Roberto Conti - Romagna caput mundi


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per Rainbow Sports Books ©

Roberto Conti è l'altra Romagna, quella meno chiassosa e più generosa, che sempre c'è e mai tradisce. Il sorriso bonario e schivo, che si lascia andare per "far baracca" solo quando sa di essere fra amici. I soliti. Quelli veri.  

Roberto Conti da Faenza (16 dicembre '64) è stato più che un gran gregario. Motore da campioncino, testa da gregario, cuore da fuoriclasse. Un passista scalatore capace di sfiancarsi come l'ultimo dei domestiques e pure d'infilarsi la maglia bianca al secondo dei suoi 17 Giri; o vincere all'Alpe d'Huez al Tour, concluso due volte nei top ten (una invece nella corsa rosa); e mettersi all'occhiello il fiore per lui forse più prezioso: il Giro della sua Romagna.

Professionista per 18 stagioni dal 1986 al 2003, ha attraversato eoni del ciclismo nazionale e internazionale, dal crepuscolo eurocentrico all'alba della globalizzazione. Ha servito con dedizione capitani leggendari, dall'amico di una vita, Marco Pantani, alla Mercatone Uno, fino a Mario Cipollini. 

Romagnolo atipico,  a differenza del sodale (e NON cugino) Davide Cassani e contrariamente a quanto il suo nuovo mestiere di promotore finanziario suggerirebbe, Conti non è tipo da PR né da riflettori. Anzi, deve sentirsi sicuro di potersi fidare. Poi, si lascia andare. E se conquisti la sua fiducia, magari ti capita anche che, a fine chiacchierata-intervista, sia lui a invitarti alla "Serata Cassani". La cena che il Ct e i suoi amici conterranei più stretti si concedono ogni anno a metà gennaio, dopo le feste. 

Tanto, se tu hai capito loro, e loro te, han già intuito che saprai essere discreto. E sapranno che non è per scortesia che te ne andrai presto, prima ancora che la cena cominci. Perché è la "loro" serata. Una serata tra amici. E un giornalista, per quanto "dei loro", resta giornalista. E loro (ex) corridori. 

Roberto Conti incontro al Molino Rosso, lo stesso albergo-ristorante imolese sede preferita del suo ex diesse Giancarlo "Ferron" Ferretti per i ritiri. 

Onnivoro di tutti gli sport, simpatia e accento contagiosi, però è onnivoro di sport, e adora parlarne. Sappada è solo uno dei mille argomenti toccati o anche solo sfiorati. Solo sul Pirata, il sorriso gli vola via. Leggero e imprendibile, in un attimo, come solo il suo antico amico-capitano sapeva fare non appena la strada s'impennava.

Non è un caso che sia stato proprio lui, il suo ex luogotenente di tante campagne, uno dei più attivi a battersi per il recupero dei cimeli del "Panta". E io sono orgoglioso di averlo ospitato a Sky non solo per ricambiarlo di tanta collaborazione. Ma per portare avanti la sua battaglia. Una battaglia di memoria e di civiltà sportive. L'Alpe d'Huez del cuore. Il cuore del Pirata, e della sua ciurma.


Hotel Molino Rosso 
Imola (Bologna), lunedì 15 gennaio 2018 

- Roberto Conti. Ti chiedo, trent’anni dopo, Sappada: che cosa ti viene in mente. “Sappada ’87”, magari: ti do un aiutino… 

«Eh-eh… [sorride, nda] Sappada ’87, pensando un po’, così, mi viene in mente la guerra interna tra Roche e Visentini». 

- Non ci hai corso assieme, ma hanno attraversato la tua stessa generazione. Ti ricordi come si è vissuto in gruppo quello che alcuni chiamano tradimento e invece altri, magari più dalla parte anglosassone, scelta di business? Tu in corsa, anche i giorni successivi, che sensazioni avevi? 

«Beh, mi ricordo che ci fu parecchio clamore dopo la tappa la sera, nei vari alberghi, nei vari comportamenti. Ma anche dopo, in corsa, sai, c’erano quelli che erano a favore di Visentini e quelli che davano ragione a Roche. Lì la verità non si saprà mai. La verità, come quello che penso io, dipende i vari… non regole, i vari compiti che avevano, ecco. La partenza di un Giro, diciamo così, ognuno aveva… chi era il leader. Se erano partiti tutti e due come leader allora ci sta che Roche faccia quello. Bisogna capire alla partenza ognuno che ruolo aveva». 

- Se c’erano dei patti, e ruoli… Tu eri al secondo an di professionismo. Pronti-via, maglia bianca di miglior giovane. Invece un ricordo tuo di quel Giro? 

«Mah, son passati tanti anni, faccio fatica... Adesso che tu me ne parli, qualcosa ricordo. Ricordo l’ultima tappa a cronometro, che si partiva da Aosta e si arrivava a Saint-Vincent. Erano i primi anni di queste bici a “corno”, così. Noi eravamo una piccola squadra, che era la Selca-Conti di Bruno Reverberi e mi fecero queste bici a corna anche per me. E ai, non l’avevo mai usata e cosa succede? Che pronti-via, parto c’è il sole e dopo dieci chilometri inizia un temporale bestiale. Avevo, mi ricordo che avevano montato sulle ruote da cronometro questi tubolari da 19”, da pista erano anche per essere più scorrevoli. E c’era una piccola discesina, io faccio la curva, woom!, mi son trovato in terra [ride, nda] e praticamente la bici da cronometro l’h usata dieci chilometri dopo mi han cambiato la bici e usato l’altra». 

- Quella crono la vinse Roche, che fu un po’ il suggello del suo Giro. Lui è andato sempre fortissimo con il brutto tempo. Brutto tempo che per te invece era un altro dei tuoi punti deboli. Tu ti trovavi bene con il caldo, raccontami. 

«Diciamo così: quando c’era… io ero più da temperatura da venti gradi in su, ecco. Quella era la mia temperatura ideale, ecco. Lì mi son sempre trovato bene, ho fatto anche, posso dire, che al Giro d’Italia ho fatto anche delle belle tappe sott la pioggia, però andiamo avanti, parliamo dell’89, la tappa di Corvara. Tutto il giorno sotto acqua e neve, ecco». 

- Tu sei stato, ti faccio qualche nome: Lelli, Argentin, Fondriest, Tonkov, Cipollini, Casagrande, Di Luca, Pantani. Insomma i capitani te li sapevi scegliere bene. E una volta che Fondriest non c’era per problemi fisici, cosa combini? Per la tua prima vittoria da professionista (a parte una cronosquadre), cosa “scegli”? L’Alpe d’Huez. Insomma, c’è di peggio… 

«Eh. C’è di peggio… [sorride, nda] Però, per esempio, quel Tour lì, nella Lampre c’era Jan Svorada che vinse due tappe in volata. C’era Pavel Tonkov che, diciamo così, doveva essere il capitano. E dopo i Pirenei si è ritirato. Eravamo rimasti in tre: io, Svorada e Marco Zen. E [il diesse Pietro] Algeri fa: “Riusciamo ad arrivare a Parigi?” Avevamo vinto solo una tappa. Ed io gli ho detto: Guarda che arriviamo a Parigi e vinciamo altre due corse [ride, nda]. Ma io lo dicevo scherzando, invece dopo ho vinto all’Alpe d’Huez io e ha vinto un’altra tappa Svorada». 

- L’altra vittoria da professionista, il Giro di Romagna: casa tua. Penso ti abbia dato tanta soddisfazione. 

«Sì. Ma, sai, vincere in casa è bello, perché ti conoscono tutti. Poi è stato bello perché fu nel 1999. Mi era arrivata la lettera di licenziamento della Mercatone. Però io non mi sentivo ancora vecchio di smettere. Volevo correre. Come dice [Zlatan] Ibrahimović, devo decidere io quando devo smettere. Volevo decidere io di smettere. E mi ricordo che quella mattina Ferretti doveva a fare la squadra nuova, lo affianco e gli chiedo: “Hai bisogno di un vecchietto per insegnare ai giovani?”. E lui mi disse: “No, è ora che smetti”. Lì m’ha dato ancora più carica e quel giorno ho vinto». [scoppia in una risata fragorosa, nda] 

- C’è sempre un riferimento calcistico nella tua carriera. Perché vincendo all’Alpe d’Huez per esultare hai mimato il gesto della culla come fece Bebeto al mondiale di USA ’94. Visti in corsa, anche se con loro non eri in grande confidenza, non ci parlavi molto, Visentini e Roche che corridori erano? Caratteristiche, differenze… 

«Visentini era elegante in bici, era “forte”. Però forse era più, diciamo così, nervoso, nelle situazioni». 

- Un po’ umorale anche. 

«Sì, era più “non freddo” in certe decisioni, mentre Roche era più freddo in certe decisioni, ecco». 

- Roche sapeva leggere meglio la corsa, rispetto a Visentini, al di là dei favori che in corsa si prendono e si danno? 

«Forse sì, forse sì». 

- Invece dal punto di vista tecnico, come caratteristiche, come li inquadri? Non so, penso ai vari terreni. Per esempio Roche era un grande cronoman ma Visentini forse addirittura un grandissimo cronoman. Visentini, quando partiva, in salita sapeva fare la differenza, Roche sapeva difendersi. Questo al di là invece dell’aspetto tattico, in cui Roche era molto più forte. 

«Oltre all’aspetto tattico, forse… Allora, per me Visentini a cronometro era più forte e anche in salita. Mancava come aspetto tattico, la freddezza, saper aspettare e se sbagliava, oche cercava di rimediare, invece Visentini forse si abbatteva di più, ecco, si demoralizzava ed era peggio, ecco». 

- Ed è lì probabilmente il motivo dei quasi sei minuti e cinquanta che prese a Sappada. 

«Sì. Sì, perché quei sei minuti e cinquanta non sono stati presi… È perché la rabbia, ed è crollato di nervi, ecco». 

- Tu puoi darmi un punto di vista privilegiato perché sei stato gregario – super – di tanti capitani. Nei panni di Schepers che cosa avresti fatto? Avresti servito la causa di Roche o magari avresti rispettato gli ordini di Boifava, che gli chiedeva di aspettare il capitano Visentini e maglia rosa Visentini, e campione uscente. [sorride, nda] Questa è difficile, eh? 

«Questa è una domanda difficile. È chiaro che un gregario, quando è in corsa, deve rispettare le regole della squadra». 

- Se però il prossimo anno ti porto con me alla Fagor, cosa mi rispondi? 

«È questo. Volevo e arrivare a questo… Il problema è che questi due forse dormivano assieme in camera, forse diceva Roche a Schepers la tattica che avrebbe fatto e come… ci sta tutto, questo. E sicuramente c’era tutto questo, dietro. È per quello che lui si è comportato così». 

- E invece Millar, che doveva correre per Breukink, che era l’uomo di classifica nella Panasonic, però Millar, che ambiva alla maglia verde, teneva il piede in due staffe: da una parte serviva Breukink, dall’altra però era amico, lingua in comune o quasi (scozzese Millar, irlandese Roche), stesso passato francese alla ACBB da dilettante e alla Peugeot da neo-pro’, e serviva anche la causa di Roche, che l’anno dopo se l’è portato, lui pure, alla Fagor. E quindi, anche lì: gregario sì, ma di qua e di là… 

«Sicuramente, può darsi che si son parlati e l’aveva già “ingaggiato” per l’anno futuro e allora senza ostacolare troppo il suo capitano attuale che era Breukink, avrebbe… Quando c’era… Perché Breukink aveva delle giornate che andava forte però purtroppo arrivava all’ultima settimana che cedeva. E lui andava più forte, e l’ha sfruttato per aiutare Stephen». 

- Non fa una piega. Mi racconti quell’aneddoto con Millar, che ti vedeva in lotta per la maglia verde di leader della classifica scalatori? 

«In quel Giro lì, siccome andavo bene in salita e mi trovavo là a lottare, facevo qualche volata, quando riuscivo, per i gran premi della montagna. Ero in classifica, lottavo con Millar e in questa salita lo anticipai e riuscii a batterlo. Ma l’avevo battuto di poco. Solo che all’epoca i giudici non si fermavano a prendere giù i numeri, c’era quello con la moto, era più avanti di dieci metri, ha dato lo stesso la vittoria a Millar [ride al ricordo, nda]. Io me ne sono accorto la sera e…». 

- Quindi trent’anni dopo mettiamo in discussione la maglia verde di Millar al Giro ’87: fu Roberto e non Robert a passare per primo su quel GPM... 

«No, no: era solo per un gran premio, dai». 

- E dal punto di vista del direttore sportivo, se tu fossi stato nei panni di Boifava, o magari del più fumantino Bruno Reverberi, come ti saresti comportato avendo due galli nello stesso pollaio? 

«Allora, con una quadra di calcio è più facile gestire due galli, secondo me. Ma con due corridori è molto più difficile. Perché non mi volevo trovare nei panni di Davide [Boifava] perché quando entri nella camera di Visentini e dopo entri nella camera di Stephen Roche, lui deve portare a casa il risultato, che era il Giro d’Italia. E come dire, il problema era capire l’uomo Visentini prima della partenza e Roche». 

- E cosa si erano detti. I famosi patti (e ruoli) di cui parlavamo all’inizio. Tu hai vissuto situazioni di questo tipo nelle tue squadre? Dove magari c’era un capitano e “mezzo”, se non due? 

«Sììì. Quando ero all’Ariostea. C’era il capitano che era Argentin. Però c’era tanti altri ragazzi che lavoravano per Argentin che andavano forte e un direttore sportivo come Ferretti che lui “voleva” vincere, in certe corse Moreno [Argentin] voleva “fare” la corsa però c’erano tutti ’sti ragazzi che… c’era un po’ di…». 

- …maretta? 

«…di maretta. Posso raccontarti un aneddoto se vuoi. Alla Tirreno-Adriatico, era il ’92, avevamo vinto [quasi] tutte le tappe, una Sørensen, una Cassani, due Argentin, però Sørensen aveva la maglia di leader. Arriviamo all’ultima tappa, sai, c’erano quelli che facevano il lavoro sporco, all’inizio. Eravamo io e non mi ricordo chi, che abbiam tirato all’inizio e nel finale rimanevano sempre Cassani e Argentin. E Argentin aveva tirato, diciamo così, tutto il giorno e si arrivava su a Montegranaro ci son stati tutti sti vari scatti., scattano due-tre, Argentin vede che scatta Cassani che va sui due tre, su questi qui, guarda, controlla dov’è Sørensen, entra su questi due-tre e poi gli fa la volata e batte Cassani. La sera in albergo, una tragedia». [1] [ride di gusto, nda] 

- Tu hai avuto anche diesse belli tosti, penso a Reverberi padre, a Ferron Ferretti, questi tipi di diesse un po’ vecchia maniera. Secondo te come avrebbero agito e reagito [in quelle situazioni]? Perché Boifava mi sembrava avesse un approccio più morbido magari più umile, sempre però finalizzato all’obiettivo finale. E tu hai avuto anche un diesse alla Boifava oltre ai cosiddetti “sergenti di ferro”? 

«Sì, sì. Pietro Algeri era così, poi [Antonio] Salutini quell’anno con [Mario] Cipollini, anche [Beppe] Martinelli era più…». 

- …di questa categoria qui… 

«Sì». 

- Ti ricordi la figura del francese Patrick Valcke? Non era “solo” un meccanico, era l’uomo di fiducia di roche che dalla Peugeot se l’era portato alla La Redoute poi alla Carrera e infine alla Fagor, dove avrebbe dovuto fargli da diesse. Capita nelle squadre che un meccanico vada così oltre i suoi compiti principali? O perlomeno, nelle tue è capitato? 

«Mah, non so. Tutti i campioni c’hanno un personaggio di fiducia, c’hanno il massaggiatore, il meccanico. Di solito è il massaggiatore perché il meccanico hai un rapporto molto importante perché hai il mezzo». 

- In realtà lui era un po’ un tuttofare, massaggiatore, meccanico, poi addetto stampa del Lens, club di Ligue 1, la Serie A francese di calcio. 

«Si vede che, diciamo così, questo personaggio qui, il meccanico era un hobby, ecco. Perché aveva delle qualità più “alte”. Però, di solito, io ti parlo di grandi campioni, hanno un… Si legano di più a un massaggiatore. Perché il massaggiatore è quello che quando sei sul lettino dei massaggi, lo frequenti di più, ti deve dare…». 

- C’è un rapporto d’intimità proprio stretto. 

«D’intimità, sì, sì. Anche col meccanico, però è diverso. È diverso…». 

- Mi fai un paragone – tu hai attraversato varie epoche del ciclismo, ora parliamo del Giro ’87, di trent’anni fa – era un’Italia molto diversa e un ciclismo molto diverso… Il ciclismo italiano era ancora al top del mondo, il Tour non era certo di secondo piano ma la distanza fra i due era molto più vicina, no? Le grandi cose erano in Italia. Arrivo al punto: la Carrera avrebbe preferito che a vincere fosse un italiano, come successo l’anno prima. La Carrera aveva interessi in Italia forti, ma era anche un marchio che guardava abbastanza all’estero. 

«Sicuramente la Carrera avrebbe preferito che avesse vinto Visentini, sicuramente. Perché si vendeva nel mercato italiano, come quando c’era la Mercatone [Uno] con Marco [Pantani]. Gli stranieri... Sì, avevamo qualche straniero ma le interessavano le vittorie di Marco, ecco. E il ciclismo, ti posso dire che quando son passato io, eravamo un passaggio generazionale: Saronni, Moser, Battaglin, stavano, erano “finiti”, stavano finendo. E c’era un vuoto, perché mancava un nuovo. Un nuovo, all’epoca, era solo Argentin. C’era un vuoto, diciamo così. E c’era Visentini che andava bene per le corse a tappe. Di lì è nata la mia generazione con i vari Bugno, Chiappucci, Fondriest; dopo: Casagrande, Bartoli. Perché questo? Perché c’era un settore giovanile importante. C’era un settore… Io, adesso, i numeri precisi non te li posso dire, ma negli anni che son passato io, solo nella regione Emilia Romagna eravamo 250 dilettanti. Ti posso dire, oggi che siam nel 2017 [appena] finito, saranno venti. Pensa, in Italia, in quanti eravamo. E per cui è più facile trovare… Cioè, se te vai a scegliere…». 

- Il rapporto è 20 a 250? 

«Sì. Emilia Romagna che era una regione importante, eh. Poi ti posso dire che, ti parlo dell’87, corridori del sud ce n’erano molto meno. Adesso, se fai caso, sono più i corridori del sud che vanno forte che quelli del nord».

- È anche vero che dal sud son sempre tanti i corridori che si trasferiscono magari in Toscana, vedi i Nibali o Visconti… 

«Sì, però all’epoca il sud era meno diciamo così produceva meno ciclismo, adesso diciamo così, è cresciuto più il sud che il nord è calato…». 

- Te lo chiedevo perché c’è una battuta un po’ cattivella di Roche che diceva: Visentini è un grande corridore però appena vede il cartello “Chiasso” si perde. Perché c’era questa cosa che i corridori italiani correvano soprattutto in Italia. A parte Argentin che era il “Principe delle Ardenne”, per dire…. 

«Forse. Ma non era proprio così». 

- Tu non avevi questa sensazione? 

«No. Perché diciamo così che in quegli anni lì, dopo le squadre, c’erano sempre tre-quattro squadre che andavano al Tour de France. Negli anni Novanta eravamo quasi, al Tour, su duecento corridori, eravamo sessanta italiani. Adesso ce ne saranno cinque-sei, per dirti…. Era… Non lo vedo così. Visentini, posso dire che era, da quello che mi raccontavano in gruppo, si dice che a mezzogiorno lui doveva avere i piedi sotto la tavola, per cui quel giorno che doveva fare 150 km partiva alle sette di mattina. Questo è un aneddoto che dicevano in gruppo, poi se è vero non lo so…». [sorride, nda] 

- E quindi tu non hai mai creduto alla favoletta di Visentini che era ricco di famiglia, che non aveva abbastanza “fame” per fare il corridore, che era troppo bello, troppo playboy? 

«No. No, no, no. Io sono convinto che, per vincere un Giro d’Italia, e ne sono sicuro, se non fai la vita da corridore, e non ti alleni, non lo vinci». 

- Secondo te, invece perché, al di là dei motivi caratteriali – sono due persone molto diverse: molto più aperto, socievole Roche, più solitario Visentini –, che cosa l’ha fatto staccare completamente dal ciclismo. Non può essere solo una tappa o un Giro persi a Sappada.
 
«No. Io penso, come ti dicevo, non lo conosco di persona. Però quei ragazzi che gli erano vicini, l’ultimo anno che ha fatto alla Malvor [il penultimo, nel 1989, nda] mi dicevano che era un ragazzo uguale agli altri. Gli piaceva divertirsi, stare in gruppo, però eh, sai entrare nella testa di uno non è facile [sorride, nda]… Si vede che lui vedeva il ciclismo nel suo modo, e dopo se non andava a suo modo [batte una mano contro l’altra, nda], ha chiuso. Forse lui ha chiuso… Lo posso capire perché lui la bici la vede, gli piace, in un certo modo, questo modo qui e forse non gli piace essere alla luce dei riflettori, ecco». 

- Questa cosa invece puoi dirmela anche se non lo ha conosciuto bene di persona. Molto volte Visentini si è esposto. Pensa che quegli anni il Giro era disegnato per i famosi sceriffi del gruppo, Saronni e Moser, pensa solo agli abbuoni – scandalosi rispetto all’economia della corsa – e lui magari fuori dai denti le cose le diceva. Questo può averlo pagato, secondo te, contro l’ambiente? 

«Sì. Sì, perché bisogna essere molto diplomatici. Lui non era molto diplomatico come non ero io, ecco [sorride, nda]. E posso dirti, questo me lo ricordo, che un giornalista, mi sembra del Corriere della Sera, quando mi fece un’intervista, che avevo vinto la maglia bianca, e mi fa: te sei stato fortunato. E io gli ho detto: perché? Perché sei "nato" nell’èra in cui Saronni e Moser. erano finiti Altrimenti la salita più grande era, non so, diciamo… Lui conosceva Gabicce Mare, queste zone qua, la Panoramica, ecco, lui diceva la Panoramica di Pesaro» [è poco più di un lungo cavalcavia, nda]. 

- Non male, non male. Torriani aveva anche il senso degli affari e aveva fiutato che il ciclismo italiano di quegli anni “era” Saronni e Moser. 

«Però se diciamo così dopo Saronni e Moser si arrabbiano, eh-eh…». [ridacchia nda] 

- Tu nel ciclismo hai un "cugino" illustre, Davide Cassani. O no?

«No, non dire così». 

- Spiegami bene. 

«Allora: sua mamma è cugina di mia mamma, per cui per l’asse non siamo parenti». 

- E allora perché tutti dicono che siete cugini? 

«Perché Adriano De Zan, non so come ha fatto… La mamma di Davide è cugina di primo grado di mia mamma. Noi saremmo cugini di secondo grado però in base alla cosa, non siam parenti». 

- Ma questo era solo uno stratagemma per farti parlare di nazionale, perché Cassani è il Ct azzurro. Ma come mai la maglia bianca del Giro ’87, uno che ha vinto all’Alpe d’Huez non ha mai corso neanche un mondiale? C’è qualcosa che non va… 

«Allora: come dicevamo prima, in quel periodo là, il “problema” di Martini era “scartare” i corridori perché ne aveva tanti che andavano forte». 

- Magari lo avesse oggi Cassani quel “problema” lì… 

«Sì, magari se Cassani avesse oggi quel “problema” lì sarebbe più contento e sicuramente riuscirebbe a fare più risultati. È sempre così, ecco». 

- A Innsbruck 2018 avremo delle chance? 

«Secondo me, essendo un percorso così, i corridori ce li ha. Deve avere la fortuna che questi ragazzi ci credano, perché devono crederci poi i ragazzi, al mondiale, perché se anche lui li porta e loro non ci hanno creduto, non sono preparati, fanno brutta figura i ragazzi, non Cassani». 

- Invece mi racconti come percepisci il ciclismo di oggi tu guardandolo in televisione, e invece come lo percepivi quando eri in gruppo? Com’è cambiato il modo di correre? Com’è cambiata la corsa stessa, come viene interpretata dai corridori? 

«Mah, quello che ci rimango male, a volte, che quando io guardavo il gruppo ai miei tempi, vedevi tutto ’sto gruppo clorato perché c’erano tutte le squadre mescolate, al massimo vedevi due o tre della stessa squadra, oppure quando vedevi tutta una squadra assieme era perché stavano tirando o perché facevano un attacco. Adesso invece li vedi verde, rosso, blu, tutte le squadre insieme. Io dico: questi qui non socializzano mai, praticamente? È quello che mi chiedo, ecco». [lo dice ridendo, nda] 

- Al di là della differenza di budget, hai accennato anche a questo problema qua: ci sono squadre anche di 28-30 corridori. Ognuno col suo programma e addirittura non si conoscono tra di loro nella stessa squadra, perché magari chi parte per le classiche poi non fa i grandi giri eccetera. Ai tuoi tempi com’era? 

«Ma ai miei tempi, per esempi l’Ariostea, che era una squadra importante, eravamo 18 corridori e facevamo tutte le classiche del Nord, Giro, Tour e poi dopo… era un calendario un po’ diverso. E poi si faceva tutte le classiche fino al Lombardia, ecco. E la squadra veniva divisa per far tutte queste corse qui. Secondo me 28 sono troppi. Per risolvere il problema, non è il costo… È ridurre i corridori». 

- Però il tu ciclismo, o almeno la prima parte di carriera – perché tu hai fatto 18 di stagioni da professionista – in Italia si correva dalla Sanremo (o poco prima, dal Laigueglia) al Lombardia. Oggi già a gennaio c’è il Tour Down Under in Australia, si finisce con la Cina. E si corre per quasi undici mesi l’anno. 

«Sì, lo so. Sono d’accordo con te che è cambiato tutto il calendario. Però se l’Unione Ciclistica Internazionale vuole far crescere il ciclismo, diciamo, [far] crescere, aumentare l’interesse, deve concentrare di più il calendario. Non puoi avere un calendario così lungo perché poi la gente si deve [poter] identificare in un campione. Perché il campione non lo posso vedere solo al Giro d’Italia. Lo voglio vedere anche in un’altra corsa. Allora. O cambi regole, cioè dire: okay, te partecipi al Tour, va bene, però prima del Tour mi devi fare trenta corse. Prima del Giro mi devi fare venti corse, allora la gente si appassiona un po’ di più. Perché, diciamo così, il Froome del momento lo vedo solo al Tour. Sagan, adesso lo vedo solo nelle classiche, poi lo vedo solo al Tour». 

- Perché, invece del Giro d’Italia, Sagan fa il California [annullato nel 2020, prima ancora del Coronavirus, per difficoltà finanziarie, nda] per preparare il Tour [e soprattutto per obblighi di sponsor tecnico con la Specialized, nda]. 

«Adesso Sagan è già uno che corre di più, è già diverso. Però per far… La gente si appassionava a Moser, Saronni, Visentini, Roche perché correvano quasi tutta la stagione. È impossibile oggi come oggi correre tutta la stagione però mi devi fare le corse, anche se non vai forte, ci devi essere. Io mi ricordo Argentin quando vinse il Fiandre [nel 1990, nda], venne a fare il Prato la domenica dopo. Era stanco però la gente mi ricordo che la mattina alla partenza di Prato c’erano diecimila persone in piazza». 

- Si è dovuto scusare pubblicamente quando non ha partecipato al campionato italiano. Uno che dominava le classiche. Prima, quando dicevi che è cambiato il “colore” del gruppo, con le varie squadre non più mischiate, mi hai fatto venire in mente un’altra cosa. Come correva Visentini che aveva paura di stare nella pancia del gruppo come invece fa sempre un capitano, coperto dai propri gregari. Lui invece come correva? 

«Visentini andava fortissimo a cronometro, fortissimo in salita e fortissimo in discesa. Però aveva un po’ paura a stare in mezzo al gruppo, però era uno che correva sempre in testa al gruppo, voleva vedere la corsa e allora stava sempre di lato del gruppo, diciamo così. Per cui quando lo passavano che lo chiudevano, lo vedevi che usciva e poi rimontava sempre il gruppo per ritornare davanti, ecco. Per me spendeva tante di quelle energie… E anch’io che non ero capace, per cui correvo più nelle retrovie per non spendere troppo, ecco». 

- Quindi la tua era una scelta di diverso tipo. È la stessa cosa che mi ha detto Magrini. Roche invece lo vedevi sempre ben coperto dai suoi? 

«Sì. Era coperto, poi sapeva “navigare” – come dico io – navigare in mezzo al gruppo, lì. Aveva, diciamo, quella classe che ha Sagan, che non lo vedi mai però è sempre lì davanti, ecco. 

- L’87 fu l’anno magico di Roche. Vinse – come prima di lui solo Merckx nel ’74 e poi più nessuno – Giro, Tour e Mondiale. Oggi secondo te è ancora possibile?
 
«Ma oggi puoi fare Tour, Vuelta e mondiale. Lo potresti fare. Lo potresti fare…». 

- Froome l’anno scorso ci è andato vicino, perché ha centrato la doppietta. E il mondiale non era nelle sue caratteristiche, però quest’anno lo è. 

«Quest’anno, potrebbe». 

- Se, sospensione permettendo? 

«Se fa il Giro, deve fare il Tour, non lo so se ce la fa ad arrivare al mondiale. È lunga. Perché se fai il Giro e il Tour, un mondiale è…». 

- E quindi secondo te è possibile a patto di…? O non è possibile? 

«Deve fare, se fa Tour e Vuelta, il mondiale secondo me si può fare. Mentre se fa il Giro Tour e mondiale, è un po’ difficile. O ci potrebbe riuscire eh, però è come ti parlavo prima, statisticamente, con degli studi che hanno fatto, un atleta più di quattro mesi on riesce a rimanere al top, per cui: maggio, giugno, luglio, agosto… È in là. Bisognerebbe che riuscisse a finire il Tour bene, riesce a recuperare un po’ per provare di trovar la condizione per fare il mondiale. Potrebbe farcela, però è stressante, eh». 

- Tu caratterialmente ti senti più affine a un Visentini, che dopo dell’ambiente non ha più voluto saperne, o invece magari ti piacerebbe tornare a farne parte un po’ come succede a Roche che fa il testimonial, è sempre presente, si fa vedere, eccetera? La tua scelta qual è stata? O quale potrebbe essere da qua in avanti? 

«Io al ciclismo devo dire grazie, mi ha dato tanto e al quale penso di aver dato tanto. Io non sono di quelli che ho chiuso, basta. A me piace lo sport. Come mi hai sentito parlare, mi piacciono tutti gli sport, sono un appassionato. Mi piace il calcio, mi piacciono le moto. Sono uno sportivo, ecco. Io mi considero uno sportivo. Ancora oggi, quando ho tempo, guardo il Tour, guardo il Giro, a volte quando è qui vicino, vado a vedere il giuro. È chiaro che un po’ mi manca quella vita lì, perché era una vita da zingaro. Non la farei più però un po’ mi manca. Se ci fosse, non so, d’andar a fare qualche giorno al Giro o al Tour, lo farei volentieri, ecco». 

- Ma di rientrare in carovana con qualche ruolo ti piacerebbe o è un tipo di vita che non ti appartiene più? 

«La farei, come ti ho detto, c’è da far solo il Giro d’Italia…». 

- Quindi per brevi periodi? 

«Per brevi periodi, se devo fare come… esempio. Pubbliche relazioni oppure direttore sportivo, aiutare il direttore sportivo, per tutta un’annata, no». 

- Tu sei stato per quattro anni nei quadri federali e con un ruolo anche abbastanza delicato. Mi spieghi che cosa hai fatto e invece che cosa ti ha fatto smettere? 

«No, eh-eh… Innanzi tutto non sono un politico, è per quello che ho smesso. No, ero in una struttura, in una commissione federale che è una commissione che controlla i regolamenti che vengono emessi dalla federazione per controllare se possono essere applicabili o no, ecco. Era una commissione così. Però non essendo molto politico non è adatto a me». [sorride, nda] 

- Quindi come hai fatto a resistere quattro anni? 

«Andavo bene che c’avevam poche riunioni [ride, nda] Non sono come, io posso dire che quella… per esempio quella tappa che Marco, ancora non aveva la maglia gialla, che c’è stato quello sciopero…». 

- E tra l’altro essendo lui uno dei corridori più carismatici, era un leader della protesta, seduto per terra… 

«E mi ricordo eravam tutti seduti per terra, e tutte 'ste squadre piano piano partivano. Io, reduce di un’esperienza avuta nell’88 al passo del Rombo [al Giro, per la neve, nda], mi affianco a Marco e dico: Oh, dobbiam partire perché questi qui partono e ci lasciano qua. No, no, no. Finché non parte Jalabert io non parto”. E va via una squadra, un’altra squadra… E c’era lì un organizzatore del Tour e gli chiedevo: Ma ci aspettano? Sì, sì, non preoccuparti. Ma io non mi fidavo. E dopo gli dico: Marco, dobbiamo andar via perché questi qui vanno, vanno, vanno… Jalabert decide di andare via, ripartiamo, ma il gruppo aveva già dieci minuti. Andavano a passo turistico, ma avevano dieci minuti. Per rientrare ci abbiam messo venticinque chilometri dietro le macchine, una fatica bestiale. Come siamo rientrati, andati via… e tutto il giorno. Per dirti, come politico, no? Reduci da questo fatto qui ci fu un altro sciopero, perché quando arrestarono Massi sempre quel Tour, lì’, ho detto: adesso basta, mi metto io là, mi son messo proprio a fare il politico, davanti a… c’era Jean-Marie Leblanc, il direttore, ha detto: o si parte, o non si parte più qui eh. Proprio. Gli dissi così. Allora a discutere… Ho etto: la soluzione te la trovo io, partiamo tutti insieme a turistico fino all’arrivo. Perché lui era disperato. C’era metà corridori che non volevano partire. Allora gli ho detto: facciamo tutti la corsa “turistica” così… Sono troppo…». [ride, nda] 

- Troppo schietto, da buon romagnolo? 

«Schietto». 

- Senti, non posso non chiedertelo. Tu hai vissuto l’ultima epoca del ciclismo italiano, gli anni ’80, e l’inizio degli anni ’90, il periodo più buio del ciclismo non solo italiano, ma in generale. A trent’anni di distanza una tua analisi si quello che hai visto, su quello che non avresti voluto vedere, che cosa è cambiato. I “culoni” - come li chiamava Lucho Herrera - che pesavano ottanta chili eppure, dall’oggi al domani, in salita volavano? Insomma, in una parola: che cosa è successo? 

«Allora: io ti dico questo. ho visto un documentario che parla di tutta la storia del Giro d’Italia e quando è arrivato agli anni Novanta ha detto: “il buio del ciclismo”. Io ci son rimasto male perché ero in quegli anni lì. “Il buio del ciclismo” perché?». 

- Beh, c’è tanta ipocrisia. 

«C’è tanta ipocrisia. Perché – prima – i controlli antidoping c’erano. C’erano, e nel ciclismo ci son sempre stati, perché han trovato anche negli anni prima, diciamo negli anni ’80 c’era…». 

- Ma anche prima: in carriera Merckx è stato trovato positivo tre volte, anche se la gente si ricorda solo di Savona ’69… 

«C’erano anche prima, solo che non c’era questo, diciamo, questo tam-tam qui, come è venuto fuori nel ’98 con la Festina, che diciamo così era un doping di squadra. Ma possiamo dire, vabò, è stato un doping “di squadra", però il mondo…». 

- Pensa anche alla PDM, alla Rabobank, potremmo andare avanti per parecchio… 

«Sì, però io arrivo a un punto. Io non ho creduto a tutte ’ste leggende. Io ho sempre creduto che, per esempio anche quando è venuto fuori il caso di Armstrong, dell’UCI che nascondeva tutto, io ci son rimasto male perché, essendo un piccolo corridore, io credo che alla fine della corsa quando c’è quel controllo antidoping lì, quelle provette non vengono buttate via ma vengono analizzate. Io spero. Io ho sempre creduto in quello, e ho cercato di stare sempre nelle regole. E come io, tanti altri miei colleghi. E quando vengono a dire “gli anni bui” io ci sto un po’ male». 

- Anche perché tu in gruppo c’eri quindi la fatica l’hai fatta. E vedevi che l’ha fatta anche chi ti arrivava davanti e figuriamoci quelli dietro. 

«L’ho fatta. E secondo me ci son state, come tutte le cose, ci voleva un po’ più ferrei, più forti, e decidere: si fa così. Ma l’UCI non ha mai avut questo coraggio. Forse per l’ipocrisia, non lo so. Non lo so. E alcune regole che hanno voluto, come il limite [dell’ematocrito a 50, nda] che avevano messo ai corridori. Per me è stata una regola molto importante che ha fatto bene». 

- Be’ se non altro per la salute dei corridori. Perché si rischiava davvero grosso. 

«Sì, ma questa regola qui non l’hanno accettata solo i corridori m l’hanno accettata anche in altri sport, come quelli dello sci di fondo. L’hanno interpretata in modo diverso che noi invece ci ha rovinato». 

- Si può dire però che voi corridori non siete mai stati, e forse mai sarete, uniti? Cioè dal punto di vista del peso politico: si può dire? 

«Sì. Ma io penso anche forse in altri sport hanno un po’ più potere gli atleti, ma nel ciclismo: zero. Perché purtroppo un ragazzo ha un contratto per un anno, e in quell’anno lì deve lottare per fare il contratto dell’anno dopo. Se c’è un problema, lui pensa al suo problema personale, non a quello di tutta la comunità… e questo problema…». 

- E questa è la vostra grande debolezza, come categoria. 

«E questo problema qui lo dovrebbero risolvere i grandi capitani. A volte i grandi capitani se ne fregano, pensano al loro orto e basta». 

- Tu hai sempre avuto un buon rapporto coi tuoi capitani? 

«Sì». 

- Ricambiato quindi? Cioè vedevi anche della generosità da parte del capitano ai suoi gregari o molte volte invece il rapporto era sproporzionato [nel dare/avere]? 

«No, quello che a me m’interessava molto era il rispetto. Io ho avuto sempre tanto rispetto». 

- Due domande veloci per chiudere. Una, “Sappada”: perché siamo qua a parlarne trent’anni dopo, in questo albergo dove magari hai fatto tanti ritiri. E due, Visentini o Roche? “Devi” scegliere. 

«Ah-ah [sorride, nda] Forse tu sei qui a parlare dell’87, che son passati tanti anni perché forse questi due ragazzi dopo trent’anni non si sono ancora riappacificati che, per esempio, Moser e Saronni l’hanno fatto, ecco. Forse per quello. E Visentini o Roche, non lo so, sinceramente non lo so. Perché posso dirti che in bici pochi corridori son generosi, quando sei sulla bicicletta sei egoista. Pensi a te stesso. E forse in quell’attimo lì. E Visentini era egoista per se stesso perché lui voleva rivincere il Giro. Roche vedeva che aveva le opportunità per vincere ed è successo questo». 

- Allora te la giro così: tradimento o business? 

«Ah-ah. [ride di gusto, nda] Business, perché Roche, se vinceva il Giro, aumentava lo stipendio. Business…». 
   CHRISTIAN GIORDANO ©


NOTA:
[1] Argentin vinse in volata a Montegranaro la sua terza frazione consecutiva (dopo quelle di Paglieta e Monte Conero) e la quinta in fila per l’Ariostea dopo i successi del danese Rolf Sørensen a Frosinone e di Davide Cassani a Sora. Il giorno dopo, nella settima e ultima tappa, la cronometro individuale di 18,3 km di San Benedetto del Tronto, vinse l’olandese Erik Breukink in 22’44 con 20” sul Sørensen e 23” sul messicano Raúl Alcalá, compagno di Breukink nella PDM-Concorde. Sørensen quindi conquistò la classifica generale con 13” su Alcalá e 34” sullo svizzero Fabian Jeker (Helvetia).

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