Sergio Meda: Brera, Fossati e noi "uomini della legge"

 

di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Il mondo davvero va alla rovescia. È lui, veterano del mestiere, che quasi insiste per venire a trovare me, in redazione. Sergio Meda, milanese, classe 1949 (8 aprile), è così: un eterno innamorato del mestiere, del ciclismo, delle storie raccontate come van raccontate. 

Non a caso amico fraterno di Mario Fossati, mi ha fatto – dopo questa chiacchierata e senza mai averlo incontrato prima – uno dei più bei complimenti che io abbia mai ricevuto nella mia "carriera" giornalistica: «Tu sei un uomo della legge». Così, fra loro, Fossati e Meda definivano se stessi e i pochi colleghi da loro stimati per rigore, modestia e professionalità. 

Quando, pur ringraziandolo, gli avevo bonariamente obiettato che ancora neanche mi conosceva e né aveva mai letto-visto-ascoltato niente di mio, mi ha risposto brusco, à la Meda: «È un complimento. Prendilo, e portatelo a casa». 

Grazie, Sergio. Preso, e portato a casa. Per me molto più che un complimento. Molto di più. 

redazione Sky Sport
Milano Rogoredo, mercoledì 2 maggio 2018 

- Sergio Meda, se ti dico “Sappada”, il tuo primo pensiero qual è? 

«Sappada è la storia, controversa, di un Giro nato sbagliato, quello dell’87. Nato sbagliato perché, purtroppo, la Carrera non ha mai considerato che avere due galli nel pollaio è l’ultima delle cose che il ciclismo ammette. I galli devono essere in pollai diversi, quindi possono tranquillamente becchettarsi, picchiarsi, fare di tutto. Fare la lotta, come succede in Sud America. All’interno della stessa squadra, però, questo non deve mai succedere. Tutelare Visentini, vincitore del Giro precedente, era il minimo. Il problema è che non doveva essere acquisito Roche. E non doveva essere schierato al Giro d’Italia. Se lo avessero mandato solo al Tour, il problema era risolto. Nel momento in cui, poco prima del Giro, questo vince il Giro di Romandia e si presenta in grande forma per il Giro d’Italia… Io sono amico di Davide Boifava, però allo staff tecnico, cioè i decisori della squadra, che evidentemente erano i patron Tacchella e quindi la Carrera, che vincesse l’uno o l’altro garbava. Bastava che vincesse uno con la maglia Carrera Jeans. Quello era il loro obiettivo. Che poi quelli si azzuffassero, facessero di tutto, in quella logica ci stava.
Faccio un richiamo a Simoni e Cunego al Giro 2004. Il giovane che insidia il più maturo, quello in odore di vincere il Giro, non gli sottrae niente. Gli subentra.
D’altronde, che cosa successe nel ’40, con Coppi e Bartali? Non era contento Bartali, ma non ha corso contro Coppi.
La cosa più stupida che Gilberto Simoni poteva fare, alla penultima tappa, era cercare di attaccare il suo capitano di fatto, la maglia rosa, con il cattivo risultato che, se l’avesse sconfitto, lui stesso non avrebbe vinto il Giro al posto di, sarebbe arrivato secondo. Simoni è partito con Garzelli, lo ha assecondato e ha tirato per distanziare Cunego, che alla fine è arrivato a 52” e ha conservato la maglia rosa, e Simoni ha fatto la figura dell’imbecille. E lì la Saeco ha mediato.
Tornando al Giro ’87, quando vengono fuori le prime voci di dissidi, ben prima della tappa di Sappada – a me l’ha raccontato Baronchelli: “Questi due non si guardano strano, questi due si detestano” –, non si capisce cosa succederà. Perché poi le dimensioni di quella storia partivano da Sanremo, dal prologo. Anche qui, c’è una storia che va raccontata. 
L’idea di fare la cronodiscesa, che era un’idiozia, Vincenzo Torriani la raccontava così ma in realtà non fu Magni a suggerirgliela: era un’idea, profondamente sbagliata, di Torriani. E di Bruno Raschi, che era quello che tentava – ogni tanto – di “calmierare” le esuberanze di Torriani; perché Torriani voleva sempre innovare, a volte contro ogni logica. Una cronodiscesa di pochi chilometri facendo andare a tutta i grandi protagonisti… E se te ne cadono uno o due, che cosa fai? Il primo o secondo giorno di corsa, rinunci già a uno o due protagonisti?!». 

- Ho parlato di questo con Gianni Torriani, che sulla vita del papà ha scritto un libro: “L’ultimo patron”. Il motivo principale per cui la cronodiscesa non è più stata proposta è che il gioco non valeva la candela: troppi i pericoli, troppo pochi i vantaggi. 

«Era rischiosissima. Allora: fra le cose che qualsiasi organizzatore deve tutelare – io l’ho imparata da piccolo, questa cosa qui, me l’hanno insegnata quando ho cominciato a fare ’sto mestiere – ci sono, in primo luogo, i protagonisti. E i protagonisti sono i corridori, ma anche il pubblico. Il problema-sicurezza non è avere, lì all’arrivo, le transenne più o meno alte; il problema c’è dappertutto. Io ho visto, contro le piante, i famosi materassi, che adesso non si usano più, con le segnalazioni…». 

- Quello era anche il ciclismo della tragedia di Emilio Ravasio, caduto alla prima tappa del Giro ’86 e poi deceduto dopo sedici giorni in coma. 

«Certo. I morti, purtroppo... Io dico sempre che c’è un dio molto particolare che si occupa dei ciclisti. Perché non è mai successo niente rispetto a quello che avrebbe potuto, e potrebbe, succedere. Perché su due centimetri di battistrada, basta il brecciolino e voli. Nibali, perché è caduto all’olimpiade di Rio 2016? Perché c’era l’umido, è andato a finire contro il marciapiede e si è anche fratturato una clavicola.
Però, tornando al discorso: a Sanremo, che cosa succede? La prima cronometro la vince Visentini, che va subito in maglia rosa. La seconda la vince Roche, che poi andrà in rosa con la cronosquadre vinta dalla Carrera, che era una squadra strapotente – non c’era match, in sostanza, soprattutto con due punte, quindi in teoria poteva anche scegliere. Di galli, uno nel pollaio: sennò, disastro.
A questo punto, grazie alla cronosquadre, Roche va in maglia rosa e perdura in maglia rosa fino alla cronometro di San Marino. Quella cronometro designa il capitano di fatto. Siamo già a più di metà Giro, Visentini domina, rifila a Roche 2’47” e va davanti a lui di 2’42” se non ricordo male. Due giorni dopo si arriva alla tappa di Sappada e lì succede di tutto. In teoria il concetto di vinca il migliore, oppure la strada decide…
Una volta il fair-play, come società, non esisteva, cioè: chi metteva il piede a terra, e gli altri andavano. Oggi a te, domani (speriamo) non capiti anche a me; per cui l’idea che questo abbia infranto una sorta di patto... Non c’era il patto, perché la squadra già era divisa in due. C’era un gregario, che Roche aveva, Schepers, tutti gli altri stavano – teoricamente – dalla parte di Visentini. Però quando è stato il momento di aiutarlo non c’erano, e Schepers non gli ha dato una mano quando Roche era lì con Anderson e compagnia. Ci sono quindi tutte le cose, come dire, di cavalleria rusticana. Nel senso: chi ne ha di più, va. Ma in questo caso, essendoci da tutelare degli interessi economici-commerciali, e un’immagine della squadra, che non poteva permettersi di non avere una guida... E lì purtroppo Davide Boifava, caro amico peraltro, non s’è comportato come... Ha fatto finta di fermarlo, perché anche senza doverli buttare nel prato, anche senza le radioline, i corridori li fermi. Basta un imperioso: adesso tu freni, aspetti...». 

- È vero che Boifava ci ha provato, ricorrendo anche all’aiuto, certo non disinteressato né gratuito, di corridori di altre squadre? E che neanche quello ha funzionato? 

«No, Boifava non credo, Roche sicuramente aveva dei Panasonic…». 

- Roche con Millar aveva già corso nella Peugeot e l’anno dopo sarà con lui alla Fagor, insieme con gli ex Carrera Schepers e Rossignoli... 

«Diciamo che hanno realizzato un delitto non perfetto ma ben riuscito». 

- Quell’azione era preparata? 

«Secondo me è nata in corsa. Roche non era scemo, corridori si guardano in faccia e le facce parlano. “Parlano” gli occhiali scuri. Parlano tante cose. Il modo di pedalare. Visentini non è mai stato sgangherato, in bicicletta. È sempre stato pulito. Non era Michel Pollentier, che lo vedevi e dicevi: questo come pedala, con le spalle... Però la bicicletta andava dritta, attenzione. Beccia già era un po’ diverso, faceva fatica anche a cambiare. Era una delle cose che gli facevano difetto». 

- In salita però andava, Moser lo prendeva per i calzoncini. 

«Porca miseria, se andava! La domanda era: Mario, ma ti salta sempre la catena? “Eh, ma succede”. No, agli altri non succede che gli salti sempre la catena. Non sapeva cambiare. Lui veniva dal cicloturismo, prima era un amatore». 

- Di andar forte l’ha scoperto perché con una bici normale staccava quelli della sua età sulle colline di casa... 

«Comunque ti dico: quell’azione è nata in maniera estemporanea, non pianificata. Anche perché come fai tu a pensare che due corridori insieme, uno forte e uno che lo spalleggia, possano scombinare quel popò di...». 

- Quell’anno però anche Schepers andava forte... 

«Sì, ma son sempre due…». 

- Tu quindi non credi alla versione dei due che in camera puntano sul Garibaldi la Forcella di Monte Rest e dicono: attacchiamo qui, in discesa. Non ci credi? 

«No, non ci credo. Non ci credo perché il ciclismo a tavolino l’hanno inventato in molti ma non esiste. “Attacco alla Casa Cantoniera”, che è un riferimento, no? Uno dice, idealmente, parto lì perché mi ricordo che c’è uno strappetto, e vado via lì. Poi però se le tue condizioni fisiche non sono buone, attacchi quando ti senti meglio. Non è che dici: arrivato lì, pum!, scatto a relè e vado. Non è così. Poi davvero la strada conduce. Tieni presente che una delle cose che la gente si domanda è: che cosa pensano i corridori durante una gara? Pensano alla ruota davanti. Se ci son dei ventagli. Son preoccupati perché devono star molto attenti, ma il paesaggio non lo vedono mai. E non lo vedono neanche in allenamento perché comunque sono quasi sempre a tutta. Io non credo a un complotto. Credo a una trama ordita in corsa, come può succedere. Un corridore di esperienza come Visentini che si dimentica di alimentarsi e chiede un panino a Corti… E questo panino glielo danno, ovviamente. Boifava gli dà due zollette di zucchero. Sai quanto ti fa? Niente. Perché vengono assimilate immediatamente. Non c’erano le maltodestrine, non c’era niente a lento rilascio. Quindi lui ormai… il famoso l’homme au marteau dei francesi, la cotta, che ti ha già ammazzato: non c’è niente da fare. Difatti, non è che lui naufraga, di più: arriva con...». 

- …6’50” dal vincitore, e dopo una salita dura sì, ma pedalabile... 

«...e che stra-conosce, quindi ci manca solo che vada su zigzagando...». 

- In dieci chilometri ha perso quasi sette minuti. 

«Sette minuti son tanti. Poi, dice: ero demoralizzato... La verità è che non ne avevi più perché non ti sei alimentato, il rifornimento non l’hai fatto. L’unica cosa vera è che, di fatto, la carriera di Visentini si chiude lì, anche se lui va avanti ancora tre anni». 

- A proposito di galli nel pollaio: alla Malvor nell’89 con Visentini c’erano altri ormai ex corridori come Contini e Saronni, giovani di valore come Allocchio e Ballerini, c’era gente esperta come Bordonali e Piasecki. Era una specie di Dream Team, in realtà con Zandegù direttore sportivo era una specie di campo giochi ma con i soldi di Mario Cal che andavano e venivano... 

«Io son stato molto amico di Saronni, che ho conosciuto quando ancora era allievo e correva in pista. In quegli anni gli dicevo: “Giuseppe, scusa, tu stai portando in giro un cognome, non è che devi vergognarti, però, tieni conto che...”. 
“No, ma io faccio da balia. Ci sono questi ragazzi...”. 
“Dai, di’ la verità: la verità è che ti danno ancora un sacco di soldi…”». 

- Credo sia sempre stato onesto con se stesso. Dici che un po’ anche lui se la raccontava? 

«Non lo so. Ho dei sentimenti contrastanti». 

- Perché tu sei stato su entrambi i fronti, moseriano e saronniano… 

«Io son stato tacciato di baronchellite, perché ero l’unico al Tour de l’Avenir. Però quando lui mi ha accusato... Un giorno mi ha detto: “…è colpa tua, perché io son sempre stato un corridore a metà, sei tu che mi hai esaltato ma...”. Io gli ho detto: “Ma scusa, il Tour de l’Avenir l’hai vinto con un ginocchio che suggeriva di andare a casa dopo mezzo minuto... Dopodiché, scusa, ma a dodici secondi da Merckx [al Giro ’74, nda] non ci sono arrivato io...». 

- Che cosa t’imputava, forse di averlo pompato troppo? 

«No, era perché io l’avevo esaltato. La Gazzetta dello Sport, su Baronchelli, essendo lombardo, aveva puntato. E i moseriani mi odiavano. A Cavalese ho preso le botte dai tifosi di Moser. Quando, a un certo momento della mia piccola storia ciclistica, io son stato invitato alla festa dei Moser club, in quel momento c’erano 52 mila soci moseriani. Poteva essere un partito politico in qualche modo, meno male che non lo è diventato». 

- Nel ciclismo lo è stato eccome. 

«Sicuramente. Italo Garbari, di Trento, che era il presidente di questi Moser Club, il costruttore, quello che ha “inventato” Marilleva – che non è un posto di montagna, è una finzione: c’è il Valtur, complesso gigantesco, poi ci sono dodici case da una parte e dodici case dall’altra di una via, che è appunto quella che porta in Val di Sole – m’invita dicendo: “Ti vengo a prendere in stazione, tranquillo...”. 
Dico: “È il caso che io venga nel covo dei moseriani, che non mi vogliono bene?”. 
“Figurati se non so che... Però, se mi permetti, il presidente del Moser Club sono io e quindi... Se accetti l’invito, io non ho problemi a dirti che ti tutelo”. 
Siamo entrati all’hotel Trento, che è uno dei principali della città e dove c’è questo grande raduno, e naturalmente, vedendomi, la cosa più simpatica era: “buu…”». 

- Di che anno parliamo? 

«Stiamo parlando dell’80, prima che Moser risorgesse, e Garbari al microfono li ha zittiti dicendo: “Ricordatevi che questo signore, che voi conoscete e considerate un nemico, è semplicemente un giornalista amico. Ed è anche in ottimi rapporti con Moser perché si sono chiariti”. “Nooo, è baronchelliano, fa schifooo" [Meda imita la voce dei tifosi moseriani presenti, nda]. Di tutto è venuto fuori. Garbari li ha tacitati ed io son stato ammesso al tavolo con Francesco. E da quel momento... Però c’era questa vecchia ruggine nei miei confronti, perché io ero considerato quello che aveva pompato Baronchelli ai danni di Moser. Poi, arrivando Saronni, anche lì... Saronni io l’ho conosciuto ai campionati europei di velocità a Vienna, su pista, vinti da... uno statunitense: ma ti sembra normale? Quando ho detto: “Ma scusate, se è un campionato europeo come fa a partecipare un…?”. “Abbiam fatto una deroga...”. Guarda che l’UCI ha sempre fatto delle cose... Orribili. Io difendevo un principio: se si chiamano campionati europei, son riservati a...». 

- Nell’87 che cosa facevi? 

«Nell’87 avevo lasciato la Gazzetta. Io ho un percorso anche con L’Occhio, con Maurizio Costanzo, poi nell’81 son venuto via e ho fatto l’agenzia Magazine con Beppe Viola. Dal 1972 son venuto in Gazzetta, quando Gianni Mura è passato al Corriere d’Informazione e lì mi ha lasciato libero il posto. Son stato lì fino all’80, poi ho fatto ’80 e ’81 all’Occhio. Quando L’Occhio ha chiuso son venuto via e intanto avevo già fatto l’agenzia Magazine con Beppe Viola, Giorgio Terruzzi, Marco Pastonesi e compagnia. Nel ’95 son tornato in RCS, fino al 2009. Nell’87 ero nell’Ufficio stampa dell’Enervit, [ho cominciato nell’84] e ho continuato fino all’89, per cui ero a quel Giro d’Italia come Enervit». 

- E dall’89 al ’95? 

«Mi sono occupato di medicina: direttore editoriale di una compagnia che si chiamava Passoni editore. Ho fatto un percorso azzardato ma semplice. Grazie al record dell’ora di Moser sono passato dallo sport alla medicina dello sport alla medicina. Ho studiato, ma non ho studiato medicina all’università». 

- E qui arriviamo a Conconi. 

«Sono stato straordinariamente amico di Francesco Conconi, che considero uno scienziato vero. Nel momento in cui si potevano fare certe cose che ancora non erano vietate, non so perché, le facevano i finlandesi come il mezzofondista e maratoneta Lasse Viren – il “problema-Conconi” non è Conconi, il problema sono i vari intorno a Conconi, tra cui Michele Ferrari». 

- Nel campo scientifico due geni, Conconi e Ferrari? 

«Francesco Conconi è stato ed è un grande scienziato, un grande ricercatore. Michele Ferrari è un commerciante, un gran furbacchione. Conconi non si è mai piccato di essere un allenatore. L’unico che può essere equiparato in qualche modo a Ferrari, ma in bene, è Enrico Arcelli, che diceva: ho una laurea in medicina ma se mi chiamano perché c’è uno che sta male, io non mi presento, anche se poi magari mi accusano di omissione di soccorso, perché io di medicina non so niente; mi sono solo laureato ma non ho neanche sostenuto l’esame di Stato. Il problema però è che Ferrari ha applicato i metodi di allenamento uniti alla chimica per fare i soldi. Punto». 

- La mia domanda però era precisa proprio in questo senso: volevo sapere da te, che a quei tempi eri dentro l’Enervit, se Ferrari era davvero il "Dottor dio", come lo chiamavano Lance Armstrong e compagnia. 

«Io ti dirò che ne ho preso le distanze. E non l’ho mai conosciuto se non quando collaborava con Conconi a Ferrara. Lui aveva, per esempio, il dottor Ilario Casoni, che è venuto anche lui in Messico [per il record dell’ora di Moser], o il professor Virgilio Ferrario, che si occupava di tecniche ritmo-metriche e quindi dei cicli del sonno. Eran tutte persone serissime. Il problema sono le devianze». 

- Ferrari era così bravo come da più parti si sostiene? 

«Non lo so valutare. Anche perché Ferrari è stato rigettato. Paolo Sorbini [1], con cui ero in grandissimi rapporti, papà dei tre Sorbini e fondatore di quella che allora si chiamava Also e poi diventata Also-Enervit, a fine anni Novanta. In primis c’era Enrico Arcelli, che era il capo-spedizione e che s’incazzò perché Conconi gli rubò la scena. Conconi aveva eloquio, era un docente universitario. Era un grande affabulatore. Tieni presente che poi ha fatto egregiamente il rettore dell’Università di Ferrara. Non è che danno il rettorato a un cretino, eh, perché fa comodo. Poi che la gente abbia alimentato pettegolezzi... Per dirti, le cose della Di Centa, che fu salvata per un pelo, vengono attribuite a Conconi. Secondo me Conconi c’entra poco. È stato molto facile usarlo, all’inizio come specchietto e poi come capro espiatorio». 

- Conconi era un medico convenzionato con il CONI, quindi più alla luce del sole di così... 

«Infatti. Però lui ha sempre sostenuto che l’autoemotrasfusione lui l’ha fatta fare perché in quel momento si poteva fare. Non è mai stato un fuorilegge, un approfittatore. Giustamente diceva: non capisco perché la facciano i finlandesi, gli svedesi, i norvegesi nel fondo e noi perché non dobbiamo farla? Non c’è niente di... Tra l’altro il concetto è quello dell’EPO: tu lo prendi come farmaco ospedaliero perché evita i problemi di qualsiasi trasfusione – tiri via del tuo sangue, lo sistemi, lo arricchisci, lo re-infondi quando serve – e non correrai mai il rischio di prenderti un’epatite. Oppure l’hai già, ma allora la trasfusione non te la fanno e ti dicono: guardi che lei ha in corso un’epatite. Quindi l’EPO è un farmaco strepitoso dal punto di vista ospedaliero, perché ha evitato conseguenze drammatiche. Io avevo un mio cugino che è morto perché, facendo una trasfusione, s’è beccato l’epatite. Non è più tornato. È al Creatore. E non sono tre casi al mondo, è successo. Quel farmaco, usato in maniera corretta, è miracoloso. Con lo sport è diventato... Poi, a un certo momento, l’eritropoietina è diventata il quinto farmaco più venduto al mondo. E l’uso ospedaliero era intorno al 17-18%, tutto il resto era...». 

- Hai parlato dell’Università di Ferrara. Ho pensato subito al dottor Giovanni Grazzi, che era un discepolo di Conconi e ha fatto il medico sportivo alla Carrera: la sua unica esperienza con una squadra di ciclismo. L’ho contattato per un’intervista, sia per email sia al telefono, e cortesemente ma si nega. Perché si nega? 

«Evasivo, certo. Eh, perché in tutte queste storie c’è un insondato». 

- Tra il primo e il secondo Roche alla Carrera ci sono delle differenze. Il Roche che torna in Carrera nel ’92: tu hai ricordi di un Roche diverso? 

«No, perché in quel momento ero molto fuori dell’ambiente. E ci sono ritornato, nel ’94, per una telefonata di Felice Gimondi, che col suo bel tono bergamasco [lo imita, nda], m’ha detto: “Sergiooo…”. Ed io: “Dimmi, Felice”. “Oh, verresti tu ai mondiali con la squadra azzurraaa?”». 

- In che veste? 

«Come addetto stampa della nazionale. Io ho fatto i mondiali del ’94 in Sicilia [vinti dal francese Luc Leblanc con Chiappucci secondo, nda]. Lì ci fu tutta la vicenda di Gianni Bugno. Purtroppo sono stato involontario non protagonista ma testimone-spettatore professionista, come è giusto che sia. No, io Roche poi non l’ho più seguito. Secondo me andava già “troppo” forte nell’87...». 

- “Troppo” forte nell’87? 

«Troppo forte. Anche perché non è casuale che ti vince il Giro di Romandia, il Giro d’Italia, Il Tour de France. Allora non si sapevano un sacco di cose. Si adombravano. Che la chimica entrasse poi così prepotentemente, si è avvertito negli anni Novanta, quando decidono [il limite per] l’ematocrito a 50; che poi in realtà era a 50 più tolleranza di uno. Purtroppo l’hanno firmata a tavolino Francesco Moser e Moreno Argentin quella storia lì. Ma nessun fisiologo ti racconta che l’ematocrito naturale, fisiologico, è a 49. Han detto: facciam 50. Come a dire facciam cifra tonda. L’ematocrito naturale è a 41-42. E nel corso di uno sforzo prolungato come il Giro d’Italia, quando l’emoglobina scende, a livelli che ogni tanto diventano anche a rischio, perché ti senti vuoto, e arriva a 39-38. Non sale, scende. C’era un corridore che ha sempre avuto 48 fisiologico. Non ci credono neanche i suoi genitori, se mi permetti. Anche se poi ovviamente mi querela se io non dimostro che... Quel corridore era un sorvegliato speciale già da dilettante, perché nella sua scheda anamnestica figurava 48. Un’anomalia, e ce ne sono. Come i brachicardici: come fanno ad avere 38 di pulsazioni? Be’, quello è ammesso. Coppi e compagnia pompavano disperatamente, una volta ogni tanto [il muscolo cardiaco] si contraeva. Che ci fossero già non dei dubbi, ma delle perplessità sì, dai. Quando senti dire che i corridori van molto forte, forse troppo: vuol dire che c’è qualche cosa che ti sorprende. Oppure certi campioni che vengono fuori a trentadue anni. A me hanno insegnato che il ciclismo è uno sport di endurance». 

- Se ti riferisci a Froome, è vero che è venuto fuori tardi ma non a trentadue anni. Certo, il Froome di oggi è molto diverso da quello degli esordi alla Barloworld di Claudio Corti, ma è vero anche che allora Chris aveva la bilharziosi e nessuno gliel’aveva diagnosticata. 

«Ma, sai, poi ci son delle situazioni che sono anche poco spiegabili. Questa storia dei watt: mi sembra che al momento tutto nasca dalla potenza. Alla fine allora aveva ragione Brera quando diceva che i ciclisti son degli arrotini professionisti che mulinano i pedali. In effetti, se fai l’arrotino sai fare anche il corridore». [sorride, nda] 

- Prima mi parlavi di Moser e Saronni. Mi racconti dei rapporti, o dei non-rapporti, tra Visentini e quei due, gli Sceriffi, nell’epoca dei Giri “delle gallerie”, della “compagnia delle spinte” eccetera? 

«Visentini, devi sempre tener presente da dove viene. Veniva da una famiglia comunque agiata, che si occupa di pompe funebri lì sul lago di Garda. E fin dal primo minuto era stato odiato dai suoi colleghi che gli dicevano: “Perché corri, che non ne hai bisogno?”. La sua risposta era: “Perché mi piace. A voi non piace correre? Piace anche a me correre”. Un parallelo è con Merckx figlio, Axel, quando gli chiesero: “Scusa, Axel, ma perché non ti sei chiamato col cognome della tua mamma e non sei sceso a gareggiare come Axel Acou?”. Acou era il papà di Claudine, perché poteva tranquillamente... La sua risposta è stata: “Perché a me piace correre ed io mi chiamo Merckx”. Be’, ma il confronto con tuo padre? “Io non ho mai pensato di confrontarmi con lui, lui è stato è stato un grande campione, io sono quello che sono. Punto”. Io ho visto Eddy Merckx, che è una cara persona mia amica, piangere in Toscana quando ha vinto la tappa suo figlio [la Corinaldo-Prato al Giro del 2000, nda]. E ancora di più ha pianto per il terzo posto ad Atene 2004, quando Axel conquistò la medaglia di bronzo all’olimpiade. Perché alla fine uno dice: se hai quel cognome lì, non puoi che vincere. No. Sei semplicemente uno che si chiama Merckx, è un caso di omonimia; guarda caso è il figlio, ma non hai l’obbligo di superare tuo padre, non devi “ammazzare” il padre come in psicologia insegnano. 
Lo stesso Defilippis ha avuto dei problemi, essendo stato un borghese che correva. Gli chiedevano: perché tu che non hai bisogno... Perché alla fine il ciclismo ha una sua povertà di fatto, ma anche d’intelletto, in certe cose. E molti corridori, tu l’avrai scoperto, sono dei muscolari puri. Purtroppo. Alcuni hanno anche un certo genio. Quello più geniale di tutti, perché ho avuto il piacere di frequentarlo a lungo, era Alfredo Binda, che m’aveva preso in simpatia quando ero un ragazzo di ventitré anni alla Gazzetta. E m’ha detto: Meda, ma perché lei non viene in via Juvara al 6? Ci vediamo una volta la settimana, io le do dei compiti... E mi mandava in archivio a vedere com’erano andate, com’erano state riportate, delle corse. Poi io tornavo coi miei appunti e dicevo: Alfredo, ho visto che è andata... Roba del ’37, del ’27...». 

- Perché voleva farti fare questa specie di "scuola"? 

«La scuola era questa. Mi diceva: allora, lei ha letto queste cose, ha preso appunti. Poi mi faceva, lui era varesino, varesotto anzi: "Meda, l’è minga anda’ inscì” (non è andata così). E mi raccontava come si era svolta effettivamente la corsa. E dico: ma i giornalisti hanno scritto... Eh, i giornalisti... Lei deve anche pensare... Lei si rende conto di cos’erano i mezzi di comunicazione? All’arrivo si mettevano d’accordo. Se uno diceva: Ah, quanti chilometri di fuga ha fatto? Settantottto. Secondo me ne ha fatti ottanta. Tutti scrivevano ottanta. Così. Ed eran tre giornalisti, perché non c’erano al seguito. Per cui tutto era sull’onda, se c’era, della radiocronaca. Il ciclismo è stato la radio per 55 anni, più o meno. Poi è arrivata la televisione – nel ’54 – e ha cambiato tutto. Poi è arrivato Zavoli, che ha cambiato ancora di più. Facendo anche delle cose secondo me orribili. Io voglio molto bene a Sergio Zavoli, ma non gli perdono le interviste in corsa del tipo: [Lucillo] Lievore: cosa pensa lei…? Uno è in fuga da cento chilometri, col fiatone, lui che gli arriva col microfono e l’altro che, invece di mandarlo a quel paese, cosa che sarebbe stata logica, gli risponde pure. Poi gli han impedito di fare ’ste cose, perché insomma... È un po’ come la storia della maglia nera, no? Quando è diventata una farsa...». 

- Un business, più che altro… 

«Un business, sì. Guadagnava magari quasi come il vincitore del Giro. Tornando a Visentini, lui ha questo peccato originale di essere considerato ricco. È semplicemente agiato, viene da una famiglia borghese. E ama il ciclismo. Dopo di che si trova in un periodo in cui ci sono Hinault, Saronni, cioè non gente che scherzava, però ha qualità e talento e poi finalmente corona questo suo sogno di vincere il Giro. In qualche modo lì si è seduto». 

- Perché aveva dimostrato a se stesso ciò che voleva, e valeva, alla fine, no? 

«Eh sì. Aveva raggiunto quello cui ambiva. Dopo di che, come quelli che ti dicono, sai, adesso, a cinquant’anni, raccolgo gli applausi. No, a cinquant’anni vai avanti a lavorare, a far le cose. Non c’è il momento in cui ah, finalmente mi tributano l’applauso, la considerazione e il rispetto che mi devono. No, perché tutto è effimero, giustamente. E poi, cos’hai fatto? Hai segnato... Cioè, la storia dell’umanità non è di quelli che dicono vorrei lasciare un segno. Quelli che lo lasciano non desiderano lasciarlo. Leonardo Da Vinci non faceva delle cose per passare alla posterità. Faceva delle cose che gli piacevano e lo divertivano molto. I geni non sanno di essere geni. Non hanno neanche bisogno di… Quando gli dicono: lei è un genio. Io? Dice a me? Però un genio ti spiega una cosa complicatissima in ventisei secondi e finalmente dici: porca miseria, ho capito». 

- Parlami dell’aspetto caratteriale, lui che saltava su subito. Per esempio, Remo Rocchia risale il gruppo in salita e gli porta la mantellina ma del colore sbagliato, Visentini la piglia e la butta via dopo che l’altro, parole sue, «s’era fatto uscire gli occhi dalle orbite». Oppure il Visenta che picchia sul cofano del patron Torriani: “Torrianiiii, per te ho un modello speciale (di bara)”. Queste cose le hai viste o sentite di persona? 

«Io dal vivo non le ho mai vissute quotidianamente, perché queste cose – queste intemperanze, chiamiamole così, sfoghi, incazzature, bestiari – te le può raccontare il corridore o un suo compagno di squadra che gli è stato vicino». 

- Tu al Giro dell’87 c’eri, facevi parte della carovana, ma il giorno di Sappada dov’eri? 

«Ho fatto la tappa e sono andato all’arrivo». 

- All’arrivo, hai sentito il suo famoso “Stasera qualcuno va a casa!”, sotto il palco? 

«Quello lì sì, l’ho sentito, perché sotto il palco l’ha detto. Poi non solo Boifava ma c’era questo addetto stampa [Gianfranco Belleri, nda] che…». 

- Enzo Verzeletti, allora massaggiatore alla Carrera, mi ha raccontato di aver messo subito la mano sulla bocca a Visentini per impedirgli di fare altri danni… 

«Ah certo, per tamponare, d’altronde… Ma scusa, Boifava quando giorni prima gli chiedevano: Ma è vero che stanno continuando a battagliare e litigano? Ci han detto che non si possono sopportare... “No, ma son tutte cose che… State esagerando voi”». 

- Non per niente era “il Cardinale”. 

«Ah be’, è chiaro. Democristiano profondo, su questo non c’è dubbio. Lo sfogo… Però tieni presente questo: era un ciclismo molto “libero”. Non c’erano i pullman, i filtri, per cui le intemperanze… Se non ricordo male c’era Giorgio Martino, che gli mise il microfono sotto il naso. “Facciamo una conferenza stampa stasera…”, poi si ricrede, c’è una concitazione… In un arrivo a Bergamo, quindi nella sua città, vedo Felice Gimondi toccato da una signora che gli mette una mano sulla spalla, lui si gira e le tira un manrovescio… pazzesco. Io vedo questa in lacrime, tra l’altro le aveva fatto male e le dico: signora… E lei: “Ma io sono tifosissima di Felice, com’è possibile? Allora io ho preso e sono andato a cercare Felice e gli ho detto: tu mi devi fare una grande cortesia. Tu adesso vieni con me, rintracciamo la signora e le chiedi scusa. Sì, ma mi ha fatto malissimo… Allora, capisci: tu sei una specie di pila. Se uno ti tocca, ti fa appena così e ti fa un male cane, e la reazione è spropositata». 

- Gimondi si era accorto di chi gli stava intorno? 

«No, si è girato di scatto e l’ha fatto d’istinto. Io ero lì e quindi gli ho detto: no, no…». 

- E la signora, come hai fatto a rintracciarla? 

«Eh, l’ho rintracciata e le ho detto: si metta lì e aspetti. Gimondi gliel’ho portato e lei era come se invece di uno schiaffone, un manrovescio, avesse avuto un autografo, tanto era felice. Però, Felice, stai un po’ più attento che… “Eh, ma sai, all’arrivo non mi possono dare noia”. No, ma questa non voleva darti noia… “Ho capito ma… tu non sai cosa provo”. Il ciclismo, come tutte le cose su strada, dove non c’è un binario vero che non sia la strada, presenta un sacco di situazioni incontrollate e incontrollabili». 

- Per chiudere con quel periodo lì, parlami del progetto Enervit, del binomio Conconi-Moser. Visentini era uno che in salita Moser lo staccava, ma poi quel distacco se lo vedeva annullato in discesa e grazie anche alle spinte di quei tifosi moseriani dei quali anche tu hai avuto esperienze. E a Visentini non stava bene. 

«Gli dava fastidio, ma poi a un certo momento le spinte le hanno avute anche…». 

- E su questo anche Saronni è andato giù duro: queste cose le dico da quarant’anni. 

«Il vero problema di Moser erano gli otto chili in più rispetto ai suoi avversari. E una struttura, una complessione fisica, evidente: era un atleta che avrebbe potuto fare tanti altri sport al di fuori del ciclismo. Però lui l’ha sempre detto: nonostante io sia nato a Palù di Giovo, per forza di cose o era salita o era discesa, io pur allenandomi non potevo andar contro la mia natura ossea, la struttura muscolare e al fatto che pesavo più non del dovuto, ma degli altri; e comunque non potevo certo “segarmi” via i chili. Insomma, non c’era verso, per cui lui pativa quelli che scattavano. D’altronde Merckx, che in teoria aveva lo stesso problema, che cosa faceva? Metteva davanti i suoi vari gregarioni, che potevano essere capitani in tante squadre…». 

- Un po’ come fa oggi il Team Sky. 

Si tirava fino ai piedi della salita a sessanta all’ora in modo tale che gli scatti di Fuente, invece di essere delle rasoiate… – il termine è di Mario Fossati, e rasoiata rende perfettamente l’idea. I gregarioni si alternavano, e Fuente era più semplice andare a riprenderlo col tuo passo. Marco Pantani, che bisogno aveva del doping? Il doping era “imposto” da quelli che han cercato di fargli cambiare non mentalità ma struttura fisica. Perché con quelle leve lì, lui, a cronometro, non poteva mai andare. Non poteva spingere i famosi padelloni. Però c’è stato qualcuno che gli ha detto: eh, sai, perdi troppo, devi perdere meno, adesso ti aiutiamo. E l’hanno “aiutato” mettendogli la benzina super. Purtroppo. Perché Pantani, per i fatti suoi, staccava tutti quanti da quando aveva dodici anni. Qualsiasi persona gli andasse dietro, lui lo vedeva: vuoi stare con me? Sei sicuro di voler stare con me? Prendeva e andava. Faceva incazzare. Il libro di Marco Pastonesi, Pantani era un dio, che t’invito a leggere…». 

- L’ho letto. 

«…perché ci sono delle testimonianze meravigliose e vere. Di uno, come dice Pastonesi, che non a caso non è di quella compagnia [i gregari, gli ultimi, nda] di quelli che Pastonesi ama». 

- Prima mi hai parlato della “rasoiata” di Fossati. “Ammiraglia” invece era di Brera, che si riferiva a Binda fuori dell’abitacolo come un ammiraglio dalla sua nave… 

«Però il vero colpo di genio, dal punto di visita della letteratura breriana, è soprassella. “Soprassella” è meraviglioso perché era l’unica maniera di evitare la parola culo, o glutei o deretano, hai capito? E il famoso “sdolorava al soprassella”, che è una frase che Brera avrà scritto trenta volte, è meravigliosa perché la gente poi ha cominciato a parlare del soprassella, che invece andava bene anche in salotto, come termine. È geniale, come del resto era lui». 

- Sei stato un privilegiato, quindi… 

«Io con Brera ho fatto anche un Giro d’Italia, nel ’76, e le Olimpiadi». 

- Il Giro del ’76, l’ultimo vinto da Gimondi. E vinto in condizioni un po’ così… 

«Be’, c’è stata questa strana cosa che oggi chiamano fair-play. Sai, il gruppo che si ferma ad aspettare quello che è caduto. Nel ciclismo, quello “vero”, eroico e non eroico: piede a terra, ed io vado via. Difatti, scusa, le grandi troiate che son state fatte, [Fiorenzo] Magni ai danni di [Gastone] Nencini, su che cosa si basano? Su una foratura. Si è attaccato mentre… Certo, è normale: ha attaccato perché quello era in difficoltà. Incidente meccanico. La corsa è corsa, à la guerre comme à la guerre…». 

- Tu hai avuto una duplice fortuna: hai avuto grandi maestri, ma in qualche caso ne sei anche stato amico, specie con Mario Fossati. 

«Sì, ma ho avuto un rapporto molto stretto s con Brera. E con Brera ho anche molto litigato». 

- Penso ci abbiano litigato un po’ tutti. 

«Ma perché aveva delle situazioni di maleducazione terribile. Ci son degli episodi, di quel Giro del ’76, quando lui rientrò in Gazzetta e poi alla fine dell’anno arrivò Palumbo… Brera fece immediatamente la scena: me ne vado perché il cambio di direzione era politica. Come se un giornale come la Gazzetta avesse questo strumento: è cambiata la direzione “politica” del giornale… Vabbè, poi gli diedero d’indennizzo ottanta milioni di lire, e riconobbero che in effetti aveva ragione. Infatti, lui sosteneva che avendo scritto per la Gazzetta tra il Giro d’Italia e le Olimpiadi una cinquantina di pezzi aveva avuto sicuramente – compreso l’indennizzo – il massimo della remunerazione. Faceva il conto: mi han pagato all’incirca un milione e mezzo a pezzo; che era tanto, all’epoca, nel ’76. Io però maestri non riesco a considerarli». 

- Guai a dirla a Mario Fossati, quella parola: maestro… 

«Eh, diventava matto. Mario era un esempio. Era una specie di quercia, e una situazione da cui non potevi non essere preso. Almeno io, ammaliato da questa sua dirittura morale. E dal fatto che io con lui potevo tranquillamente dialogare. Noi non abbiam mai parlato del passato, volendo parlare del passato. Perché guardavamo sempre avanti. Dal punto di vista “politico”, però, avevamo molte affinità. Io ero giovane e inesperto, se ti racconto come ho conosciuto Mario Fossati… È stato al Velodromo Vigorelli…». 

- …che lui aveva nel cuore, no? 

«Certo. Allora: io sono in Gazzetta da nove giorni, mi mandano a una riunione in pista. Lui mi avvicina. Nella zeriba [2] c’erano queste transenne, ero appoggiato, si avvicina e mi dice: tu sei il giovane nuovo della Gazzetta? E dico: sì, sono io. “Sai chi sono io?”. Sì, mi hanno parlato di lei. E lui m’ha detto: “Lei? No, no: da questo momento ci diamo del tu, sennò ti chiamo Eccellenza. Non ti do del lei, ti chiamo Eccellenza”. [sorride, nda] Mi sembra giusto… E poi, cosa che non ti aspetti mai nella vita da uno che dice: ma… senti, in questi otto giorni, perché credo che tu sia arrivato otto giorni fa, mi dici cosa pensi del tuo caposervizio – che all’epoca era Rino Negri – Tieni presente che Rino Negri aveva fatto cancellare dall’archivio di via Solferino tutti i pezzi di Mario Fossati: aveva detto all’archivista di buttarli via, recando oltretutto un enorme danno…». 

- E perché l’aveva fatto? 

«Il problema erano i rapporti che Negri aveva con Fausto Coppi e i rapporti molto diversi che Mario aveva con Fausto Coppi, perché Rino Negri era invidioso, geloso, terribile… detestava Fossati. E perché Fossati era un poulain di Brera, che lo aveva voluto, lo aveva esaltato. Se vai a vedere i pezzi di Mario Fossati del ’46, non sono come quelli di qualche anno dopo. Sono incerti, ancora. Cioè, lui era uno che si era costruito tantissimo». 

- Nel modo di scrivere o nei contenuti? 

«Nel modo di scrivere. Per questa sua asciuttezza, questa sua voglia di togliere, come di incavare in musica, no? E lui toglieva tutto il superfluo, giustamente. Per esempio, quando mi leggeva i pezzi che scrivevo io, diceva: sei stato un po’ lezioso qui, eh. Che bisogno c’era di scrivere che “le olive sui terrazzamenti in Liguria”, durante forse il Trofeo Laigueglia, non mi ricordo, la prima corsa che avevo seguito…». 

- Che cosa avevi scritto? 

«Avevo scritto che, sai, le olive vengono tenute dalle reti, e avevo trovato questa immagine – cretina – delle olive in cerca della libertà, sui terrazzamenti». 

- E Fossati te l’ha cassata? 

«No, m’ha detto: sei stato un po’ lezioso. Perché l’oliva, perché deve cercar la libertà? Be’, dico, anche l’oliva ha diritto… [ride] Scherzavamo di queste cose. Però c’era una confidenza normale, io non ho mai fatto l’adulatore, perché poi in generale non sono il tipo che può adulare. Io ero ammirato di Mario ma non davo a vedere questa mia ammirazione. Lo consideravo un mio fratello più grande. Di esperienza, di tutto. Lui aveva delle forme… Per esempio, mi ricordo [Beppe] Maseri [de Il Giorno] che viene mandato a fare Brescia-Inter. Torna in redazione la sera e scrive il pezzo. Il giorno dopo, lunedì mattina, prende Mario alle undici e gli dice: Mario, potresti dare un’occhiata al pezzo che ho fatto su Brescia-Inter? Lui lo guarda e gli fa: sì, però adesso non ho tempo. Ti spiace, lo guardo nel pomeriggio, va bene lo stesso? Sì, sì, figurati. Questo torna alla carica alle quattro e dieci: allora, hai letto il mio pezzo? Dammi… dammi un quarto d’ora e lo leggo. Scazzato. Non lo stimava. Poi finalmente [Maseri] si ripresenta: hai visto, t’è piaciuto l’attacco con Shakespeare? Aveva preso un pezzo dell’Amleto. Sai cosa gli ha risposto Mario? Sai, Beppe, potevi andare avanti con Shakespeare, andava benissimo. Sai, in questo lui era crudele, impietoso. Un po’ come la storia di Eugenio Capodacqua. Non possiamo… Siamo diversi». 

- Non mi dirai che Sergio Donati è un caso analogo? 

«No, Donati è il classico uomo contro». 

- E Donati perché ha tanti nemici? 

«Perché ha rotto l’anima, ha scoperchiato un problema gigantesco». 

- No, intendevo: perché Donati ha tanti nemici anche tra i giornalisti? 

«Perché c’è una vulgata contro di lui. Siccome era uno abbastanza anonimo, si è creato questa specie di… per cui ha voluto emergere quando sarebbe stato di una aurea mediocritas… E poi, sai, tu frequenti un ambiente che non è scevro da invidie, gelosie e troiate». 

- In tutto questo cialtronismo della categoria, Fossati mandava giù fiele dalla mattina alla sera? O era già fuori da tutto questo? 

«Quando ho deciso di assumere l’incarico in Gazzetta come responsabile dell’Ufficio Stampa, mi ha guardato strano e m’ha detto: “Però c’è di buono che tu sei onesto”. Io: “Mario, cosa vuol dire?”. “Eh, non accetterai mai i compromessi, però sappi che di compromessi dovrai…”». 

- Inevitabile per il tipo di figura, di ruolo… 

«A te lo posso dire. Io, per esempio, aiutavo i giovani colleghi che arrivavano per la prima volta al Giro. Perché magari ti trovi con Petacchi che vince sei tappe, Cipollini che ne vince sette. Cosa scrivi il giorno in cui c’è la volata che sembra la fotocopia di quella del giorno prima? E allora gli buttavo lì degli argomenti eccetera. Guardate, andate in giro un attimo. Aiutavo a fare le inchieste, di nascosto, ovviamente. Ma non ho mai aiutato quelli del Corriere o della Gazzetta, o quelli di Repubblica, che magari erano in tre. Aiutavo quello che era da solo e si arrangiava come poteva. Perché in fondo mi amano abbastanza ancora adesso? Perché io son sempre stato… Io ho preso un premio nel Padovano… Io ho preso due premi in vita mia: uno era all’unico giornalista che è sempre disponibile ad aiutare i colleghi. Per me era una specie di laurea honoris causa. Però, soprattutto con dei “filibustieri” tipo Angelo Zomegnan, io mi son trovato a sentirmi dire: “Scusa, ma tu questa roba non dovevi dirla”. 
- Come non dovevo dirla? È la verità. 
"Perché, tu ami dire la verità?" 
- Sì. Sempre. E comunque anche a costo di avere…"». 

- Al Giro dell’87 Zomegnan era con Marco Galdi dell’Ansa uno dei pochi giornalisti italiani che parlava bene inglese. Roche lo aveva preso un po’ non dico come suo portavoce ma diciamo che se c’era un giornalista italiano con cui l’irlandese si apriva, quello era Zomegnan: “Angelo, come here”, gli disse in hotel la sera di Sappada. Quindi mi stai dicendo che i suoi pezzi dell’epoca vanno presi con le pinze? 

«No, però lui ha sempre fatto i propri interessi». 

- Per esempio, Zomegnan sostiene di essere stato lui, da direttore del Giro, a volere i NAS in borghese al seguito della corsa. È vero o è una bufala? 

«Una palla gigantesca. 

- E il Giro che un anno doveva partire dagli Stati Uniti (da New York o da Washington, a seconda delle ricostruzioni), era tutto pronto: altra balla? 

«Ma sì. Allora, è un po’ come la storia della cronodiscesa. La più bella intuizione di Torriani è stata l’arrivo a Venezia, il ponte di barche: bisogna dargliene atto. Però, per darti un’idea, a quell’operazione contribuì Giovanni Michelotti, che in quel momento era il braccio destro di Torriani. Gianni Torriani questo non te lo racconterà mai. Vincenzo Torriani andò almeno diciotto volte a Venezia perché dovevano risolvere ’sto problema del ponte di barche: come farlo, i permessi, se fare neutralizzare la gara prima. Perché su un ponte di barche, sai, basta una scheggia di legno e fori. Questa sembra una cattiveria e non lo è, io a Vincenzo volevo bene. Per il centenario della nascita di Torriani, dovrò parlare a Novate una serata il 17 settembre 2018, ci sarà questa specie di convegno, un incontro, carino, io dovrò fare il moderatore. Però l’anno dopo Michelotti andò lì litigando con Torriani. E sai Torriani cosa ha fatto, per non far sentire la mancanza di Giovanni Michelotti a tutti quelli che lo conoscevano e che gli avrebbero chiesto “Scusa, ma Giovanni dov’è, quest’anno non c’è?”. Torriani ha preso l’arbitro, Alberto Michelotti, e l’ha fatto venire al Giro. Quindi se lo chiedevano: (un) Michelotti c’era ancora [sorride]. Cioè, delle robe… Sembra veramente vaudeville [3] questo qui… È una roba incredibile. Eppure ha fatto anche questa. In quel mondo lì, d’improvvisati, perché poi Vincenzo Torriani era un gigantesco improvvisatore. E andava bene. Quando parlano dello stellone di Vincenzo Torriani che lo seguiva come la nuvola di Fantozzi… Aveva un culo che… Poi, la fortuna aiuta gli audaci. I primi a osteggiare l’arrivo a Venezia erano il sindaco e gli assessori. E la risposta, perché io ero presente, era: “Ma scusi, ma Venezia non ha bisogno del Giro d’Italia. Venezia è Venezia. A prescindere”. E quindi Torriani inizia a dire che il Giro avrebbe portato turismo, floridità di mezzi e cose. “A noi non ce ne frega”. Sono andati avanti due anni a cercare di, poi finalmente… Probabilmente è cambiato il sindaco…». 

- Era un altro mondo. Torriani aveva una linea diretta coi ministri, magari poteva pure permettersi di mandarli a quel paese. 

«Era un mondo non più contadino ma sicuramente… Torriani aveva un referente praticamente infallibile, si chiamava Giulio Andreotti, poverino. Però la fortuna o l’abilità di Torriani è che lui Andreotti l’avrà sollecitato tre volte in vita sua. Quando serviva veramente. Non gli ha mai chiesto per delle stupidaggini. E questo ne denunciava una grande abilità e soprattutto un tatticismo fondamentale. In compenso, quando si è presentato alle elezioni, ed è stato trombato, lui non lo sapeva. E suo figlio Gianni non la racconta giusta. È stato Andreotti che ha detto: mi raccomando, non votatelo. Siccome a fare i comizi Torriani andava assieme a Bartali, Andreotti ha fatto in modo che si votasse per Bartali, il che quindi invalidava la scheda. Hai capito? [Alle elezioni politiche del 28-29 aprile 1963, nda] Bartali prese 42 mila voti, buttati nel cesso, che in teoria sarebbero dovuti andare… Però è stato un golpe della Democrazia Cristiana, che ha detto: a noi quel signore lì serve a fare il direttore del Giro. Tra l’altro, avendo un carattere fumantino, come politico sarebbe stato un disastro. Però a un certo momento, con le elezioni che ci sarebbero state di lì a poco, a giugno, lui ha avuto anche il coraggio, che io chiamo sventatezza, di far passare il Giro da Novate. E c’erano gli striscioni “Vota Torriani”. Cioè, una roba che ci siam vergognati, abbiam detto: mamma mia… No, per la serie: senza vergogna. Era troppo».

CHRISTIAN GIORDANO

NOTE: 

[1] Paolo Sorbini: fondatore di Also S.p.A., farmacista, proveniente da una famiglia di “speziali” di Montepulciano che, dopo aver avviato l'importazione di prodotti farmaceutici a base di estratti fitoterapici, acquista un piccolo laboratorio alla periferia di Milano e fonda, all'inizio del 1954, la Also S.p.A. – oggi conosciuta come Enervit S.p.A. – unendo all'attività commerciale anche quella industriale. Nel 1972 costruisce lo stabilimento di Zelbio nel comasco, in località Pian del Tivano, tuttora sede della produzione della Enervit S.p.A. 

[2] Zeriba: nei velodromi è il recinto, tra la pista e il prato, in cui sostano i corridori tra una prova e l’altra. 

[3] Vaudeville: genere teatrale nato in Francia a fine Settecento. Il termine "vaudeville" indica le commedie leggere in cui alla prosa sono alternate strofe cantate su arie conosciute (vaudevilles).

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