Marco Giovannetti, il Regolarista


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per Rainbow Sports Books ©

Prontooo, addetti ai lavori e semplici appassionati italianiii? 
Ma ve lo ricordate o no che 'sto signore, nel '90 e non nell'anteguerra, ha vinto la Vuelta a España?. 
No, perché in Spagna non solo se lo ricordano eccome, ma è pure parecchio amato, ancora oggi, e tanto. 

Da noi invece il ricordo di Marco Giovannetti e della sua carriera è come se si fossero persi nell'oblio, l'ennesimo ex professionista che nessuno più ha voglia di cercare, sentire, raccontare. E coinvolgere. Un tesoro di esperienze e trascorsi dimenticato in soffitta, e senza perché.

Eppure è uno che, da dilettante, in azzurro ha vinto un oro olimpico, e che oro: la memorabile Cento km a L.A. '84 dopo quaranta giorni di ritiro da isolati, fuori del Villaggio Olimpico: uno dei suoi rimpianti non aver potuto viverne l'atmosfera.


Ancora più emblematico, del Giovannetti uomo, poi, il suo post-carriera agonistica. C'era lui dietro e dentro il progetto poi entrato, con l'avvento del patron Giorgio Squinzi, nella storia del ciclismo come fenomeno-Mapei. Anche lì, in pieno-Giovannetti-style, a raccogliere i frutti della sua semina sarebbero poi stati altri. Lui, dimenticato. 

Ecco perché siamo andati fino al suo agriturismo, nella campagna lucchese: per sentire, cercare, raccontare uno che avrebbe ancora tanto da dire. E che sarebbe uno spreco non coinvolgere.


Hotel “Le Cerbaie” 
Località Le Cerbaie - Altopascio (Lucca), venerdì 20 aprile 2018 


- Marco Giovannetti, per chi non ha avuto modo di vederti correre, che (bel) corridore sei stato, 

«Son stato un corridore prettamente da corse a tappe. La mia forza maggiore era la regolarità, e il recupero. E quindi venivo fuori quando gli altri calavano, io riuscivo a emergere ed ero un corridore regolare, perché andavo forte in salita, però non ero il più forte; e andavo forte a cronometro, però non ero il più forte. Quindi un corridore… Un buon corridore, però non un grande campione». 

Questa magari è una tua valutazione di te, e tu sei sempre stato umile. La tua carriera però dice anche qualcosa di diverso. Quando hai scoperto che andavi più forte dei ragazzini della tua età? 

«Io ho avuto una maturazione molto lenta, ho cominciato a correre a Milano da esordiente al primo anno».  

- Tu nasci a Milano, in realtà però sei toscano, cresciuto in Toscana e di formazione. Sei nato a Milano perché la tua famiglia si era trasferita temporaneamente lì? 

«Sì, esatto. Mio padre e mia madre sono originari qui della Toscana, proprio di qui vicino, di Montecarlo e di Orentano. E poi si sono trovati "casualmente" a Milano, perché tanti, all’epoca, andavano a Milano a cercar lavoro. E hanno aperto vari ristoranti. Siamo rimasti a Milano fino a che io avevo l’età di dodici anni. E poi ci siamo ritrasferiti qui. Hanno costruito casa qui e siamo ritornati qui a Montecarlo, San Salvatore di Montecarlo, dove ancora risiedo. E ci siamo trasferiti qui. Per mia fortuna, perché sennò non credo a Milano avrei continuato a correre. Perché eravamo proprio in centro quindi… Figurati, solo per uscire da Milano...». [sorride, nda] 

- Qua c’è tanta tradizione. E ci sono anche bei territori per pedalare. Quindi come hai cominciato? 

«Qui i territori sono stupendi. C’è tutto, qui: c’è il clima, c’è la pianura, c’è la salita, c’è il saliscendi. C’è tutto, per un corridore. Infatti la tradizione toscana è grande per i corridori e anche tanti stranieri sono venuti a vivere in Italia. E hanno… Son diventati professionisti qui, grazie all'essere vissuti qui in Italia. O lo stesso Nibali, per essere attuali...». 

- O Cavendish, senza guardare troppo lontano. 

«O Cavendish, esatto. E quindi io ho cominciato a correre, per dire la verità, perché ha cominciato a correre mio fratello maggiore a Milano. Perché conoscevamo Vittorio Magni, che ci ha presentato Renzo Zanazzi, un ex corridore professionista, che aveva una squadra. E ho cominciato a correre per Zanazzi, il primo anno. E poi dopo ci siam trasferiti qui…». 

- Ma tu venivi da una famiglia di passione per il ciclismo oppure… 

«È stato un caso. Un caso, perché io il ciclismo, fino a che non ho cominciato a correre, neanche lo conoscevo». 

- Te l'ho chiesto perché uno con la tua statura magari era più attratto da altri sport. Non so se ti sei sviluppato tardi, però a quell'età spesso capita che ti dicano: sei alto, perché non ti dai al basket o alla pallavolo?

«Ah, sinceramente, mi sono sviluppato abbastanza tardi, al confronto di tanti… Infatti mi ricordo che da esordiente c’erano molti più alti di me. Io ero ancora ragazzino, praticamente. E poi dopo… Perché secondo l’età che ti sviluppi, e chiaramente hai riscontro... Da esordiente-allievo c’erano tanti ragazzi che erano molto più sviluppati di me, e andavano anche molto più forte. Infatti vincevano quindici-venti corse… Per questo ai giovani dico: state tranquilli, non guardate ai risultati, almeno fino a juniores. È da juniores in poi che bisogna andare forte, e si vede chi va più forte, chi è più adatto al ciclismo e chi è meno adatto. A parte vincere o non vincere, però le attitudini si vedono da juniores in poi. Secondo me». [sorride, nda] 

- Quindi vieni in Toscana, cominci a correre… 

«Io vengo in Toscana, continuo a correre perché ho cominciato a Milano. C’era la società di Montecarlo e sono stato, da esordiente, allievo, tutti e due gli anni: juniores il primo anno. E da allievo, sinceramente, andavo pianino. Non ho fatto grossi risultati, non essendo neanche veloce, per niente veloce, quindi non c’era selezione. Non c’era la possibilità - con le mie doti, dato che sono regolarista, fondista - di venire fuori. E invece ho cominciato ad andare forte da juniores». 

- La prima svolta quando arriva? Prima di Los Angeles 1984, no? 

«La svolta viene da juniores, secondo anno juniores. Sono andato forte, ho vinto cinque corse. Poi tantissimi piazzamenti proprio perché… per la mia non-dote veloce [sorride, nda]. E quindi si è intravisto, insomma, che andavo forte, che avevo delle doti. Di lì son poi passato dilettante, il secondo anno, il primo anno ero militare quindi ho fatto pochissimo, il secondo anno sono andato [meglio]…». 

- Eri in Compagnia Atleti? 

«Compagnia Atleti, a Orvieto». 

- Quindi non a Milano con il comandante Angelo Giacomino? 

«No, no… Avevamo un colonnello a cui neanche piaceva tanto il ciclismo, quindi neanche ci vedeva di buon occhio…». 

- Sei stato sfortunato. 

«Son stato un po’ sfortunato, sì. Quelli a Bologna e a Milano si trovavano molto meglio». 

- Eh sì, perché Giacomino pretendeva risultati però ti dava la possibilità di allenarti. O almeno così mi han raccontato quelli che han fatto il militare là, sotto di lui. 

«Sì, sì. No, vabbè, noi siam riusciti a… Però già il primo anno era già difficile perché all’epoca era aperta ai dilettanti, quindi si correva già con gente di 25-26 anni… Già il primo anno era un bello scoglio. Poi ci si è messo di mezzo anche il militare quindi non ho avuto grossi risultati. Il secondo anno invece ho cominciato ad andare forte, sono andato alla Monsummanese, ho vinto due corse e ho cominciato ad andar forte. Il terzo anno da dilettante, m’è venuta una sciatalgia quindi sono stato fermo tre mesi nella stagione, son riuscito a vincere l’ultima corsa, a cronometro, a Ponsacco. E di lì sono entrato nella rosa azzurra. Si può dire che la cronometro a Ponsacco m’è valsa il "biglietto da visita" per l’anno dopo. Infatti sono stato convocato subito, per vedere le attitudini, con la nazionale. Sono andato subito in nazionale. Di lì, quell’anno, stavo andando forte anche prima di andare a fare il ritiro per il quartetto per le olimpiadi. Avevo già vinto quattro corse, ero sempre nei primi, quindi stavo già andando forte. Poi, Gregori mi ha scelto, di lì abbiamo cominciato la preparazione…». 

- Ecco, gli altri tre del quartetto azzurro li conoscevi già o li hai conosciuti lì? 

«Be’, [Marcello] Bartalini lo conoscevo da juniores…». 

- Come avversario? 

«Sì, sì, sì. Siamo stati sempre avversari… Tra amici». 

- E com’era il rapporto: amici-amici? 

«Sì, sì, sì, perché… Come si fa a non essere amici di Marcello?!». [ride, nda] 

- E gli altri due? 

«Gli altri li ho conosciuti lì, in ritiro. Poli e Vandelli li ho conosciuti nel ritiro della nazionale». 

- Ci vuole anche una certa affinità, per quel tipo di gara. 

«E Manenti [1] anche se poi alla fine è stato riserva, ma è sempre stato con noi. Abbiamo condiviso tutto anche con lui». 

- Quindi è nato un bel gruppo, al di là dei risultati, anche come affiatamento? 

«Ognuno aveva il suo carattere però riuscivamo ad andare d’accordo. Quindi... Ci siamo trovati bene». 

- Tu con chi hai legato di più? 

«Bah, io un po’ con tutti… Ero compagno di camera con Vandelli. Quindi ci siamo trovati bene, io mi sono trovato veramente bene con lui, un emiliano DOC…». [ride, nda] 

- E invece, come potenzialità, hai capito subito che Eros Poli avrebbe potuto fare strada anche nei pro’? 

«Be’ diciamo che come potenzialità… In pianura, Bartalini e Poli erano veramente dei cronomen nati. Andavano veramente forte a cronometro e in pianura. Andavano… Forse, di noi quattro, erano i più adatti per la cronometro…». 

- Ma tu avresti mai detto che poi avrebbe fatto quell’impresa sull’Alpe d’Huez al Tour de France? 

«No, sull’Alpe d’Huez, chi l’avrebbe detto?!». [ride, nda] 

- Non lo avrebbe mai detto neanche lui, vero? 

«Penso di no. Anche se la forza di Eros era anche l'essere convinto dei propri mezzi, di poter ottenere risultati. Anzi, secondo me, a parte quell’impresa lì, avrebbe potuto ottenere anche altri risultati». 

- Se avesse potuto avere un certo tipo di libertà in corsa, intendi? 

«S’è buttato a fare un certo tipo di lavoro, da professionista, che gli veniva veramente bene. Era adatto per fare… Per tirare le volate, per tirare eccetera eccetera. E quindi si è un po’ chiuso la possibilità di fare altri risultati. Perché, secondo me, Poli poteva avere la possibilità di partire agli ultimi tre-quattro-cinque chilometri e tenere i cento metri di vantaggio. Avrebbe potuto ottenere... Andava veramente forte, in pianura». 

- Una specie di Guido Bontempi, il Bontempi di fine carriera, con dieci anni di ritardo? 

«Bontempi era veloce. Era veloce… Oltre che andar forte. Poli non era veloce quindi non poteva far le volate di gruppo. Però in pianura, secondo me, qualche impresa avrebbe potuto farla… E però lui l’ha fatta lì, con quella… s’è messo pari…». [ride, nda] 

- E ogni anno che al Tour c’è l’Alpe d’Huez lo chiamano, e lo chiameranno anche quest’anno che torna l’Alpe al Tour… 

«E infatti…». 

- Arriviamo a quelle foto lì, dai. [Gli mostro i vecchi Bicisport che gli ho portato, nda]

«La cronometro a Los Angeles. Mah, io personalmente dico, quando me lo chiedono, che è stato più difficile, più duro fare i quaranta giorni di allenamento per arrivare lì che la corsa in se stessa». [ride, nda] 

- Perché? 

«Io ho fatto molta più fatica negli allenamenti che non nella corsa. Perché una volta che siamo partiti, che siamo arrivati…». 

- Perché il CT Gregori vi tirava il collo, in allenamento? 

«Sì, ho fatto più fatica, sì-sì… Perché, appunto, avendo delle caratteristiche fisiche che mi portavano a essere regolare e a non avere… A me davano fastidio i cambi di ritmo, e lì nella cronometro di Los Angeles non ci sono stati. Perché siamo partiti a cinquanta [km/h]… a cinquantadue-cinquantatré e siamo arrivati a cinquantadue-cinquantatré quindi… Io mi son trovato benissimo. Non ho avuto alcun problema. Magari, se una volta si andava a sessanta, mi sarei trovato più in difficoltà. Invece lì siamo partiti forte e siamo arrivati forte e non ho avuto difficoltà. Era più negli allenamenti, perché in allenamento ci portava oltre il nostro limite. E io, quando arrivavo proprio al limite, la mia difficoltà era quella». 

- Come mai quaranta giorni di ritiro? 

«Eh, abbiamo provato, ci siamo allenati dietro moto, ci siamo allenati… Abbiam fatto i test…». 

- Quaranta giorni, sempre là? 

«Abbiamo fatto, credo, quasi una trentina di giorni a Cesena, perché c’erano le (Under) "23" dove ci si allenava avanti e indietro, avanti e indietro. E poi siamo andati una settimana, se mi ricordo bene, circa una settimana prima a Los Angeles…». 

- ...per acclimatarvi?

«Per acclimatarci. E quindi, una quarantina di giorni». 

- T’ha cambiato la vita, quella corsa lì? 

«Be’, m’ha spianato il passaggio al professionismo. E quindi mi ha aperto la porta». 

- Ma tu ci pensavi anche prima dei Giochi al professionismo o è una cosa che è arrivata, come ti posso dire, in maniera graduale? 

«Diciamo che al professionismo ci pensavo. Il problema è che il terzo anno da dilettante, per colpa di quella infiammazione, la sciatalgia, non ho avuto risultati e quindi stavo aspettando il quarto anno di dilettante per vedere cosa facevo. Quindi se andavi forte…». 

- E tu Marco ragazzo, non il Giovannetti corridore, per esempio con la scuola t’eri preparato una strada alternativa o nel ciclismo avevi investito parecchio, per non dire tutto, mettiamola così? 

«Mah, nella scuola no, non avevo… Io ho fatto solo la terza media, però avevo…». 

- Se non fosse andata bene con il ciclismo, avevi pur sempre il mestiere di tuo padre? 

«Esatto, infatti… Avevamo già... Mio padre era già per conto suo, è sempre stato nel settore ristorativo-alberghiero, quindi… Sarei andato... come ho fatto poi dopo…». 

- Quando non correvi davi già una mano a tuo padre, cioè sei cresciuto in quell’ambiente lì? 

«Sì, sì, sì. Avevamo già l’albergo, già gli davo una mano quando, da dilettante, avevo tempo e non andavo a correre. Davo una mano nell’hotel». 

- Quella medaglia ti apre le porte al professionismo, dove trovi la strada nel professionismo e come è stato l’impatto? 

«C’era [Giorgio] Vannucci della Bottegone, quindi qui vicino». 

- Bottegone: la squadra dove aveva corso anche Francesco Moser… 

«Sì. Vannucci era dentro la Ariostea-Oece e mi proposero di entrare. C’era [Walter] Riccomi, che è di qui, di Altopascio, un ex professionista [dal 1973 al 1979, nda]. Mi ha presentato a Vannucci e di lì son passato professionista con loro, con Vannucci». 

- Dopo i Giochi o avevi già una mezza parola prima? 

«L’anno dopo. Ho aspettato ormai di finire l’anno nei dilettanti». 

- Non avevi contatti prima, non ti eri promesso a qualcuno? 

«No, no, no. Dopo l’olimpiade ho avuti contatti». 

- Avevi diverse offerte? 

«Mi sembra di ricordarmi, no, non ho avuto tante offerte». 

- Quindi non è stata tutta questa grande vetrina per… 

«Mah, devo dire che ho avuto subito fiducia in Vannucci, poi non… Ho firmato, quindi una volta firmato… Può darsi anche che si sia sparsa la voce che avevo firmato e che non mi son venuti più a cercare, non lo so, però…». 

- Mi pareva strano: vinci l’oro ai Giochi di Los Angeles e… Di solito ti fanno la corte, no? 

«Sì, però c’è da dire che i Cento km a cronometro, come ho fatto io, anche se ci sono stati magari grossi corridori che hanno fatto la Cento km, poi erano considerati grossi passisti e c’era la brutta nomea che chi faceva la Cento km veniva bruciato e non poteva più, non sarebbe più…». 

- ...riuscito a fare grossi risultati perché gli avevano tirato il collo troppo presto? 

«Esatto. Esatto… E quindi…». 

- E invece questo non è vero. Oppure ci son stati troppi esempi… 

«Io e Poli siamo gli esempi che non è vero». [ride, nda]

- Due controesempi, direi. Però, se la voce girava, a qualcuno forse il collo gliel'avevano tirato sul serio, e magari troppo presto…. Al di là della Cento km in sé, dico, eh: da dilettante… 

«Dipende. Al di là della Cento km può darsi, ma tutti gli anni da dilettante, magari avrò corso troppo. Poi, subentrano mille cause. Io ho conosciuto tantissime persone che avevano delle attitudini, nel ciclismo, veramente buone e che poi non sono riuscite neanche a passar professionisti, e altre che magari ne avevano meno e da professionisti han fatto una buona carriera. Ci son tante cause…». 

- ...e tante variabili… 

«Tante variabili. Quindi non si può dire che chi non c’è riuscito era meno bravo di chi c’è riuscito. Ci sono tante cause». 

- Quindi passi all’Ariostea-Oece. Primo anno: com’è stato? 

«Primo anno, ci siamo ritrovati in ritiro una forte squadra. C’era Contini, c’era Panizza, c’erano diversi corridori forti». 

- Com’era il rapporto con Silvano Contini?

«Bellissimo. Silvano è una persona squisita, veramente. E quindi mi son trovato subito bene, come compagni di squadra. Mi son trovato veramente bene. Adesso non vorrei non ricordarmi qualcuno, da [Pino] Petito a…».  

- Hai faticato, i primi tempi? 

«Ripeto, mi son trovato subito bene con loro. Si andava subito forte, in ritiro. Mi son trovato subito bene. Non ho accusato tantissimo». 

- Sei uno dei pochi, fra quelli che ho sentito, a non aver accusato il salto nei professionisti. 

«Il primo Giro d’Italia, ho pagato più che altro l’inesperienza di correre in gruppi così numerosi. Perché in Toscana, nelle corse che ho fatto nel dilettantismo, e poi coll'essere stato quasi due mesi in preparazione, quindi in quattro [ride, nda] o in cinque perché c’era anche Manenti...». 

- Non è la stessa cosa… 

«Non è la stessa cosa trovarsi in un gruppo di duecento corridori al Giro d’Italia. Quindi il primo anno ero sempre in terra. Ho perso sette-otto minuti in cadute e, nonostante tutto, sono arrivato undicesimo [in realtà 14°, nda] lo stesso. Quindi…». 

- Parliamo del…? 

«...dell’85, e vinse la maglia bianca [Alberto] Volpi e io sono arrivato secondo però avevo perso minuti e minuti nelle cadute. La più grossa difficoltà l’ho trovata lì». 

- A correre in gruppo? 

«A correre in gruppo. Esatto». 

- Invece quando si parla di Visentini, tutti mi dicono correva decima-quindicesima posizione a desta o a sinistra, per paura delle cadute. Lui correva sempre vento in faccia, e mai nella pancia del gruppo. Tu ricordi questo dettaglio? 

«Certo, certo. Mi ricordo di Visentini che sì lui era uno di quelli che aveva paura, e non era come si suo dire in gergo un limatore…». [ride, nda] 

- Ecco, al contrario di Roche. 

«Roche era un fenomeno invece. [ride, nda] Io Roche lo porto moltissimo ad esempio perché era fortissimo perché lui s’appoggiava sul manubrio col sedere, si appoggiava sul manubrio, o allargava la gamba, ti toccava il manubrio, ti faceva spostare, faceva sempre: oops scusa, op scusa, però lui frenare non frenava mai [ridacchia sempre, nda] e quando succede che uno ti chiede… ah scusa-scusa, eh sì scusa scusa ma [in]tanto…». [ride di gusto, nda] 

- Come Valentino Rossi e Marc Márquez. 

«Esatto, esatto… Però ci sono nella mia esperienza ciclisticamente parlando ho capito che tanti purtroppo specialmente in Toscana non danno la giusta… – anche perché purtroppo mancano le strutture – non danno la giusta importanza alla pista. Perché secondo me la pista porta a saper stare in gruppo». 

- Pensavo ti riferissi alla padronanza del mezzo. 

«Alla padronanza della bicicletta e soprattutto a non toccare troppo il freno, riuscire a stare in gruppo, perché avendo il rapporto fisso, non avendo freni, in pista, sei obbligato a imparare a…». 

- E tu l’hai fatta, la pista? 

«Io no [ride, nda] Per questo che dico ai giovani se potete andare in pista, andate in pista. Perché imparate ad andare in bicicletta». 

- Sì, me l’hanno detto in tanti. E quindi primo anno professionista così, poi come andiamo avanti? 

«Poi son venute fuori le mie attitudini che erano quelle per le corse a tappe. Mi ha penalizzato tantissimo non essere veloce. Arrivavo davanti, davanti ma… non riuscivo a vincere. Poi sono arrivato sesto al Giro d’Italia. Poi sono arrivato…». 

- Sesto era nell’87, eri dietro a Flavio Giupponi, i primi due italiani nella generale. 

«Ottavo nell’86, sesto nell’87 [e anche nell’88, nda] Adesso mi sfuggono, perché sono arrivato due volte sesto una volta ottavo». [in realtà anche due volte ottavo, nda] 

- Volevo un tuo ricordo di quel Giro lì… 

«Se me lo ricordi magari faccio meno gaffe. Perché la memoria… [ride, nda] Allora ’86, ho fatto ottavo allora, nell’87 sesto e nell’88 ottavo…». 

- Eri il secondo degli italiani nell’87, ed eri al terzo anno da pro’. 

«Terzo anno da pro’. Poi speravo di fare il salto di qualità, invece ho fatto un passo indietro. Ho fatto ottavo». 

- Ma vedevi che progredivi, anche se dopo, magari, dipende anche dal percorso, dalle tappe, da tante cose… 

«Io mi sentivo bene, andavo forte però poi magari non son riuscito a cronometro a riuscire a beccare la giornata giusta». 

- Correvi da capitano già? 

«Mi ricordo, se mi ricordo correvo ancora insieme con Silvano, con Contini. Quindi era capitano più lui di me, però ero libero insomma, mi facevano far la corsa». 

- Chi era il tuo direttore sportivo lì? 

«Sempre Bartolozzi. Bartolozzi mi sembra subentrato a Vannucci, però ora a memoria, la memoria mi comincia a…». [ride, nda] 

- Te lo chiedo se magari avevi un feeling particolare con un direttore sportivo rispetto a un altro, o no, non so… 

«No, mi trovavo bene con tutti. Sì, sì». 

- Perché tu caratterialmente avevo letto che grossi problemi non ne hai avuti con nessuno. 

«No, grossi problemi non ne ho avuti con nessuno. E però ora a memoria sto facendo un po’ di confusione in quegli anni perché poi dopo c’è stato che l’Ariostea, ci siamo divisi fra Ariostea e Gis. Io son rimasto nella GiS, qualcuno è andato nell’Ariostea». 

- Perché hai scelto così? O ti hanno scelto loro? 

«No, perché il gruppo “nostro”, appunto con Contini, Petito, Baffi eccetera, siamo rimasti tutti nella GiS e insieme con il manager e l’Ariostea ha fatto la squadra per conto suo. Quindi ci eravamo trovati bene come gruppo, quindi sono rimasto nel gruppo, fino a che non ci siamo divisi quando la GiS ha smesso, era l’89, che sono andato in Spagna e…». 

- E poi è arrivato l’annoi magico. 

«E poi è arrivato l’89, praticamente fino all’88 son arrivato sempre sesto, ottavo, sesto ottavo, non riuscivo a fare il passo per appunto il problema della mia regolarità, ma non avere la possibilità fisicamente di fare… ora dicono “fuori soglia”, ma allora non si sapeva che era fuori soglia, il… la vera a propria… la possibilità di essere… di… come ti posso… come mi posso spiegare, di essere superiore in salita a nessuno, essere superiore a crono a nessuno, riuscivo a fare sempre fra i primi ma oltre i primi non riuscivo ad andare». 

- C’era una specie di tappo. 

«Non riuscivo ad andare, a superare i miei limiti. Avevo quel limite, più di lì non riuscivo andare. Sesto, ottavo, sesto, potevo… qualche volta son stato sfortunato, sennò potevo arrivar quarto o quinto ma…». 

- Ma ti scontravi anche con dei signori corridori… Questo va detto. 

«Sììì, infatti c’erano quei sei o sette, cinque corridori che erano superiori a me, o in salita o a cronometro, e non riuscivo a superarli». 

- Poi arriva… 

«Poi nell’89 ho avuto questa possibilità di andare in Spagna, mi son buttato, senza conoscere il ciclismo spagnolo senza…». 

- Che differenze hai trovato? 

«Il primo anno mi son trovato malissimo». 

- Perché? 

«Perché mi son trovato in una squadra il direttore sportivo aveva una mentalità molto retrograda, i corridori non avevano voglia di far fatica, i corridori pretendevano…». 

- Chi t’ha convinto ad andare in Spagna? 

«Un manager». 

- E che cosa ti ha convinto ad andare in Spagna? 

«Eh, l’offerta economica [ride, nda] perché chiaramente io cominciavo ad avere una certa età, me le offrono per due anni, vado a veder. M’avevano offerto una bella cifra, sono andato». 

- Ti sei portato un po’ di tuoi fedelissimi? 

«Sono andato insieme con Cavallaro, un mio compagno di squadra che conoscevo da dilettante che ho fatto con lui siamo andato insieme». 

- Chi era il direttore sportivo «un po’ retrogrado»? 

«Maximino Pérez [2]. Ma più che… Sì, era retrogrado perché lui aveva una concezione, sui corridori…». 

- …figlia forse di certi corridori che aveva conosciuto lui, non so… 

«Non lo so, forse figlia…». 

- Tu invece eri il contrario, quindi ti avrà preso subito bene… 

«E infatti è stato questo che io, essendo abituato a lavorare tanto da professionista esser trattato un po’’ essere considerato un menefreghista…». 

- Un lavativo… 

«Un lavativo… E non essere trattato come un professionista… Insomma, mi son trovato male ma…». 

- E quindi gliele hai cantate un po’? C’era stato qualche contrasto? 

«Eh, son stati un po’ di contrasti. E quindi non sono riuscito a ingranare e poi le corse in Spagna erano veramente diverse che in Italia. Erano molte corse a tappe – che a me andava bene però – era il modo di correre è più dilettantistico, scatti e controscatti, scatti e controscatti, poi c’erano corridori che non conoscevo neanche, signori corridori spagnoli che non conoscevo, e che invece si sono dimostrati forti». 

- Fammi qualche esempio. 

«Da Iñaki Gastón a [Federico] Echave a cubino a tanti altri che ora non mi vengono… a [Álvaro] Pino, che poi è stato mio compagno di squadra, l’anno dopo mi ha aiutato tantissimo a vincere la Vuelta. Álvaro Pino a [Anselmo] Fuerte a… allo stesso, va bè, Delgado lo conoscevamo perché aveva vinto il Tour… però ce n’erano tanti altri sotto di lui che in Italia non si conoscevano…». 

- Hai detto scatti e controscatti quindi proprio il contrario delle tue caratteristiche, tu che soffrivi i cambi di ritmo… 

«Il contrario delle mie caratteristiche. Esatto, esatto. Tante piccole corse a tappe c’erano due semitappe che la seconda era proprio una cronometro di cinque-sei chilometri, cose che io ero…». 

- Neanche il tempo di carburare, neanche partivi… 

«Esatto. Non riuscivo a ingranare. Un po’ i contrasti, un po’ il cambiamento e non son riuscito ad andare forte anche se poi al Giro d’Italia, alla Vuelta sono andato piano e al Giro d’Italia, grazie sempre alle mie caratteristiche, sono riuscito nonostante tutto ad andar forte, sono arrivato ottavo. Non sono andato fortissimo ma sono arrivato ottavo. Anche perché era un anno che stava andando forte e hanno annullato la tappa più impegnativa che c’era la neve sul Gavia…». 

- ’89… 

«’Ottantanove. E quell’anno lì, lì quella tappa annullata m’ha tagliato le gambe. Sembra strano ma… Quella m’ha tagliato le gambe. Poi la tappa dopo è stata annullata quindi trasferimento in macchina, allora c’han fatto partire vicino a Merano2000, siamo arrivati a Merano 2000 dopo sessanta chilometri. E io sono andato in coma. Ho perso tre-quattro minuti perché, appunto, per le mie caratteristiche non sono riuscito a carburare. Dopo sessanta chilometri s’è trovata la salita, gli altri sono partiti a mille, io sono rimasto bloccato. E lì ho perso la classifica e… Poi dopo sono riuscito a ricarburare ma sono arrivato ottavo in classifica finale. In spagna è stata la mia fortuna, l’anno dopo, che non mi conoscevano». 

- Nonostante… 

«Mah… chiaramente mi hanno sottovalutato. Non conoscendo le mie caratteristiche mi hanno un po’ sottovalutato. Siamo partiti con Álvaro Pino capitani tuti e due, anzi forse più lui per la Vuelta che io. E siamo andati a far delle corse all’estero e son riuscito ad allenarmi bene. Pino ha preso il mio posto quindi era lui che si… che litigava con il direttore sportivo per farci avere tutte le cose allora io mi sono un po’ sgravato di questa situazione, era... Perché anche Pino era abituato più a esser trattato da professionista in squadre che era stato prima e quindi i contrasti li ha avuti più Pino per farci avere quello che tutte le squadre avevano, niente di più, niente di particolare. E con lui mi son trovato benissimo. E poi siamo arrivati alla Vuelta e la prima tappa, che c’è stato un ventaglio, io per aspettare lui e per portarlo avanti son rimasto nel secondo ventaglio, siam rimasti… e ho perso quasi 40-50 secondi. Poi, dopo, siam andati forte nella cronometro a squadre. E siamo rientrati in classifica, forse quello. Non lo so cosa è successo a Pino, poi io sono entrato in quella fuga insieme a un altro mio compagno di squadra, [Jon] Unzaga, e praticamente la fuga l’abbiamo fatta noi. Perché l’abbiamo portata via noi. E a quel punto il direttore sportivo ci ha creduto, e ci ha incitato per recuperare…». 

- Non eravate più “lavativi”, lì… 

«No, per prendere più tempo possibile a... Dietro, dato che non hanno reagito più di tanto, si vede… La Banesto aveva [Julián] Gorospe, che era un altro buon corridore, e quindi hanno puntato forse su di lui e infatti era davanti a me in classifica, la maglia l’ha presa Gorospe. E m’hanno sottovalutato, non pensando che… Pensando che magari mi staccavano in salita o… che andavo più piano… [sorride, nda] che andavo più piano a cronometro. Invece io grazie al tempo che poi non era… tutti parlano di fuga-bidone… Sì, è stata una fuga che mi ha permesso di prendere qualche minuto, ma non è che ne avessi presi sette o otto. Avevo quei due tre minuti di vantaggio, non è che ne avessi quindici… Quindi era una fuga diciamo… Possiamo chiamarla "bidone" ma neanche più di tanto, perché… Avrò preso tre o quattro minuti, no, forse non arrivavo a quattro minuti, ne avrò avuti tre. Perché un po’ ne avevo persi in quel famoso ventaglio… Ed ero arrivato secondo, praticamente dietro Gorospe. Poi, grazie alla mia regolarità, Gorospe invece è saltato e io regolare, regolare, perdevo quei quindici-venti secondi sugli arrivi in salita. Perché, chiaramente, quando partiva… quando scattava Delgado... [ride, nda] Era uno scalatore, quindi neanche ci provavo ad andargli dietro. Lo lasciavo andare e andavo via regolare, grazie anche a Pino, che mi faceva un’andatura regolare eccetera. E piano piano, piano piano, sono riuscito a portare a casa la maglia gialla. Poi, sono andato forte sia in salita sia a cronometro. Sempre quinto in salita, quinto a cronometro, quarto a…». [ride, nda] 

- E mattoncino dopo mattoncino… 

«E grazie al vantaggio che avevo, Delgado mi aveva recuperato un minuto, neanche, adesso non mi ricordo di preciso quanto: un minuto, un minuto e dieci, un minuto e mezzo… E gli altri non ce l’han fatta. Perché non sono mai crollato, insomma». 

- Ma tu quando hai fatto quell’impresa – perché di impresa si trattava – avevi la sensazione che stavi facendo un’impresa o… 

«Sì-sì-sì. Avevo già una certa età quindi…». 

- Perché quando hai vinto la Vuelta, secondo me in Italia c’è stata poca eco rispetto, per esempio, a… 

«Non ce n’è stata nessuna». [ride amaro, nda] 

- Ah, ecco. Io voleva buttarla giù morbida invece… 

«No, no: la butto giù com’è. La verità. È stata… L’unico che mi ha seguito – e lo ringrazio ancora – e che portava un po’ di notizie qui in Italia è stato Pier Bergonzi, che mi ha seguito per tutto il finale della Vuelta». 

- Era lì lui? 

«Era lì, con me. Era l’unico. Era l’unico perché mi ha fatto articoli sulla Gazzetta. Infatti l’unica cosa che veniva fuori erano gli articoli sulla Gazzetta. Addirittura si doveva andare sul Televideo, [per sapere] come erano andate le cose [sorride, nda]. Quindi in Italia, sinceramente, non ho avuto riscontro, non ho avuto niente. A livello pubblico, pubblicità, di pubblico, non… Nessun riscontro. In Spagna mi conoscono mooolto di più che qui in Italia». 

- Ma perché non eri abbastanza personaggio, anche, secondo te? È questo il punto? 

«Anche. Ma poi non hanno mai preso, non avevano preso i diritti televisivi. Quindi in televisione non la trasmettevano. Ma erano tanti anni ormai che la Vuelta non veniva trasmessa in Italia. È stata trasmessa dopo. Ha ricominciato ora, gli ultimi anni, che la trasmettono. Anche perché si deve dire che il ciclismo spagnolo si è evoluto tantissimo, dall’epoca che ci sono andato a correre io, a ora. Son diventati... Hanno vinto campionati del mondo, son diventati corridori anche da classiche. Hanno vinto – a parte Indurain che è esploso –, hanno vinto Tour, hanno vinto tutto, praticamente, gli spagnoli. Sono venuti fuori molto di più di quello che erano prima. Forse prima correvano più in casa. Come anche noi, del resto. Correvano più in Italia, era più un calendario italiano». 

- Ci siamo arrivati in maniera naturale. Mi parli di quel ciclismo lì, e dell’Italia, di quell'epoca?

«Era un ciclismo, se mi passi il termine, più casalingo, più… Meno programmato. Ognuno più "a casa sua", insomma. Come ti posso dire? C’erano i campioni italiani, e magari i campioni spagnoli non li conoscevamo. E non si conoscevano i corridori francesi, se non al Tour. L’unico punto di riferimento, forse, era il Tour. E però, parlando dell’epoca, andare al Tour era difficile. Non è che fosse facile…». 

- In Italia ci andava la Carrera e (quasi) basta. 

«Esatto. Non era facile andare a correre il Tour. E quindi a volte passavi delle stagioni senza neanche conoscere i corridori francesi o i corridori spagnoli. Se non venivano al Giro, o sennò tu andavi alla Vuelta. Ma c’erano poche squadre [italiane] che andavano alla Vuelta, poche squadre [italiane] che andavano al Tour. E viceversa. Era un ciclismo forse più "nazionalistico"». 

- Ma tu invece, con le tue caratteristiche, la cosiddetta "campagna del nord" non la vedevi più adatta a te? Le classiche del Nord... 

«La "campagna del nord" prima di tutto era a inizio stagione, e io non andavo fortissimo. Mi ci voleva tanto per carburare. E poi erano… Bisognava essere grandi limatori [ride, nda], quindi non frenare. Entrare, rischiare, entrare, essere capaci di rimaner davanti, lottare per rimaner davanti, per prendere le strade strette davanti al gruppo. Quindi, era difficile. Bisognava essere capaci, bisognava non frenare. Io non ero capace più di tanto, a tenere le posizioni. Tipo Visentini. Anche lui non era adatto… a quel tipo di corse [ride, nda] E poi c’erano grandi cambiamenti di ritmo, strappi duri e improvvisi. E quindi lì, se non avevi cambio di ritmo, invece di recuperare perdevi. Non ero capace di prenderle in testa. Oltretutto non ero capace di recuperare sugli strappi, perché erano cambi di ritmo, non ero adatto a fare… Forse l’unica poteva essere la Parigi-Roubaix. Però, dato che andavo forte nelle corse a tappe, preferivo prepararmi per le corse a tappe». 

- E poi lì con una caduta rischiavi di compromettere la stagione intera. 

«Esatto. Esatto… Per andare a rischiare…». 

- E poi ai tuoi tempi la Vuelta era ancora a ridosso del Giro. 

«E poi dopo che son andato a correre la Vuelta... Non l’ho più saltata, la Vuelta, che era ad aprile. Mi preparavo più per le corse a tappe che... Non andavo a rischiare per una corsa che non sapevo neanche se… Non era adatta alle mie caratteristiche. Perché nella Parigi Roubaix, m’insegni, bisogna star davanti. E se cominci a star davanti, a prendere il vento a sessanta all’ora - perché lì si va a sessanta all’ora - prima di prendere i primi tratti di pavé…». 

- Avevo pensato che fisicamente potevi essere adatto… 

«Fisicamente, può darsi di sì». 

- Però ci sono caratteristiche tecniche che sono diverse… 

«Esatto. Esatto… Lo stesso Nibali quest’anno ha detto che… al Fiandre era già finito per rimanere davanti. E infatti io ero…». 

- E sai, anche provarla a quasi 34 anni è diverso che iniziare a farla quando sei magari ai primi anni da pro’. 

«Infatti gli mancava l’esperienza in quelle corse. Ma secondo me Nibali la sta facendo proprio perché ha 34 anni, perché sennò non gli conveniva andare a fare corse del genere. E rischiare le cadute quando uno come lui ha vinto Giri d’Italia, Tour de France, Vuelta…». 

- Sai, si sta togliendo anche degli sfizi, no? Vincenzo è un innamorato del ciclismo. Ha vinto una Sanremo, e non ci credeva quasi nessuno… 

«Ora se li può togliere, perché, giustamente… Ora, si può togliere degli sfizi che - giustamente - non si è tolto prima perché prima puntava alle corse [a tappe]». 

- Metti che domenica 22 aprile alla Liegi, toccando ferro, che succede qualcosa, che qualcosa va storto, alla Liegi ha tutto il tempo per recuperare in chiave Innsbruck se proprio gli dovesse andar male qualcosa… 

«Toccando, e scongiuri per lui». 

- Se invece realizza qualcosa, fosse anche il podio. Lui il podio l’ha sfiorato nel 2012, fece quarto. 

«Ma lui ha delle caratteristiche, per quelle corse lì, è adatto. Ha dimostrato già quindi se ci va con l’intenzione di andare, la forma ce l’ha… L’unico suo problema sarà quello di riuscire a prendere le posizioni giuste, le prime salite perché poi è li che si spezza il gruppo. E dopo diventa più facile, ma le prime salite deve lottare e prenderle davanti. Una volta che poi dopo la corsa si spezza, quindi rimangono davanti settanta-ottanta corridori, è più facile. Però è lì che deve stare… che deve rischiare. Poi dopo la forma ce l’ha, le caratteristiche ce l’ha. Mai dire mai». 

- Poi sai se è l’anno magico, magari finisce in gloria a Innsbruck. Comincia così finisce colà. 

«Anche lì ha dimostrato alle olimpiadi di Rio che ha anche le corse di un giorno, ha dimostrato anche qui al mondiale di Firenze [2013, nda] che se il mondiale è duro, che è nelle sue caratteristiche, quindi… speriamoci. Speriamoci». 

- Io ci credo molto. Poi già ti dice la testa. Lui ha vinto la Sanremo sabato 17 marzo. Il giovedì era là a Innsbruck a provare la salita del mondiale. Quindi vuol dire che… ci siamo con la testa. Ci siamo. 

«Mah, io non lo conosco personalmente. L’ho visto qualche volta ma non lo conosco. Però mi dicono che è veramente un professionista al cento per cento…». 

- E poi tu prima parlavi di recupero. Una sua grande dote è il recupero. 

«Ah be’, certo sennò non avrebbe…». 

- Ma di più del normale. E un altro segreto è che lui dove lo metti dorme. Non sente la tensione prima delle gare. 

«Eh, questo è bello». 

- Lui dorme. Ma era già a 15 anni con la Mastromarco, qua in Toscana. Me lo raccontava Carlo Franceschi, il suo diesse-mentore di allora. 

«Questo è importante». 

- Lui dorme subito e quindi è una marcia in più per il recupero, no? 

«Certo. Ma d’altronde se un corridore riesce a ottenere quello che è riuscito a ottenere Nibali, è perché qualcosa in più ce la deve avere. O che sia…». [ride, nda] 

- Direi almeno un paio, una nel motore e una nella testa. 

«Sì, che sia qualcosa in più, che siano due, che siano tre… Indurain aveva qualcosa in più Hinault aveva qualcosa in più. Qualcosa in più quei corridori lì, quelle persone lì ci devono avere sennò non sarebbero diventati quello che sono diventati». 

- E arrivati dove sono arrivati… 

«Eh, certo». 

- Facciamo una parentesi di quel Giro ’87. Cosa ti ricordi se ti dico Sappada, così, trentun anni dopo? 

«Bisogna che mi ricordi: Sappada, cos’era successo…». 

- Allora ti aiuto: scendete dalla Forcella di Monte Rest. Quella discesa, e ci sono più attacchi, c’è una fuga con Bagot, Salvador, Santaromita. E poi a un certo punto Roche attacca… la sua maglia rosa… Visentini. Più volte attacca. Poi guadagna la maglia rosa per cinque secondi, a Sappada, e Visentini arriva al traguardo sotto il palco Rai: “Stasera qualcuno va a casa”. Ti ricorda niente tutto ciò? 

«Io ero abbastanza giovane, ero il terzo anno». [sorride, nda] 

- Però eri lì, eri un uomo da classifica. Che cosa ti ricordi di quegli episodi lì? 

«Allora, mi ricordo che fra Visentini e Roche, sì, c’erano un po’… di fiamme, perché Visentini era un tipo un po’ particolare, un po’ taciturno, un po’… Almeno nel gruppo». 

- Tu ci legavi o no? 

«Io sì, sì. Non ho avuto mai problemi con lui. Roche invece l’ho visto… Lo vedevo un pochino più furbetto, se mi permetti la… cosa, e quindi Roche sicuramente ha giocato un po’ sul fattore psicologico con Visentini. Visentini, secondo la mia opinione, aveva veramente un motore eccezionale. In salita era uno spettacolo, proprio come classe, come stava in bicicletta. Mi è sempre piaciuto, Roberto, come atleta. E psicologicamente però era un pochino più fragile. E questa cosa di Roche, secondo me, gli ha dato fastidio. E lui è saltato un po’ più di nervi che non fisicamente, perché fisicamente non c’era…». 

- La salita poi era abbastanza pedalabile, lì non prendi quasi sette minuti… 

«La salita non era dura. Non era dura, la salita. Io adesso non mi ricordo come sono andato, sicuramente sarò arrivato fra i primi però la salita non era una grande salita». 

- E poi non si è alimentato, è saltato per una crisi di nervi prima ancora che di fame. 

«Per me, i nervi: siccome ti prendono allo stomaco, no? Se ti prendono allo stomaco, non mangi, perché non ti viene fame; non bevi, perché non ti viene… E quando arriva il momento di spingere è troppo tardi, quando ti accorgi. E le crisi di fame sono bruttissime. Le ho avute anch’io…». 

- Te ne ricordi qualcuna storica tua? 

«E io me la ricordo a un Giro d’Italia [1986, nda]. C’era l’arrivo a Sauze d’Oulx [14-esima tappa: Savona-Sauze-d’Oulx di 236 km, Salice d’Ulzio, nda], ero in fuga, ero giovane, non mi ero alimentato sufficientemente. Stavo andando fortissimo, ho detto: ’sta qui la vinco, perché… Vinco la tappa, perché eravamo in fuga sette o otto e andavo… Non sentivo la catena, come si suol dire in gergo. Si arriva sulla salita di Salice d’Ulzio, primi chilometri mi metto, faccio il passo, rimaniamo in tre, dico: ora, fra poco parto, e li stacco. Invece partì, se non mi sbaglio, Earley, l’irlandese…». 

- Martin Earley, quello con gli occhiali [che poi vinse la tappa, davanti a Giuliani e a Muñoz, con Saronni che perse la maglia rosa il giorno dopo, a Erba, nda]. 

«Sì, e adesso gli vado dietro e poi…». 

- Però era un cagnaccio quello, eh...

«E invece mi si spense la luce. Lui vinse la tappa e io arrivai settimo. Mi si spense… Gli ultimi cinque chilometri non andavo più su. Mi hanno ripreso da dietro, mi hanno staccato e son arrivato settimo». [ride, nda] 

- Ma anche a te succedeva? Io, nel mio piccolo a livello amatoriale, ma lo chiedo a un ex professionista: quando ti si spegne la luce… Ti gira la testa, ti senti morire… 

«Ti senti praticamente vuoto. Ti senti che fai una fatica come se ti tenessero per il sellino e non ti volessero far andare avanti». 

- Ma con la testa, dico… 

«Eh, la testa comincia ad andare nel panico, nel panico e in confusione… Io, per fortuna, non è che sono arrivato a livello di dire non vedo più…». 

- Non ti è mai capitata così nera? 

«No. Da non vederci più, no… Proprio ad andarmi via la vista no. Però a essere spento fisicamente spento, sì». 

- Che non ne hai più. 

«Che non ne hai più, che non vai più avanti. Non senti…». 

- E in allenamento ti è mai capitato? 

«In allenamento una volta e mi son fermato a un bar, e ho svuotato il bar. [ride, nda] Per fortuna sono arrivato a un bar e mi son fermato. Perché la crisi di fame è brutta. Sinceramente, puoi perdere anche minuti in pochi chilometri. Poi ti viene all’improvviso, non te ne accorgi». 

- È lì in ammiraglia nessuno in quella tappa poi vinta da Earley ti aveva detto: mangia-mangia-mangia? Nessuno? Eri lontano dall’ammiraglia? O lì poi alla fine il corridore fa di testa sua? 

«Il corridore fa di testa sua, perché la roba in tasca ce l’avevo. Sono io che non ho pensato a mangiare, dato che ero in fuga mi son fatto prendere dall’entusiasmo. E non ho mangiato». 

- Torniamo un attimo ai giorni dopo Sappada quando in gruppo ormai sapevate cos’era successo, no? Tu essendo un uomo di classifica, come ti sei comportato? O la tua squadra… Roche conquista la maglia rosa, e la strappa a un suo compagno co-capitano, ammettiamo che avessero due capitani… Voi cosa facevate? 

«Mah, noi come avversari correvamo che si litigassero, quindi si poteva prendere un vantaggio, no? [ridacchia, nda] Però la squadra era forte, la squadra della Carrera era forte… era molto forte e quindi non si è spaccata la squadra, si sono litigati…». 

- Hanno seguito il quattrino? 

«Be’, è chiaro, hanno seguito - giustamente - quello che gli ha poi detto la società, il direttore sportivo, che poi, chiaramente, hanno puntato su chi aveva la maglia rosa. A quel punto non potevano fare…». 

- A te è mai capitato di avere in squadra due galli nello stesso pollaio? Magari eri tu uno dei due galletti… 

«No. Perché… allora diciamo io per le mie caratteristiche e torno sempre lì, sarò anche ripetitivo, però ritorno sempre lì, non ero il capitano unico… Sei capitano unico perché puoi puntare a vincere il Giro d’Italia. Io ero un corridore da corse a tappe che può arrivare nei primi cinque. E non era poco però potevo, dico, il mio obiettivo era arrivare nei primi cinque. Quindi se avevo un capitano come ho avuto nella Gatorade con Gianni Bugno, quando siamo andati il primo anno nel ’91 che io son tornato da vincitore della Vuelta, lui aveva vinto il Giro d’Italia [nel ’90, in rosa dal primo all’ultimo giorno, nda]. Nel ’91 ci siamo trovati nella Gatorade insieme. Eravamo tutti e due capitani al Giro, nel ’91. Ma io avendo… io ho un carattere che se c’era uno che andava più forte di me, non è che avevo problemi ad aiutarlo. Anzi, mi faceva piacere aiutarlo per vincere. Oppure, se fosse andato più piano lui più forte io, credo che sarebbe stato il viceversa. Purtroppo siamo andati piano tutti e due [ridiamo tutti e due di gusto, nda]. Lui arrivò quarto e io ottavo». 

- Ma è nel ’91 che li hai finiti tutti e tre, giusto? 

«Sì, nel ’91 li ho finiti tutti e tre». [18° alla Vuelta, 8° al Giro e 30° al Tour, nda] 

- Impresa non da poco, eh. 

«È stato… Lì, Stanga puntava più che altro, Gianni puntava sul Tour de France, perché si era impuntato di… Perché erano tanti anni che un italiano non vinceva il Tour de France. E Stanga e Gianni, più Stanga che Gianni ha puntato a vincere il Tour de France. E quell’anno io avevo fatto la Vuelta, però non ero riuscito… non avevo ingranato… ed ero arrivato nei primi venti, non avevo fatto niente di eccezionale. Sono arrivato al Giro d’Italia e anche lì sono arrivato ottavo. E m’han detto: per “premio” ti portiamo al Giro di Francia [ride, nda], ma l’abbiamo deciso lì al Giro, m’han detto: Dai vieni al Giro, vieni a dare una mano a Gianni per vedere se riusciamo a vincere il Tour de France. E io ho detto: ma no, non ce la faccio, ho fatto già la Vuelta, faccio… poi ormai ho calcolato dio andare in vacanza, come faccio a venire a fare il Tour? No, dai vieni, Gianni lo stesso ha insistito, dai, vieni a dare una mano, una cosa e un’altra, e m’hanno fatto partire al Tour de France [ride, nda] Però… Io una mano gliel’ho data ma non più di tanto, perché alla fine ero stanco e quindi più di tanto non ce l’ho fatta a dargli una mano». 

- Ma tu eri in squadra con lui anche quando Chiappucci sostiene che Bugno ha corso per farglielo perdere, il Tour? Cos’era, il ’92? 

«Il ’92 ero con Stanga però non sono andato a fare il Tour de France perché m’hanno fatto fare la Vuelta e il Giuro e ho fatto quarto alla Vuelta, quarto al Giro. E quella volta al Tour ho detto: non vengo… Non ce la faccio». [ride di gusto, nda] 

- E di Stanga che ricordi hai? 

«Mah, Stanga, belli perché…». 

- Più come manager che come direttore sportivo, vero? 

«Come manager, sì. Direttori sportivi erano [Claudio] Corti e Algeri, Vittorio Algeri. Veramente due persone squisite. Veramente. Mi son trovato bene con tutti e due. Corti più, diciamo, "calcolatore" e Vittorio molto più alla mano. Però mi son trovato bene con tutti e due». 

- La notizia sarebbe stata che ti fossi trovato male con qualcuno, mi pare. Una notiziona.

[ride, nda] «A parte il primo anno con Maximino Pérez, poi… Sinceramente… Ma io d’altronde, purtroppo... Anche perché, purtroppo, sono uno che s’accontenta abbastanza facilmente». 

- Dici che è stato un tuo limite, nella carriera? 

«Anche. Anche… Perché i campioni devono essere egoisti, no? Perché, se non sei egoista, non hai la cattiveria - agonistica, parlo eh - non… Poi, è stato un grande campione, Indurain; ed era un signore. Era una bravissima persona. Anche con Indurain ho avuto una bella… Non dico amicizia, perché non ci siamo mai frequentati più di tanto, però c’era una stima reciproca. Una stima e un rispetto reciproci». 

- Anche sul piano caratteriale eravate simili, no? Mai alzare la voce eccetera. 

«Sì. Lui però lui quando puntava auna corsa era non dico… Agonisticamente diventava “cattivo”, perché chiaramente era… Più che cattivo, era concentrato e…». 

- ...mirava all’obiettivo.

«...e mirava all’obiettivo. Aveva quella cattiveria agonistica per voler vincere. E otteneva. E vinceva, anche perché, va bè, fisicamente e a cronometro era una spanna superiore a tutti, in quegli anni. E poi in salita nessuno lo staccava, anzi: [ride, nda] dovevi star attento, sennò ti staccava lui. E quindi… Però oltre, diciamo, al limite fisico, forse anche il limite caratteriale un po’ ce l’ho avuto. I due limiti che non m’hanno permesso di fare… Perché, parlandoci chiaramente, sono stato un buon corridore. Io mi ritengo, a parte la falsa modestia... Però credo di essere realista dicendo che son stato un buon corridore, un corridore da corse a tappe, ad alti livelli. Però m’è mancato qualcosa per essere un campione. Non sono stato un campione. Campioni sono stati altri. Indurain, Bugno…». 

- Quali sono quelli che ti hanno impressionato di più, per un motivo o per l’altro… Non necessariamente i più vincenti, eh. Cioè: quando tu vedi… Quello te lo ricordi per…? Prima mi hai detto: Visentini per la sparata… 

«Allora, mah, ci son stati tantissimi corridori che mi sono… Che li ho guardati, li ho presi d’esempio, oppure li ho ammirati, dal primo, che è stato Moser, per la sua tenacia, una grinta, veramente, che non l’ho vista a nessuno. Io ero ai primi anni, sembrava che morisse, dicevi…». 

- E pensa che tu vedevi il Moser declinante, pensa cos’era il Moser dei tempi d’oro… 

«Vedevo Moser… Ero tifoso di Moser, quindi vedevo il mio idolo Moser e dicevo: cavolo, ora stacco Moser, ora stacco Moser… Perché ora cede. Perché lo sentivi che era lì che faceva fatica e poi rimaneva davanti e io mi staccavo... [ride, nda] Aveva una grinta spaventosa. Moser era spaventosamente… Aveva una grinta spaventosa. Al contrario, Saronni aveva una classe immensa ma gli ultimi anni non aveva più quello stimolo. E però aveva una classe eccezionale…». 

Saronni è stato un corridore molto intelligente, anche extra-corse. Volevo chiederti se a un certo punto viene anche un po’ la nausea dell’ambiente. Tu hai avuto queste sensazioni? Pensi che magari possa averle avute lui? Cioè a fine carriera, soprattutto a chi ha una certa "testa", gli stimoli vengono meno… 

«Dipende dal carattere. Dipende dal carattere, cioè: caratteri che magari… Anche ora ci sono corridori che hanno 35-36-37 anni». 

- Valverde… 

«Valverde. All’epoca c’era Panizza, che aveva quarant’anni. Ma lui a noia non era venuto niente, anzi: aveva sempre una grinta da ragazzino. Dipende dal carattere, chiaramente. Saronni, si vede, avrà avuto un po’ di nausea. Avrà vinto tutto e quindi forse gli è cominciato a mancare lo stimolo». 

- Tu hai avuto queste sensazioni qua o no? Verso la fine della carriera… 

«Io purtroppo a fine carriera ho fatto delle scelte sbagliate. Le ho pagate, quindi un pochino mi è passata la…». 

- In che senso, nel senso della professione? 

«Nel senso che ho… Quando ero alla Gatorade, secondo anno, poi m’han proposto di fare una squadra, ho accettato. Far la squadra…». 

- Tu come direttore sportivo? 

«No, io come… Dentro la società, per poi… Un personaggio che poi dopo si è rivelato un bluff perché non ha…». 

- Stai parlando di uno sponsor quindi? 

«Sì, di quando è stato… Nel ’93. E ho avuto dei problemi, poi ho trovato... Perché praticamente la squadra l’avevo formata io…». 

- Quindi ci hai messo tu del tuo, di tasca tua? 

«Eh, c’ero dentro io, ho costruito… i corridori. Avevo parlato coi corridori, con massaggiatori, con i direttori sportivi, avevo fatto tutto io. Mentre l’altra persona doveva guardare, a trovar lo sponsor…». 

- E non l’ha trovato? 

«…e non l’ha trovato. E quindi a metà stagione ci siam trovati senza soldi. Quindi ho avuto dei problemi, quindi non avevo la testa per correre. Poi, per fortuna, trovai Squinzi, il dottor Squinzi, che con la Mapei entrò a far lo sponsor prima del Giro d’Italia. E mi ha risollevato. Ha risolto tutti i problemi, anzi l’ho sempre ringraziato, il dottore, per questo. E però ormai la stagione era andata. Non ho più fatto grossi risultati. Poi, l’anno dopo, son partito per fare una grossa stagione e al Giro d’Italia stavo andando forte, ero quinto in classifica, ma ci ha messo lo zampino il destino [sorride amaro, nda]. M’ha fatto cadere. Una caduta stupida, a Marostica, a quattro chilometri dall’arrivo. E il destino: perché sentivo che c’era qualcosa che non andava. All’epoca il casco non era obbligatorio. E io mi misi il casco, una delle poche volte che mi mettevo il casco, perché, dico, ho una sensazione strana, sembra…». 

- Prima di partire, questa sensazione? 

«Prima di partire. Ho detto a un mio compagno di squadra: portatemi via. Perché ero capitano della Mapei per il Giro, e ho detto: portatemi davanti all’ultima ruota alla salita, perché voglio prenderla davanti, perché non voglio rischiare. Infatti così ho fatto. Ho fatto la discesa nei primi dieci, siamo arrivati a quattro chilometri dall’arrivo, mi son cominciate… Ho detto la volata non la faccio. Mi sono sfilato un pochino indietro. Davanti sono caduti, io ho frenato, non sono caduto però didietro mi è arrivato uno, m’ha preso la bicicletta, sono caduto praticamente da fermo. E ho picchiato l’osso sacro. Il contraccolpo mi ha schiacciato una vertebra. Nessuno lo sa, o pochissime persone lo sanno: ho fatto quattro tappe con la vertebra schiacciata, col rischio di rimanere paralizzato. L’ho saputo dopo, chiaramente. Ho fatto la tappa dello Stelvio, il Mortirolo, con la vertebra rotta. Sono arrivato all’Aprica - che ha vinto Pantani, se non mi sbaglio, la tappa - E son arrivato all’Aprica quasi fuori tempo massimo. Perché, chiaramente, non andavo più avanti». 

- Fra dolori indicibili. 

«Tra dolori… paurosi. E poi alla fine ho detto: mi ritiro. Me ne vado a casa. Vado a vedere cosa è successo. Infatti m’hanno fatto la lastra e m’hanno visto che… Poi di lì, sinceramente... Poi nasceva mia figlia e non ho avuto più lo stimolo di ripartire. M'hanno detto che son stato fortunato che non son rimasto paralizzato. Ho detto: va bè, forse era…». 

- ...un segno? 

«...un segno del destino, che m’ha detto: smetti di correre. L’ho presa un po’ così, insomma. E fu… Sinceramente, pensandoci ora, potevo anche correre ancora un paio d’anni però… All’epoca il cervello m’ha detto così. E ho smesso. Non avevo proprio il rigetto della bicicletta, ancora no. Però, se son saltati… Questi ultimi, gli ultimi due anni, ho detto: sono andati così. E alla fine ho smesso». 

- E hai pensato di rimanere nell’ambiente o…? 

«Eh, ero rimasto nell’ambiente. E qui si va a toccare un tasto dolente». [ride, nda] 

- T’ha fatto scappare a gambe levate, quel tasto lì? 

«No, purtroppo… Va bè, non voglio dire cose che poi van a creare polemiche inutili, ormai son passati tanti anni. Dovevo rimanere nella Mapei, e la società era la mia, nella Mapei. Poi piano piano l’ha presa Squinzi, io pensavo di rimanere con loro nella… gestione della squadra e invece il dottore ha cambiato idea, non lo so per quale motivo ma insomma ha cambiato idea. Alla fine m'hanno fatto fare una specie di public relation ma non era…». 

- Non era il tuo? 

«Non era il mio, quindi… ho smesso. Sono uscito dal ciclismo, di lì non ci son più rientrato». 

- E ti manca un po’? 

«Beh, sì… [ride, nda] Sinceramente, sì. Però è andata così. Io poi son un carattere che non riesco andare a…». 

- …a bussare? 

«…a bussare, diciamo. Quindi son rimasto fuori. Son rimasto fuori e ho chiuso col ciclismo». [ride ma quasi più per l'imbarazzo, nda] 

- E dopo, quand’è che hai cominciato a pensare, magari, l’attività di mio padre diventerà la mia? 

«Be’ subito dopo. Sì-sì, mi son buttato nel lavoro, ho aperto prima un bar poi, dopo, l’albergo. Questo». 

- E invece stare al pubblico è nel tuo carattere? O comunque è diverso perché, da proprietario, puoi delegare e di certe cose se ne occupa qualcun altro? 

«No, è diverso perché offri qualcosa. Non è che vai a cercare i clienti. Sono i clienti che vengono da te. Poi è chiaro, a livello di parlare, così essere, accontentare i clienti appunto. E il mio carattere è abbastanza gioviale che va d’accordo con tutti e va d’accordo anche con i clienti quindi…». [ride, nda]. 

- Diverso sarebbe procacciare gli sponsor… 

«Solo che non riesco a... Come posso dire? A dire una cosa che magari a uno sponsor fa piacere sentire dire e che magari proprio reale non è. Io sono… Tanti mi dicono che son pessimista, magari lo sono». 

- O realista… 

«Io credo di essere realista. Gli altri dicono che sono pessimista. Io dico: vabbè, sarò pessimista, però per me è realismo, poi se voi la pensate come… Quindi io le cose... Io dico la verità. E la verità tante volte non è bene accetta…». 

- Non è gradita. 

«E quindi magari uno viene preso per un pessimista. Vieni preso per uno che non sa fare le cose o che non è all’altezza di fare le cose. E quindi forse un po’ il tutto insomma. Ha scelto altre persone al posto mio. E quindi chiudendomi la porta lui, non è che sono andato a dire: eh, ma perché, percome… Ma allora io faccio qui… No, ho detto: M’avete chiuso la porta, va be’, me ne vado. Non ho bussato Per capire… Purtroppo, è anche un limite del mio carattere». [sorride amaro, nda] 

- Questione di orgoglio, anche? 

«Può essere. Può essere… Può essere anche quello. L’orgoglio ci sarà stato, sì. Anche perché la squadra l’avevo costruita io. I corridori li avevo fatti venire io. Li avevo scelti io. A parte, lì, il blocco Class, che era venuto con [Tony] Rominger». 

- Ah. Invece il blocco di corridori che sono passati, diciamo gli ex del gruppo-Boifava, che sono passati in Mapei? È un altro anno?

«Quello è un altro anno. Ormai avevo già smesso». 

- Ah, ecco, perché non mi tornavano i conti degli anni… 

«Noi avevamo fatto il primo anno la Mapei, poi Squinzi ha voluto subito fare lo squadrone, cosa che io invece…». 

- Tu volevi andar per gradi? 

«Per essere realista volevo andar a gradi. Ecco forse il punto è stato proprio che, purtroppo, io forse non ero pronto per fare uno squadrone, e che Squinzi invece voleva fare subito. Forse quello è stato…». 

- ...la chiave?

«...la chiave. Lui voleva subito far lo squadrone, diventar subito la squadra più forte a livello nazionale e non solo. Io invece volevo fare le cose un pochino più… A passo regolare [ride, nda]. E forse è stato quello, forse non m’ha ritenuto all’altezza e quindi…». 

- E chi è andato al posto tuo? 

«Bah, tutti quelli che ho messo io. Quelli che avevo portato nella Mapei, Valdemaro Bartolozzi, [Alvaro] Crespi [attuale responsabile finanziario del Team Mitchelton Scott, nda]». 

- Bartolozzi, quindi anche gente più vecchia di te. 

«Sììì, sì-sì. Erano quelli che avevo chiamato a fare il manager io, perché io volevo… Io ho detto: io corro, quando smetto di correre gestisco la squadra. Però prima voglio veder se corro. Allora tu fai questo, tu fai quello. Poi, Squinzi…». 

_ Ma dopo, dimmi tu se vuoi rispondere o no, ma quelli che hai portato tu dopo con te non si sentivano in imbarazzo dopo che tu non c’eri più e loro son rimasti lo stesso? Con te…» [scoppia in una fragorosa risata, nda] Hai già risposto… Insomma, lì hai capito che… A volte è più la vita che assomiglia al ciclismo che non il viceversa, no? 

«Allora: faccio un discorso, così, in generale. Diciamo che una volta Moser, quando aveva smesso, io correvo ancora, e questa m’è rimasta impressa, disse: ragazzi, continuate a correre perché quando si smette di correre cambia… Se gli è cambiata a uno come Moser…». 

- E poi lui in famiglia ne aveva di esempi, no… 

«Se gli è cambiata a uno come Moser – che poi gli è cambiata, ma insomma non è che gli è cambiata neanche più di tanto, perché è sempre Moser – figurati a uno come Giovannetti. [ride, nda] Allora, diciamo che fino a che sei un corridore e quindi “servi”, perché vai forte, perché servi per far risultato, servi per fare determinate cose, e un po’ tutti ti prendono… Faccio un esempio stupido ma è… Alla fine si capisce, no? Arrivi tu, ci sono dieci sedie occupate e subito uno si alza e dice: C’hai da correre, mettiti seduto. È un esempio stupido ma… Ora arrivi, e manco ti salutano. [ride amaro, nda]. E la differenza è questa, capito? La differenza c’è. Un po’ la subisci, quando smetti di correre. Poi, è chiaro: uno la subisce di più, uno la subisce di meno. Uno magari è come Moser, e c’è sempre qualcuno che si alza e ti fa mettere seduto, ma agli altri no. Però anche a un Moser gli capita; e se ha detto quella frase, vuol dire che qualcosa cambia. Quindi non ti aspettare... Se qualcuno ti ha dato una mano, per tornare al tuo discorso di prima, ma t’hanno chiesto… Non t’aspettare, se qualcuno ti ha dato una mano fino a quel momento, che dopo te la ridia». [Altra risata ma sempre amara, nda] 

- Per questo prima ti chiedevo com’era stato, dopo, il passaggio, quando hai smesso. C’è gente che quando correva, e pur non essendo un campione, magari aveva un club anche di cinquecento tifosi, e che però il giorno dopo che hai smesso, non ti telefona più nessuno, niente più pacche sulle spalle. Torni a essere un comune mortale, no? E se magari vuoi aprire un’attività la banca... Ecco, volevo chiederti come era stato il tuo impatto quando hai smesso. 

«Mah, no. Io, devo dire, su quel discorso lì, adesso son rimasti… Ne avevo pochi, son rimasti pochi; conoscenti tanti, magari. Però non ho mai avuto un discorso di amicizia persa o di amicizia – amicizia parlo, eh – conoscenza sì, ma di amicizia perché ho smesso di correre, no. No…». 

- Quindi l’essere non personaggio alla fine ti è stato utile per il post-carriera? Perché non hai perso… 

«Sì, certo. Poi io sono un anti-personaggio. Il mio carattere… Se mi mettono… Ma come Gianni, anche lui… Io, se mi mettono…». 

- Lui, in questo senso, un "caso clinico"… 

«Lui ancora di più, sì, lui ancora di più… Anche perché, avendo vinto di più, è più chiamato a "essere" personaggio. È un anti-personaggio. E con me, e io con lui, abbiamo trovato un buon rapporto, perché siamo simili. Io, se mi metti in mezzo, mi metti in mano un microfono e devo parlare davanti a cento, centocinquanta persone, mi sento male. E lui uguale. E invece c’è gente che ci sguazza. Anzi, se non li fai parlare ci rimangono male. E quindi io sono un anti-personaggio [ride, nda]. E quindi che non mi mettano al centro dell’attenzione, anche dopo che ho smesso di correre, non mi fa altro che piacere. Non mi fa dispiacere...». [ride, nda] 

- Il ciclismo di oggi lo guardi? 

«Sì». 

- Ti diverte o ci son troppi soldatini? 

«Allora, ti dico la verità: me lo guardo, ma solo il finale. Il finale…». 

- Mi hai già risposto. Hai tirato una bella botta… 

[ride, nda] «Eh, d’altronde, si svolge tutto nel finale. A volte neanche quello. A volte ci sono delle tappe un po’ deludenti. Ma penso che ci siano state anche all’epoca mia. Io ancora correvo e non lo so in televisione che effetto faceva». 

- All’epoca c’erano i famosi uomini-RAI: li vedevi solo quando si accendeva la telecamera... 

«Esatto. Quindi…». 

- Adesso con la diretta integrale è più difficile...

«Quindi lo capisco. Non è facile. Quando dicono non attacchi... Ma quando un corridore va più forte di te, è difficile attaccarlo. Anche allora ci accusavano di non attaccare Indurain. Noi lo attaccavamo, è che lui andava più forte. È difficile attaccare uno che va più forte». 

- Pensa adesso metterne sette che tirano ai cinquanta orari in salita. È difficile far selezione.

«È difficile. È difficile… Cioè, fanno selezione: la fanno loro. E rimani lì, e rimangono i più forti. E i più forti fan selezione, è difficile. Non è facile. Non si può far tutte le tappe… Non è facile, quindi manca lo spettacolo. Però lo spettacolo è anche questo. Non è facile attaccare una Sky, per fare un esempio, che ha quattro campioni, ha tre campioni più un super campione… Chi attacchi? Dove l’attacchi? Non è facile come dirlo seduti davanti la televisione. Ci son state tappe bellissime. E soprattutto ci son state tappe bellissime, secondo me, alla Vuelta. La Vuelta è sempre stata più combattuta. Perché? Perché magari c'era meno tensione, meno… E poi, a fine stagione, ormai quello che avevano fatto avevano fatto. Si attaccavano di più, è stata molto più spettacolare... Anche con Contador e poi l’anno di Nibali, poi anche l’anno con il colombiano, Quintana, con Froome: hanno attaccato… Vedevi attacchi e contrattacchi, ma forse perché magari mandavano una squadra meno forte». 

- Meno capace di controllare la corsa. 

«Esatto. Forse, in questo momento, le squadre forti vogliono troppo controllare le corse. Sono squadre troppo forti». 

- Ecco. È questo che volevo chiederti: quando correvi tu, anche a livello internazionale c’erano sì tante grandi squadre però la fascia era più o meno quella, no? Non c’era una forbice così ampia tra le grandi e le piccole-medie come invece c'è oggi. Prendi per esempio una Bardiani e una non dico il Team Sky ma le altre grandi, che sono anch'esse delle multinazionali: non sono più semplici gruppi sportivi, sono enti parastatali: e fanno un altro sport... 

«Allora: il ciclismo è cambiato tantissimo, dai primi anni che son passato professionista io, agli ultimi, a oggi. È cambiato tantissimo. È cambiato: perché son cambiate le preparazioni, son cambiati gli allenamenti, è cambiata l’alimentazione; è molto più curata, è molto più controllata. Ogni corridore adesso, e specialmente i corridori di un certo livello, hanno tutti il preparatore, l’alimentazione studiata, l’allenamento particolare, studiato. Test sopra test eccetera eccetera. Quindi ti portano ad arrivare al 105% di quello che puoi dare. E parti a inizio stagione, sei già magrissimo. All’epoca, prima, partivamo tutti con tre-quattro-cinque chili in più». 

- Anzi, era una cosa sana… 

«Dovevi esserlo. Perché dovevi far tutta la stagione, sennò non arrivavi a far tutta la stagione». 

- E sennò magari ti prendevi la bronchite a marzo… 

«Esatto. E quindi… Oggi partono già al 100% subito, a gennaio sono già al 100%». 

- È anche vero che si corre da gennaio a dicembre, prima non era così. 

«E quindi come fai a pretendere un corridore? Infatti quei pochi corridori che riescono a fare… Li ammiro, perché come fai a…». 

- Non esistono corridori che fanno da gennaio a dicembre, una parte va in Oman, una parte va in Australia, una parte va in Cina dopo il Lombardia. 

«Infatti tanti dicono non ci son più i corridori di prima, perché prima duravano una stagione, adesso durano una…». 

- Adesso le squadre durano una stagione. 

«Tu dicevi prima: come mai tu sei riuscito a far tre corse a tappe mentre ora ne fanno una… Eh, ma ne fanno una al 105%. E prima se ne facevano tre ma una era al settanta per cento, una al novanta, l’altra al cento per cento. E se arrivi già magrissimo, arrivi già super allenato, come fai a far tre corse a tappe? E fare classifica...». 

- E poi con quella concorrenza lì. Perché adesso è globalizzato per tutti, non solo per le squadre. 

«Non ce la fai. È impossibile. Impossibile. È cambiato, in questo senso. Poi, la fatica è la stessa. Pedalare è lo stesso, i muscoli sono gli stessi. Però è cambiata la preparazione. È cambiato il livello di preparazione. Oggi come oggi arrivi alle corse che puoi dare il 100-105%, prima era difficilissimo arrivare al 100%». 

- C’è oggi un "Giovannetti" in cui ti rivedi? O, dopo di te, c’è stato un corridore che t’assomigliava, che ti piaceva, in cui rivedevi un po’ te stesso? 

«Sinceramente, non riesco a trovare un corridore regolare come potevo essere io; italiano, no». 

- E uno che invece ti infiamma e ti fa accendere la tv. 

«Be’, ce ne sono stati, da Contador…». 

- L’ultimo? Poi? 

«Sagan, anche Nibali. Ha fatto le sue belle imprese, è un corridore che attacca, un corridore che dà spettacolo». 

- Sì, perché non conta solo vincere e basta. 

«E poi ha anche vinto, non è che… Nibali, corridori che attaccano. Ma anche Froome, sinceramente. Anche se stilisticamente non è perfetto; ma Froome attacca. Froome fa spettacolo». 

- La gente non se lo ricorda ma a Montpellier, al Tour 2017, è andato a fare la volata con Sagan. 

«Io mi ricordo. Io non scommetto quasi mai ma mi ricordo di Froome che avevo visto alla Vuelta. L’anno dopo, che correva con Bradley Wiggins. Io scommisi che vinceva il Tour e invece arrivò secondo perché lo fece vincere… Perché doveva far vincere Wiggins. Ma sennò io avevo scommesso su Froome. E nessuno lo conosceva, ma io l’avevo visto andar forte alla Vuelta, l’anno prima». 

- E infatti si rivelò nel 2011. 

«A me Froome piace. M’è sempre piaciuto, Froome; perché, secondo me, è un bel corridore, lasciamo perdere tutto…». 

- Tu te ne sei andato in tempo. Hai avito la "fortuna" di andartene prima che cambiasse tutto il baraccone, no? 

«Diciamo nel momento in cui stava cambiando». [ride, nda] 

- Ti sei accorto quando… Lucho Herrera li chiamava i "culoni": il giorno prima li staccava quando voleva, il giorno dopo vedeva gente di ottanta kg che in salita gli sfrecciava davanti. 

«Non voglio…». [sorride, nda] 

- Mi devi dire come ti sentivi, almeno. 

«Ma io t’ho detto. Il ciclismo è un po’ cambiato da quando sono arrivate le preparazioni specifiche. I preparatori atletici. Prima ci si andava ad allenare...». 

- Però, sai, "preparatori atletici" ha un significato, "stregoni" e… "praticoni" tutto un altro...

«Sì. Purtroppo, anche quello è cambiato tanto. Sono venute - purtroppo - sostanze che aumentavano abbastanza… Abbastanza forte… "Cambiavano" un po’ troppo. E però, ora, parlare, insinuare che altri facevano cose che poi io no, gli altri sì, non mi piace. Mi piacerebbe evitare 'sto discorso. Sennò si entra in un discorso difficile, complicato». 

- Però sei contento di essertene andato per tempo: questo si può dire? 

«No, io se non avessi avuto quei due anni sfortunati che m’hanno fatto passar la voglia, e quelle due cose… La caduta. E se non mi fossi schiacciato la vertebra avrei continuato almeno per altri due anni. Non è quello che m’ha fato smettere di correre». 

- Anche perché quello forse l’avevi visto anche prima. 

«Non è quello che m’avrebbe fatto smettere di correre. Perché non voglio dire che ho smesso per colpa di quello. No. Ho smesso più che altro per la caduta, per lo schiacciamento della vertebra. E per l’anno prima, che ho avuto quei problemi, quindi… Non avendo avuto risultati neanche l’anno prima, mi ero un po’ demoralizzato». 

- Ma tu in gruppo ne parlavi? Per esempio, i primi corridori a mettere su una squadra quando ancora erano in attività son stati Bordonali, Giupponi e Leali... 

«È stato lo stesso anno mio». 

- Ma tu c'eri in quel progetto lì? 

«No, no. Ero nel progetto-Mapei». 

- Prima loro o prima voi? 

«Nello stesso anno». 

- Perché loro son passati per primi, come etichetta. E voi non avete chiuso… 

«Io son andato fuori e loro invece hanno smesso. Giupponi se… Leali ha smesso quando ho smesso io. Lo stesso anno». 

- Ma quindi loro un anno l’hanno fatto: correre, e contemporaneamente gestire la squadra. 

«Mi sembra di sì. Mi sembra di sì…». 

- Non deve essere stato facile: perché già devi avere la testa solo per correre, figuriamoci per il resto. 

«Sono stati i primi. Il primo son stato io ma non ero uscito come loro, perché loro gestivano proprio la squadra, io invece avevo delegato. Perché volevo fare il corridore. E ho detto: io, delego. Però la società era… Il presidente era mia moglie [Paola], quindi… La società era mia. Ho avuto il problema con quello… questo signore che doveva trovare lo sponsor. E invece poi non l'ha trovato. Però la società l’avevo presa in mano io. La società era mia». [la Eldor [3] nel 1993, nda] 

- Si può dire il nome di questo signore o è meglio di no? 

«Evitiamo». [sorride, nda] 

- Abbiamo ripassato trent’anni di storia del ciclismo italiano… 

«Dopo ho avuto un’occasione per rientrare nel ciclismo, però a livello organizzativo. Il mio amico Stefano Allocchio insieme a Mauro Vegni m’avevano proposto di fare il responsabile delle partenze, perché Italo Zilioli voleva smettere. Era un anno che lui voleva smettere, e ha smesso; e quindi c’era la possibilità di fare il Giro d’Italia, e tutte le corse che organizzava la Gazzetta, come responsabile delle partenze. E ho accettato. Ho fatto anche questa esperienza. Ho visto le difficoltà che ci sono per organizzare, quindi mi son reso conto che tante volte noi corridori non ci si rende contro di queste problematiche che gli organizzatori hanno, le difficoltà che hanno e le responsabilità che hanno. E a livello organizzativo come noi pretendiamo, pretendiamo e ci arrabbiamo. Facciamo contestazioni senza sapere, forse, senza renderci conto, invece, di quello che gli organizzatori fanno». 

- Chissà se anche "Guidone" Bontempi, che adesso in carovana guida la moto da regolatore, avrà cambiato idea… 

«Chiediglielo, chiediglielo…». [ride di gusto, nda] 

- E anche lo stesso Allocchio, ora direttore di corsa RCS. 

«E anche lo stesso Allocchio. Anche lui deve aver cambiato opinione…». 

- È anche vero che essendo stati in gruppo, ed essendo stati lì a far le volate, magari hanno un occhio particolare anche per prevenire certe situazioni… Avranno una sensibilità particolare per garantire la sicurezza dei corridori… perché poi devi mediare tra spettacolo e sicurezza, esigenze spesso inconciliabili… 

«Stefano è a un livello organizzativo che delega quelle cose, ci son altri ex ciclisti che guardano quelle cose. Però a volte purtroppo sei obbligato. Anche se sai che quell’arrivo non è “bello”, non è sicuro al cento per cento, o c’è una curva brutta, o una strettoia che fa un po’ più pericoloso l’arrivo in volata, sei costretto a farlo lo stesso. Perché ci sono obblighi, esigenze e sponsor. Oppure delle cittadine che ti ospitano ad arrivi, che ti obbligano a far certi arrivi. Anche se gli ex ciclisti o chi organizza sa e cerca di organizzarlo meglio possibile e di portare più sicurezza possibile, a volte…». 

- L’hai fatto solo per un anno, questo? 

«Ho fatto solo un anno, sì». 

- E perché hai smesso? 

«Perché poi dopo son rientrato qui…». 

- Ti piaceva sennò come lavoro? O non ci vedevi un futuro? 

«No, a parte che non c’era futuro perché si riduceva a soltanto pochi mesi l’anno. Perché le corse erano quelle, non è che avevo possibilità poi di avere una carriera. Non potevo… Sennò, a quel punto, c’erano Allocchio e Vegni, quindi io non è che potevo fare altro. Nel frattempo ero uscito dalla società, di qui, nell’albergo… Avevo la possibilità di riprendere l’albergo e son ritornato, ho ripreso l’albergo e ora sono qui. Quindi non ho continuato, però l’esperienza mi è piaciuta tanto, anche se poi è stata molto faticosa. Perché prendere in mano, al volo, senza sapere cosa c’era, cosa non c’era, è stata un po’… Però, è stata bella». 

- Ti ha aperto gli occhi su tante cose… 

«Eh, già…». 

CHRISTIAN GIORDANO 


NOTE: 

[1] L’ultimo taglio dalla lista dei sei preconvocati dal CT Edoardo Gregori fu Giovanni Paolo Bottoia. Nato a Varese il 9 maggio 1962, passistone già campione italiano junior nell'inseguimento a squadre nel 1980, fu due volte azzurro ai Mondiali nella Cento km (7° nel 1982 e nel 1983), specialità nella quale vinse l'oro ai Giochi del Mediterraneo nel 1983. Dopo essersi rifiutato di sottoporsi all'autoemotrasfusione, fu escluso dal quartetto olimpico della Cento km. Professionista dal 1984 al 1989, centrò nel GP Larciano 1986, grazie a una fuga solitaria, la sua unica vittoria

[2] Direttore sportivo della squadra per undici stagioni, dal 1984 al 1994, poi manager fino al 1994. Nel biennio 1989-1990, la squadra era sponsorizzata Seur. 

[3] I direttori sportivi della Mapei-Eldor per la stagione 1993, categoria Professional, erano Fabrizio Fabbri e Giovanni Mantovani. I 15 corridori in squadra: Fabrizio Bontempi, Mauro Consonni, Stefano Della Santa, Alessio Di Basco, Luca Gelfi, Federico Ghiotto, Marco Giovannetti, gli spagnoli Juan-Carlos González Salvador e Santos Hernández Calvo, Dario Nicoletti, Andrea Noé, lo svizzero Daniel Steiger, il kazako Andrei Teteriouk, Gianluca Tonetti e Raimondo Vairetti. 

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