismo, dall’atletica al nuoto e così via?
«Bisogna sapere com’è lo sport. Bisogna esserci dentro per sapere come si fa».
- E perché Conconi c’era – c’è – più dentro di altri? Perché questi sport lei li ha praticati?
«Mah, non lo so perché. Perché la fisiologia l’ho conosciuta e anche la biochimica. Sapevo come funzionano i meccanismi, gli altri no. Forse è quello».
- Lei è sempre stato molto critico verso la medicina sportiva di altri sport. Penso per esempio al calcio. Ho letto anche delle sue dichiarazioni al Corriere della Seradell’epoca…
«Cosa ho dichiarato?».
- Per esempio che molti medici dello sport magari non comunicavano agli atleti come stavano realmente le cose. E che specialmente nel calcio dell’epoca, parliamo degli anni Ottanta, si procedeva per sentito dire. Ecco, questo m’ha colpito. Allora, mi chiedo: ma come, in campo medico-scientifico…
«Ma in tutti gli sport si procede per sentito dire».
- È ancora così?
«Oh».
- È ancora così?!
«Adesso non lo so, sono fuori da troppo tempo».
- E come si concilia questa cosa? In ambito scientifico dovrebbe essere…
«Non si concilia. Non è scienza».
- È quello che le volevo chiedere. Erano medici anche loro, quindi non avevano il suo stesso tipo di approccio “scientifico”?
«Nel mondo sportivo in generale, ho saputo che quello là fa così… Poi magari tante erano storie…».
- ...che un fondamento scientifico non l’avevano?
«No».
- E quindi anche in questo l’approccio-Conconi è stato “rivoluzionario”? Ha introdotto una maggiore rigorosità scientifica?
«Noi misuriamo, prima di dire si fa così. Misuriamo e proviamo».
- Conconi perché lo fa e gli altri no?
«Non lo so».
- E non se lo è mai chiesto?
«Io, no. Io son fatto a modo mio ed io facevo così. No, ma… Nello sport uno non studia mica, non c’è mica una… Ci capiti dentro, fai e poi… sei un grande, o pensi di essere un grande, perché hai un grande atleta».
- Sì, ma lei nello sport non c’è “capitato dentro” per caso. Dai, Francesco, eh?
«No, io non ci son capitato. L’ho fatto. Di persona. Ci son capitato dentro per quello».
- E questo, se posso dirlo, le avrà comportato anche qualche inimicizia, no?
«Mah, quando dicevo si fa così… Il Test Conconi: i fisiologi si son molto arrabbiati, perché è di una banalità estrema. È una cosa elementare».
- Mi spiega perché? Perché è di una banalità estrema, e c’è voluto Conconi per tirarlo fuori?
«È banale perché non è che misura l’iradiddio. Misura la frequenza cardiaca, e allora se con la misura della frequenza cardiaca, mentre uno fa uno sforzo, si identifica la soglia anaerobica, è una cosa… E quella è una cosa facile, che si misura. I fisiologi misurano le cose con macchine molto più complicate. Come, solo con la frequenza cardiaca ti dà questa informazione? Impossibile. Quando ero un bambino, son bambino ancora adesso, questo bambino che va a raccontare ai fisiologi ’sta roba… Hanno storto il naso: ma cosa vieni a dire…s Ecco qua».
- Perché questa iniziale resistenza? Perché i fisiologi non volevano misurare come faceva lei?
«Perché era troppo facile. Il fisiologo voleva le maschere. Voleva le strumentazioni di laboratorio. Uno che misura la frequenza cardiaca è banale, dai. Troppo banale per essere vero».
- Sì?
«Sì. Questa è stata la resistenza dei fisiologi».
- Per chiudere il discorso su Donati, nel suo “Campioni senza valore” lui sostiene che la soglia anaerobica da lei indicata non sempre coincideva con quella reale. Voglio capire se la vostra era una mera rivalità “scientifica” o magari di altro genere. Perché se è il dato scientifico è quello, è quello. Non è che uno dice così e l’altro cosà.
«Non ne ho la più pallida idea. Non ne ho la più pallida idea…».
- Mi sa che qua entriamo in un campo che con lo scientifico ha poco a che fare…
«Mah, insomma: il biochimico è uno scienziato, non è mica...».
- Giocate in due campionati diversi, è questo il punto? Fate due mestieri diversi?
«Io ho un’altra formazione, io sono un ricercatore. Ho fatto ricerca in molti campi, mica solo… E so come si fa».
- Però volevo che lei spiegasse al profano se magari Donati, un tecnico, ha un approccio più di “campo” e l’altro, uno scienziato, ne ha uno magari più teorico…
«Io non lo so cosa fa Donati».
- Non prendiamo il caso di Donati.
«Lei mi stava citando Donati, ho parlato di Donati».
- Prendiamo un allenatore. L’allenatore e lo scienziato parlano due lingue diverse? È questo che sta cercando di dirmi?
«Io non so come parli l’allenatore. Se l’allenatore si mette a fare delle cose tecniche, bisogna che abbia studiato per farle. Se ha studiato, le fa; se non ha studiato, le inventa, le improvvisa. Insomma, fa niente. Adesso… Ma molti lo fanno male. Per esempio, mettiamo che uno faccia un test in un ciclista. Pedalando. La prova dev’essere incrementale. Aumenta pian piano, io vedo come vanno le cose. E vedo quando raggiungi il tuo massimo, quando vai “in acido”, come si dice: quando c’è la soglia anaerobica. In tutto il mondo, cosa fanno? Ti mettono a pedalare a sessanta pedalate al minuto, dopo un minuto o due aumentano la resistenza, diventa più duro pedalare. Mi capisci? [è passato dal lei al tu, ora giochiamo nel suo campo, stiamo prendendo reciproca confidenza e pian piano sento che comincia a darmi fiducia, vede che lo seguo e intuisce che quel che mi racconta mi interessa, nda] Un altro minuto, ancora, sempre a sessanta pedalate al minuto, diventa sempre più duro. Ora: l’uomo, la macchina umana, non funziona così. Perché se fosse così, il massimo dello sforzo prodotto da un ciclista, cioè in volata, sarebbe fatto a sessanta pedalate al minuto, con davanti una moltiplica così e dietro… [mima il gesto della corona grande davanti, il 53/54, e il pignone piccolo dietro, l’11, nda]. Vanno a centocinquanta pedalate al minuto! Allora un test che si basi sulla forza muscolare e non sulla cadenza, non mette in funzione male il cuore, non lo “misuri”. Misuri la forza muscolare. In tutto il mondo lo fanno, e misurano i cardiopatici così. Ecco, questo è sbagliato. È proprio sbagliato dal punto di vista fisiologico. È come nelle corse a piedi. Se uno vuole aumentare la velocità, cosa fa? Aumenta la falcata? Aumenta la cadenza, per dirne una. Per cui io, prima di dire se uno fa giusto o no, voglio vedere come fa e cosa fa. Poi vediamo l’errore. Comunque adesso, siccome sto scrivendo questa roba…».
- Lo leggerò lì…
«Eh, lo leggerà. Andiamo…». [siamo tornati al lei, nda]
- …per le lunghe? L’editore l’ha già trovato?
«No, è un giornale scientifico. Lo presento a un giornale scientifico».
- Avevo capito che fosse un libro sui quarant’anni del Test Conconi.
«No, no, no: è una pubblicazione scientifica».
- Veniamo invece al suo coinvolgimento nello sport. Lei arriva in Fidal nel ’79, ho ricostruito giusto?
«Non lo so, io».
- Non si ricorda l’anno o se fosse con la Fidal?
«Mah, la Fidal… Io non sono entrato in Fidal».
- No, non intendevo che lei fosse entrato in Fidal, ma che lei collaborasse con la Federatletica.
«Ma neanche. Qui venivano a fare le prove. C’era la Scuola internazionale di maratona. Chi era il capo della Scuola? Hai studiato o no? Giampaolo Lenzi. Venivano da tutto il mondo. Lui era un allenatore di maratoneti. Ah, cavolo: ma sul serio, però. Perché quando Orlando Pizzolato vince due volte la maratona di New York… Poi c’era Massimo Magnani, ed io andavo… Il primo contatto con questa gente in campo sportivo l’ho avuto perché io volevo sapere se nei 10 mila metri si faceva lattato o no, come si doveva fare, e quanto se ne faceva. Allora sono andato a chiedere se potevo fare un prelievo a degli atleti, per vedere se si faceva lattato o no. Allo stadio Olimpico a Roma, c’era una gara lì. Perché volevo misurare ’ste cose».
- Siamo nell’80, qui?
«Non mi ricordo le date».
- E invece il contatto con il ciclismo era Angelo Laverda, l’ha portata lui nel ciclismo?
«Non era mica un capo, Laverda. Era un tecnico. Non mi ricordavo neanche più come si chiamasse di nome, ma era un tecnico».
- Invece il contatto con Francesco Moser com’è avvenuto?
«Vennero qui a chiedere se lo misuravo. Qui al motovelodromo».
- Mi conferma se per il progetto Enervit il vostro primo nome era Saronni? E invece dopo vi siete dirottati su Moser?
«Io non mi sono mai dirottato, son venuti loro a cercare me. Io non mi sono mai dirottato».
- Beppe mi ha detto che il vostro primo contatto era lui, non che era stato Saronni a cercare lei.
«Ma no, ma no, ma no. Ma neanche... Vennero qua e mi dissero: Vuoi misurare…? Poi, siccome stavo misurando Moser, mi pare che il mio amico Ernesto Colnago mi chiese di misurare anche Saronni, ma ormai stavo misurando Moser. Basta».
- Parliamo della Carrera. Il medico sociale era Giovanni Grazzi, un suo “discepolo”…
«I “miei” si sono laureati. Qui si sono laureate molte persone, e poi c’era la Scuola di Specializzazione di Medicina dello Sport. Quando uno si è specializzato, poi ognuno va per la sua strada. Io la Carrera la conosco come la conosce lei, in pratica. Come non ho conosciuto molti altri, molte altre discipline seguite da altri miei specializzandi».
- Allora perché si parla sempre di “conconiani”. Le dà fastidio questa etichetta? È sbagliata?
«È sbagliata».
- Mi spiega perché?
«È gente che si era specializzata nello Sport qua, poi ha fatto la sua strada. Ma io son stato anche rettore di questa università. Allora, ci son stati migliaia di studenti che si sono laureati qui, e io gli ho firmato il diploma di laurea. Sono conconiani? Ma no…»
- Sì, ma non è che tutti quelli che si sono laureati qui magari condividevano, che ne so, la sua filosofia, il suo metodo, le sue ricerche…
«No, no, no».
- Per questo volevo capire chi o che cosa fossero questi “conconiani”.
«Io seguivo più da vicino quelli che si erano specializzati in Medicina dello Sport con me. Solo quello».
- Sono andato a prendermi l’elenco dello staff per il record dell’ora di Moser a Città del Messico 1984. Almeno con questo fior di professionisti lei avrà avuto un rapporto privilegiato, se non altro dal punto di vista professionale.
«Non c’era nessuno di loro. Chi c’era?»
- In tutto eravate in diciannove. Oltre a lei c’era Antonio Arrigo, neurofisiologo dell’Università di Pavia.
«Appunto. Conconiano? Era dell’Università di Pavia».
- Luciano Cocchi, biologo. Il professor Antonio Dal Monte, “inventore” delle ruote lenticolari, lo conosciamo tutti. Silvano Finotti, Clinica del Lavoro dell’Università di Milano.
«Vede che di conconiani non ce n’è?».
- Difatti son venuto qua anche per verificare queste cose. Ecco gli altri: Lorenzo Somenzini, dietologo; Giovanni Tredici, storico dottore del Giro d’Italia; Pia Farina, fisiologa; Luigi Allegra, dell’Istituto di Pneumologia dell'Università di Milano; i medici sportivi Enrico Arcelli, Benigno Bartoletti della FIAT, Franco La Neve della Juventus e Franco Zamorani dell’imbarcazione Azzurra; il medico Vittorio Massari; Paolo e il figlio Alberto Sorbini della Also-Enervit; Roberto Terzaghi, legale specialista in legislazione sportiva; e infine Daniela Colombo e Piero Gaiardelli per le pubbliche relazioni.
«Allora, mi deve dire dove sono tutti i conconiani che dicevano».
- Io non so neanche se ci fossero o no. Glielo chiedo adesso.
«Ma neanche uno. Nessuno di quelli specializzatisi qua era lì».
- Quindi tutti questi professionisti che le ho elencato li ha conosciuti lì, giusto?
«Eh sì».
- Di Stephen Roche, che cosa mi può dire?
«Boh».
- Niente?
«Io non l’ho mai conosciuto».
- Lei con Stephen Roche non ha mai lavorato?
«Io no. Eh, no».
- Nel processo di Ferrara, sono stati associati a Stephen Roche almeno tre pseudonimi: Rocchi, Roncai, Righi. Però se lei mi dice che con lui non ha mai lavorato… Mi conferma quindi anche che la Carrera non veniva qui a fare i test? O venivano, quelli della Carrera?
«No».
- Roberto Visentini l’ha mai conosciuto?
«Visentini forse una volta l’ho incontrato, ma…».
- …non ci ha lavorato insieme?
«No».
- Le chiedo una cosa che ha più a che fare con la politica che con lo sport. In una foto lei siede a tavola, non so se a un pranzo o a una cena, con Francesco Moser e Mario Malossini, prima assessore e poi Presidente della Provincia autonoma di Trento. Se lo ricorda Malossini, che poi è anche finito nei guai?
«Ah sì, vagamente».
- Ecco, che rapporti aveva lei con questi esponenti politici, e magari con gli enti eccetera?
«Io andavo a cena con Francesco, e c’era chi c’era».
- Sa perché gli glielo chiedo? Perché secondo alcuni tifosi di Visentini, lui veniva un po’ preso in mezzo fra gli Sceriffi del gruppo, Moser e Saronni. Secondo loro Visentini pagava anche il fatto di non avere “amicizie” importanti, diciamo così, come invece potevano avere magari lo stesso Moser con il costruttore edile Italo Garbari e quindi con l’allora potente Democrazia Cristiana trentina; e lo stesso Saronni, pupillo del vostro amico comune Ernesto Colnago.
«Ah, può darsi, io non lo so proprio».
- Lei non ha avuto mai modo di…
«Ma no, io non andavo. A fare il Giro io non ci sono mai andato». [Conconi poi ammetterà di essere andato all’arrivo ad Arabba, nella tappa in cui Moser perse la maglia rosa da Fignon al Giro ’84, poi vinto da Moser nella crono conclusiva di Verona, nda]
- A volte ho avuto l’impressione che la tirassero sempre dentro per la giacchetta, anche quando magari lei non c’entrava niente.
«Sììì. Una vita. Ho passato una vita così». [sorride amaro, nda]
- Perché lei non fa mai sentire la sua voce? Non dico adesso, ma all’epoca magari…
«Perché non serve a niente».
- In questo lei è molto visentiniano, lo sa?
«Ci sono almeno altri dieci giornalisti, che conosco bene, e con cui sono stato in buoni rapporti…».
- Uno, per esempio? Gianfranco Josti, allora prima firma del ciclismo al Corriere della Sera?
«Non voglio dire nomi. E che vorrebbero scrivere un libro su…».
- Vabbè, lei sarebbe anche in grado di scriverselo da solo, se volesse.
«Sì, ma non c’ho voglia. Non serve a niente. A cosa serve?».
- Non lo so se qui ha ragione. Questa cosa me l’ha detta anche Visentini: non serve a niente. Però così va avanti chi dice la sua. A meno che a lei non interessi, allora…
«Macché avanti, ma no, macché va avanti… Dove vai?! Ma dove vai...».
- Intendo dire che alla gente arriva la versione di quelli che parlano, e non quella di chi magari avrebbe qualcosa da dire e invece non lo fa.
«Io non leggo mai i giornali».
- E quindi non ha una grande opinione della mia categoria?
«Non ascolto la televisione. E cerco di tenermi aggiornato con le pubblicazioni scientifiche. Leggo quelle».
- Lei quindi le notizie “non scientifiche” dove le prende? La tv no, il web?
«No, niente. Guardo i titoli dei giornali. E poi sento Rai3, i telegiornali, che sono a certe ore fisse».
- Questo suo atteggiamento nei confronti dei media è figlio del processo di Ferrara, o non c’entra niente?
«Ma no. Il processo di Ferrara… È passato un po’ di tempo fa Soprani, che io non conoscevo…».
- Non lo conosceva? Pierguido Soprani, il Pmdel processo di Ferrara?
«È passato in bicicletta. Si è fermato, mentre io andavo a camminare o a correre. S’è fermato, m’ha stretto la mano, è andato via. Io non l’ho neanche riconosciuto. Ho detto: “Ma chi sei?”. “Soprani”. “Ah, ciao”». [ridacchia, nda]
- Questa è carina, non la sapevo. Ho chiesto a Sergio Meda, con cui alla Enervit avete lavorato a stretto contatto, se dal punto di vista scientifico lei e Michele Ferrari siete due fuori categoria.
«Michele Ferrari è uno di quelli specialisti in Medicina dello Sport che ha fatto assolutamente la sua strada».
- Lei che giudizio ne dà, da un punto di vista scientifico? Scientifico, eh.
«Non ha mai pubblicato niente. Ha pubblicato il Test per… Era qua, c’era la specializzazione e quando ho sviluppato il Test, ho messo anche il suo nome. Basta. Finito lì. Poi lui non ha mica più fatto ricerca, pubblicazioni».
- Ha scelto un’altra strada.
«Certo. I soldi».
- Io però volevo da lei un giudizio – scientifico – sul valore del professionista Ferrari.
«Ma come faccio?».
- Non lo so: io non ne ho gli strumenti.
«Di uno la valutazione scientifica come la dai? Da quello che produce. Come giudichi quello che produce? Le pubblicazioni…».
- …scientifiche.
«E certo».
- Io però non le ho chiesto un giudizio sul ricercatore. Le ho chiesto un giudizio sul professionista.
«No: [un giudizio] scientifico».
- Sì, ma sul Ferrari professionista. Sui risultati che lui, vogliamo dire così?, ha portato. Con gli atleti da lui seguiti.
«Lui i suoi risultati li ha fatti per conto suo, fuori da qui e lontano da qui».
- Mi conferma che alcuni dei primi Test che lei sviluppava, quindi anche in pista per il ciclismo, li ha fatti anche su Michele Ferrari?
«Li ho fatti su Ron Acton. Lei sa chi è, no?».
- No.
«Un americano, professore all’Università dell’Alabama, che è venuto qui per farsi misurare. Li ho fatti su mille persone che volevano fasi misurare e fare il Test».
- Anche su se stesso lei li avrà fatti, no?
«Uh, puoi immaginare… Ne ho fatto uno anche ieri sera». [Siamo tornati al tu, nda]
- Ho visto vecchie foto di lei che si allenava in bici anche sullo Stelvio (complimenti) e ho sempre pensato che lei fosse un autentico appassionato di ciclismo.
«Certo, ho corso in bicicletta. Ho fatto un Test anche ieri sera, ma non perché… Sto scrivendo ’sta roba e ho bisogno di dati».
- E come faccio io a capire, non potendo avere un riscontro di pubblicazioni scientifiche da parte di Ferrari, se appartenete alla stessa lega, cioè se nei rispettivi campi siete entrambi dei fuoriclasse?
«Io non sono un fuoriclasse».
- Sì che lo è, non può negarlo. Non è piaggeria: nella scienza dello Sport c’è un prima- e un dopo-Conconi. Perlomeno in Italia. O no? Sbaglio a dire così?
«No, beh… I miei quattro figli – ne ho tanti e ho nove nipoti, il nono è appena arrivato – quando vanno in giro per il mondo e dicono “Conconi” li riconoscono dappertutto, ma è per il Test che è usato, non è mica stato merito mio. Sono gli altri che l’hanno usato».
- Lei come ci è arrivato al Test?
«Vuol saperlo?».
- Sì.
«Allora, una volta torno dagli Stati Uniti, e facevo tutta un’altra cosa. Io sono un ricercatore di biochimica e di biologia molecolare. Sa cos’è? Vuol dire che vai dentro il dnaa vedere dove sono i “pezzi” rotti. Qui c’era una malattia che si chiama talassemia. Sono andato negli Stati Uniti, ho lavorato là e sono tornato qua. C’ho guardato dentro e ho trovato dov’era “rotta”. La lesione genetica, quello che m’interessava, quindi tutta un’altra branca. Dopo, gli altri, questi qui di Lenzi, andavano a correre e mi son messo anch’io a corricchiare con loro, ma non mi bastava. Ho detto: ma qui come funzionano ’ste cose? Che rapporto c’è tra il mio cuore che batte più forte e la velocità che tengo? Allora ho detto: adesso misuro. Ho stabilito un circuito di 1500 metri. So benissimo dov’è, è qui fuori. Ho messo la “macchina” in un certo posto. Facevo un giro e c’era un foglietto di carta, una matita, un orologio, finivo il giro, prendevo il tempo e misuravo la frequenza cardiaca. Sai con che precisione, però…».
- Intanto a spanne, aveva un primo…
«A spanne… Facevo dieci giri».
- Perché 1500 metri?
«Perché mi è venuto così».
- Pensavo perché magari si avvicinava al miglio, non era proprio esatto ma…
«No, il giro era lungo millecinque ed è venuto fuori così. Dieci giri son 15 chilometri, ho visto come andavan le cose e dopo ho detto: be’, qui è meglio vedere se si può misurare su distanze più brevi e con strumenti che misurino davvero. Allora c’erano degli apparecchioni che ci si portava dietro e che registravano gli elettrocardiogrammi. Non c’era il Polar…».
- Di che anni stiamo parlando? Quand’è che lei ha fatto quel primo giro sui millecinque?
«Sessantotto».
- E quindi alla fine la curiosità le è nata correndo, no?
«Sì. Volevo sapere come funzionava la macchina [umana], e indipendentemente dagli studi che in quel momento stavo facendo».
- Non c’entrava niente quindi la talassemia di cui mi parlava prima?
«Ma no, ma no. C’entra con la mia mentalità di voler sapere, di voler sapere come van le cose».
- È la curiosità che ancora la tiene così attivo? È quello il segreto? Prima mi ha detto: sono ancora bambino…
«Sì. Voglio sapere. Studio sempre. Studio. Anche forse a noia dei miei familiari, perché poi tengo delle lezioni su quel che vuoi: sui protoni o sull’antimateria o su…».
- Ho capito: lei è una specie di Johan Cruijff della scienza, uno che ha la sua su tutto. E di solito è quella giusta.
«No, no: non ho la “mia”. Sono aggiornato».
- Sì, intendevo uno che studia, non uno che si picca di sapere cose che non sa. Senta, devo chiederglielo: c’è anche un aspetto deontologico, etico, legato alla sua professione. Lei questo confine dove lo colloca?
«Intorno a me».
- Quella frase attribuita a Ferrari – «è doping solo quello che si trova nei controlli»; con il corollario «se fossi un atleta, prenderei tutto quello che non viene beccato»…
«Oh madonna mia…».
- Conconi che cosa ne pensa?
«Quella lì è una sua frase».
- Sì, lo so. Gliel’ho detto come premessa. Le ho chiesto: lei che cosa ne pensa?
«Non sono d’accordo».
- Lei dove lo colloca il confine? Se c’è, un confine…
«Vuol dire modificare l’uomo».
- Lei prima mi ha citato i mezzofondisti, soprattutto i mezzofondisti veloci: era nato tutto da lì; poi Lasse Virén…
«Virén mica era veloce…».
- No, questo lo so: intendevo dire che si era cominciato con i mezzofondisti veloci, poi Virén, che faceva cinquemila e diecimila eccetera. All’epoca l’autoemotrasfusione si poteva fare, e vabbè; ma per tornare alla sua filosofia, farla andava bene perché si poteva o perché comunque non alterava il fisico. O per dirla con parole sue “non modificava l’uomo”? Glielo chiedo in termini semplici, per il “popolino”…
«C’era un ricercatore, un genetista finlandese, Albert de la Chapelle, il quale aveva studiato una famigliona, di finlandesi mi pare che fossero, molto numerosa. Non solo, era andato a studiarla anche indietro nel tempo. Vincevan tutte le olimpiadi del mondo. Cavolo! Son andati a vedere e questi qui cosa facevano? Le donne avevano l’emoglobina a 22 invece che 14. Gli uomini, addirittura più in alto. L’ematocrito… Ah, cavolo: lì c’era la dimostrazione di quanto, nelle gare di fondo, il trasporto dell’ossigeno sia importante. Dice: però saran morti tutti. Sì, ma come gli altri: nessun rischio. Nonostante i valori elevatissimi. Di qui le mille cose che sono state fatte e che ancora si fanno. Per esempio le tende a ossigeno, che son vietate».
- In Italia.
«Solo in Italia. Sì. Ma son vietate. È doping? Non lo so io se sia doping o no. Certo è che non tocca il funzionamento dell’uomo. Se uno va in montagna, se uno va al rifugio Torino [1] a dormire e viene giù in pianura la mattina ad allenarsi, l’emoglobina va su e, cavolo, la prestazione migliora. O se, come abbiamo fatto noi in Messico [per i due record dell’ora di Moser del gennaio 1984, nda], va a dormire a El Popo [2] – El Popo è a 4500 metri di altitudine, c’è un rifugio – e poi la mattina va giù ai millesei ad allenarsi, viene a casa e fa dei risultati. Questo è portare la fisiologia ai suoi limiti. È come un allenamento. Un allenamento mirato: sai cosa vuoi ottenere. Vuoi ottenere un miglior trasporto dell’ossigeno e un’acidificazione del tuo sistema muscolare [spostata] più in là, più avanti».
- Qui però parliamo di un’altra cosa, di andare in quota, dormire su e scendere a correre. Invece reinfondere il proprio sangue è una cosa che invece va oltre.
«Boh. Adesso non si fa».
- Lei come lo giudica?
«Lo giudico sulla stessa… La cosa brutta è la manipolazione del sangue, perché lo puoi modificare. Lo puoi alterare. Magari non hai le strumentazioni giuste, rompi i globuli rossi, cavolo, reinfondendolo fai dei danni. Può darsi… Mentre invece se vai a cinquemila [metri di altitudine], o come il mio amico Kaspar Heinrich Winterhalter, professore di Biochimica al dipartimento di Biologia dell’Università di Zurigo, su al terzo campo sotto l’Everest, viene giù che aveva 55 di ematocrito e sta benone. Va be’, fa niente. Quello, non tocchi niente: è una risposta fisiologica. Quello, non mi… Quindi non facciamo cose che tocchino negativamente l’uomo e il suo funzionamento».
- Così mi ha già dato una bella risposta. Perché se io vado in quota è vero che la parte corpuscolare del mio sangue diventa più solida, ma lo diventa in maniera naturale…
«Ma de la Chapelle che aveva l’emoglobina…».
- Appunto. Però era la sua. È quella fatta come sintesi chimica che è diversa…
«“Sintesi chimica”: cosa vuol dire? Con eritropoietina?».
- Ecco.
«Ma l’eritropoietina… Se vai in quota [l’organismo] produce eritropoietina».
- Eh, ma la produce il mio organismo però: c’è una bella differenza.
«Son d’accordo. Son d’accordo! Son d’accordo…».
- È lì che volevo portarla col discorso. Prima che scada il tempo volevo chiederle delle cose che altrimenti non potrei arrivare a sapere. Alcuni sostengono che lei in qualche modo sia stato anche un capro espiatorio, perché a un certo punto faceva comodo prendersela con Conconi. Che cosa significa e perché?
«Boh! [Sbuffa in una breve risatina, nda] Se tu spari contro uno che è noto ottieni un certo risultato».
- E quindi era una questione di vetrina, di invidia, di lotta di potere? Si puntava il bersaglio grosso per ottenere visibilità, fare carriera, per prenderle il posto? Per cosa? E chi?
«Io non voglio fare nomi e cognomi ma [ilpm] Soprani disse: io divento… Voleva diventare il Di Pietro dello sport».
- Ah, pensavo il Woodcock dello Sport, il Pmfamoso per le (poco fortunate) inchieste sui vip.
«No, il Di Pietro dello sport. E se spari contro uno che è sconosciuto… Ma son cose… son tutte cose passate».
- Lei ne parla con una tranquillità sorprendente. È perché è così buono d’animo? Non porta un po’ non dico di rancore, ma almeno di rabbia per un senso d’ingiustizia? Se ingiustizia c’è stata.
«No, ma perché ieri non conta. Conta oggi e neanche domani: adesso».
- Ma all’epoca le avrà dato fastidio, no? Se non altro quando si trovava in vacanza e le sono arrivati a perquisire casa. Quello dà fastidio.
«Mah… Questo ha dato fastidio a mia moglie. Poi, hai quattro figli, arrivano dei carabinieri a perquisire, senza dire perché e percome. Credevo fosse morto qualcuno dei nostri figli. Ho chiesto e non rispondevano».
- Ah sì, è così?
«Sì, va be’, lascia stare…».
- E questo senza avere in mano niente?
«No».
- Glielo richiedo: non avevano in mano niente, giusto?
«Sì».
- Questo dovrebbe farci riflettere su come in Italia funziona (o non funziona) non soltanto lo sport, ma anche la Giustizia.
«Non parliamo di giustizia in Italia né di politica, per amor di dio».
- Ecco, l’altro lato della domanda era questo: non c’è solo l’aspetto del clamore mediatico legato a Conconi. Volevi chiederle se c’erano anche altre implicazioni. Per esempio, il fatto che lei fosse rettore di un’università importante poteva dar fastidio a qualcuno. O magari lei non si piegava a certe logiche. Non so, mi dica lei.
«Era meglio colpire il rettore, così lo sapevano. Così i giornali davano spazio».
- Lasciamo perdere?
«Conta niente. Non conta niente».
- Non la facevo così pragmatico, ma forse è l’approccio scientifico…
«Mi hanno anche rieletto rettore, nonostante il casino».
- E quindi vuol dire che qualcosa di buono avrà fatto.
«No, quindi vuol dire che la gente ci credeva.
- “La gente ci credeva” che cosa significa? La gente credeva al Conconi professionista?
«Sì. Tutto il casino del processo, dell’accidente...».
- Poi lei è stato assolto, quindi...
«No, un momento: io ho finito il primo mandato di rettore, e c’era il casino per aria. Mi ricandido per fare il rettore per il secondo mandato. E quelli che volevano sostituirmi e diventare… figurati che campagna hanno fatto, usando...
- Che cosa l’ha spinta a ricandidarsi?
«Perché non avevo finito di fare il lavoro che volevo fare. La gente mi ha votato, ho avuto una larga maggioranza, nonostante tutto. Sorprendentemente, no? Ecco».
- E non ha mai pensato di fare un passo indietro?
«No».
- Perché lei non aveva niente da nascondere, è questo il motivo?
«Perché io son fatto così. Che posso fare? Massì, son cose così lontane che non vale neanche… Guardiamo al domani».
- Mi racconta invece del suo rapporto con Francesco Moser? Siete ancora… posso dire amici? O è una parola grossa?
«Nooo, siamo amici».
- Alla fine lei gli ha cambiato la carriera, perché il Moser che è entrato in contato con lei era piuttosto declinante.
«Eh, quando uno lo misura e vede i numeri che ha… Dico: ma tu, cavolo, sei forte».
- Ho letto che lei gli diceva, anche a fine ’84, l’anno magico di Moser con record dell’ora, Sanremo e Giro, che lui avrebbe potuto vincere il Tour. Ne è ancora convinto?
«Il Tour di allora, sì. Perché i grandi passisti, i grandi cronomen, hanno vinto anche il Tour».
- E ai tempi c’erano crono anche molto lunghe.
«Indurain poi l’ho conosciuto bene, era un cronoman soprattutto. Non era lontano come valori».
- Con Indurain ha lavorato o no? Direttamente, intendo.
«Con il suo allenatore. Come si chiamava? Non ce l’ho presente».
- José Miguel Echavarri, il suo direttore sportivo?
«Echavarri, bravo. Stava a Pamplona. Mi ha aiutato ad arrivare a Pamplona poi siamo andati giù in riva al mare, dove c’è un velodromo. Abbiamo fatto molti test su Indurain».
- Parlavamo del Moser declinante…
«No-no-no, macché declinante. Sei forte. Hai i numeri, guarda qua che roba».
- Perché secondo lei era ritenuto in declino, al di là dei “numeri”?
«Io non lo so neanche se lo era. Lo era?».
- Eh sì, eh.
«Si vede che l’ho convinto del contrario, cosa vuoi che ti dica. [sorride, e siamo tornati al tu, nda]
- Gli ha rivoluzionato la preparazione da tutti i punti di vista? Anche quelli che magari esulavano un po’ dal suo stretto ambito di competenze?
«Ma no, la testa».
- Tutto nella testa, il grosso del cambiamento?
«Lui perse una corsa in montagna. Andai a vederlo, ad Arabba». [È qui che Conconi si contraddice, in precedenza aveva detto che al Giro non andava, nda]
- Ecco, queste cose sono interessanti, perché solo lei può saperle.
«Fignon l’aveva distaccato in salita e lui arrivò giù ad Arabba che aveva perso la maglia rosa. Era in ritardo di due minuti. E allora tutti con la testa sotto al tavolo: “È finita…”».
- Per tutti intende la sua squadra?
«Lui, gli altri… Giorgio Gamberini [il massaggiatore nello storico clan comprendente anche il meccanico Edoardo Fucacci detto Ciaren, nda] e puoi immaginarti. Gli dico: quanto hai? Due minuti e venti aveva mi pare di distacco. [Conconi ricorda bene: Moser chiuse ottavo la 20esima tappa, la Selva di Val Gardena-Arabba di 169 km, a 2’19” dal vincitore Fignon, nuova maglia rosa con 1’31” su Moser, secondo; nda] Scusa, guardiamo i dati. Nella cronometro di Milano, tu a Fignon avevi dato cinque secondi a chilometro. [15ª tappa, la Certosa di Pavia-Milano di 37 km, Moser vinse in 47’39” con 53” su Visentini, Fignon arrivò ottavo a 1’28”, nda]. Adesso c’è l’ultima tappa che è lunga, era di 45 chilometri. [in realtà 42, da Soave a Verona, nda] La distanza è sempre quella: 5 secondi al chilometro, vinci tu il Giro. Insomma lo convinsi. Il giorno dopo addirittura partecipò alla volata e “rubò” qualche secondo di abbuono. [21ª tappa, la Treviso-Arabba di 205 km: vinse Bontempi su Rosola e Moser, che guadagnò 10” su Fignon, nda] E poi vinse. Arrivò a Verona e guadagnò quello che la fisiologia prevedeva guadagnasse. Basta».
- Non si offenda per l’accostamento, ma in questo mi ha fatto venire in mente Ferrari che al telefono con l’ammiraglia prevede quando Pantani, in salita contro Armstrong, sarebbe scoppiato.
«Ferrari dice una cosa del genere? Mo’ va’… Ma cosa cavolo ne sa lui di Pantani?».
- Lui con le sue tabelle riusciva a prevedere quando Pantani sarebbe saltato.
«Poteva farlo chiunque il discorso che avevo fatto io: i numeri».
- Se mi permette, c’è qualcosa che non mi torna. Questo glielo chiedo al di fuori dal contesto scientifico: non crede che voi uomini di scienza a volte sottovalutiate un po’ l’aspetto…
«No, no: lo teniamo in conto».
- …l’aspetto umano? Ha già capito dove voglio andare a parare?
«Marco. Io l’ho misurato, Pantani. Era un atleta che non mi tornava. Perché lo misuri, fai i test…».
- Prima lei mi parlava di Indurain. Con Pantani c’era una differenza, non solo di capacità polmonare, imbarazzante: 6 litri rispetto agli oltre 7 di Armstrong e ai quasi 8 di Indurain. Pantani aveva un motore da 400 watt di potenza, 150 in meno di Armstrong e di Indurain, montato su 53-54 kg, contro i 77 di Armstrong e gli 80 di Indurain. Due cilindrate diverse.
«Questo non lo so. Lui aveva una certa potenza in tasca. Misuri. Quando sei alla soglia anaerobica, che potenza butti fuori? Quanti watt butti fuori? I watt sono la forza che hai addosso. Poi c’è il peso, la salita. Puoi anche fare i conti».
- Il ciclismo di oggi quello è: rapporto peso/potenza.
«Non doveva essere un grandissimo, giudicando i dati che avevo in mano. Invece lo mettevi in salita e questo qua era molto più forte di quanto i suoi numeri non parlassero. Ed era inimitabile. Perché, niente, chissà cosa aveva dentro. Però attenzione: a cronometro andava pianissimo. Allora cosa inventi di Pantani? Gli cambi la posizione in bicicletta, era anche messo su male, non era aerodinamico. Pantani poi non lo puoi, non lo potevi, costringere, mettere lì. La galleria del vento, poi, non dice niente. Perché sei lì fermo, non è che sei in azione. Allora senti questa, cosa ho fatto? Sono andato a Livigno. A Livigno c’è una galleria che va in Italia. Lo sai che c’è?».
- Sì, son stato a Livigno a intervistare Ivan Basso.
«C’è un tubo. La galleria la chiudono alle dieci di sera, alle nove di sera. Abbiam detto: se vogliamo misurare Pantani, lo mettiamo in galleria. La galleria è chiusa, non c’è vento. Non c’è aria che disturbi».
- E siete riusciti a fare questa roba qua?
«Ho organizzato tutto quanto».
- Accidenti…
«Fermati: ci ho messo… Puoi immaginare quanto ci ho messo a far organizzare con gli svizzeri e gli italiani. Quando è stata l’ora, non s’è presentato. Non s’è presentato!».
- Pantani era così…
«Quindi, la psicologia…».
- …quanto conta.
«Una volta sono andato ad allenarmi in Romagna, lui era reduce dall’infortunio che aveva avuto alla Milano-Torino [del 1995]. Non la sai questa storia?».
- Non so dove vuole arrivare.
«Era rotto. Non voglio parlare di quella brutta storia lì perché… invece dopo te la dico perché voglio difendere Pantani».
- Può anche dirmi che questo rimane tra me e lei.
«Aspetta, aspetta. Andiamo in giro in bicicletta, puoi immaginarti subito quanta gente… S’è radunato il mondo intorno. E allora ci siam detti: andiamo su qualche salita e così restiamo da soli. Abbiam fatto così. Li abbiam lasciati indietro tutti. Perché gli amatori sono quel che sono, dai».
- Ah, la ringrazio.
«Perché, tu sei un ciclista amatore?». [sorridiamo]
- Eccerto.
«Va bè. Lui aveva ancora male alle ginocchia, arriviamo in cima alla salita, ho fatto un allungo, è lui restato indietro. Naturalmente lui era all’inizio dell’allenamento, ma posso dire di aver distaccato Pantani in salita! [sorride, nda] Ma lì a Torino gliel’hanno fatta brutta. Proprio brutta. Perché è caduto alla Milano-Torino. Com’è stata che è caduto. La macchina dei vigili gli ha attraversato la strada. La colpa era loro. Pantani viene ricoverato in ospedale. Vanno lì, e l’ematocrito è molto alto. Ma tu non puoi misurare l’ematocrito a uno che ha avuto uno stress bestiale, e che è caduto: non conta niente. Ematocrito alto…».
- Che cosa può influenzare l’ematocrito in quelle circostanze lì?
«L’adrenalina che produci spinge fuori dal circolo tutti i liquidi e nel circolo rimane la parte corpuscolare. Il giorno dopo aveva 23 di ematocrito, ma il valore del giorno dopo non è stato considerato da nessuno. La storia di Marco, brutta, è partita da lì. E poi lui era debole. Era fragile. E si è fatto fregare. Però lui è diventato… Gli hanno fatto il monumento a casa sua. C’è il monumento a Pantani [a Cesenatico]. L’hai visto?».
- Sì, nel febbraio 2014, per Sky Sport 24 ho realizzato uno speciale sui luoghi di Pantani, a dieci anni dalla sua scomparsa.
«Io ho degli amici lì e per quello l’ho visto. Sono andato a vederlo. O come su, a Madonna di Campiglio. Il secondo campione non si è mai visto. Il primo campione, ematocrito alto. Vallanzasca l’aveva detto…
- Lei dà credito a quelle versioni lì, di Vallanzasca e compagnia?
«Ah sì».
- Ah sì? Davvero?
«Il secondo campione non si è mai più trovato».
- E il fatto stesso che le provette non fossero perfettamente sigillate…
«La seconda provetta non si è mai più trovata. Lui il giorno dopo è andato in Romagna, e aveva l’ematocrito normale».
- Senta, ma da un punto di vista medico, per lei è normale che il medico legale che fa l’autopsia si porti casa il cuore? È normale?
«Ah, non so neanche. Ha fatto una cosa del genere? Ma non dirmi! Pazzesco…».
- Per paura che venisse in qualche modo alterato o addirittura trafugato.
«Ma è pazzesco».
- È agli atti. Mi stupisce che lei non sappia.
«Ma no! Bisogna essere matti... Ma non dirmi. Una cosa del genere...».
- Lo so che lei, essendo curioso, adesso andrà a documentarsi…
«No, no, no».
- L’ultima cosa che le chiedo è questa. Saronni mi ha detto che il suo vero avversario era stato il primo Moser, l’altro, il secondo Moser, era un’altra cosa. Lei che ne pensa?
«Insomma: Moser andava molto più forte di Saronni a cronometro, no? Saronni in certe cronometro è andato forte perché l’aria gliela tagliavan degli altri. Eh, si sa anche quello. Ci son le documentazioni. No, però non facciamo paragoni inutili. Saronni era molto più veloce. Non c’è dubbio».
- Forse anche più furbo.
«Ooohhh! Ooohhh. Ooohhh… Con Beppe ci siamo trovati alla festa di Moser un po’ di tempo fa. È stata una bella cosa. Si sono sfottuti. Saronni con cattiveria».
- Ah sì, eh?
«Sì-sì-sì».
- Più che il viceversa? Non c’è confronto?
«Noooo».
- Si ricorda la tappa di La Plagne al Tour dell’87: Roche che all’arrivo sviene, gli applicano la maschera dell’ossigeno? Volevo chiederle se nel ciclismo di oggi, delle radioline, dell’srm, certe imprese, anche dal punto di vista fisiologico, possono ancora succedere.
«Non so cosa sia successo là. L’SRM lo abbiamo inventato noi, l’ingegnere Ulrich Schoberer [3] non c’era ancora. L’abbiamo montato noi sulla prima bicicletta, qui. Te ne voglio dire un’altra, poi basta. Una persona che ricordo con molto piacere è Alfredo Martini. Il giorno che lui compie novant’anni, lo chiama l’arcivescovo di Firenze per fargli gli auguri. Alfredo va a Firenze e parlano. Martini stesso lo raccontava: “Oh, ma s’intendeva di ciclismo e voleva parlare di ciclismo. E un certo punto mi chiede: ‘Senta, Martini, ma la borraccia, Coppi e Bartali…’. E Alfredo gli dice: “Eminenza, anche lei?”. “Ma quella è la vera fotografia di un atto d’amore”, gli ha detto. “Sono in Francia, i francesi gli danno addosso, sono in salita, sono avversari e uno dà da bere a quell’altro…”».
- Perché me l’ha voluto raccontare? Per dirmi che cosa?
«Che ci son delle cose belle. Questa di Martini ha insegnato all’arcivescovo cosa volesse dire. Questo è un atto d’amore».
- E invece il suo atto d’amore al ciclismo, allo sport, qual è stato? La sua vita?
«Aspetta, vieni di là…». [Da una sala riunioni ci spostiamo nel suo ufficio, mi mostra delle fotografie incorniciate sugli scaffali della libreria, nda]
- Questo sai chi è?
«Il buon Dorando Pietri a Londra 1908».
- Anche quello so chi è, il suo è l’unico autografo che ho: Gino Bartali, me lo fece al Giro ’93, tappa nella mia Senigallia.
«Quello sai chi è?»
- Enzo Ferrari.
«Ma sai tutto?!».
- Ma per chi m’ha preso, Francesco? [sorrido, nda]
«Basta. E quello invece? Viene giù dalla First Avenue, ha distaccato gli altri, io sono sul palco e i giornalisti chiedono: “Who’s the guy’s leading? Who’s leading?”.
“He is an Italian guy. His name is Pizzolato”. [fu Lenzi a rispondere a un giornalista della NBC, nda]
Quell’altro ha detto: “Pizzowhat?!”».
- L’anno dopo, l’85, gli americani l’hanno imparato meglio, però… Orlando ha concesso il bis.
«No, lui ancora adesso è chiamato Pizzowhat… Pizzowhat?! Basta, te l’ho dette tutte. Pizzowhat è una cosa…». [sorride]
- Come si cambia ’sto ciclismo. Non si cambia, vero? O è già cambiato?
«Non lo so. Adesso son tutti più o meno allo stesso livello. È diventato… Il ciclismo dei grandi distacchi o delle grandi imprese non c’è più. [il Fiandre 2017 di Gilbert, la Roubaix 2018 di Sagan, Froome sul Colle delle Finestre al Giro 2018 fanno però sperare il contrario, nda] È un ciclismo molto più organizzato. C’è una squadra così e ti porta, ti taglian l’aria e vai dove vuoi».
- Il ciclismo lo segue ancora? Lo guarda? Si diverte?
«Guardo, non so, le classiche, le tappe di montagna, così. Ma non…».
- Non c’è un campione che la accende?
«No».
- Con chi lavorerebbe oggi? Chi le darebbe quegli stimoli che ai tempi le ha dato Moser? Non c’è nessuno?
«No, no. Non ci penso neanche. Non ci penso neanche…».
Peccato non aver avuto il tempo di parlare di molto altro. A cominciare dall’invidiabile pressione sanguigna che hanno gli indios Kuna dell’arcipelago di San Blas, a est del canale di Panamá. Magari in un’altra vita, prof.
CHRISTIAN GIORDANO ©
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NOTE
[1] Rifugio Torino: è un rifugio a 3375 metri sul massiccio del Monte Bianco. È nel comune di Courmayeur, alta Valdigne, in Valle d’Aosta.
[2] Popocatépetl: è un vulcano in attività, situato nella regione di Puebla, a 70 km a sudest di Città del Messico.
[3] Ulrich Schoberer: nel 1986, l’ingegnere medico Ulrich Schoberer ha progettato, prodotto e presentato la domanda di brevetto per il primo “spider” per misurare la potenza prodotta durante la pedalata. Nello stesso anno, Schoberer ha fondato la Schoberer Rad Meßtechnik (SRM), alla lettera: tecnologia di misurazione in bicicletta di Schoberer.
Letta tutta di un fiato. Al netto degli argomenti che seguo e della statura dell'intervistato che facilita le cose, un manuale su come condure un intervista. Spero la leggano in tanti. Complimenti davvero. Gianluca
RispondiEliminaIntervista bella ma sul doping niente…..
RispondiEliminaCosa dire.. Nulla è successo ? Conconi e’ innocente ?
Intervista che mi lascia veramente perplesso…