Tito Tacchella, tredici anni di gran Carrera


«Avremo trasportato tutto il lavoro in Bolivia, in Tagikistan.
Noi siamo signori e padroni di quattro settori: 
la musica rock, i film d'azione, la programmazione dei computer. 
E la consegna rapida della pizza». 
- Neal Stephenson, Snow Crash (1992) 

di CHRISTIAN GIORDANO ©
IN ESCLUSIVA per Rainbow Sports Books ©

sede Carrera
Caldiero (Verona), lunedì 16 aprile 2018 

- Tito Tacchella, da che parte cominciamo? Magari dal vostro – intendo voi come fratelli Tacchella – amore per lo sport? 

«Va bene. Benissimo». 

- Quindi, com’è nato? Ben prima del ciclismo e della Carrera, no? 

«Intanto facciamo una precisazione: la Carrera non è… Cioè, non è che uno ha… L’azienda era nata e si chiamava “Tacchella”, quando abbiamo iniziato a produrre jeans. Lei sa che allora… Eravamo in un mondo diverso, cioè: non avevamo i computer eccetera, no?». [sorride, nda] 

- Facciamo un passo indietro. Lei è classe 1941, nel ’60 prende il diploma di commerciale. Dal ’60 al ’65 che cosa le frullava in mente? Come l’è venuta l’idea? 

«Allora, inquadriamo il discorso in un contesto sociale, il contesto mio, del mio paese. Noi siamo in una piccola vallata qua, a diciotto chilometri da Verona. Una vallata che è sempre stata ricca di iniziative. Perché? Perché, pur essendo relativamente vicina a Verona, la vallata non era ambita, non era “appannaggio” dei grandi proprietari terrieri eccetera, perché bisognava… Il lavoro era nei boschi. Insomma, bisognava guadagnarselo, per cui, a differenza di Grezzana che praticamente è l’ultimo baluardo, a metà strada, la gente lì si dava da fare proprio per poter vivere, no? E ha creato queste iniziative… Difatti sono veronesi “Aia”, [Rana] eccetera. C’era questa corsa. Noi siamo sei figli, quattro maschi e due femmine [Luisa ed Elisa, nda]. Io sono il più anziano. Il più giovane, Eliseo, ha tredici anni meno di me, è missionario in Congo, frate comboniano. La settimana prossima [il 23 del mese, nda] andrò in Congo con lui perché abbiamo fatto una serie di operazioni. E allora si trattava di dare alle persone una professione. Le possibilità erano quelle che erano. Anche mio padre, Giovanni [classe 1913, deceduto nel dicembre 1993, nda], così stava studiando cosa fare. Era direttore di una centrale elettrica [la Lucense, nda] che era nata lì, nel ’23, sulla spinta del governo, e distribuiva la corrente sulle montagne qua sui [monti] Lessini». 

- Prima suo papà faceva un altro mestiere? 

«No, faceva un mestiere in questo senso: la nostra famiglia per, non lo so io da quanto tempo… Avevamo due... un po’ di campi ma poca roba. Facevamo due cose: avevamo i boschi e d’estate si tagliava la legna e d’inverno si andava a venderla in città. D’inverno tagliavamo il ghiaccio e d’estate andavamo a venderlo. Era un po’ di commercio. Ci si arrangiava. Erano tutte cose che permettevano alla gente di vivere, su un territorio povero. Perché tutto sommato il territorio è povero. Però ci vivevano mille persone, dignitosamente, faticosamente. Comunque, a quei tempi lì bisognava pensare cosa fare. Mio padre era direttore della centrale elettrica; che poi, diciamo “direttore”: erano cinque-sei uomini. Sai, questa… Era nata su spinta di un parroco, di un prete di allora, nel ’23. Avevano raccolto l’acqua del ponte. C’era una piccola produzione di energia elettrica. Però poi, con il resto, man mano che crescevano, era stata acquistata dall’azienda municipalizzata di Verona, e noi la distribuivamo. Ma se non ci fosse stata una struttura di questo tipo, snella, con pochi costi, con gente che lavorava, le nostre montagne sarebbero rimaste senza corrente fino a… Non lo so…». [sorride, nda] 

- Quel parroco era il “famoso” don Luigi Bodini? 

«No, don Luigi Bodini viene dopo. No, era monsignor Fontana, che nel ’23 era curato, non era parroco. E praticamente ha raggruppato queste famiglie – una quarantina di famiglie del paese, quelle un po’ più “operative” – e avevano creato ’sta [centrale] elettrica, che era già all’avanguardia. C’era stata la cooperativa – le solite cooperative di consumo; c’era la banca, che si chiamava Banca Cooperativa di Lugo, e però dopo, negli anni ’38-’39 mi sembra, è confluita nella Banca Popolare di Verona, cioè la Banca Popolare di Verona, che un po’ ha “recuperato” queste piccole banche. E dopo la guerra, siamo ritornati. Il paese ha pagato un tributo non tanto di territorio ma di vite umane, perché bene o male nel nostro monumento abbiamo… Ho uno zio che è rimasto in Russia, e ha iniziato la ripresa. Questo parroco, don Luigi Bodini, era proprio di qua, di Caldiero, questo paese qua. Proprio un uomo di campagna, rude eccetera. Però con furbizia de coso, no? Era preoccupato perché non c’erano lavori “femminili”. I lavori erano tutti “maschili”: tagliare la legna, tagliare il ghiaccio, i campi. I campi, poi, erano pochi. E le donne, le ragazze, andavano o a servizio delle famiglie in città oppure andavano nelle fabbriche. Ma sa, c’era gente che andava addirittura sul lago, nei cotonifici, là a Campione, per dire, e comunque stavano via. Avevano una vita staccata dalle famiglie, perché tornavano, quando andava bene, magari una volta la settimana o una volta ogni tre mesi, no? O erano a casa che si arrabattavano… Per cui [don Luigi Bodini] aveva, sentiva profondamente, questa necessità di creare un qualcosa per queste… Qualcosa di “femminile”. Perché erano nate, nella vallata, anche alcune aziende che lavoravano le pietre. Ma anche quelli erano tutti lavori “maschili”. Per cui, a un certo punto, è venuto all’orecchio, la possibilità, non so come mai, di fare un laboratorio di bambole». 

- Ma voi l’avete rilevato o ne avete aperto uno nuovo? 

«Adesso ci sto arrivando, sì. Il laboratorio di bambole è stato fatto a metà degli anni Cinquanta, era anche partito bene. Aveva avuto un bello sviluppo. Poi, sai, l’entusiasmo della gente… I locali erano della parrocchia, per cui non c’erano neanche… Però, a metà del 1959 – me lo ricordo perfettamente, come fosse adesso – è uscita una certa bambola che si chiamava Barbie, della Mattel. È stato un ciclone. La Barbie è stata un ciclone. Perché in pochissimo tempo si è diffusa in tutto il mondo. Ma noi non potevamo copiarla, perché la nostra bambola era quella tradizionale, e il grosso del lavoro era fare il vestito della bambola». 

- Perché invece le vostre erano bambole di pezza, o di stoffa? 

«No, erano le famose Barbie, che sembravano di plastica, alte così… Ma il pregio della bambola era il vestito. Si facevano quei vestiti da sposa… Per far la bambola, le compravamo fatte, i pezzi, poi venivano assemblate le gambe, le braccia, il fusto con la testa, poi venivano messi gli occhi, c’era… Si trovavano ancora, i capelli, ma si comprava la parrucca… Uscita… Praticamente, è stato un ciclone. Un ciclone che, nel giro di pochissimo tempo, intanto ha cambiato i gusti, perché con la bambola le ragazzine non giocavano. Diventava poi un pezzo da mettere là… E la madre ha cominciato a dire: la Barbie, come è diventata… Per cui tutto l’impianto delle bambole, non Lugo, che non diceva niente, ma comunque ha sofferto in maniera folle. Nel giro di un paio d’anni, anche a Lugo ormai i clienti praticamente non comperavano più. Perché non avevano motivo di comprare. Tra l’altro, quelle lì erano fatte con la macchina. Sai com’erano fatte le Barbie. Non solo non compravano più ma c’erano… Erano cambiati i gusti. Abbiamo tentato, su consiglio di… Ma vediamo, io, mia sorella, la mamma, le mie sorelle – una si chiama Luisa e una Elisa – avevano tentato di vedere se si riusciva a salvare un po’ questa cosa. Poi eravamo lì, e anche qualche persona al lavoro... Prima però torniamo indietro, andiamo agli anni, boh, ’56, ’57, ’58, adesso non vorrei sbagliarmi, anno più, anno meno. Imerio aveva fatto la terza media, diciamo ’58; mio fratello Imerio, il terzogenito, io sono il primo, seconda Luisa, terzo Imerio, che è del ’44 (è partito adesso per la Russia, dieci minuti fa, abbiamo mangiato assieme, abbiamo uno stabilimento lì in Tagikistan), e doveva scegliere qual era la sua [strada]… Che idea avrebbe fatto nella sua vita, cosa avrebbe fatto. E allora, sa com’era una volta nel paese, si parlava. Anche mio padre: parla col parroco e [gli] dice: Cosa dici, che vogliam fare? E il parroco dice: Senti, a Verona c’è una scuola di sartoria che è di don Calabria; a Lugo ci son le sarte, e a Lugo serve che stia un po’ migliorando, per cui potrebbe essere un paese che può mantenere una sartoria, può mantenere un sarto. Io lo manderei a scuola lì, a far questa scuola qua… Poi, devo dire, mio fratello non era uno da farlo studiare o farlo ragioniere o cosa…». 

- Invece lei la possibilità di studiare l’ha avuta, ed è stato perché lei è il primogenito? 

«Sì, io ho fatto ragioneria. Sì, ma anche Imerio non è che… Dopo le medie, qualcosina… Dice: io lo manderei a fare la scuola di sartoria [all’Istituto Don Calabria, nda], che dopo l’han chiuso eccetera. Adesso lì non c’è più niente, perché c’era la Fiera di Verona, era proprio a ridosso della Fiera, loro poi si son trasferiti più in là, ma non hanno più tante scuole professionali, son più legati a palestre, recupero delle persone eccetera. Va bè, comunque allora c’era e funzionava. Non è che [Imerio ne] fosse, diciamo, molto entusiasta [sorride, nda], però è andato a scuola, ha cominciato a frequentare, aveva questo insegnante di sartoria – si chiamava Merlin, Sotero, Sotero di nome, Merlin di cognome. Come la legge Merlin[1], tanto [anche lei] era di quelle zone lì…». 

- Sotero come il nonno di Pantani… Fu nonno Sotero a regalargli la prima bicicletta. 

«Sotero. Si vede che era il nome…». 

- …nel destino. Ci aveva mai pensato? 

«Non sapevo. Non sapevo si chiamasse Sotero. Ah, e questo qua era grande così, molto umano. E soprattutto, molto bravo. E gli ha fatto amare il…». 

- …il mestiere della sartoria. 

«Sì, il mestiere della sartoria. Anche perché lì ha scoperto… Tra l’altro, stava nascendo l’industria dell’abbigliamento…». 

- Mia mamma, friulana, era sarta. E dopo il boom delle confezioni industriali, aveva dovuto chiudere il laboratorio: quindi so di che cosa sta parlando. 

«Era ancora lontana, però [questo Sotero Merlin] diceva… Cioè, sapeva anche la struttura. Non parlava solo della sartoria intesa come il sarto che taglia. Dava anche una “cultura” dell’abbigliamento, nel senso: le macchine… Sta nascendo… Cioè ha fatto amare questo discorso, perché non era solo la prospettiva di un lavoro fra quattro mura, dove arrivano i clienti, prendi le misure e vai. C’era anche un… Cominciava a nascere… Anche a Verona c’erano un paio di aziende di sartoriali eccetera, no? Di abbigliamento. Stava nascendo… Per cui diceva: voi non solo potete fare i sarti ma potete fare anche nelle aziende. Potete anche farvele, le aziende, in un certo senso. Per cui da questo contatto con questa scuola… È stato un contatto assolutamente positivo. Perché da un ripiego, diciamo, facciamo questo perché tanto c’è quello lì… Poteva anche andare a fare il perito meccanico, no? Ecco: da un ripiego ha cominciato a capire che stava nascendo un qualcosa di nuovo. Pertanto, ha cominciato ad appassionarsi alle macchine. Tra l’altro, noi avevamo questo laboratorietto che avevamo ricavato sulle ceneri della cooperativa delle bambole. Avevamo proseguito, per cui avevamo quattro-cinque persone che lavoravano, facevamo vestiti, per cui… Comunque, [Imerio] andava a scuola ma poteva anche mettere in pratica… Ovviamente in scala, però… Il vestito da bambola… Era piccola. Ma la macchina da cucire non è che sia… Non è che si arrabbia se [il vestito] è più lungo o più corto, no? Ecco. Per cui diciamo che a questo punto l’ha presa un po’…». 

- …a cuore. 

«Sì, si è abbastanza, diciamo, innamorato. Ha sentito che era una professione che poteva dargli delle soddisfazioni. Però, quando ha finito la scuola, avrà avuto 18-19 anni, come tutti insomma, no? Lui non poteva iniziare un lavoro suo perché ci voleva la maggiore età.[2] Ah, no: ha iniziato un lavoro suo, proprio a fare il sarto, sempre lì. Avevamo questa casa, in centro al paese, dove c’erano tre locali sovrapposti». 

- A Lugo? 

«A Lugo, proprio nel cuore del paese, nel casolare di mio nonno. E a pianterreno avevamo un po’ di servizi. Nel primo c’era questo piccolo laboratorio in cui faceva i vestiti per le bambole e nel secondo aveva aperto la sua sartoria. Aveva iniziato a lavorare. Lì, se apri una sartoria, non è che la gente di Lugo mette fuori i cartelli… Tra l’altro, come ha fatto mio fratello, non è che ha detto: no, io non vado a fare l’apprendistato in una sartoria, se deve essere la mia, faccio la mia, no? E allora, intanto, finché qualche cliente arrivava… Quando non c’era, un po’ andava a vedere, si studiava le macchine, un po’ magari faceva altre cose. Non so, magari andava un po’ nei campi, magari faceva anche quello. E tra l’altro, quasi quasi – dice – potremmo… Perché non è che poi, sa, quando tu hai da fare anche un contadino che vede… Un contadino che deve farsi un abito – che se ne farà due nella vita, uno quando si è sposato e un altro quando dice: Mi preparo per andar nella tomba… – [ridiamo, nda] Non è che uno vada da un ragazzo di 16-17-18 anni, che è appena partito, pensando di dargli gli stessi soldi che darebbe al sarto della città… Va bè, però, insomma, ci si aiutava. Allora mia mamma, Amalia, che veniva da una famiglia commerciante – cioè mio nonno, il fratello di sua mamma – e avevano il forno, una bottega di generi alimentari, con un’osteria… Per cui lei nella sua vita, fino a che non si è sposata, era a contatto col pubblico, aveva una certa conoscenza eccetera. Dice: Ma se noi facciamo così, giù a pianterreno abbiamo lo spazio, siamo sulla via principale del paese, l’unica. Siamo con questa casa e comperiamo un po’ di tessuti, no? Allora, prendiamo – tanto non c’erano colori – un po’ di tagli per fare un vestito a righe, un vestito a quadri, insomma un po’ di tagli da vestito… Cioè, praticamente dice: Se noi quello che guadagniamo in meno sulla fattura… Perché per un po’ di tempo non star mica a pensare anche che ti diano… Anche perché la nostra gente tirava un po’ dappertutto, cioè soffriva la fame… Gli vendi il vestito, gli vendi la stoffa, gli vendi il vestito fatto, cioè gli faciliti le cose. E difatti, quasi sempre, insomma… Per l’uomo, lì, che non aveva dimestichezza con la città, diceva: Mi piace questo taglio qua… Oppure: come lo vuoi? Te lo porto fra una settimana, tanto non è che veniva ai primi di dicembre per farsi il vestito per Natale; veniva ai primi di ottobre, diciamo. Se non per Natale, per un matrimonio, quelle evenienze lì, per cui il tempo c’era. E allora diventava una cosa… Ha cominciato anche a diventare interessante, tutto sommato. Perché c’era questo rapporto con le persone, no? Facevamo il vestito. Allora, dietro il vestito, c’era anche la camicia. Cioè pian piano è nato… Nel giro di qualche mese, a pianterreno, abbiam messo anche il negozio di abbigliamento. Un piccolo negozio. Nel frattempo, però, l’ispirazione di mio fratello era… Stava guardando, si stava rivolgendo un po’ all’industria, no? Perché: perché c’era un’altra famiglia del mio paese, che aveva dieci figli, e che era commerciante di, sai, ambulanti, di tessuti eccetera. E i figli più grandi avevano iniziato una fabbrica, a Verona. Avevano iniziato una fabbrica di impermeabili. Cioè: c’erano due-tre diciamo realtà che noi conoscevamo e che si erano messe nel campo della confezione. E stavano andando discretamente. Per cui dice: adesso, quando compio ventun anni, faccio – o ci facciamo – un’azienda. Perché era ben conscio che un’azienda non è che uno dice… Perché poi io lavoravo… Io, tra l’altro, quel periodo… Sì, dopo ho lavorato un anno in Comune, impiegato in Comune a Grezzana. Dopo ho fatto il militare. E al ritorno da militare, son andato a lavorare con mio papà alla società elettrica, perché stava crescendo e c’era solo un maestro, che faceva l’impiegato part time». 

- E lei là si occupava di contabilità? Che cosa faceva? 

«La facevano fuori, la contabilità, la davano al commercialista, però dopo, quando ha cominciato, quei periodi là, a crescere di numero. C’erano da fare tutte le bollette, ogni due mesi, la contabilità eccetera, per cui ero stato assunto nella società elettrica insieme con lui. Però non è che ero… Se invece di otto ore ne lavoravo sei, o cinque, non cambiava niente, cioè riuscivo ad arrivar tranquillamente. Per cui c’era… Stava nascendo, in casa, questo progetto: se riusciamo, vediamo… Un giorno [Imerio] va in città – ogni tanto andava in città, andava a parlare col suo maestro, no?, a chiacchierare… E arriva un signore di Garda. Era un commerciante ed era lì a chiedere se conoscevano un laboratorio che poteva fargli cinquanta capi – cinquanta pantaloni di velluto alla zuava al giorno – perché lui aveva questa clientela. Adesso ci vien da ridere, perché cinquanta al giorno… Ma allora… Mio fratello era lì, si è trovato casualmente ad assistere… Mentre stava parlando è arrivato questo, l’ha fatto parlare eccetera. Mio fratello dice: Ma te li faccio io. Tanto non è che avesse fretta ’sto qua, stava cercando… E il suo maestro – lo chiamiamo “maestro”, insomma il suo insegnante – e dice: Guardi che questo qua può farlo, so come lavora eccetera. Sai, ha fatto un po’ da garante, ma anche lui ci teneva. E insomma [Imerio] vien a casa con ’sta notizia. La notizia che poi è caduta in un momento particolare. Perché le bambole ormai erano… Cioè, avevamo due-tre clienti ma era proprio… Si teneva ma non ne valeva più la pena. Tanto “sapevi” che non avevi futuro, per cui anche se potevi…». 

- Potevi tirare avanti ma… 

«Potevi tirar avanti ma come fai, era solo per veder com’era. E allora abbiamo detto: noi smantelliamo le bambole, smantelliamo le cose… un po’ di macchine le abbiamo, comperiamo quelle tre quattro cinque macchine che… ci voleva, perché la cintura, i passanti, cioè ci son tutte queste cose qua, e mettiamo su il laboratorio. Ma, dice, avete cinquanta… ci sono persone che tutti i giorni comprano un paio di pantaloni? Sai, tra l’altro rivolto in trentino, commerciante no? Dice… perché attenti che non fate il passo più lungo della gamba, perché sennò insomma a un certo punto mio padre ha tagliato. Lui era fatto così: dice se non tentate non potete sapere se … se ce la fan gli altri… allora compera… fortunatamente, vedi cosa vuol dire avere avuto un insegnante previdente, è stato capace in pochi giorni di… – è andato giù dal maestro, no? –di predisporre una specie di layout, no? Ho queste macchine, mi servono queste, mi servono queste persone, tra l’altro salvaguardiamo anche la cosa… Non mi serviva una nuova ditta, in quanto che usavamo quella delle nostre bambole per un primo tempo, no? Tanto era laboratorio artigiano e continuava come laboratorio artigiano. Per cui nel giro di pochissimo tempo ci siamo messi, tac… Dopo ci siamo trovati che le macchine non ci stavano, perché erano…». 

- È lì aneddoto di sua mamma che dice che dopo c’erano i rumori e le galline non facevano più le uova? 

«Quella è un’altra cosa… Quella era mia nonna. Ma sai tutto?!». 

- Sono arrivato preparato, ho fatto i compiti. [ridiamo, nda] 

«Allora le macchine non ci stavano, cioè perché le macchine – quelle che avevamo quelle lì’ erano macchine un po’ più vecchie, tavoli piccoli, quelle che compri tavoli più grandi, un po’ più potenti, ma il problema delle luci. Abbiamo allora… poi bisognava fare [il] taglio, perché bisognava tagliare ti portavano le pezze eccetera, allora avremmo avuto bisogno di tutta la casa, compreso anche il locale del negozio pianterreno però era una situazione strana perché… allora abbiamo detto tanto per cominciare cominciamo ma intanto bisogna trovare una soluzione, la situazione è stata trovata perché dove abitavamo, e dopo vengo al tuo discorso, avevamo… era fuori diciamo era una contrada il paese è formato… e avevamo i campi attorno, no? Avevamo la casa e anche annessa la stalla eccetera. La stalla era vuota perché da anni non avevamo più bestie, però era una bella costruzione cioè anche da vedere, non era… era si vedeva era un pezzo di casa è stato trasformato. Stiamo qua. Mettiamo qua. Però intanto c’era un altro problema: che la casa l’avevamo già venduta, perché stavamo costruendo la… i sei figli lì eravamo stretti, come camere, eravamo stretti, no? Allora facciamo ’sta casa da n’altra parte. [ride, nda] Siccome lì avevamo, un certo periodo di tempo, non so te lo do fra un anno, San Martino l’anno prossimo devo far la casa be’ abbiamo detto investiamo intanto facciamo il laboratorio che è venuto bene, era bello, proprio un bel laboratorio, era attaccato... Per cui nel giro di due mesi diciamo eravamo già pronti per fare il trasloco e di dare un assetto definitivo a questa cosa, a questa struttura, a mettere il taglio, la fila de otto-dieci macchine e avevamo prima l’estivo perché estivo perché c’era tutto da prendere l’impianto però intanto si suppliva col ferro a mano». 

- Mi manca un passaggio però: un nome l’aveva questo laboratorio. 

«Quello là si chiamava “Melegatti maglie”, il laboratorio…». 

- Ma non avevate un nome quando avete preso questo laboratorio delle bambole? 

«Abbiamo tenuto quello lì». 

- Quello che c’era prima? 

«Sì. Siccome non si chiamava manifattura bambole, si chiamava ma non mi ricordo neanche più adesso, era intestato a mia mamma. Era intestato a lei come laboratorio, perché i figli erano giovani quando è partito eravamo tutti sotto i ventun anni, mio padre aveva il suo lavoro. Era intestato a lei, per cui sotto il profilo gestionale, diciamo, di poter operare, eravamo a posto. In attesa, anche perché abbiamo detto: mancava un anno che mio fratello compisse ventun anni…». 

- Eh sì, perché se è del ’44, più ventuno fa ’65… 

«L’abbiamo aperto il giorno che ha compiuto ventun anni, 28 gennaio del ’65». 

- Ecco perché è stato così preciso nella data… 

«Perché avevamo aspettato io me ricordo le ho fatte tutte io quelle pratiche lì, ecco. E allora dopo abbiam fatto, praticamente, l’azienda era intestato lui a me eccetera, gli unici due che potevano avere, che avevano l’età per poterla aprire. Per cui abbiamo fatto un po’ di… Sapendo che l’anno dopo siccome stavamo costruendo la casa mio papà aveva pensato a una casa familiare, grande, sopra ci dovevano essere due appartamenti, sotto, un appartamento per tutti, e tra l’altro avevamo previsto di portare il negozio proprio lì. E allora diciamo che ha preso piede. A questo punto è partito, mio fratello che era uno attento, credo che sia tuttora uno dei massimi tecnici della confezione che esista al mondo anche non tanto perché è sarto proprio ce l’ha… li ha sempre fatti ne ha fatti a decine, e dice: dobbiamo metter su lo stiro automatico, perché se non metti su lo stiro, cioè con una macchina sola, anche se la manodopera allora erano basse, insomma faccio il lavoro che fanno quattro ragazze, non posso mica avere più ragazze che stirano che. Allora siamo andati a comprare questa macchina, mi ricordo sul Vicentino, dalla Comet, e che era una macchina che aveva tutto dentro: la caldaia del vapore l’aspiratore eccetera, di quelle che si faceva allora insomma, solo se hai da scegliere metti su la caldaia… Montiamo questa macchina che era non so sarà stato a settembre, non mi ricordo che mese era, mettiamo questa macchina e partiamo tutti contenti, festa, perché insomma, non facciamo i conti con la nonna, che a quel tempo là abitava… mettiamo fosse stato nel ’64, ’65, aveva la mia età più o meno, nono aveva 87-88 anni, è morta a 90 anni, nel ’67 dunque avrà avuto 87-88 anni, e lei aveva come tutte le persone che vivevano… aveva il suo orto, le sue chiocce, le sue galline, facevano l’uovo, facevano i pulcini eccetera, no? E c’era questo… un portico, attaccato, dopo la stalla, che avevamo ancora, c’era un portico, e sotto nel portico, che avevamo ancora i vecchi carri eccetera, c’era un posto dove c’erano le galline che andavano lì, facevano le uova e poi andavano a covarle, no? Per cui un giorno venni là, arrabbiata, cos’è successo? Dovevi fermarla quella macchina, maledetta me fa diventar tutti i ovi matti, qua, la gallina e cosa… Oh, sta’ calma, ma no, le manca poco, manca otto-diese giorni, va’ a fermarla perché qua sennò… Va bè. Nonna Carolina…». 

- E chi l’ha spuntata alla fine poi, nonna Carolina? 

«È andata, insomma… Poi lì non è che sei in città, sei nell’aia, prendi, basta che tiri indietro… L’unica preoccupazione era che la chioccia non potesse più covar ma insomma… allora abbiamo è più un fatto folcloristico… pensare una persona che arriva a quell’età lì e dice: guarda, adesso mi arriva la macchina… no, perché era il suo lavoro tutto sommato, usciva, andava fuori, portava da mangiare, controllava, era un po’…». 

- Quindi tuti i sei figli lavoravate, no? Lavoravate insieme? 

«No, no. Allora: adesso vengo avanti. Allora, va bè, lì abbiamo preso, abbiamo spostato, c’era un cortiletto lì didietro, abbiamo messo un piccolo… Allora mia sorella Luisa ha continuato quel negozio, ha tenuto aperto il negozio perché poi è diventato anche suo, lo sta gestendo ancora. E mia sorella Lisetta, Lisa, che invece lavorava con mio fratello Imerio, poi invece c’era Domenico, che è il terzo uomo, che lui lavorava in una società – nel frattempo erano sorte alcune società di marmi, per la lavorazione del marmo, e quasi tutte le società erano formate da un bel nucleo di soci, cioè si mettevano insieme un gruppo di persone e facevano la società. E allora lì eravamo soci anche noi, in questa società, per cui lui è andato a lavorare là, che sei il più giovane, e quell’altro – Eliseo – studiava, per cui diciamo che la famiglia… Eliseo faceva i suoi studi. E dopo da lì è partita l’avventura, cioè praticamente abbiamo cominciato con ’sto signore che faceva cinquanta i pantaloni al giorno, poi la struttura che avevamo messo in piedi era molto più… aveva delle capacità molto superiori. Anche perché cioè non si può tarare un’azienda industriale su cinquanta pezzi, no?». 

- O su un cliente solo… 

«No, ma a parte il cliente. No, no ma giustamente cioè se io ho bisogno di una macchina speciale, e questa macchina speciale, mi fa mettiamo 500 tasche al giorno, e ne faccio cinquanta, cioè è sottoutilizzata, perché ne hai due… o mi fa tot passanti, cioè il primo tempo ti salvi, la ragazza lavora su una macchina e una su un’altra però non è un concetto industriale. Per cui considerato la potenzialità, cioè la potenzialità è stata messa subito. Difatti subito dopo abbiamo lavorato per questo signore un po’, dopo, sai, le voci… il laboratorio andava bene». 

- Poi si vede che eravate bravi, certo. 

«No, eravamo bravi: sulla qualità non c’è niente da dire, è un tecnico per cui… poi è nato con quello spirito lì, pertanto i clienti insomma li abbiamo avuti subito. Soprattutto uno di Brescia, un certo Brambilla, che erano due fratelli, commercianti sontuosi, cioè. Quando dico sontuosi non dico… il vero commerciante, che vede gli affari, fa gli affari e fa star bene tutti. Cioè lui era uno moto combattivo, ma la sua forza era il numero, no? Cioè mentre gli altri facevano mille gonne, lui ne commerciava diecimila. Perché diceva: ma io, se con diecimila guadagno come tremila, sto… cioè… era uno, è stato ma veramente bravo in questo. E lì andava molto d’accordo, perché tra l’altro…». 

- Brambilla con Imerio? 

«Sì, cioè lui quando ha visto in giro i pantaloni che fa, come vengono fatti eccetera, ha visto che la modelleria è giusta, la confezione era giusta, non aveva cose… È venuto lui, no, subito, solo che ha portato i numeri. Cioè cinquanta pantaloni al giorno faceva ridere. Lui era uno da mille capi al giorno, capisci? E allora ci siamo attrezzati e il discorso è partito. Fino agli anni, perché non facevamo i jeans, il jeans è venuto dopo. Però ho fatto questa azienda, si chiamava confezioni Tacchella». 

- E facevate pantaloni per grossisti, no? Alla fine, è partito tutto così? 

«Facevamo pantaloni per grossisti. E abbiamo fatto il nostro campionario alla fine il primo campionario l’abbiamo fatto subito, dopo…ah sì, quando ci siamo trasferiti lì nella casa nuova, avevamo più spazio perché avevamo l’80% del piano sopra ma poi c’era tutto lo scantinato per cui, nello scantinato sotto che era tutta la casa, avevamo il taglio e il magazzino, la confezione era tutta al primo piano. E l’abbiamo iniziato a fare un campionario nostro, perché avevamo preso contatto con i Sait, che è una realtà trentina, il quale era interessato… Anche lui aveva un reparto tessile che serviva tutte le marche della zona, per quello faceva i pantaloni di velluto alla zuava, perché specialmente i ragazzi, perché era il pantalone del momento. Per cui siamo andati in contatto con loro e loro ci hanno assicurato un certo assorbimento, no, per cui, sapevamo, conoscevamo i fornitori perché questo signore con cui avevamo iniziato a lavorare e praticamente lui ci diceva: Andate a prendere il tessuto là che era Bellora allora, andate là, prendete il tessuto, cioè lui lo ordinava, dovevamo andare a prenderlo, per cui conoscevamo Bellora, conoscevamo tutti i fornitori, ecco, è stato facile fare un piccolo campionario, i campioni li facevamo noi… e allora abbiamo iniziato subito con questo campionario per lavorare coi Sait[3]; e Sait non era propriamente un suo cliente. Lui serviva il Trentino-Alto Adige ma non serviva… Serviva i negozi, non… perché lui fosse un grossista lui, no? Cioè: se un grossista serve i grossisti, c’è il doppio dei costi. E Sait comperava… Per cui noi ci siamo inseriti tranquillamente. Poi, quando c’è stata la famosa inondazione di Firenze [4 novembre 1966, nda], noi avevamo fatto, presso questo rappresentante... Avevamo preso uno di Trento, un rappresentante che seguiva Sait, che bisognava anche seguire, non è che… E a casa sua, nello scantinato, avevamo fatto un deposito. Facevamo un po’ di capi, e metti là. E man mano che gli serviva... E dice: Quella zona là è andata sotto l’acqua, si è allagata tutta. È stato il primo battesimo di sangue, e però comunque ne siamo venuti fuori». 

- Invece quand’è che siete andati negli Stati Uniti a vedere come lavorava la Levi’s?  O è stata anche quella una casualità? 

«No. C’era andato mio fratello e [Roberto] Luison [responsabile tecnico della Carrera, nda], ma parliamo degli anni… Siamo già negli anni ’75, ’76». 

- Dieci anni dopo, quindi? 

«Sì, e lì comunque è partito. Negli anni Settanta ha cominciato i jeans. C’era già in Italia la Rifle, i Roy Roger’s. E gran parte erano jeans che venivano dall’America, no? La Levi’s… questi qua, noi che avevamo questo piccolo campionario, avevamo conosciuto il famoso Vallesusa allora che faceva tessuti eccetera e che cominciava a far jeans. Cominciava a far tessuto jeans per cui non solo farlo, doveva trovare anche i clienti, no? Cioè non poteva… Perché sen non hai i clienti tu puoi fare quello che vuoi… pertanto eran venuti a trovarci eccetera, abbiamo iniziato una collaborazione con loro. E abbiamo cominciato a fare i primi jeans. A questo punto si è posto un problema, cioè poi era semplice: come lo chiamiamo? Come lo chiamiamo il jeans? Lo chiamiamo Fratini, lo chiamiamo Rifle [il Gruppo Fratini dei fratelli Giulio e Fiorenzo Fratini, nda], Facis, e noi? Anche perché… Proprio era il momento in cui era la Carrera la Porsche Carrera aveva vinto la Panamericana, la corsa messicana eccetera, ci è piaciuto il nome e l’abbiamo chiamato Carrera, un capo sportivo, un capo eccetera. E abbiamo messo quel nome lì». 

- Chi ha avuto di voi l'idea del nome? O è una cosa nata insieme? 

«Sa, adesso ricordarsi… ’ste cose qua nascono, no?». 

- Eravate appassionati della macchina, ma la corsa la seguivate? La Panamericana in Messico? 

«No, si parlava… e c’era la corsa l’aveva fatta la macchina Carrera. E per festeggiare questa qua ha fatto la macchina Carrera che era abbastanza…». 

- È forse la più bella delle Porsche… Questione di gusti, però e bella… 

«E conoscevamo, avevamo un cliente che l’aveva acquistata. Ecco perché…». 

- È così che ne parlavate, era per quello? 

«No, era venuto in azienda con la Porsche Carrera. E ce l’aveva fatta vedere. Una volta… tutti tendono a far vedere: ho comprato la Carrera… eccetera per cui lui era venuto lì, l’avevamo vista, non lo so se l’avevamo provata, non mi ricordo… e allora abbiamo detto: chiamiamo Carrera, no? Adesso dire son stato io, è stato mio fratello…». 

- No, solo per sapere se magari se lo ricordava. O magari sono cose che nascono così e basta. 

«Sì, allora: quando facevamo il campionario tutti i pantaloni avevano un nome, dipende, non so io mi ricordo alcuni nomi ma perché… per esempio il capo classico con le tasche tradizionali eccetera lo avevamo chiamato Lord». 

- Perché ti dava l’idea di eleganza… 

«Esatto. Facevamo questo. Dopo tanti si chiamavano col nome, non so può essere Franco, Antonio e cosa… Allora quando si faceva il campionario e si diceva: come lo chiamiamo questo? E normalmente avevamo preso una diciamo un sistema: questo campionario tutti per A, il prossimo campionario tutti per B, il prossimo… Perché allora se era in ordine, il capo si chiamava non so, “Carlo”, io sapevo che la C era l’autunno/inverno del ’70, per dire, no? Ecco. Abbiamo sempre schematizzato per facilitare, perché i nostri codici dovevano essere anche proprio…». 

- …immediati da usare.

«Ecco. E allora ci si, quando si faceva il campionario, si prendeva il capo, si… come lo chiamiamo? Ti come lo chiameresti? Tu? Uno diceva una cosa… Quando più o meno, tanto non aveva importanza, che fosse… quando quadrava, poi quando abbiamo messo nome Carrera mica sapevamo che sarebbe diventato Carrera, per noi era un jeans che dovevamo dargli un nome, come… Cioè, dopo…». 

- Mi viene da sorridere perché la vita è imprevedibile, no? 

«Sì. Cioè non è stata una scelta frutto di uno studio eccetera. È stata una scelta casuale, che capitava la C. era la lettera C. se invece di essere la lettera C fosse stata la lettera… un’altra, non si chiamava Carrera. Ecco. Questo… adesso vado a memoria perché parliamo di quasi cinquant’anni fa, per cui non è facile… va bè. E comunque, o può darsi che fossero anche altri e comunque c’era piaciuto, era un capo completamente nuovo… era facile quello che ci ponevamo era, anche l’abbinamento che avesse un suo seguito no?, un suo senso. Allora sto qua è un capo sportivo non posso dargli un capo non so… di papa Giovanni per dire, no? Cioè al di là non era mai associato. Hai Carrera e dai questo nome sportivo. E l’abbiamo chiamato Carrera. Lì poi si è posto questo però ci ha creato poi una cioè mentre i pantaloni quegli altri erano… i jeans le variazioni sui jeans erano variazioni su quel capo lì. e lì abbiamo mutuato da Levi’s. che la Levi’s chiama tutto Levi’s 501, 510 eccetera. E noi abbiamo cominciato a chiamarlo Carrera 700, 701, 702, non so… perché la struttura era struttura di confezione le tasche erano uguali, il taschino eccetera, cambiavano solo le forme, no? Ma sostanzialmente il capo era quello». 

- Io li ho avuti per tanti anni, quindi me li ricordo bene. 

«Ecco, allora. Anche per facilitare i clienti perché poi se hai un capo li chiamavi con un nome, n’altro capo non so se l’avessimo chiamato “Porsche”, non so, o Maserati eccetera, il cliente faceva fatica. Allora abbiamo messo il nome e abbiamo cambiato solo successivo, nelle varianti abbiamo messo i numeri. Cioè diventato Carrera… a un certo punto la nostra produzione era 80% Carrera e 20% suddivisa… parliamo sempre di… ma è stato una roba brevissima, nel giro di due-tre anni tutte queste cose sono avvenute, perché noi abbiamo avuto un picco…». 

- Ma l’avevate pubblicizzato tutto questo, perché sennò il picco come arrivava? 

«Adesso arrivo. Lei ha fatto una domanda molto…». 

- Perché poi arriviamo al famoso discorso degli slogan eccetera. 

«Allora dobbiamo inquadrare tutto nel tempo. In quei tempi là. Nei nostri settant’anni di vita perché abbiamo passato tante di quelle cose… ho fatto riferimento prima, ha cambiato il modo di portare le bambole, è uscita un’altra cosa, ormai le conoscenze erano mondiali, la fabbrica la Mattel era presente anche qua per cui ha cambiato… Lo stesso discorso era nella distribuzione. Allora noi abbiamo scelto la distribuzione tramite l’ingrosso. Perché? Era quello il ciclo lì a Verona … cioè i veri negozi son nati a partire dagli anni Novanta. Prima, sì c’erano i negozi di paese di un certo livello però le firme erano tutte in difficoltà. Tante firme son chiuse, dopo han avuto l’esplosione mondiale ma finché non abbiamo avuto un mercato internazionale di un certo livello, era… non esisteva la grande distribuzione, per cui la distribuzione era frazionata e si diceva un negozio sotto ogni campanile. Pensi alle migliaia di negozi che chiudono tuttora». 

- Dopo su questa cosa del campanile ci torniamo. Perché volevo chiedere quando arriviamo al ciclismo, perché copi avevate come idea prendere corridori a livello internazionale: Roche in Irlanda, Schepers in Belgio. Dopo ci torniamo perché è importante. 

«Siamo già in un altro periodo». 

- Era il concetto che mi piaceva: «Un negozio ogni campanile». 

«Questi negozi si rifornivano dal grossista. Dove in tutte le città c’erano sette-otto-dieci grossisti che facevano da distributori per le aziende, cioè distribuivano tutte… tante marche, no? Allora se l’esplosione dove è avvenuta? È avvenuta lì, no? Certo: tu prendi il grossista, il quale dietro ha cinquecento negozi… prendi un grossista a Milano ne ha duemila. Prendi un grossista ne ha… cioè noi ci siamo trovati nel giro di pochissimo tempo ad avere delle richieste… noi abbiamo passato un periodo che avevamo clienti che aspettavano i capi che uscissero dalla catena di produzione., tante volte ce li portavano via [ancora] da stirare pur di averli…». 

- Ah sì? 

«Sì, perché c’era quell’altro che rischiava di portarglieli via… Per dire, in quel tempo è stata veramente una… tra l’altro però c’erano due fattori. Perché adesso noi parliamo di ciclismo. Allora: i jeans anche per noi il modello jeans era importante, ma anche per noi il tessuto jeans era… non aveva una roba… noi facevamo con tutti i tessuti, rossi, bianchi, verdi, come adesso… c’era un’esplosione. E lì è stato importante per l’azienda per mio fratello eccetera operare insieme, come dicevo prima, a questo signor Brambilla. Perché in un mercato in cambiamento eccetera dove loro davano… cioè Brambilla e insieme… avevano creato una capacità di acquisto notevole. Cioè non so andavamo in una fabbrica e dicevano: in magazzino quanta roba hai qua? Eh, non so… centomila metri, facciamo una cosa: cosa ti diamo? Prendiamo tutto. Cioè noi portavamo a casa dei quantitativi enormi ma… perché c’era la produzione. Perché io mi ricordo che avevamo fatto un capo, devo avere ancora le etichette… Da bambino. Si ricorda che c’era il cavallo che si chiamava Furia?». 

- E certo: Furia (cavallo del west). La sigla la cantava Mal. Mi ricordo sì. 

«Abbiamo fatto un capo che portava le etichette Furia, un’etichetta col cavallo bello. Avevamo comprato nello stesso tempo da una grossissima, da una grossa azienda italiana tutta la produzione difettosa che veniva fuori. Tutta. Io credo che è venuta fuori tutta difettosa, perché a un certo punto non sapevamo più dove metterla. Un tessuto una specie di raso di qualità eccezionale, con tutti… non so quanti colori c’erano. Tutti insomma, arrivavano camion tutti i giorni, fortuna che poi si è fermato, costavano un terzo. E avevamo buttato sul mercato una marea di pantaloni e lì c’era la gente che aspettava, perché se mettiamo il mercato comperavano, devo avere ancora il listino da qualche parte di quella roba lì, li vendevamo a 1600-1700 lire il pantalone. Ma i nostri concorrenti lo vendevano a 2-2, 2-3. Ma sì perché avevamo questo duplice vantaggio: primo, che avevamo questa riserva quasi inesauribile di tessuto, allora e non è stata un’operazione… è stata un’operazione intelligente ma ha salvato anche loro. Mi spiego perché: didietro era un tessuto moto difficile da fare, perché era molto bello e una volta stavamo molto attenti, adesso sai hanno inventato il jeans rotto eccetera ma prima per imperfezioni… per cui di imperfezioni c’erano tante… il che ti obbligava a tagliarli, buttar via tessuti eccetera cioè. Era un… dei lavori per cui l’azienda normale non l’avrebbe mai comperato. Però noi abbiamo fatto i nostri calcoli e il prezzo che c’han fatto… perché non avrebbero venduto nessuno. Proprio era… un tessuto eccezionale, per difficilissimo da… ci volevano le macchine perfette perché veniva fatto col pelo appena appena un decimo di millimetro in più e faceva scena, no? Dopo qualche difettino di qui passava di più no, perché c’era questo. E quindi abbiamo fatto un’operazione diciamo di carattere commerciale, industriale, eccezionale ma non è che ne abbiamo approfittato non so nei confronti di fornitori eccetera però ci ha permesso di buttare sul mercato, che allora c’erano pochi fornitori, non è come adesso che c’è tutto il mondo che produce, di buttare sul mercato un pantalone che praticamente ci ha aperto le parte di tutti i grossisti, no? Perché chi non lo aveva, lo veniva a vedere… voglio vendere anch’io Furia, no? Siamo andati avanti un paio d’anni per far fuori i magazzini e questo ci ha fatto una marea di clienti. Cioè la “scala” è nata così, son quelle cose che nascono…». 

- Perché questi lotti difettati avevano il difetto e solo a voi è venuta l’idea e non ci ha pensato nessun altro? 

«Sì, perché allora è stata… per due… allora c’è un motivo di base: perché se io… noi siamo nati confezionisti, non siamo commercianti, siamo nati confezionisti cioè… allora se lei va nel nostro settore, i confezionisti son tutti terzisti. Cioè non c’erano aziende che avevano, noi abbiamo sempre avuto impianti industriale dall’inizio, per cui se io faccio afre questa cosa qua a un terzista non me la fa. Posso pensare che stia attento, te dise fatelo ti, cossa te vol in più… Capisci? Poi avevamo già raggiunto una dimensione nel nostro settore che era importante per cui avevo lo sbocco. Ma mica abbiamo detto tutto quello che vien fuori difettoso dallo a me, pensavo venisse fuori quella quantità lì… dopo quando… cioè non pensavamo neanche noi… a un certo punto ci siamo spaventati, arrivavano autotreni. Ecco. D’altronde quest’azienda era statale eccetera, l’avevano messa in… dovevano fare la programmazione, comprano la materia prima, fanno le macchine e le macchine quando cominciano a girare sono delle bestie. Cioè è stato un susseguirsi di… non che gli altri non… lo avrebbero fatto anche loro, difatti c’era qualche concorrente che era andato su a vedere, per guadagnare un po’ di metri ma diventava… perché poi noi prendevamo tutti i colori, eh. Cioè abbiamo fatto pantaloni viola, pantaloni arancio da ragazzo, pantaloni verde mela, non so cosa c’era, perché poi… C’era di tutto. Però il prezzo e la qualità dell’articolo… è stato una cosa incredibile. Ecco. Quello, unito poi ai jeans, che eravamo pochi che facevamo i jeans, lo vendevano molto più caro di noi, per cui eravamo assolutamente concorrenziali. Le porte si sono… Non ho problemi, Italia, all’estero vendevamo dappertutto. Quegli anni là. Tra l’altro in un mercato che in espansione perché si stava facendo questo travaso in una come si dice in inglese, con una generazione… il baby boom, no? Quelli nati subito dopo la guerra, del 46,47,48-50, gli anni Settanta avevano meno di vent’anni no’ o vent’anni, venticinque. Per cui era lì nato… Non avevano concorrenti dall’estero perché non c’era motivo d’andar a far fare dei pantaloni all’estero, dove? In Romania? Allora costava di più che farli qua, cioè… È stato facile. Facile nel senso che abbiamo fatto delle cose oculate se con molta attenzione. Ma allora eravamo, ripeto, quello che nessuno dà importanza eccetera, io devo dire che non abbiamo fatto discussione ma il lato diciamo l’insistenza con cui mio fratello ha sempre difeso l’industria cioè lui dice io considero uno per funzionare deve sapere com’è il processo produttivo. Deve sapere come… cioè tutto sommato se le deve fare lui le cose. E poi le farò vedere». 

- È questo che viene sottovalutato? Che la gente non dà il peso giusto? 

«No, perché prenda quello che io considero il massimo dei nostri, che è Armani no? E perché possiamo parlare però quello che fa Armani è veramente sembra che sia toccato da dio, no?». 

- Come qualità parliamo? O d’immagine 

«Ma anche d’immagine, di tutto. Cioè oggi un capo Armani lo vende dappertutto, prendi un capo Dolce & Gabbana eccetera a quelle persone che devono far vedere che han speso i soldi. Cioè io non sono un intenditore ma voglio a vedere una vetrina Armani». 

- E li riconosce subito? 

«No, e dico be’ questi capi qua me li metterei anch’io o anche mia moglie, li metterei anch’io anche se sono un po’ spinti. Mi fermo davanti, per dire, a Gucci eccetera, non mi sognerei mai, o Stefanel eccetera. Invece lui è bravo. Bravo nei tessuti eccetera. Cioè lui… Dolce & Gabbana, comunque prendi quello che vuole. Nessuno ha il laboratorio, eh. Tutti vengono “costruiti”. Oggi i capi e le firme vengono costruiti dai cinesi in Italia, mica… Sembra quasi assurdo che il made in Italy sia fatto dai cinesi. E noi vendiamo il made in China». [sorride ironico, nda] 

- Qua arriviamo anche al discorso biciclette. I famosi “artigiani” italiani… 

«Capisci? Per cui questa sua passione che se l’è portata dietro perché noi abbiamo uno stabilimento, due stabilimenti i Tagikistan che sono veramente… dopo andiamo, va bè, dopo parleremo di questi. Ma per tanto noi eravamo arrivati ad avere 10-12 stabilimenti in Italia, eh. Funzionanti, compresa la tessitura. Ché avevamo comprato una tessitura in Valle Susa». 

- Uno anche a Urbino? 

«No, a Urbino invece era un’altra cosa. Perché a un certo punto non ce la facevamo più, cioè i nostri stabilimenti non erano sufficienti a poter far fronte a quella che era la richiesta. Nel frattempo, parliamo di Urbino, Urbino era diventato un polo produttivo». 

- Perché proprio Urbino? 

«Perché don Corrado, che era un prete di là molto, spinto dalla stessa cosa che aveva spinto don Budini, cioè qua abbiamo una zona che ha bisogno d9i diventare una zona occupazionale, e lui era di Urbino – di Urbania, no: Urbino – e tutta quella zona lì ha cominciato ad aprire il primo stabilimento per la produzione dei jeans. Noi quel periodo là avevamo messo, avevamo assunto come responsabile del prodotto, cioè curare il prodotto eccetera della produzione, un certo Eugenio Visonà [vedi p. 160 del suo libro, Il Bello dell'Italia, nda], che ha un anno meno di me, adesso è in pensione, il quale aveva lavorato dove facevano i jeans Jesus, la Vitale [di Maurizio Vitale, ideatore anche del marchio Robe di Kappa, nda], che poi è diventato Fila eccetera. Aveva lavorato lì, è venuto da noi e queste aziende non avevano strutture produttive, no? Tranne il calzificio, perché si chiamava Maglificio Calzificio Torinese [l’MCT, dello stesso Vitale, che significò il declino del mercato di contrabbando dei jeans, nda] per le calze sì, perché lì… e loro li producevano o facevano produrre i jeans a Urbania. Quando è venuto da noi che avevamo necessità di trovare nuovi laboratori, dicevo io li conosco… è venuto su e allora ci siamo messi d’accordo, praticamente noi abbiamo potuto aumentare le vendite ai nostri clienti perché avevamo a disposizione, potevamo contare su questi laboratori. La produzione di Urbania era arrivata a 15-20 mila capi al giorno, allora avevamo i camion che dovevano portarli su allora avevamo acquistato un capannone là e ai clienti il jeans lo spedivamo direttamente da là, senza fare il passaggio, farli venire dove lavoravamo qua o in città insomma, ci eravamo trasferiti da Stallavena, per dopo ricaricarli sul camion e magari portarli in Sicilia… Allora abbiamo… facevamo due modelli là e questi due modelli venivano consegnati direttamente ai nostri… anche perché i clienti mica comperavano come adesso, eh. Ti comperavano un camion di jeans alla volta. Adesso ti comprano col contagocce, è da piangere. Ma una volta mandavi i camion ai clienti. Per cui abbiamo ritenuto che… ma c’erano due cose: primo, far arrivare la materia prima, allora ci serviva un capannone di smistamento sennò loro far arrivare tutta la materia prima qua, loro venivano su con uno di quei camion, portarli a Urbania, con tutti gli accessori, cioè c’era un turismo di merci che sarebbe stato folle, visto il quantitativo che avevamo, e allora abbiamo portato… Anche se… Don Corrado è stato l’iniziatore. Ma dopo avevamo sette-otto laboratori che lavoravano per noi, cioè… nel frattempo è come i funghi, no? Nascono perché il responsabile eccetera si mette su… l’azienda delle confezioni, l’azienda di abbigliamento dicevano una volta che ha le ruote, e anche ora, cioè si trasferisce là dove la manodopera costa meno. È l’unica azienda fondata sulle ruote, anche perché non ha impianti fissi, no? Va ben, può essere lo stiro un impianto fisso, ma è una stupidaggine, si smonta ma tutto il resto son macchine autonome e posso… per cui il cioè è stata una necessità che abbiamo avuto in quegli anni lì di avere un centro distributivo delle merci, se vogliamo… pensare ad esempio tutt’oggi non so la Ferrero è stata… lo fan qua a Treviso, so spediscono da Treviso, la cioccolata la fan qua a Bussolengo, non la vede neanche la Ferrero, cioè per dire un nome, ce ne sono di aziende che ormai hanno delocalizzato anche certe funzioni per cui noi avevamo anticipato…». 

- Siamo arrivati al momento del viaggio negli Stati Uniti? O non è così importante, lo è più dal punto di vista folcloristico? 

«No, è importante allora potrebbe essere importante. Intanto bisogna inquadrare il discorso, la diversa organizzazione del lavoro tra l’Italia e gli Stati Uniti. Negli Stati Uniti, da sempre, che sono fautori della produttività eccetera, pagavano le persone a pezzo. Anche gli impiegati. Io mi ricordo le vecchie macchine contabili che avevano il conta-battute, cioè, non so, chi faceva contabilità doveva registrare… veniva pagato sui movimenti registrati, lì c’è la fattura tac e uno, registri un pagamento, mentre da noi è sempre stato impossibile, abbiamo fatto battaglie sindacali incredibili ma ci siamo sempre.. è sempre stato difficile trovare una soluzione. Perché? Perché… allora intanto abbiamo tre sindacati e qui… con… il che non facilità le cose, perché è sufficiente che uno dica di no e si rompono sempre… Il sindacato, purtroppo, il nostro sindacato è diventato, cioè nato proprio “puro”, nel senso che fa solo e unicamente pensa agli interessi degli iscritti, con una visione un po’ strana perché gli iscritti son tutti anche… e soprattutto gli iscritti son quelli che hanno più bisogno di esser sindacato, perché non hanno voglia di lavorare eccetera sono protettivi, no? Ecco. Quando veniva fuori il problema della produttività, di dare i premi-produzione eccetera era sempre uno scoglio insuperabile, perché non so avevamo studiato il premio a isole, il che vuol dire prendiamo un certo numero di fasi, mettiamo insieme un numero di persone, la somma di questi diamo un premio. Però nel premio all’interno ci sono tot persone allora c’è quella che fa 100, quella che fa 105, quella che fa ottanta, allora se quella che fa 105 se quella là non produce di più io non voglio mica lavorare per lei, però se nella somma non va in produzione per tre persone, è una battaglia. Capisci? Perché se non raggiungi il… Perché tre persone fan… Poi ne trovi sempre tre che non lo fanno. Abbiamo sempre provato ma l’inserimento del premio produttivo, per la produzione, era un’utopia. Però quando ci si calava nella realtà, non c’era versi. Avevamo fatto i tabelloni con le produzioni, poi litigavano, cioè era più fonte di contestazioni eccetera con il sindacato che “lui” difendeva che la sua cioè praticamente difendeva… Noi abbiamo stipendio-base, ecco se… diceva io mi batto per lo stipendio che tutti prendono il giusto. Il fatto della produzione: è un fatto aziendale, problema vostro. Cioè tendeva a rompere le responsabilità, no? Siete voi azienda, dovete mettere voi in condizione i lavoratori che aprono la produzione. Io proteggo i lavoratori. A questo punto, l’intesa è sempre difficile, capisci? Per cui noi avevamo in una azienda in cui si lavora su no a secondi, no neanche a minuti, dove in una fase può durare venti secondi, dieci secondi eccetera, capisci che se per fare una certa cucitura, non so una ragazza impiega dieci secondi, quell’altra ne impiega dodici, quell’altra ne impiega otto… bisogna organizzarlo, bilanciarlo, è tutta frazionata, no? perché sembra di no ma produrre un jeans come produrre un… comunque ti richiede un certo numero di macchine speciali, cioè tutto ormai le macchine… la macchina tradizionale… che fa la cucitura è finita perché son pieghe, per cui son tute macchine particolari eccetera. Ma mentre in America son pagati a pezzo. Allora se tu producevi la metà, prendevi la metà, in America. Questo conto [qua] non c’era. Perché anche assumere una persona in più o due non mi interessava niente, perché tanto che questa fase prodotta da una persona, mettiamo da tre persone, o da sei non interessava niente. Perché quella fase lì costava uguale. Costava la somma…». 

- Lei quindi è per il sistema americano? Perché entrambi hanno dei pro e contro… 

«No, io devo fare i conti su costi certi. Gli americani mi fanno il conto su costi certi. Noi non riusciamo a farlo. Perché l’americano sa che comunque attaccar la tasca ti vien un dollaro. Esempio. Ma da noi poteva costar un euro e venti, un euro e trenta. Magari c’era la ragazza che faceva… Cioè: mediamente mi costava un dollaro e venti, un dollaro e trenta, no? O quello che era. Per cui c’era questa situazione che, finché non hai competizione in giro per il mondo, il discorso… È un po’ quello che ha sempre condannato il sud [italiano], no? Cioè il sud, mi trovo bene, ci vado, però non è che abbia lavoratori… Come non possiamo pensare all’Egitto... Cioè quando andiamo verso il caldo eccetera, il problema si pone. Si pone di questa… Bel cielo e quanto… E allora, se non fai le gabbie salariali, se non hai almeno una parte dello stipendio che è legata alla produzione, in strutture come quelle dell’abbigliamento in cui, diciamo nella costruzione di un capo, il costo del personale è il costo più pesante che hai, non è facile fare i conti. Perché un conto è avere, non so, faccio un esempio stupido, il mangime per un mese. Per esempio no? Che ogni operaio costa sì e no… La manodopera costa il 2-3% del volume d’affari, uno produce "uno" o più del meno, ha un’incidenza di poco. Ma se la manodopera mi costa il 60%, ho una variazione di costi… Capisce che... Diventa una variazione pesante. Era solo per fare… Per cui siamo andati a vedere. È andato mio fratello [Imerio] a vedere come si costruisce, come si lavora. Sono andati a visitare dei laboratori negli Stati Uniti. Non è difficile, bene o male, poi noi stiam… Quelli delle macchine avvisano: Guarda che arriva... Non è che… Sotto le spoglie di "coso", uno si prende l’etichetta, io sono… No-no, sapevano… E non sono venuti a casa entusiasti: Non c’è niente, sono più indietro di noi, anche se hanno costi minori, perché noi in… Lì è stata la genialità, diciamo, di mio fratello. Con un meccanico che si chiamava Benetton - era di Treviso anche - Un meccanico che avevamo assunto, bravo, a lavorare. Hanno a messo a punto una serie di attrezzature che, applicate alle macchine, semplificavano il discorso. Le faccio un esempio». 

- Come se le aveste brevettate voi? 

«No, non le abbiamo brevettate. Perché tante erano nate... Una serie di aziendine, qua a Verona che facevano certe applicazioni. Cioè: se io devo piegare una cosa, a mano non riesco, allora bisognava fare [in modo] che il tessuto, andando dentro, prendesse una certa piega. E poi veniva fuori a posto. E lì hanno inventato…». 

- È questo Benetton che ha “inventato”… 

«Non l’ha inventato, ma sono tuttora in esercizio in tutto il mondo. Non so, per esempio quando si lavora a tempi ristretti a dieci di secondi, non è… I tempi morti rischiavano di diventare più alti. A noi i tempi morti più alti pesavano, agli americani no». 

- Perché loro pagavano a pezzo. 

«Cosa intendo per "tempo morto"? Ad esempio, adesso io faccio un’operazione, faccio una cucitura abbastanza no? Arrivo in fondo, quando ho finito devo tagliare il filo, prendere il pezzo, portarlo in mano, mettere su un carrello, prendere un altro pezzo e infilarlo, spesso era più lungo fare certe operazioni che cose… Cosa ha fatto? Son andati da noi, hanno fatto delle pinze che prendevano il tessuto, quando il tessuto usciva dal… Automaticamente, si tagliava il filo e la pinza faceva l’operazione - tac -, e la impilava di là. Quando andava lo lasciava e veniva di qua, capisci? Questo per dire… Perché a volte, sì, bisogna entrare anche nella… Come si dice?, cioè sapere come… Per esempio, quella lì è stata una di quelle… Tuttora ci vengono fatte dappertutto. Non c’è macchina per cucire che, dietro, non abbia questa apparecchiatura, che è un braccio che… Quando tu dai il colpo per tagliare il filo - perché poi sennò... - prima bisognava andare là con le forbici a tagliare il filo… Come tagliava il filo, partiva. Invece così lo prendeva come arrivava lì e lo metteva di là, nel frattempo tu prendevi quell’altro, e riducevi. Intanto anche fisicamente, perché: mettilo dietro la macchina, prendi il coso… Riducevi. Un’altra apparecchiatura che è nata lì è stata quella per raddrizzare i pantaloni. I pantaloni si cuciono al rovescio. Quando si chiude, si chiude al rovescio, non per dritto. Dopo, bisogna raddrizzarlo. Allora noi avevamo le persone che lo facevano a mano. Allora, dice: Dobbiamo pensare qualcosa per raddrizzarli. Perché comunque lo devi fare. E hanno inventato una macchina: tu prendi il pantalone - ha due tubi che glielo infili -, metti il fondo dei pantaloni all’interno dei tubi, quella aspira, li raddrizza, tac! E li tiri fuori. Stupida, magari l’avrebbero inventata, ma son nati da noi. Capisci? Puoi anche brevettarlo, ma tanto, fatti i conti, lo facevano dappertutto, perché è una stupidaggine: cambi i tubi eccetera. Ma avevamo questo vantaggio, almeno di qualche mese. Perché poi i meccanici andavano fuori, uno lo vedeva e lo faceva subito, no? Ma non è questo... Questo è indice che c’era una struttura di ricerca. Una struttura che andava, e soprattutto di equilibratura. Cioè: quando io faccio una linea di pantaloni, la devo dividere in tante fasi, e queste fasi devono essere bilanciate. Se, per esempio, io da - mettiamo - faccio mille pantaloni al giorno e la macchina che attacca le cinture può attaccarne al massimo trecento, vuol dire tre persone per fare quella quantità lì. Se quella per fare le tasche me ne fa cinquecento, me ne occorrono due, allora deve fare una linea che sia bilanciata, in modo che la persona, a volte, ha delle persone che "giocano" su due macchine. Cioè può avere due macchine… Allora più i numeri son grandi, più è facile, per collegare una persona che sia… Per cui devi far le "isole". Cioè, è tutto un discorso... Ma se hai numeri piccoli, non è mica facile bilanciare. Se io, facciamo un esempio,  faccio 400 pantaloni al giorno, che è già una bella aziendina, e quella delle cinture me ne fa trecento, vuol dire che io ho poi 1,20-1,25 a persona, poi davanti ho quella che me ne fa 600, vuol dire che ho 0,80… Se manca una di quelle lì, non è facile… Noi potevamo fare queste linee abbastanza regolari, perché avevamo i numeri. Cioè, noi a Stallavena, con 180 persone, facevamo 9.000 pantaloni al giorno. Quando dico "novemila" vuol dire dal taglio alla scatola, eh». 

- Centottanta persone facevano novemila pantaloni al giorno? Completi?

«Inscatolati. Credo che neanche sian mai più stati raggiunti quei numeri. Perché non ci son più i numeri. Sì, però capisce che, quando facevo la taglia 46, erano tutti 46? Il che vuol dire che: i passanti, ce ne vanno così; quell’altro… Cioè: c’è tutto un discorso, eh. Se invece ne faccio novecento... Se invece ne devo fare, e faccio, novemila pantaloni al giorno e però devo farne duemila del modello A, tremila del modello B, ma guarda caso il modello B ha le tasche messe in un altro modo, io lì devo cambiare le macchine. A ’sto punto qua, i tempi morti diventano pesantissimi nella gestione della parcellizzazione, no? Perché finito… Cioè: se io passo da un modello all’altro, devo rivoluzionare mezza linea di produzione. Se me occorre mezza giornata per fare… Capisce?». 

- Tutte queste cose le ha trasmesse a suo figlio Gianluca? 

«Mah, Gianluca adesso è cresciuto, quindi conosce… È più, come si dice?, commerciale, amministrativo eccetera. Anche perché mio fratello è ancora sulla breccia. È partito adesso per andare in Tagikistan. Va ancora avanti-e-indietro. E adesso devo pensare anche a quello, perché, cosa vuoi... Ma adesso abbiamo i ragazzi [i nipoti, nda] che devono andare all’università, per cui devono scegliere cosa fare…». 

- Com'era successo a voi fratelli. 

«Se ci pensano, sennò decideranno. Perché, io dico sempre: Guardate che noi non vi… La vostra vita ve la scegliete voi. Mia figlia è andata a far l’insegnante, le piaceva far l’insegnante e ha fatto quella strada lì. E son contento che l’abbia fatta». 

- Che cosa insegna? 

«Insegna inglese. Lei parla le lingue, però ha fatto questa scelta qua, in azienda non ha mai espresso la sua… La figlia di Gianluca adesso va all’università, sta per fare medicina. Spero la faccia bene. Dopo, tutto il resto… A parte che adesso la famiglia si allarga, per cui non posso mica pensare di fare tutti...». [ride, nda] 

- C’è ancora una tappa dell’azienda, poi entriamo nel ciclismo. L’ultima tappa prima di entrare nello sport. Lei mi ha citrato il Tagikistan. Voi avete cominciato a delocalizzare ancora prima che la parola venisse inventata. E figuriamoci in certi Paesi. Mi racconta? 

«Sì, noi abbiamo cominciato a delocalizzare negli anni Ottanta. Esattamente nel ’78-79. È stata una … avevamo acquisito delle aziende dalla Châtillon [S.p.A.] che poi era diventata… [Montefibre S.p.A., nda], be’ comunque era Châtillon non so se ne ha sentito parlare. Era una grossa azienda, delle più grosse tessili eccetera. E aveva un’azienda, a Malta, che faceva prodotto biancheria da donna. È stata la prima. Sono andati in ferie che facevano biancheria, sono tornati dalle ferie che facevano jeans. Il 20 di agosto, mi ricordo, son stato giù anch’io a portar delle cose là, coi miei figli [Gianluca e Annalisa, nda]. E l’abbiamo trasformata in jeanseria. C’erano 120-130 persone che lavoravano lì ed è passato subito, in maniera… Molto bene, erano gente già abituata a lavorare. Siamo in un’isola strana, perché fa caldo ma, essendo un’isola, fa meno caldo del… Poi la gente, lì, sono inglesi eccetera. Erano più “inquadrati”, per cui le persone… Che l’abbiamo chiusa nel 2003-2004, ma non perché non funzionasse, Malta – sì, ormai cominciava a essere al limite, diciamo, delle redditività – ma perché non avevamo più personale. Perché a partire dagli anni Duemila, Malta ha fatto una politica del Turismo molto forte. Lì ci sono quattro-cinque alberghi a cinque stelle, grandi alberghi, c’è il casinò, poi loro parlano inglese per cui…». 

- Tanti britannici vanno in vacanza lì… 

«Sì. Per cui ci siamo trovati che a un certo punto, allora la retribuzione di una… diciamo la retribuzione mettiamo 100, no, chi lavorava da noi prendeva 100 in un anno, chi andava a lavorare in albergo prendeva 100 in sette mesi. Prendeva la stessa cifra lavorando sette mesi. Perché Malta diciamo che da marzo a novembre sono aperti poi c’è una riduzione anche da loro, capisci? C’è stato un esodo no? E noi non potevamo aumentare gli stipendi. E allora la cosa non è successa a noi, era generalizzata a tutti, a tutte le fabbriche, che si trovavano disperate perché continuava ad andar via personale e di nuovo non ne veniva più. Allora io ha fatto un accordo lì maltese che faceva abiti da uomo che era anche un po’ più… E ha assunto tutto il nostro personale e abbiam chiuso Malta. Poi abbiamo fatto una in Marocco, a Tangeri, insieme con quella eravamo in società con una famiglia importante, loro non erano marocchini, loro erano etiopi, non so però una famiglia sparsa, avevano attività in Turchia, attività in America». 

- Come avete avuto il legame me l’ha spiegato, invece con il Marocco? 

«Il legame con questo qua, loro avevano un albergo a Milano, penso che ce l’abbiano ancora, non mi ricordo il nome dell’albergo, in centro a Milano, di una via importante insomma, un bell’albergo. E erano amici, diciamo amici insomma li abbiamo conosciuti attraverso un imprenditore tessile di Bergamo, Pezzoli, che lavorava… che aveva la fabbrica vicino a noi a Malta, lui fa tessuti ce l’ha ancora. E si vede non so che era amico di questi e insomma mio fratello l’ha incontrato e dice: ma perché non possiamo far qualcosa che avevano la famiglia che si era spostata come quartier generale, aveva una villa lì proprio sulle Colonne d’Ercole, bellissima. E abbiamo fatto l’azienda. L’abbiamo costruita ex novo, fatta bene. È andata avanti un bel po’ d’anni. Lì’ facevamo abbiamo avuto anche 140-150 persone. Poi praticamente Tangeri è andata fuori prezzo nel senso che anche lì hanno costruito dappertutto, io ho avuto modo, son andato, non la conoscevo più, i prezzi son andati altissimi. Loro, i nostri soci lì, avevano messo su un’attività che arrivavano nel periodo da settembre a dicembre anche a mille persone nella pulizia dei gamberetti. Arrivavano gli autotreni di gamberi congelati dal nord Europa, li portavano – facevano la Spagna – e dopo li portavano lì a Tangeri, li lavoravano cioè praticamente li pulivano e li mettevano nelle… li portavano un’altra volta nei frigo. Lì riportavano su in Olanda non so che cosa e là con le scatole sgusciati eccetera. Da settembre a ottobre arrivavano anche mille persone che facevano quel lavoro lì. E quindi era molto più interessato ai gamberetti che a portare avanti un’industria che stava facendo fatica. Cioè i costi di Tangeri coi costi della Tunisia son più del doppio no? C’era un divario ormai enorme. E per cui l’industria o si doveva spostarla giù verso Casablanca, quelle zone là che, ma Tangeri è una città importante commercialmente, le persone si “vendono” care insomma mica… Per cui a loro non interessava, cioè a un certo punto l’azienda tessile era secondaria per loro. E per cui noi avremmo dovuto pagare un costo, secondo loro, che noi non ci stavamo dentro, tra l’altro avevano loro la maggioranza, mi sembra che avessero il 60-65% per cui non… cioè non hai tanta voce in capitolo, capisci? Allora sostenere una cosa… abbiamo detto: pensaci tu. Vuoi chiuderla, chiudila. Han chiuso e basta». 

- E invece il Tagikistan. 

«Il Tagikistan invece qua entriamo in un capitolo completamente nuovo. E queste sono tutte nate, sia Tangeri sia Malta negli anni Ottanta. Malta è andata avanti fino al 2002-2003, invece Tangeri è andata avanti fino al ’94-95. E dopo… nel frattempo alla fine dell’89 è caduto il Muro di Berlino. E tutti contenti che è caduto il Muro di Berlino, anche noi si apre tutto un mercato nuovo, chissà quanto andiamo a fare. E neanche il tempo di accorgersi, ci ha messi in crisi. Perché: l’economia comunista era un’economia chiusa per cui era un’economia fatta, strutturata, dove lo Stato pensava a tutto. Cioè la fabbrica non aveva i costi. Io mi ricordo quando siamo andati là, la fabbrica veniva lo Stato faceva la fabbrica, dava la corrente elettrica, dava gli accessori. I prodotti della fabbrica andavano allo Stato ma non aveva un conto economico, lo Stato: pagava i dipendenti. Cioè i costi loro non sapevano neanche cosa fossero, i costi. Quando è caduto, tutto questo meccanismo si è sgonfiato. Si son trovati con cattedrali, con persone senza lavoro, qui comunque attrezzate perché non è che avessero, a parte che nelle confezioni non c’erano questi grandi investimenti. Quando… si sono riversati qua, no? E questa gente ha cominciato a fare… a fare come in Jugoslavia, solo che i prezzi che qua corrispondevano erano ridicoli rispetto a… Parliamo di un decimo di quello che ci costava a noi un operaio qua. Cioè il costo di fabbrica in Jugoslavia, a quel tempo là, era un decimo. Un decimo più o meno per cui un jeans che io facevo velocemente, mettiamo in undici minuti, mi costava undici minuti, se era mettiamo che era 500 lire per minuto, mi costava 5500 lire, per cui se loro invece mi impiegavano 22 minuti, a cinquanta lire al minuto, invece di 5500 costava 1100: non c’era più proporzione. Io mi trovavo ad essere presente sul mercato dove i miei concorrenti vendendo a prezzo molto più basso di me guadagnavano. Ci stavamo rimettendo delle cifre folli per tenerli in vita. Non c’era… possibilità di via di mezzo. Parliamo di un prodotto popolare cioè dopo… Per cui siamo stati costretti nel giro di un paio d’anni a smantellare tutto. C’è costata… Fortuna che avevamo tutte le strutture, tutte le industrie, capitalizzate nel senso che avevamo proprietà anche dei muri, delle macchine, non avevamo debiti. E tutte le nostre fabbriche, i laboratori non avevano debiti, eravamo proprietari di tutto… sì erano capitalizzati sì diciamo e allora vendendo i muri, i muri abbiamo pagato tutto. Il problema è che sono rimasti lì dei quantitativi di macchine che non voleva nessuno perché erano macchine dappertutto, no? Cioè tu non vendevi a nessuno le macchine…». 

- Ma quando lei, mi corregga se sbaglio, ho letto dei 45 miliardi di debiti… quelli a che periodo risalgono? 

«No, lasci stare». 

- Magari è sbagliato quello che ho letto.

«No, non è sbagliato ma se io guardo il passivo e non guardo l’attivo, che discorsi sono? Sì, avevamo i debiti verso le banche e cosa, ma dall’altra parte c’erano buchi...» 

- È dovuta intervenire quella banca… Come si chiamava quella banca, la BIL (Banca Industriale Lombarda), no? 

«Sì, ma la BIL ha fatto solo da traghettatrice, allora quando, scusi, è intervenuta, ma non ci han mica dato niente nessuno. Non è che è stato fatto un concordato eccetera. È nato… perché quando succedono queste cose qua, tutti sanno dare i consigli dappertutto e le banche ti dicono: eh no, se non c’è questo, se non c’è quell’altro, dobbiamo mettere il responsabile, dobbiamo mettere il custode, dobbiamo chiamare… perché è ovvio che se io ho un capannone come era quello lì che si è… lì di 30 mila metri quadrati, eh, non è che domani mattina che viene lì. cioè occorre il suo tempo, bisogna trovarlo, bisogna vedere. O il capannone di Stallavena, o questo qua, o quelli di Povegliano, hanno un valore…». 

- Certo: quindi lei si è trovato che ha venduto i muri, e va bene. E delle macchine che non riusciva a piazzare che cosa ha fatto? 

«Le ho portate in Tagikistan. Ecco perché è nato il Tagikistan». 

- Ma lei prima mi ha detto che avevano un sacco di macchine che all’improvviso erano inutilizzate, ma erano vecchie? Quando è caduto il muro? 

«Non c’entra niente. Io sto parlando… sono cadute di cose diverse. Ma non stavo parlando, in questo momento, del Tagikistan, stavo parlando della Jugoslavia. Perché è da dire che sono andati tutti in Jugoslavia, poi in Ungheria e Polonia adesso… man mano che questi fornitori aumentano i costi ecco che la macchina si sposta più in là. Il Tagikistan era fuori dal mondo. Cioè… In Tagikistan… abbiamo scelto il Tagikistan per un motivo… io non sapevo neanche che esistesse. Abbiamo scelto il Tagikistan per un motivo molto semplice: con questo crollo dell’Unione Sovietica, queste repubbliche si sono trovate praticamente alla mercé di nessuno. Allora siamo stati avvicinati perché comunque è sempre lì c’è una storia che è legata alla vodka, all’imbottigliamento, cioè praticamente è nato così. Loro producevano vodka, però l’imbottigliamento era a Mosca per cui praticamente loro avevano la vodka ma non avevano le bottiglie per cui potevano solo berla. E basta. Allora han cercato chi faceva, chi dava l’impianto di imbottigliamento ma quello voleva i soldi. Loro non avevano soldi, perché avevano rubli e non li voleva nessuno. Allora avevano cotone, allora … noi avevamo la tessitura, allora noi prendevamo il cotone pagavamo il cotone a loro e loro compravano le macchine, la fabbrica come è nata? Ci siamo conosciuti allora abbiamo detto: noi mettiamo i muri, muri strutture eccetera, voi mettete le macchine e la cosa. Allora noi avevamo le macchine, un sacco di macchine, abbiamo portato le macchine là, capisci? I primi tempi ci hanno dato un po’ di cotone per bilanciare, perché poi loro dopo sai queste cose qua, quando si lavora con gli Stati è come lavorare… perché se dici: le mie macchine valgono un miliardo, facciamo, cosa facciamo un accordo da un miliardo è ridicolo, allora fa: i miei capannoni valgono dieci miliardi, bene: le mie macchine valgono dieci miliardi. Cioè… capisce? Cioè è diventato un baratto, l’importante era che io… è come il solito due che cani e un gatto o quello che è, è nato come è nato, ma quello non aveva nessuna importanza. Importante è che noi abbiamo portato su macchine, gran parte delle quali stanno ancora lavorando – incredibilmente. Perché poi…». 

- Queste cose non le sa quasi nessuno, o le sanno in pochi.

«Capisce? Non è stato… La necessità, cioè è stata una necessità per noi perché così abbiamo salvaguardato… sennò le buttavamo via. Là c’erano i magazzini dappertutto, qua in Italia, pieni di macchine, io l’ho portate su, mio fratello è stato su dei mesi, non lo so come ha fatto, perché lui vivendo là… va bè, è stato bravo comunque… È stato bravo per due cose: perché siccome lui non sa le lingue, cosa ha fatto? Ha dovuto prima di tutto dire: io adesso per guadagnare devo essere in grado di parlare con qualcuno?». 

- Si è messo studiare il russo? 

«No, studiare il tagiko-russo, no… Ha il suo lavoro, è impegnato a… ha preso una signora ucraina [l’ingegnere ucraina Galina Shestova, nda], c’è ancora, che parlava l’italiano e il russo eccetera. ’sta qua gli ha dato, era la sua segretaria eccetera e l’ha fatta anche responsabile della… e insegnava italiano, allora avevamo le maestranze e i responsabili che parlavano italiano. In modo che ma sì perché si è posto, ma giustamente: io mando su un meccanico, con chi parla? Adesso, ragazze… non sapevano neanche l’inglese per cui anche se diciamo se avesse avuto l’inglese, serviva a niente perché là non si parlava inglese. Là si parlava russo e tagiko. Per cui noi abbiamo in fabbrica tutti i responsabili parlano italiano. Tranquillamente, vengono giù, scrivono in italiano. È una seconda lingua, la terza lingua dopo il russo e tagiko». 

- E così dalla botta vi siete rialzati? 

«Certo. E dopo pian piano, sa, dopo in Italia è cambiato il mercato. Qua, è cambiato il mercato. Cioè son sorte le jeanserie, son sorte cose. Noi servivamo i grossisti, non siamo riusciti a entrare nelle jeanserie. Perché volevano… cioè…». 

- Qual era il punto, lì: perché? 

«Il punto non è il capo, è il prezzo. Carrera era stata, diciamo, la sua fascia di mercato è questa, per cui chi… le faccio un esempio. Noi avevamo uno stand alla Rinascente di Milano, negli anni… – ’95… non mi ricordo, che era un posto prestigioso. Tra l’altro conoscevamo una serie di presidenti che ci avevano un po’ facilitato, un giorno ci chiama e dice, un paio di direttori, dice; ritirano lo stand, perché non dà le vendite, cioè il fatturato che doveva fare. E a ’sto punto qua tu non hai nessuna… l’hanno smantellato. A un certo punto, poi… Un giorno si parlava, il problema cos’è? È che il modello decide la Levi’s, per dire, no? Allora mettiamo: la Levi’s incassava 100, noi incassavamo 70, per cui dicono. Perché devo dare il vantaggio a Levis’? dopo io vado a vedere i capi: Levi’s per incassare 100 vendeva mille capi, e io per incassare 70 ne vendevo 1500, no? Perché il mio prezzo era molto più basso, perché noi abbiamo la quantità però per quelle zone lì che guardano il fatturato, inteso come cifra d’affari e come margine, non gli… rendeva. Eh, sì. Perché i nostri clienti erano molto più battaglieri, ma tutt’ora, adesso. Lavoriamo con la grande distribuzione. E dobbiamo fare… è quella lì. D’altra parte, non possiamo mica mettere tutti a vendere… se lei pensa che di tutti i marchi degli anni Novanta non ne ghe più gnanca una. Siamo rimasti noi. Adesso sta riprendendo un po’ la Rifle coi svizzeri, Roy Roger’s è cambiata, gli altri non je n’è più gnanca una. Capisce? Perché il mercato è questo qua. Cioè noi siamo inseriti in questa fascia di mercato. Che è quella che dà più volume di affari in assoluto. Ma certamente non ha… uno che ha il negozio in via Mazzini che compra un jeans da 25 euro lo deve vendere a 120, ti dice… ma io avevo servito un negozio qua, perché è un mio amico, gli do i capi e, va bè, così dice: vendo tutto alto, prendo anche la clientela media, no? Dopo un mese, dice: tiro via perché le commesse non lo vogliono eccetera. Non… va bè. Senti, cosa fai? Mandami indietro. Il jeans più venduto era il mio. L’han tirata via. Perché, dice, io… ha fatto questo ragionamento, no? Io vendo un jeans da 150 euro, io ho un margine di 100 euro. Io vendo un jeans Carrera a 50 euro e ho un margine di 20. Io devo vendere cinque jeans per fare come il jeans… Io a questo punto…». 

- Alla fine, voi eravate prigionieri del vostro pregio, in quel senso? 

«Siamo prigionieri però ci ha permesso anche di vivere. Abbiamo tuttora, siamo tuttora… adesso c’è… ci sta rompendo le scatole Oviesse, ma sennò come numero di capi su… in assoluto, siamo la marca che vende di più, nei jeans, tuttora insomma, a parte l’Oviesse perché l’Oviesse vende a diese [dieci] euro. Là dentro… adesso con tutti gli extracomunitari che comprano cinque capi… ma è così ormai. Ma cioè d’altronde la Fiat insegna. Non poteva mica far solo Ferrari, eh. Capisci? Io voglio vedere anche i jeans che fa… quelli che fanno i grossi fatturati, son pochi i jeans. Dicono, loro: se Fiorucci o Prada, son tutti accessori, l’abbigliamento è ridicolo se vai a vedere i fatturati… E dice: ma sa se devo fare un regalo ma compero un portafoglio Prada costa 100 euro però faccio bella figura, o 150… Una cintura qua 70 euro… Invece vado da cintura Carrera, costa 15 e…». 

- E magari la Carrera è più bella, per dire. 

«Ma sì, ma quello non importa. Io veramente passo davanti… Ho un amico, Sergio, di Prada, con tutti accessori, ci conosciamo, è amico di Gianluca ma... E lui dice: Guarda che è una cosa incredibile. L’anno scorso Gucci ha fatto una borsa, l’aveva chiamata con un nome… È andata fuori al pubblico, la davano, non so, a 1500-1600 euro, ecco. Han chiuso le vendite e non sapevano più cosa fare perché ne han vendute tante e avevano un po’ difficoltà a farla produrre, no? Perché, pensi, che la fanno in Romania, tanto per cambiare, però si chiama Gucci. Cos’han fatto? Be’, senti: visto che il mercato non possiamo mica lasciare cosa… lo facciamo. Hanno raddoppiato il prezzo. Risultato? Doppie le vendite. Perché? Perché è uno status symbol. Per cui in giro per il mondo, se una donna se non ha… Pensi la Luis Vuitton, che è una roba che veramente… eppure capisci? Però non possono mica far tutti le Louis Vuitton. Cioè noi abbiamo questo spazio dobbiamo cercare di farlo crescere, perché sennò tradiremmo… abbiamo anche provato, poteva anche andare ma è difficile, abbiamo un’altra mentalità, capito? Cioè c’è tutta una fascia… allora quando noi abbiamo cominciato a lavorare con la grande distribuzione, nel giro di tre-quattro anni abbiamo perso i grossisti. Abbiamo dovuto cambiare sistema., stiamo cambiando tutto. Perché il grossista, e la grande distribuzione è un altro tipo di battaglia. Il grossista lo vede come concorrente diretto. Facciamo… poi è diventato…». 

- Ultima domanda su questo, poi passiamo allo sport. E magari ci fa pure da ponte, da collegamento. I vostri grandi slogan, i famosi claim della Carrera: come nascevano? Come ci siete arrivati? 

«Be’, a parte che erano molto semplici». 

- Le vostre campagne pubblicitarie eccetera, intendo. 

«Sì, sì. Be’, è ovvio che l’abbiamo… Siamo arrivati a un fatturato grosso, ma l’abbiamo sostenuto in tanti modi, eh. Prima abbiamo parlato di “Furia” come nome, ma se non c’era una massiccia campagna pubblicitaria, che a un certo punto gli dava una patina anche di prestigio, era dura tenere. Perché quegli anni lì ce n’erano di concorrenti. Pensa che Pop ’84 ne aveva di fatturato…». 

- Era anche sponsor dell’Ascoli Calcio in Serie A. Si ricorda, la scritta sulle maglie? 

«Sì. E faceva… Pensi che dopo, quando son falliti… Che tra l’altro hanno attinto a piene mani dalla Cassa del Mezzogiorno eccetera, ma era così… Una volta la Cassa del Mezzogiorno li ha sostenuti con delle cifre folli, poi son falliti lo stesso». 

- Di dov’era la Pop 84? 

«Di Isernia. E aveva messo su la… Come si chiamava? L’agenda di moda che Versace aveva, è stato… Era arrivato a sei-settecento miliardi [di lire], era andato in Borsa, aveva fatto il colpo, poi è fallito lo stesso. Per dire, no? Ma ce n’era… Pooh era una bella azienda». 

- La Pooh sponsorizzava il Milan. 

«Sì. Americanino[4] qua, la [Euro] Cormar. Ma sì, ma adesso facciamo dei nomi che erano potenze, e son saltati tutti. UFO, che era partito per primo… Purtroppo questo cambiamento cosa ha fatto? Quando, nel ’90, parliamo sempre della cosa di… Chi è “nato” veramente? È nato “Diesel”, è nato “Replay”, son nati alcuni… eccetera. Poi son andati male, hanno toccato dei picchi. Replay, per esempio, aveva un bel fatturato ma adesso è stato comperato dei cinesi. Perché sta mangiando, anche quello: 25-30 milioni di euro l’anno. Cioè: non è facile. Diesel anche l’anno scorso ha chiuso in perdita. Anche se comunque ha le spalle grossissime, cioè: è nato un modo nuovo di fare jeans. Allora: Diesel, io ho conosciuto un commercialista, Doug Smith, che lavora in America. Un guru nel jeans, Doug Smith, eravamo amici. E questo commercialista era socio di [Renzo] Rosso e a un certo [momento] ha detto… Non aveva fortuna, non poteva... Cosa è successo con Rosso? In Germania c’era una struttura giapponese che vendeva jeans giapponesi di un certo livello. Ed era veramente importante, adesso non mi ricordo il nome dei jeans. C’è ancora… Si son rotti con la rete-vendita tedesca, a un certo punto la rete-vendita tedesca se n’è andata via, ha detto: Vediamo cosa succede. Ha abbandonato. Si sono dimessi tutti. Son venuti in Italia in cerca di laboratori che gli facessero i jeans. Dalla sera alla mattina. Son stato bravo… Ha fatto quello che volevano loro, no? E nel giro di poco ha fatto un boom enorme, però dopo… Allora: sarà stato… Però è vera una cosa, che ha saputo interpretare la nuova richiesta di cose… Cioè: mentre noi eravamo… La nostra clientela era statica. I “numeri” si facevano con le persone “normali” eccetera, lui ha interpretato i giovani, è stato lì che… E ha creato dei capi. Abbiamo provato a farli anche noi. Non è che non li avessimo fatti, ma ci vuole pure… Il marchio [Carrera] supportava un jeans di un altro tipo, la nostra mentalità non si adattava a questo tipo. Avevamo le persone… Perché in realtà ne son nati cento, eh, e ne vien fuori [solo] uno… Per cui la nostra strada, eravamo questa strada. E il marchio era importante e riconosciuto, e “purtroppo” siamo andati avanti. Cominciamo adesso... Cioè: siamo andati avanti anni. Dopo, sai, il problema è che nel momento in cui si poteva fare un po’ di salto, è capitato che abbiamo avuto problemi in Tagikistan. E abbastanza grossi, perché, sai, i Paesi (ex) comunisti si portano dietro un retaggio che… Un po’ come i Paesi arabi, no? Cioè: c’è il capo, il capo è il capo, non c’è niente… Il presidente di… Allora: mica li cambiano i presidenti, se non vogliono non si cambiano i presidenti. Pertanto, quello che il capo vuole bisogna fare eccetera. Per cui abbiamo subìto… C’era, all’interno del Paese, una corruzione molto grossa. Perché non prendevano niente, per cui… Non so: c’era un periodo che avevamo due-tre visite fiscali la settimana». 

- Finché non venivano “oliati” certi meccanismi? 

«No, non potevano oliarli. Perché non potevamo oliare, e poi non volevamo darglieli. Venivano lì per cinquanta dollari, cioè… Per andare a controllare una carta ti bloccavano tutto. Va bè. Siamo andati avanti per cinque-sei anni difficili. Poi quando… Certe cose pian piano si appianano perché… Per esempio, i coreani vicino a noi han chiuso, han mollato tutto, per dire… Ecco. Perché allora lo facciamo in Corea. Cioè: se questi qua sono pazzi, capisci? Però adesso le cose si sono abbastanza regolarizzate. Arriva il problema de… Si comincia a partire… Con l’Unione monetaria dell’Europa, col dollaro che da uno a 1,35-1,40 mi salta a… Noi compariamo tutto in dollari, perché là il cotone e tutta la struttura è impostata sui dollari. Oh, invece di leccarsi le ferite, di un capo già venduto che viene a costare, dalla sera alla mattina, il 30% in più…. Eh, adesso siamo un po’ più tranquilli perché il dollaro è salito a 1,20-1,23. Adesso abbiamo ottenuto il permesso di fatturare in euro. Adesso non dobbiamo più avere certi… Però sono tutte situazioni che a un certo punto ti fanno… È stato bravo Gianluca. È andato avanti-e-indietro, ha mediato… Anche coi clienti. Perché ai clienti non puoi mica aumentargli i prezzi quando la concorrenza… Adesso, da due-tre anni abbiamo… Mio fratello è andato su, ha fatto questi nuovi prodotti coi quali stiamo operando nel mercato “alternativo”, cioè un mercato più alto. Non lavoriamo… Sono prodotti che non diamo alla grande distribuzione. Vendiamo attraverso i nostri negozi e attraverso una clientela più elevate. Le cose le stiamo lanciando adesso. Perché hanno grande contenuto di novità e anche di qualità. Però son sempre, come si dice, cicli lunghi. Non è che al mattino lo fai, la gente lo compra; lo deve conoscere, lo deve testare. Ci sono i campionari. Cioè. i risultati han bisogno di tempo. Però… Speriamo». 

- E quando avete vinto il Tour, mi diceva… 

«Quando abbiamo vinto il Tour, dopo, la sera, ci sono tutte queste manifestazioni, no?, di qua e di là. E poi si va a La Mairie [de Paris]. C’era la premiazione in Comune. Io ero seduto vicino alla signora Chirac (Bernadette de Courcel, nda), lui, Jacques, in quel momento là era sindaco di Parigi. E la nostra squadra è uscita per ultima. Escono tutte le squadre, in tuta, cioè la classica tuta. La nostra squadra, mi ricordo, avevamo pantaloni blu, giacca a quadri gialloblù e camicia gialla. E la signora: “Oh, finalmente una [squadra] che… Questo è il modo di presentarsi”. Quella giacca lì, dalle foto sembra un coso… Ma era un quadro… Quella lì l’avevam fatta apposta. Ma perché c’era un motivo. Lì, un po’ anche da parte nostra, c’era un discorso: siccome noi vendiamo abbigliamento…». 

- È un discorso d’immagine, no? 

«Sì, perché invece di mandarli in giro in tuta, quando vanno, non facciamo… Che poi era [una giacca] sportiva, era molto più bella…». 

- E con il logo Carrera… 

«Ecco, questa era legata al fatto che noi vendevamo abbigliamento, per cui cercavano di far vedere che noi facevamo… Cioè se io faccio abbigliamento, faccio le giacche, vendo le giacche. Vendevamo le giacche, vendevamo le camicie. Avevamo una fabbrica di camicie, facevamo mille camicie al giorno, mi ricordo. Per cui era tutta… La maglieria no, la maglieria mai fatta. Quella, le andavamo a comprare. Poi, sa, quando vedevi che Roche era vestito così… Ma quando vivi in un mondo dove venivano qua eh. Ma guarda che tuttora, per esempio, Ghirotto: tutti gli anni viene qua e compera per la squadra, compra sempre i pantaloni eccetera. Perché quando girano, anche loro [della Bianchi MTB, nda] vogliono avere un certo aplomb insomma, no? Perché a me non è mai piaciuta la tuta, no? Mi sembrava una cosa non da rappresentanza, non siamo mai stati abituati a portare… Per cui abbiamo fatto… Poi il fatto che la squadra si presentasse con la giacca…». 

- All’epoca eravate solo voi a fare così o altre squadre poi vi hanno imitato? 

«Dopo, non mi ricordo. Allora eravamo solo noi. Poi, era una produzione normale, facevamo sempre la produzione, noi». 

- Come vi siete avvicinati allo sport in generale, prima ancora che al ciclismo? 

«Una certa attenzione allo sport l’avevamo sempre data. Perché se io vado a vedere anche le nostre cose che ci sono qua, avevamo un po’ lo sci, mi ricordo che avevamo fatto qualcosa con l’Alfa Romeo quando aveva una squadra di, non so se si ricorda, devo avere ancora qualcosa… Avevo anche una squadra di sci, che sponsorizzava le gare di sci. Per dire, noi avevamo fatto con l’Alfa poi, cosa c’era?». 

- Il calcio in due momenti, prima Trento e poi Venezia? 

«No, il calcio abbiamo fatto Trento e Genoa. Il Genoa un anno.[5] Ma lì è stato che noi lavoravamo con Bastino, quello di Torino, la pubblicità. Non so conosce Bastino, l’agenzia di pubblicità. È un’agenzia molto legata alla Fiat, molto vicina alla Fiat perché aveva il direttore che veniva proprio era il braccio destro di Montezemolo. Quando Montezemolo faceva la pubblicità della Fiat, parliamo di... E lui aveva la concessione dei campi di calcio, cioè, andava sempre… Per cui noi a quel tempo là facevamo molto calcio e le partite. Avevamo sponsorizzato anche Italia 90, no? Avevamo sponsorizzato, sì. Avevamo i gadget. Mi ricordo in un giorno all’aeroporto di Malpensa, quando c’è stato Italia 90, in un giorno abbiamo venduto 2000 magliette all’aeroporto. Nel botteghino dell’aeroporto…». [sorride, nda] 

- Quindi un po’ di attenzione per lo sport l’avete sempre avuta. 

«Sì, perché era un canale importante. Ho detto: Uno deve scegliere un canale, bene o male, no?… Le partite di calcio eccetera, allora era molto seguito, per cui… Mentre lo sport, come sponsorizzazione, era partito col Trento. Perché c’era quel famoso legame, che s’era perpetrato nel tempo, coi SAIT (Sindacato Agricolo Industriale Trentino, nda) per cui… Poi conoscevamo [Giorgio] Grigolli,[6] che era presidente della Provincia, però era anche presidente della squadra di calcio e allora avevamo sponsorizzato il Trento. Poi è capitato questo discorso del Genoa. È venuto Bastino, mi ricordo che è venuto qua e dice: Senti, il Genoa, non so aveva perso lo sponsor, qualcosa del genere. Era in B, no? Dice: ma è una squadra che va in A, insomma abbiamo concluso, poi è rimasta in B e abbiamo chiuso il discorso, perché non mi interessava molto. Tra l’altro allora lavoravamo molto col discorso di Mediaset, cioè, per esempio, il Festivalbar, avevamo fatto per alcuni anni, che si chiudeva qua a Verona». 

- Certo, qui all’Arena, con lo storico presentatore Vittorio Salvetti… 

«Sì, Salvetti e quell’altro... E abbiam fatto questo. Poi, e arriviamo al 1978-79 e siamo stati avvicinati dal presidente della Reyer di Venezia del basket, che si chiama Umana anche, stanno andando molto bene. E allora abbiamo fatto un contratto triennale. È stata comunque un’esperienza importante, perché allora… non tanto come risultati intesi come “risultati”, perché li abbiamo buttati via, i risultati. Se lei pensa che la Coppa Korać[7], la finale a Barcellona, a un minuto e sette secondi [dalla fine] eravamo in testa di sette punti. E siamo riusciti a perderla… E non c’erano i tre punti. Vabbè. Loro hanno avuto, a Barcellona, perché giocavamo contro il Badalona, un aiuto… Un arbitraggio…». 

- …un po’ “casalingo”, diciamo così? 

«…che quello che lamenta Buffon[8] fa…» 

- …ridere? Roba da dilettanti, al confronto… 

«Ma no… Siamo avanti di sette punti, a un secondo dalla fine avevamo ancora un punto e la palla era andata fuori nella loro metà campo. E fanno una rimessa e la danno a un americano che non tirava dentro neanche… Va bè. Hanno rimesso, mancava un secondo, ha preso la palla, si è girato, ha fatto due passi, e ha tirato da metà campo e ha fatto canestro. Vabbè». 

- Lei era là, al palazzo? 

«Ero lì, sì. Eravamo avanti di due punti, siamo andati pari. Dunque, quello che doveva suonare il campanello non ha suonato, perché… Facciamo il primo tempo supplementare e siamo ancora pari. Secondo tempo supplementare e a due secondi dalla fine, siamo sotto di uno, allora diamo la palla in centro, avevamo [Fabrizio] Della Fiori, non so se si ricorda…». 

- Certo che mi ricordo.

«Il quale era solo a centro area, poteva far… tirar giù il canestro e spaccarlo, perché era lì… E gli è venuto in mente, fa… tira su, la palla sta scendendo, arriva uno e la tira via… E canestro! Normalmente…». 

- Certo: interferenza a canestro… 

«Mezz’ora di discussione tra gli arbitri [ride, nda], perché allora non c’era l’instant replay e cose, quell’anno lì[9], poi abbiamo preso quell’americano lì, [Spencer] Haywood, che è stato uno dei più grandi in assoluto. E che era un pazzo come un cavallo pazzo. Ma a volte faceva dei numeri, mi ricordo, la gente rimaneva… Siam venuti per vedere questo… Poi questo Haywood aveva vinto le olimpiadi del Messico praticamente da solo. Là. Poi [nel 1979-80, nda] era andato a giocare ai Los Angeles Lakers e era il vice di Kareem Abdul-Jabbar, che era un monumento… Per cui, cioè, fare il vice di Jabbar e essersi trovato da noi… Allora era richiesto da altre squadre e l’han dato a noi, gli pagavano mezzo stipendio loro, è andato a Venezia e pagavano mezzo stipendio loro… Venuto qua, però… Era sregolato, cioè, però nei momenti in cui la fantasia… non ce n’era per nessuno, eh. Non ce n’era per nessuno. Vabbè, abbiamo perso la Coppa Korać, eravamo in A2 e siamo andati in A1 poi… il palazzetto di Venezia non so se è più l’Arsenale, adesso, era piccolo, insomma. Avevamo un contratto di tre anni ma comunque avevamo avuto un sacco di contatti con la gente eccetera perché… Andiamo a giocare a Bologna, allora si chiamava Sinudyne [sponsor della Virtus dal 1973 al 1983, nda], alla fine del primo tempo siamo sotto di 23 punti. Disastro. Allora un giocatore, si chiamava [Bruce] Seals [alla Reyer nel 1981-82, l’anno prima a Varese, quello dopo all’Alpe Bergamo, dove chiuderà la carriera, nda], uno che poteva andare al posto dei famosi là…». 

- ...Harlem Globetrotters? 

«No, poteva andare al posto dei famosi, quelli che han trovato giù a Reggio Calabria là…». 

- Ah, i Bronzi di Riace: per il fisico statuario? 

«Erano statuari. Niente, continuava a tirare, e insomma tanto che la gente diceva: datela a Seals. 23 punti, alla fine del primo tempo, c’erano due tempi allora, venti e venti [minuti], sotto di venti punti. Rientriamo nel secondo tempo va in pari, abbiamo vinto la partita. Li ha fatti morire. Quello che nel primo tempo era, come se dice, niente. Le sbagliava tutte – e i canestri valevan due, non c’era il tiro da tre… E poi avevamo Dalipagić [nell’80-81, poi tornerà nel 1985-88, nda], cioè, delle cose… Però con ’sti americani diventavam matti. Gente che era cresciuta a Brooklyn, che era cresciuta dove avevano… Anche ’sto qua ha voluto, mi ricordo, l’appartamento sul Canal Grande, e non si è mai… Mai andato dentro. Perché il presidente aveva l’albergo [e lui] andava all’albergo. Dobbiamo fare la partita, mi ricordo, quando l’abbiam presentato alla Nuova Fiesole, e abbiamo la partita alle cinque a Bologna del Trofeo allora si chiamava “Bonfiglioli”. Era musulmano, si è mangiato due piatti di prosciutto crudo così, coi fichi, una costata, si è bevuto una bottiglia di vino, e doveva andare a giocare a Bologna… era le prime partite, non… Parlo col presidente e dice: cosa faccio?, dice… [ride, nda] Vinciamo il Trofeo Bonfiglioli, era la finale… per dire… Poi magari per un giorno non mangiava. E Non so, prendeva il mal di gola, gli davano le pastiglie, e poi andava su il medico: Hai preso le pastiglie? No, mi son dimenticato. Magari era due-tre giorni, faceva così: le prendeva tutte, sette-otto e poi beveva un litro di aranciata. Cioè… Era fatto così». 

- Arriviamo al ciclismo, allora. Come ci arriviamo al ciclismo? 

«Dopo, abbiamo chiuso nell’82. Nell’82 avevamo fatto un accordo di tre anni, fatto nell’82, poi dico senti presidente qua, io sì il basket ma è a Venezia, sai com’è, avanti e indietro, spostati, di qua, di là, insomma, ritenevo… che tra l’altro poi c’era Mestre, la rivalità con Mestre che poi c’era un’altra fabbrica, casa di jeans, la… grossa, e poi è sparita subito dopo, va bè, dico: abbiamo chiuso. E siamo stati un anno due fermi, cioè senza… Andavamo avanti con le nostre… Nell’84… avevamo come responsabile dei rapporti eccetera Gianfranco Belleri…». 

- Lo sa che lui non vuole essere intervistato? 

«L’ho visto poco tempo fa…». 

- Ha detto che viene solo se c’è Davide Boifava. Perché, secondo lei?

«Ah, non so». 

- Siete in buoni rapporti? 

«Sì, l’abbiamo anche invitato qua». 

- Se mi mette una parola buona, lui magari dopo accetta. 

«L’ho visto qua. A settembre, l’ho visto. È venuto». 

- Gli ho telefonato, gli ho scritto e lui mi ha detto: Sono in montagna. E poi mi fa: Guardi, preferisco in presenza di Boifava. 

«Meglio. Va bè, parla con Boifava». 

- Anche lui m’ha rimbalzato. [Poi invece riuscirò a intervistare sia Belleri sia Boifava, nda]

«Prova a vedere se han qualcosa tra di loro, perché non lo so». 

- Sono passati per i canali ufficiali con la Carrera Podium, con Eleonora Mezzano. 

«Sì, sì. Vabbè…». 

- È da Ferragosto che cerco di parlargli, io ho anche i numeri di Davide, però pensavo di muovermi per i canali ufficiali come ho fatto con lei. E così, prima sì sì poi Davide preferisce di no, è una persona molto timida… 

«Non lo so. Sai, è difficile. Poi, sai, sono anni che non ci si frequenta». 

- Però a settembre vi siete visti. 

«Sì, ci siamo visti però non è che… Chiamiamo sempre, anche l’altra volta, quando invitiamo, però non è che poi qua affrontiamo temi di nessun tipo. Cioè va bè il rapporto, come va come non va, stai bene, stai male, non siamo entrati in una…». 

- Ma non siete amici? Siete stati colleghi per un bel po’, non siete amici? 

«Be’, allora: il "problema" dell’amicizia è un discorso… Lui è stato, ha lavorato con noi una decina d’anni, anche di più, ha fatto il suo lavoro…». 

- Avete fatto tredici anni di professionismo, nel ciclismo.

«Sì, più o meno, non so se è andato via prima. Dopo si è chiuso il ciclo e lui abita a Brescia [in realtà in provincia, a Ome, nda] per cui… Non c’è nessun secondo… Cioè, sono quelle cose che si sono chiuse, cioè… dopo tranne qualche incontro formale con…». 

- L’azienda di biciclette di Boifava si chiama Carrera Podium. Con voi c’è ancora un legame di affari oppure no? Siete ancora insieme, come marchio? 

«Sì, sì. Sì, difatti lui… Il marchio è nostro, perché l’avevo fatta io quell’azienda lì. L’avevo fatta perché ho detto: Ma scusa un attimo, ma qua, per fare le biciclette…». 

- ...perché devo appoggiarmi a un costruttore? 

«Sì, appoggiarmi a…». 

- Prima eravate con Pinarello, poi Battaglin, poi? 

«No, dopo da Battaglin siamo passati a Carrera. Conoscevo Pinarello ma perché ci si conosce tutti, e adesso Boifava è in Giappone. Ma perché in Giappone siamo la più grossa realtà…». 

- Per esempio, a Dublino ci sono un sacco di bici Carrera. Come mai? 

«Sì, ma non son mica nostre. In Inghilterra è il marchio di una fabbrica…». 

- Ah, quindi è solo un vostro omonimo? Mi chiedevo: magari Stephen Roche, che è irlandese, ha attivato là dei suoi canali… 

«No, no. È proprio [un latro marchio]… Non è mica scritto uguale, anche se assomiglia. Perché anche noi abbiam dovuto… Siamo partiti con Carrera, ma a quel tempo che siamo partiti non è che ci fosse la corsa alla registrazione dei marchi eccetera, no? Però per esempio quelli degli occhiali son precedenti a noi. E difatti abbiamo trovato l’accordo, dopo». 

- L’avete comprato da quegli imprenditori o no? 

«No, abbiam fatto un accordo. Un accordo di… cioè noi comunque eravamo il marchio, per gli occhiali, in certi Paesi che loro non ce li avevano, nel senso che avevamo esteso, adesso non so come mai avevamo esteso, per cui è stato abbastanza semplice». 

- Quindi conveniva a tutti e due. 

«Loro non fanno abbigliamento, noi non facciamo occhiali…». 

- E se un giorno voi voleste fare gli occhiali, avreste dei problemi? 

«Non lo facciamo. Non lo facciamo…». 

- E lo stesso vale per loro. 

«Non si può far tutto. Abbiamo quasi tutto. D’altra parte, è così». 

- No, perché tanti stilisti fanno anche gli occhiali, per quello gliel’ho chiesto. 

«Ma stilisti è una categoria diversa. Cioè gli stilisti registrano il loro nome. E nel momento in cui acquisiscono una certa notorietà sono protetti da un diritto d’autore, in un certo senso, perché… cioè uno non può fare… c’ stato poi Valentino eccetera, però Armani eccetera, Dolce & Gabbana… è protetto internazionalmente da un accordo sui… Perché sennò ti arrivan nei Paesini, ti registrano il marchio… è successo a tante ditte che si son trovate in Cina il loro marchio eccetera…». 

- Quindi voi arrivate nell’84, giusto? 

«No la registrazione è vecchia…». 

- No, dico nel ciclismo. 

«Nell’84, sì...». 

- Mi stava raccontando che siete stati due anni fermi con lo sport, e poi? 

«E poi Belleri conosceva… No, niente da fare. Io quel periodo, 81-82, ero presidente della Associazione piccola e media industria di Verona eccetera. E c’era, avevo come segretario un certo dottor [Lelio] Solci, che adesso è morto, in un incidente stradale, un giorno questo dottor Solci parla con il segretario dell’associazione di Brescia e dice qua ho un’azienda, Prandelli, lì, l’Inoxpran, che è nel ciclismo, però starebbe cercando un co-sponsor perché ha i suoi problemi e voleva cercarlo eccetera». 

- Achille Prandelli, no? 

«Achille, sì. E allora si mettono d’accordo e dice. Ma tu che hai Carrera eccetera, lui mi conosceva e cose, non puoi parlare? Allora viene qua, parliamo. Ne parlo coi miei fratelli: Guarda che… insomma, aveva Battaglin, aveva insomma, e allora aveva Visentini, Battaglin, l’ossatura della squadra c’era, aveva vinto il Giro di Spagna o il Giro d’Italia cosa aveva vinto Battaglin?». 

- Aveva fatto la doppietta in 48 giorni, Battaglin: Vuelta e Giro nel 1981… 

«Però un bel nome insomma, e eccetera. Visentini che comunque se non avesse avuto il suo carattere poteva diventare qualcosa d’altro. Leali, Bontempi e…». 

- Tra l’altro nell’83 Visentini aveva lottato fino all’ultimo con Saronni che poi quel Giro lo vinse… 

«Sì…». 

- Quindi vi siete invogliati e poi convinti. 

«E allora, insomma, poi non era un investimento grosso – allora – per la nostra azienda, cioè non era…». 

- Mi può dire di che cifre parliamo, dopo tanti anni, almeno l’ordine di grandezza, per capire che tipo di realtà era, economica… 

«Ma io… Allora io credo che nell’84 non so se abbiamo speso-5-600 milioni [di lire]». 

- Perché voi eravate… 

«Sì, secondo sponsor. Co-sponsor. Mi sembra che era così, adesso non vorrei… Poi c’era le solite cose, risultati, non risultati…». 

- I premi eccetera. 

«I premi eccetera. E non era un investimento che per noi cambiava la vita, e allora ho detto: proviamo insomma. Poi ’sto qua cioè queste persone le conoscevamo, ho conosciuto Achille, siamo andati là, Achille era una brava persona, era molto anche coinvolgente, insomma. Non so se l’ha conosciuto». 

- Non di persona, però ho letto molto. E confermo quello che mi sta dicendo. O almeno, tutti quelli che l’han conosciuto dicono la stessa cosa. 

«Ecco. Abbiamo trovato subito un’intesa, poi è partito. L’84 è partito un po’ in sordina, ma insomma qualche risultato l’abbiamo ottenuto. E intanto avevamo un contratto di tre anni. Solo che l’85 è andato… e poi è andato… cominciava ad aver dei problemi. Per cui… adesso non mi ricorso se nell’86, quando ha vinto Visentini, era ancora Inoxpran…». 

- No, era già Carrera. 

«Carrera sì, ma… se era secondo nome». 

- Vagabond era ’87. 

«Nell’86 non mi ricordo più se lui era…». 

- Ho portato tutto per qualsiasi dubbio… Non mi sembra ci fosse più Inoxpran. 

«Perché so che nell’87 abbiam visto che proprio cioè ce la sosteniamo noi la squadra, nell’87. Nell’86, non mi ricordo. Ma io basta che vado a veder le fotografie… Allora, a un certo punto qualche risultato, il rapporto anche con Boifava, Quintarelli qua, i corridori insomma abbiamo visto che… noi veniamo… abitavamo in un paese [Grezzana, nda] in cui il ciclismo non aveva espresso… l’unico corridore espresso era Remo Rossi, non so se lei l’ha conosciuto, gregario… era compagno di scuola di mio figlio, e allora con suo padre…». 

- C’era alla festa del 30 settembre Remo Rossi, anche Rossignoli? 

«Sì, sì. Remo Rossi lavora qua lavora da mio nipote. Mio nipote ha un negozio qua, ne ha un paio, di articoli sportivi eccetera, fra i quali le biciclette. Ha sempre lavorato lì Remo Rossi, anche adesso. È qua a tre chilometri». 

- E quando muore Angelo (Achille è morto nel 2006…)? 

«No, no. Era già finito il discorso, per quello non mi ricordo se noi avevamo preso tutto nell’86 o nell’87. 87 son sicuro, 86 no. A me sembra che avevamo ancora Inoxpran, 86. Ma quello lo vediamo. Praticamente, a un certo punto Inoxpran cominciava ad aver dei problemi eccetera, allora abbiamo preso tutto. Abbiamo fatto la Podium, per gestire la squadra, che l’avevamo… e la società sportiva, per cui eravamo sponsor e anche proprietari della società sportiva insomma. E l’abbiamo tenuta da soli un paio d’anni, però dopo i prezzi [i costi, nda] stavano salendo eh, tra l’altro, perché già con Roche e dopo arrivò… dopo quando è arrivato Pantani è cambiato tutto. Dopo, i costi sono esplosi. Perché se pensiamo cosa ha pagato Mercatone Uno, quei tempi là. È una cifra che… costava sarebbe costato oltre una volta e mezza la squadra da solo. Perché Mercatone Uno era una potenza, e difatti ha avuto un balzo ancora dopo poveretto è andato male. Il ciclo è questo. Mentre una volta c’era… adesso cambia il vento, tu sparisci dal mercato. No? Ecco e allora… L’abbiamo gestita da soli un paio d’anni di sicuro». 

- Quando avete vinto il Giro, nell’86, nell’azienda come si è riflettuta quella vittoria lì. cosa ha comportato a voi, come popolarità del marchio eccetera. Nelle vendite s’è visto l’effetto? 

«Ma io credo che abbiamo più che nuova popolarità abbiamo mantenuto. Cioè io guardo certamente c’è stata una crescita di fatturato…». 

- Anche perché la visibilità di Carrera su una maglia rosa… 

«Ottantasei. Ha toccato il picco nell’86, e dopo…». 

- Ancora di più rispetto a Giro-Tour e mondiale di Roche? 

«Sì, direi di sì perché a un certo punto e insomma cioè importante è mantenere i fatturati, perché più vai su, non è uno cresce, cresce… L’importante è mantenerli, perché sulla conoscenza… per cui noi avevamo una quota di mercato che era difficile diciamo… diciamo che tutti quelli che a quel tempo là avevano una quota di mercato son precipitati già, come mercato di prodotto eccetera. Cioè non è l’alimentare che, anche l’alimentare stesso – se andiamo a vedere – è perché tante aziende son saltate, cioè: il mercato, per crescere il fatturato, deve: o crescono i consumi o che perdi i concorrenti… [sorride, nda] Non è che sia tanto facile, eh». 

- Veniamo a quell’87, per voi che cosa ha comportato? Vuol partire da Sappada? 

«Ma sì, ma vede…». 

- Mi dice questa cosa dell’elicottero? Intanto, se è vero. Perché c’è qualcuno che mette in dubbio che ce l’avevate, ma voi ce l’avevate l’elicottero. Cos’era, un Augusta 92? 

«Sì, un Augusta. Pensa che quei giorni lì, ero qua a casa che vedevo [la tv], e allora dico a mio fratello: Andiamo su. Partiamo con l’elicottero». 

- Ma c’era Reagan in visita in Italia per il G8 a Venezia. 

«È stato quello. Partiamo, arriviamo, sopra, verso Treviso, a un certo punto, arriva, han cominciato a chiamare il pilota: "Zona…". Siamo tornati indietro, abbiamo preso la macchina e siamo arrivati su». 

- Siete arrivati abbastanza tardi? Che ora era, più o meno? Le undici di sera? 

«Mah, così, a occhio…». 

- Le undici? 

«No, saran state le nove, nove e mezza. Perché mettiamo che il problema sia sorto verso le quattro…». 

- Ma come avete deciso di partire, mentre guardavate la tappa in tv? 

«Sì. Ero davanti la televisione, stavo guardando la tappa». 

- Qua in sede, alla Carrera? O a casa? 

«No, a casa. Era sabato [6 giugno, nda] mi sembra. Allora io abitavo… I miei fratelli abitavano a cinquanta metri, non a cento metri. E mi sembra fosse sabato, ecco perché eravamo a casa. Allora dico: Cosa facciamo? Eh, andiamo su. Qua c’è d’andar su». 

- Lei e Imerio soltanto? 

«Sì, io e Imerio. Domenico non …». 

- A Domenico il ciclismo non è mai interessato

«No, ma lui veniva. Andava a vedere, però non è che… Noi non potevamo seguirlo tutti, no? Poi ognuno aveva le sue cose. Quando c’era… Lui andava, veniva, però normalmente lo seguivo più io, ecco. Cioè lo avevo seguito di più. Però ovviamente quando c’erano decisioni importanti non è che si andava. Cosa facciamo: andiamo o no? Siamo andati. Siamo arrivati là [ride, nda] e io, al di là di tutte le considerazioni da fare, go dito: meglio due che uno, però a questo punto bisogna portare a casa… [la maglia rosa]». 

- Ormai dopo oltre trent’anni me lo può raccontare. Allora, voi arrivate, ma intanto vi chiedo: ma eravate arrabbiati o più contenti perché avevate due punte invece che una? O era un po’ pesante l’atmosfera? 

«No, non è questo. Hai uno stato d’animo strano. Era stata… intanto perché avevamo salvato la maglia rosa per pochi secondi [5” sullo svizzero Tony Rominger, nda]. Per cui già c’era la preoccupazione. Visentini sapevo già che ormai… Siccome c’era successo nell’84, il primo anno io ero lì a…». 

- A Selva di Val Gardena? 

«Sì, quando, lì a Chiusa, appena passato Chiusa. C’ero il giorno prima…». 

- Ma lei dov’era, in ammiraglia? 

«Sì. Ero in ammiraglia. C’ero [anche] il giorno prima, ero con Davide [Boifava]. Il giorno prima, quando abbiam fatto la tappa che arrivava a Bolzano [in realtà a Merano: quintultima tappa del Giro ’84, la Pontida-Merano, nda], e doveva fare lo Stelvio. Alla sera ci comunicano che non si poteva mica far lo Stelvio perché era caduta una piccola frana, una cosa del genere, una franetta, una stupidaggine. Già lì, insomma, io… però Visentini, quando ha sentito questa cosa, incazzato. E dice: come: non andiamo a vedere? Sembra… Va bene, Roberto, dai. Iniziamo la tappa.su per il… che arriva a Madonna di Campiglio, va bè. Sulla strada che… su per quella salita lì vanno in fuga Visentini e Fignon, erano andati avanti. Io ero dietro. A un certo punto, però ci son i tornanti, li vedi sotto, no? Visentini va su e vede Moser che sale dietro una moto però. Va, si avvicina, si lascia sfilare, mi ricordo che dà un pugno sulla macchina di Torriani. Eh. E si arrabbia. Allora Boifava mi dice: dobbiamo stare attenti quando siamo a Merano, no? Perché che non succeda qualcosa, adesso dobbiamo portare… Intanto va in fuga Leali, che è qua la coppa… Va in fuga Leali. E lì sempre 10”, 15” fa tutta la Val di Sole. Va su sul passo, ha sempre 10-15 secondi. E sta muta che sembra che stanno per prenderlo e che si stacca e su e giù, e arriva a Merano. E arriva a Merano con 10-15” [in realtà 5” su Pedersen, secondo, e Piovani, sempre in rosa Moser; coincidenza, anche lì il 6 giugno, nda] Vince la tappa, per cui vincendo la tappa ci è scappato il discorso di Visentini, no? Perché sai, i giornalisti… Quell’altro va su, va sul palco. E lì esplode contro… Ma era vero eh, perché c’era…». 

- Si ricorda cosa disse? 

«No, non mi ricordo ma non l’ho mica visto, io. Non c’ero sul palco». 

- Con chi ce l’aveva sul palco, con Torriani? Con tutti? 

«Con Torriani e con Moser, con tutti. Perché ha detto: Ma, lì c’era la catena di Sant’Antonio, lungo… tanto che noi abbiamo gridato contro il fratello di Moser [sorride, nda], che s’è nascosto, vabbè, lascia stare… Non so se era Diego o Enzo, ma si vedeva insomma la mano… La sera andiamo a cena, Visentini, Roberto, gli arriva la fidanzata. Io non la conoscevo. E loro si mettono appartati, cenano. Sempre lì, nella sala, appartati, per cui non abbiamo parlato». 

- Sembrava tranquillo, alla fine… 

«Sì, poi è andato… Al mattino, la Gazzetta dello Sport arriva con un articolo grande così, e regala il berrettino “Gazzetta dello Sport” in giro per le strade. La tappa parte all’una del pomeriggio. Per cui noi abbiamo cercato di tenere Visentini fuori dai… Così. A un certo punto, pien de gazzette dappertutto, eh…». 

- Lui ha visto ’sto titolo… 

«Lui ha visto ’sto articolo…». 

- Il titolo com’era? Che cosa diceva? 

«Adesso non è che…». 

- Il senso qual era? 

«Diceva che lui si era scagliato contro i trentini eccetera. Quando è partita la tappa da Merano a Chiusa, c’era una catena di trentini, gliene hanno dette… continuavano a correre, va bè, dico, sai, spero… fosse stato Roche si sarebbe messo… se ne fregava. Quell’altro cominciava ad accumulare. Quando ha iniziato a Chiusa, comincia la salita della Val Gardena, lì è la Val Gardena mi sembra di sì, dopo un po’ altri due o tre scalmanati o cosa, noi avevamo messi in fianco ma se speri nella tappa non è che hai anche i corridori che ti fanno anche da supporto no? E a un certo punto lui è crollato. Bu-bu-bum! È sceso dalla bicicletta dopo un chilometro, un chilometro e mezzo, è sceso dalla bicicletta, ha buttato via la bicicletta, mi ricordo, allora lì e non vuole più saperne. Intanto arriva grazie al cielo arriva Battaglin, lo prende [sorride, nda] e l’ha rimesso sulla bicicletta. Era finito cioè ormai la carica nervosa, infatti aveva preso qualche minuto, non mi ricordo, è arrivato su ma… sempre accompagnato… ormai lui fisicamente… poi queste cose qua le soffriva no? Cioè… E lì è finito. Per cui quando è venuto fuori l’episodio di Sappada non mi sono illuso che il giorno dopo avrebbe fatto la giornata… Qua l’importante non è che vinca Visentini o Roche: bisogna vincere il Giro. O Visentini, o Roche. Quello che succede, succede, si metteranno… Andare lì… siamo andati anche a parlare eccetera ma era come parlare con… Con Visentini in quel momento lì era come parlare con il vento, no? Tanto non… lui aveva chiuso. Roche, intelligente, però dice: io… Roche dice: io, scusa, io ho fatto… io stavo facendo la mia corsa, però la mia corsa non era contro di lui. Perché dice se va via una fuga eccetera, poi io facevo il suo gioco. Perché, se io sono davanti, che vengano loro a prendermi e ti tirano sotto, no? C’è da arrivare a Sappada, mica c’è da arrivare a Lignano Sabbiadoro, cioè, per dire insomma… Ma lui quando… infatti ha messo sotto la squadra, ne ha fatto… Boifava non sapeva cosa fare. [ride, nda] E insomma, cosa fai? A un certo punto dici: l’unica cosa che ci siamo detti tra di noi con Boifava: dobbiamo salvare il risultato, tutto il resto, dico, trasformiamolo in positivo tutto questo cancan negativo. Cosa dobbiamo fare? Eeehhh». [sospira, nda] 

- Lei e Imerio arrivate all’hotel Corona Ferrea, giusto? 

«Sì, sì, mi ricordo era lì sotto, c’era…». 

- E quindi avrà trovato anche un sacco di giornalisti… 

«Pouf! Era pieno». [sbuffa una risatina, nda] 

- Mi racconta queste cose qua, visto che era lì? 

«Io ce l’ho adesso abbastanza confusa perché è stato un susseguirsi di avvenimenti, no? Al di là del discorso dell’elicottero, anche con la macchina, arrivi con la macchina, parcheggia, tutte cose, e noi quello che sapevamo, avevamo parlato ovviamente per strada…». 

- Non c’erano i telefonini… 

«No, no: ce l’avevo». 

- Ce l’aveva già, nell’87? 

«Mi sembra di sì. Sì, sì. Ce l’avevo. Sì-sì, però erano abbastanza rudimentali[10]». 

- Era uno scatolone grosso così… 

«Sììì, ce l’avevo da anni, avevo parlato qualcosina ma anche Boifava poveretto era frastornato». 

- Eh, lo credo, era una situazione più grande di lui. 

«Quintarelli… Quintarelli forse, io dico sempre, io sono un ammiratore di Quintarelli, ma non… perché è un uomo puro, no? Nel senso: lui viene dalla montagna, nessuno lo tiene in considerazione ma in realtà è profondo. Perché io ho visto… più volte sono andato in ammiraglia con lui. Aveva una capacità di capire il momento, che non l’ho visto in altri. Cioè neanche Boifava in quel momento lì, guardava in faccia l’avversario, andava lì e diceva: devi fare così, al nostro corridore. A me ha dato questa impressione tutte le volte che ero assieme. Dico: Guarda ’sto uomo qua…». 

- Nella sua semplicità, anche, no? 

«Sì, sì. Nella sua immediatezza, parlava meno il dialetto e inflessione dialettale però». 

- Senza filtri. 

«Era amico di tutti. Solo che lui per esempio lui si trovava, il per esempio ho dovuto litigare a Verona, per fargli avere mi sembra il Cangrande[11], che è un riconoscimento che danno agli sportivi tutti gli anni, ma questo… Lo danno a un allenatore di quarta serie perché ha vinto coso, ‘sto qua ha vinto e nessuno… Io son andato in Comune e ho detto: ma voi conoscete, dico, chi è che ha più titoli in assoluto a Verona? Eh, no. Cioè sapevano chi era Quintarelli ma nessuno si poneva il problema. E dico: ma scusa n’attimo, solo con noi ma prima aveva vinto cose… scusa, e perché il Verona ha vinto il campionato di calcio, continuiamo a far feste, dico, abbiam vinto tre quattro cose, coppa Italia, coppa del mondo, due volte coppa del mondo e a Quintarelli non date niente. Ma è stato… sembrava che… capisci? Però io dico che tanti risultati li abbiamo ottenuti proprio per la, come si dice, questa capacità di capire le cose di Quintarelli». 

- Quintarelli era nella prima ammiraglia e Boifava nella seconda, quel giorno lì? 

«Sì, ma poi si davano il cambio. Erano abbastanza tra loro c’era molta… collaborazione, magari si cambiavano eccetera. No, è sulla prima perché in teoria perché non era sulla prima lui era sulla seconda, però era primo perché è andato in fuga Roche, era Visentini in maglia rosa per cui ammiraglia… E so che Visentini c’era… E lì la croce di Boifava perché ha dovuto lui prendere la decisione, no? Non quell’altro». 

- E quindi voi arrivate in albergo, mi racconti un po’ com’era la situazione. 

«Mah, io mi ricordo che c’eran tutti ’sti giornalisti che ti strattonavano di qua, di là [sorride, nda], allora dopo siamo saliti su, abbiamo parlato con Roche al quale abbiamo solo detto: cosa facciamo? Poi Roche è stato chiarissimo. Lui dice: io, ragazzi, io mi son trovato in una fuga. A un certo punto ci siam trovati in due, cosa devo fare? Ero a un minuto, non avevo mica un quarto d’ora. Però c’era, dobbiamo tener presente un retroscena, quando Visentini ha vinto a San Marino. E Roche ha detto: vieni, guarda che adesso io tengo al Tour mi dai una mano, allora la risposta di Visentini sappiamo qual è: no, io in luglio sarò al mare. E un po’ quello che capita a Berlusconi quando fa le battute, no? Che in giro per il mondo non le capiscono. Cioè in quel momento lì tu non devi dirgli niente, perché tanto loro… ci andava. Io penso che ci andava. Ma lui si sentiva, capisci? Non è la risposta… Non è la risposta che uno dà come faccio una domanda, scrivo, guarda che io ho prenotato e cose. Come: bah, arrangiati, no? Capisci? Però quell’altro, da “inglese” [Roche è irlandese, nda], che non capiscono le battute, purtroppo, pur salvaguardando la buonafede, però se in certi momenti non capisci le battute, come questa, è ovvio che… E l’altro se l’è legata al dito, no? Ah, [varda] ’sto qua, io me devo dar da fare, e ’sto qua adesso non viene mica… Mi viene a mancare quello che potrebbe essere la spalla ideale per fare risultato, no? Cioè io lo interpreto così». 

- Ma lei ha parlato con Roche in camera da solo con Roche? E poi ha provato ad andare in camera da Visentini? 

«Siam andati in camera da Visentini ma non è che Visentini fosse loquace. È fatto così, lo sapevamo. Poi noi non avevamo neanche… Onestamente non era il momento per mettersi lì a dare le botte in testa alla gente, no? Era… dovevamo cercare di mettere insieme i cocci [sorride, nda] per non perdere…». 

- E invece con tutti gli altri della squadra, li avete incontrati? 

«No, abbiamo detto: Ragazzi, dobbiamo lavorare tutti insieme per andare… Perché il giorno dopo se invece di Roche ci fosse stato Visentini, e succedeva un altro fattaccio. Perché noi quando abbiamo fatto la salita della Marmolada, io ero sulla macchina assieme a Boifava e dietro a Roche, ma era… Quello che dicevano i trentini a Visentini, i bresciani l’avevano… glielo… Ma ha rischiato di prendere i pugni. Avevamo messo in fianco Battaglin e coso che era [NO: Battaglin si era ritirato nel 1984, nda] e coso, Schepers, in fianco, andavano su così, lui era in mezzo, noi eravamo indietro, ma…». 

- Ma lei le ha viste quelle scene brutte, i tifosi italiani lì che sputavano riso e vino rosso, tiravano i pezzi di carne contro Roche? Le ha viste quelle cose lì? 

«Ma sì, ma… la macchina era sporca, c’han sputato dappertutto. Ci sputavano sulla macchina, sulla macchina venivano a battere i vetri, basta. Eh, cosa fai? Vai avanti. Cosa fai? Mica… Ho detto: se invece di Roche, fosse stato quell’altro, crollava. Roche non è mica crollato. Anzi. Lui, con la testa che ha… cioè con quella… freddo com’è, ma… quella salita della Marmolada è stata… Se ci fosse un filmato, eh, non so… Ci sarà anche…». 

- Ma è vero invece che Visentini con la bici voleva andare addosso a Schepers? Buttarlo giù, fuori strada? Sono vere quelle cose lì? Perché lui ha preso tre milioni di lire di multa dalla giuria, per ‘’sta cosa qua? 

«Sì? Non lo sapevo. Non lo sapevo…». 

- Comunque, alla fine arriviamo in fondo a ‘’sto Giro, poi Roberto cade a Pila. 

«Eh. Roberto cade a Pila così ha risolto il problema, perché… Dopo, non aveva più niente da dire, dopo c’era ’sta cronometro. E invece quell’altro si è caricato, perché è a Pila che ha vinto, eh, in realtà. È con quella cronometro lì». 

- Sì, la cronometro del giorno dopo a Saint-Vincent. 

«Sì. Mi dispiace per Thurau, poveretto. Era… Sa cos’è successo a Thurau?». 

- Eh, mi dica un po’, mi racconti. 

«Era indietro. Ha fatto il miglior tempo fino a Roche, per cui è stato tutto il giorno – perché era fra i primi [a partire] – tutto il giorno lì ad aspettare… E l’ultimo che arriva gli porta via il Giro [in realtà l’ultima tappa, batte le mani, una contro l’altra e ride, nda] Be’, insomma…». 

- Be’, insomma: due Giri, uno dietro l’altro, non male per la Carrera… 

«Sì…». 

- E poi arriva il Tour, la tappa di la Plagne, Roche all’arrivo soccorso con l’ossigeno. Lì del Tour cosa si ricorda? 

«Be’, quella lì me la ricordo perfettamente, ero lì. Mah è stata… Allora, è stata una tappa incredibile». 

- Lì ha rischiato eh, Roche, ha fatto una roba… 

«No, ah be’, lì l’aveva già perso il Tour, l’ultimo chilometro l’aveva perso il tour, pure Delgado andava eh. Ha fatto quell’ultimo chilometro lì, ha buttato fuori in apnea, è riuscito a contenere… ma è stata una tappa strana perché dalla partenza… è stato il giorno prima quello che c’era la famosa tappa del Mont Ventoux che aveva preso una randellata da Bernard. Io ero in macchina, partito tre minuti dopo Bernard eh. E ci è arrivato a cinquanta metri. Lo prende, dico: lo prende e qua perso tutto. E solo che il giorno dopo, Bernard è andato in crisi, eh. Ma è andato in crisi perché ha sbagliato. È andato in crisi perché i francesi non si amano, meno che gli italiani. Si odiano…». 

- Fra di loro… 

«Eh beh… Cioè…». 

- E quindi gliel’han fatto perdere il Tour? 

«Non l’hanno aiutato. Cioè, è ovvio, come… Aiutato, nel senso che lor han fatto il loro gioco, per cui… e lì non sarebbe stato, scusi, io sono amico di coso, quello che vinto i due mondiali lì, Bugno, son amico di Bugno, l’abbiamo invitato anche l’altra volta lì, per avvicinarlo a Chiappucci. Ma ha ragione Chiappucci. Gli ha fatto perdere veramente…». 

- Chiappucci ce l’ha ancora von Bugno? 

«Bugno ha ragione a dir di no, perché tanto… Ma Chiappucci ce l’ha. E non ha mica torto. Se non tirava sotto Indurain… Ha tirato sotto lì Indurain…». 

- Ma quindi Chiappucci ce l’ha ancora su con Bugno? 

«Insomma. Gli abbiamo con Conti li ha portati in fiera quando abbiam fatto… tutti e due, sì, si son salutati ma è ovvio che… Non è che scorra buon sangue insomma. D’altra parte, quel che è fatto è fatto. Cioè… Io… mi ricordo anche quando era andato in fuga Zimmermann al Giro d’Italia [forse intende il Tour?, nda], aveva un vantaggio che se non c’era Bugno che tirava sotto LeMond, mica lo vinceva. Vincevamo noi il Giro [forse intende il Tour?, nda], lo vinceva Zimmermann, l’avevamo massacrato. E lo stesso con Chiappucci. Se lui rimaneva lì e lasciava Indurain a fare il… cosa, voglio vedere… Poteva vincere lo stesso, però… Uno dice se non lo faceva, vedevamo cosa succedeva. Per cui… cioè io lo comprendo. Anche se quando ci troviamo, ci salutiamo tutto quanto, però faccio fatica a comprendere Bugno se non col gioco della sua squadra. Cioè se la squadra ti dice di farlo tu lo fai, cioè… è ovvio perché ma tutti siamo così, no? Piuttosto che vinca quello lì, è meglio che vinca una straniero. È inutile che me la vengano a raccontare, cioè per un interista piuttosto che vinca la Juve è meglio che vinca il Real Madrid, dai. Anche perché è difficile… La nazionale è una cosa, ma il club… Quando ci son due italiani dentro, di cosa vuoi parlare? Ma i presidenti – nel caso della Juve è coso [Agnelli], ma i presidenti vengono dalla Cina e coso? Cioè... Perché? E poi quando sei dentro insomma la tua notorietà è legata a quell’altro, se cresce l’altro, cali tu, no? Anche come immagine». 

- Ma questa cosa di Roche. Sa che nell’86 ha vissuto un’annata nera perché nel novembre ’85 era caduto alla Sei Giorni di Parigi, aveva picchiato il ginocchio. Quindi voi magari tiravate un po’ sul prezzo [per l’eventuale rinnovo] perché questo guadagnava tanto. O no? Questo l’ha scritto lui in una sua autobiografia… 

«Sì, ce l’ho il libro, me l’ha dato. L’ho anche letto». 

- Quale? 

«Quello grande: Nato per…» [Born To Ride, il titolo della seconda autobiografia di Roche, nda] 

- Ogni tanto cambia versione. 

«Allora: con Roche avevamo fatto un contratto di due anni: 400 milioni [di lire] l’anno. Ero andato io a farlo assieme a Boifava a Parigi. Prima che [Roche] cadesse». 

- Aspetti: la interrompo un attimo per chiederle se è vero che all’inizio volevate prendere Kelly? E dopo invece Lualdi vi ha detto: guardate che Kelly è troppo De Gribaldy? È vero o no? 

«No, deve parlare con Boifava». 

- Ah, pensavo che anche lei fosse… Perché Kelly era un nome grosso all’epoca. 

«Può anche darsi. Sì, però il problema è un po’ come i rapporti con Moser, con Argentin eccetera. C’era una serietà di base. Cioè io ho detto dall’inizio: Davide, io vengo se tu fai squadre che puntano ai Giri. A me interessa niente la corsa di un giorno». 

- Perché? 

«Ma perché quando tu fai il Giro d’Italia sei venti giorni in televisione. E la gente… quello rimane impresso. Quando tu vinci la Milano-Sanremo, un giorno, se uno è alla televisione. Invece lì tutti i giorni la classifica eccetera. Non c’è… C’è un rapporto completamente diverso. Per cui io ho detto: noi dobbiamo puntare alle corse [a tappe]. Difatti quando siamo andati subito al tour, io ho fatto subito… Eravamo l’unica squadra…». 

- E pagavate anche cento milioni per andare al Tour, o no? 

«No, allora: no, si pagava qualcosa, ma subito dopo l’han tirata via. Perché ti davano le macchine e l’assistenza. Che poi io ho fatto, tra l’altro, diciamo, per quello son stato un po’ il precursore qua in Italia, no? Essendo… Mi han fatto subito presidente dei Gruppi Sportivi. E la prima cosa che ho combattuto è stata che chi fa le corse mi deve dare l’ospitalità. È stata una battaglia un po’ difficile, però ho detto: A me non interessa niente, scusa. Vuoi che ti faccio… Vengo qua e vi faccio la pubblicità eccetera, mi devo pagar l’albergo e il trasporto?! E l’ho ottenuto. Dopo ho avuto un po’ di problemi con le squadre, subito, perché… Ma mica problemi. A me l’albergo a cinque stelle [sorride, nda], agli altri… Per esempio, quando eravamo a Courmayeur, noi eravamo in albergo poi c’era il casinò… Ma perché io portavo Roche, portavo Visentini, portavo… Cioè, mica sceglievo io. Dicevo: io pretendo l’ospitalità, però non potevo mica scegliere gli alberghi, no? È ovvio che la mia squadra dava… In base ai pesi, no? Magari a volte eravamo insieme con… chi era lì… coso, lì, sì dove c’era Moser, quelli lì, lombardi…». 

- La Supermercati Brianzoli del gm Gianluigi Stanga… 

«Sì, a volte ci mettevano insieme. Però a volte si andava in certe località che c’era un cinque stelle, due di quattro… Va bè, dopo pian piano son cresciuti. Ma a parte questo, l’ho fatta io la battaglia, ma di brutto, proprio. Ho litigato con [Vincenzo] Torriani, perché Torriani poi sai…». [ride, nda] 

- Era bello tosto… 

«Perché quando gli ho fatto tirar via le Irge. È stata…». 

- Dura? 

«Ah, be’… No, perché succede questo. E dico: tra l’altro i due vicepresidenti della Lega eravamo io e Torriani, per cui in Lega sedevamo vicini. Allora, veniva a casa mia Torriani, è venuto… C’era [Fiorenzo] Magni il presidente, seduto di là, e Di Rocco, che era il segretario, di qua. C’eravamo io e Torriani, per cui c’era un po’ di amore ma tanta, non odio, ma tanta… Allora io dico: “Non star mica a portarmi la Irge”. Ah, perché a tutte le premiazioni c’eran le due ragazze…». 

- La Irge era vostra concorrente? Perché a voi dava fastidio come concorrenza, mica faceva… Non faceva pigiami eccetera? 

«Sta’ attento: no-no, mi dava fastidio come pubblicità, non come concorrenza». 

- Ah, ecco. Quello volevo capire. 

«Cioè io dico: “Senti, Torriani, ma scusa: io investo, tutti qua investiamo nelle squadre, alla fine c’è le premiazioni e c’è quell’altro. E scusa?! Ma dico: non vorrà mica che…”. Ma il primo anno… Il secondo anno ho detto: “Guarda, Torriani, che se non mi tiri via… Non sta’ mica a farle venire. Perché se le fai venire, non veniamo mica alle premiazioni”. A Monza sul [palco]… Nessuno è andato a prendere… Eh no… Abbiam fatto il golpe. L’ordine era delle squadre: nessuno… Se ci sono le ragazze sul palco, nessuno va». 

- E Torriani l’ha capita, dopo? 

«Dopo l’hanno rimesse, però quell’anno lì non ci sono più state. Poi, il giorno dopo, loro viaggiavano su una Fiat Barchetta – ti ricordi la Fiat Barchetta? – Io son qua tranquillo, mi chiama uno dei tuoi colleghi e dice: Ma cosa hai fatto? Dice: ma non sai niente? La Barchetta ha preso fuoco? [ride, nda] Va bè…». 

- Torniamo al biennale da 400 milioni annui a Roche. Poi? Dicevamo la caduta dell’85, l’86 – sostiene lui - la Carrera voleva ridurmi l’ingaggio perché non avevo reso. È vero? 

«Devi parlare con Boifava. Perché il problema, con tutte queste trattative, è che le faceva tutte Boifava. Non è che lui… Boifava poi è molto riservato. Avrà fatto questi discorsi, magari l’avrà anche detto. Ma è ovvio, noi avevamo questo contratto, sai…». 

- E prevedeva dei premi? Per esempio, se vince il Giro, se vince il Tour? C’erano quei premi? 

«Sì, sì. Beh, ma lì c’erano…». 

- E quindi veniva già con i gradi di co-capitano? 

«Sì, certo. L’avevamo preso principalmente per il Tour». 

- Aveva fatto terzo nell’85. 

«Sì. Eh, ma l’avevamo preso per quello. L’abbiamo preso per fare il Tour. E il discorso doveva essere, aveva una sua logica, Visentini Giro d’Italia e lui Tour. Poi si fa male, fa il Giro d’Italia scadente, Visentini vince il Giro d’Italia, per cui… Ma il discorso era così. Visentini Giro d’Italia, quell’altro il Tour, per cui non è che…». 

- Arriviamo all’87. Nell’87 Roche comincia a vincere subito. S’era fatto fregare, lui e Criquielion, la Liegi da Argentin, aveva vinto il Romandia, la Volta Valenciana. Aveva corso una gran Parigi-Nizza, e forato a poco dalla fine, con Kelly che subito aveva messo i suoi a tirare. Insomma, fino al Giro aveva vinto tanto… 

«Sì. Allora: intanto Roche ha questi problemi del ginocchio. Lo mandiamo, Boifava lo manda, dal professor Tagliabue, a Bergamo, il quale veramente…». 

- Danilo Tagliabue? "Il padre ella traumatologia", quello che ha rimesso in piedi Chiappucci dopo quella rovinosa caduta al Giro di Svizzera '86? [Si ruppe clavicola e caviglia, nda] 

«Sì, e lui [Boifava], bresciano, andava lì perché… E l’ha sistemato. Infatti, l’ha fatto “funzionare”. Sì, sì, era… È partito bene. Noi abbiamo avuto un po’ di difficoltà ma poi la squadra macinava. Cioè non c’erano… Tra l’altro, la Sanremo la vince Mächler. Eccolo lì Mächler… [ne indica la foto in ufficio, nda] Insomma le cose, sai, quando le cose cominciano ad andare bene, bene o male…». 

- Ho letto una sua bella frase che m’ha colpito: “Avevamo sopra di noi una stella”. O qualcosa del genere, ha detto. È vero? 

«Ah sì, l’ho detto, sì. È ovvio. Una stella, nel senso di dire: ti dava luce. Cioè, capisci? È come l’anno che Visentini ha vinto il Giro d’Italia. Bontempi ha vinto cinque tappe. E allora, dopo la seconda, abbiamo detto: “Guido, guarda che noi non ti mettiamo più la squadra a disposizione, perché non vogliamo creare problemi”. Perché rischiavi in un certo senso di ammazzare, no? Lascia star la tappa. E quell’altro - da solo - vinceva le tappe. Cioè, siccome funzionava, vinceva anche le tappe. E guarda: [Acacio] Da Silva ha vinto a Merano [Tacchella qui si confonde con Bruno leali, che vinse la tappa di Merano al Giro ’84, nda]… Io me le ricordo perché ero lì, cioè dico: anche se non vuoi le vinci. Poi ne fai cento, non ne vinci una. Eh». 

- È il momento magico… 

«Per cui insomma diciamo ci sentivamo… Vedevamo che la squadra era unita, le cose funzionavano. Perché poi, tutto sommato, adesso possiamo… Visentini ha il suo carattere, però, a parte quello lì, lui non ti dava mai problemi, eh». 

- Non le davano fastidio tutte quelle voci – poi alla fine tutte false – che dicevano che siccome era bello, di famiglia benestante, non faceva vita da atleta… E lui invece si allenava eccome. 

«Non mi davano fastidio. Per due cose: primo, io conoscevo la famiglia, avevano poi la sua benestante stava in un’impresa di pompe funebri, che son quelli di adesso. D’accordo. Il problema è che una volta si era comperata una Ferrari usata eccetera e l’han fatto… E purtroppo…». [sorride, nda] 

- Le etichette… 

«Ecco. L’han etichettato. Poi lui ha fatto così eccetera. Però lui non è che… Era abbastanza avulso, non è che leggesse tanto i giornali. Quelle poche volte che li ha letti è stato un disastro. [ridiamo, nda] Lui era il tipo… Cioè, qualche volta ti faceva anche arrabbiare. Perché, anche in volata: non è possibile che non… Non può dire che era “fermo”. Ha vinto un mondiale in volata da ragazzo. A 17 anni è diventato campione del mondo, no?». 

- Mondiali juniores, a Losanna 1975. La prima edizione del mondiale di categoria. 

«Ma non ha mica vinto per distacco. Allora se vinci una volata a 17 anni…». 

- Eh, ma dopo il livello è diverso. 

«Sì, vabbè, ma… Ma se arrivavano in tre lui va… quarto, eh». 

- Si ricorda il campionato italiano in volata con Corti? L’ha portato a spasso e poi alla fine… 

«Sì, anche lì, e c’ero io. Scusa lui e Ghirotto, fai andar via Ghirotto se non “vuoi” vincer tu, no? Ma lui una strategia non ce l’aveva, no? Lui non sentiva… lui misurava il metro su se stesso, non aveva questo… purtroppo… È fatto così». 

- Lei caratterialmente era più vicino a Roche o a Visentini o magari ad altri corridori di quella squadra lì? al di là della classe… 

«No, va bè… Allora, Roche ovviamente, forse è un po’ freddo nel senso che è un po’…». 

- Un po’ business-oriented, più calcolatore. 

«No, molto calcolatore. Molto più “inglese” di tutti gli altri. Però io adesso, da quando ha smesso… Ma sa coltivare molto i rapporti. Perché noi siamo ancora in buonissimi rapporti. Ogni tanto qualche volta ci telefonava, con Boifava ha tenuto molto, per cui… Non è che si porta dietro, difatti [nel biennio 1992-1993] l’abbiamo ripreso. L’abbiamo ripreso ma perché ne avevamo parlato con Boifava. E allora abbiamo fatto una valutazione. Boifava però dice: “Intanto, si porta dietro un background che comunque ce l’ha. Secondo, può insegnare a…”. Cioè: ha la visione delle cose. Terzo, è [ancora] un buon corridore, qualcosa può dare, per cui… Cioè, quando vai in giro, quando vai con Roche, non vai con uno sconosciuto eccetera. Hai in squadra uno di peso, per cui, nel ragionamento di Davide [Boifava], è un ragionamento molto concreto, non legato al sentimento ma all’opportunità. Poi con lui siamo rimasti…». 

- Chiappucci ha detto che quando Roche è tornato lo ha molto aiutato… 

«Sì, perché poi, quando è tornato da noi, ormai aveva perso lo smalto. I problemi al ginocchio… Perché, vede, anche lì, Roche aveva questo grosso… Meccanico maledetto…». 

- Patrick Valcke. 

«E poi anche ricordo quell’altro corridore, là…» 

- Eddy Schepers. 

«Sì. Per me, questi l’hanno portato fuori. Nel senso che l’hanno illuso, hanno forzato che… Va ben, lui aveva un contratto di due anni. Lui, nel frattempo, da buon “inglese”, dopo è andato ad accasarsi presso un’altra [squadra, la Fagor, nda]… Ha fatto il contratto, mi ricordo. Là dove avevano Tagliabue, l’hanno mandato a Marsiglia da uno “stregone”, che in realtà è stato uno stregone, e l’han rovinato. Cioè: han dovuto operarlo, perché ha detto che Tagliabue non lo aveva operato bene». 

- E dopo è andato dal medico del Bayern Monaco, Hans-Wilhelm Müller-Wohlfahrt, no? 

«Non lo so, dopo. Comunque lui ha sbagliato. Lui comunque… Cambi squadra, resta da ’sto qua, no? Resta da Tagliabue, sai già com’è. Quell’altro invece voleva far vedere che Tagliabue… Ma come fai a far vedere che uno non è stato bravo, se [Roche] ha vinto tutto, scusa un attimo? Cosa vuoi diventare, il Padreterno? Chissà cosa pensava quello lì? Cioè: se avesse… Se prende uno che non dà risultati…». 

- Ma era francese lo stregone, lì? 

«Era di Marsiglia mi ricordo, era un medico. Io dico “stregone" perché uno che ha… Mi ricordo che Boifava era affranto, perché diceva: “Perché ha fatto questa scelta?”. Almeno, così mi diceva. Perché sei andato a fare questa scelta? Ha uno che dovresti andare a ringraziarlo, vai da un altro perché è più famoso – perché naturalmente era più famoso – il quale, per fare vedere che era più famoso, l’ha operato un’altra volta. È stato lì il dramma, no? Operato, poi l’han costretto a portare tutto l’inverno con il coso [il tutore, nda]… Si è… Ha perso il tono muscolare». 

- E non è più tornato come prima? Poi i problemi alla schiena… 

«Non è più riuscito a recuperare. Perché, allora, mi diceva: Dopo le quattro ore, se tu non sei a posto… Lui pedalava con una gamba sola, praticamente forzava solo con quella sana. E la schiena… So che Boifava era furioso con lui. Con lui, insomma… Ognuno fa le sue scelte». 

- E invece con Roberto? Che cosa mi racconta? Dopo vi siete persi di vista? 

«Be’, poi Roberto ha abbandonato, adesso è come un certosino. Cioè tu non riesci… Non è mai venuto neanche a prendere un [caffè]…». 

- Ma con lei com’è? In buoni rapporti o no? 

«Mai più sentito». 

- Perché lui dopo Sappada non è andato via, non ha lasciato la Carrera. Nell’88 c’era ancora, anche se con la testa forse aveva già smesso. 

«Lui c’era lì, ma non l’ho più sentito». 

- Ma secondo lei è stata “Sappada” a fargli poi abbandonare l’ambiente del ciclismo? O lui non è mai davvero appartenuto a questo ambiente e se ne sarebbe andato lo stesso? 

«Allora: io non ho le conoscenze per dare dei giudizi. Ma perché per dare dei giudizi… Cioè, l’ho conosciuto solo nell’ambito “ufficiale” eccetera, per cui, quello che è la vita fuori, ecco… Intanto, era uno molto umorale eccetera, no? Una volta Boifava se lo vede arrivare, parliamo ancora dei primi anni, con una busta, un sacchetto di cellophane con dentro la bicicletta tagliati a pezzi, ha detto: basta non corro più, cioè ha preso un seghetto e l’ha tagliata a pezzi. Per dire… Pertanto, lui non dava problemi ma non è che fosse. Le racconto un fatto. Siamo a Pavia mi sembra non so, in quelle zone lì, due tappe prima o pochi giorni prima, nel Giro dell’86, lui era maglia rosa. [forse a Piacenza, nda] Siamo in albergo, a un certo punto siamo lì nella hall viene l’usciere e dice: Ma fuori c’è un gruppo di ragazze che vuole e cosa… Allora Boifava, ero là col dottor Solci e andiamo fuori, allora dice no… Allora diciamo: Guardate, [Visentini] è dal massaggiatore sta facendo i massaggi eccetera… Dice: Ah, noi almeno vogliamo l’autografo… Va dentro, guarda c’è… No, no… Allora andiamo dentro, facciamo noi l’autografo lo portiamo alle ragazze, tutte contente sono andate via. Non so neanche se [la firma] somigliava o no [sorride, nda] per dire. Questo, con Chiappucci, non sarebbe mai successo. Ecco. Lui… Cioè lui era come distaccato, non aveva questo…». 

- Lui non voleva fare il divo, vero? Non si sentiva un campione, personaggio, dico? 

«Ma forse… Ma anche se si sentiva… Ma lui era… Se in quel momento non aveva voglia, non lo faceva. Sto facendo questo, non venir a romperme le scatole, tanto non le conosco, cioè non…». 

- Il miglior Visentini qual è stato? Quello della crono di San Marino ’87 o quello del Giro ’86? Per lei… 

«Non lo so, ma io non c’ero». 

- In quella cronometro diede tre minuti a Roche… 

«Sì, sì ma non … Io mi ricordo il dottor Pierfederici, c’è il figlio, adesso, no? Mi diceva: se… Bisognerebbe fare una cosa, se noi togliamo la testa di Roche e la attacchiamo sul motore di Visentini, non ce n’è per nessuno». 

- Il nuovo Merckx. 

«Dice: non ce n’è per nessuno. Purtroppo… Roche ha tanta testa e ha un fisico buono ma non eccezionale. Quell’altro, un fisico eccezionale però… Purtroppo è così. È quello lì». 

- Mi parla un po’ di voi “Carrera”? Eravate all’avanguardia perché cercavate, dove era possibile, di fare i trasferimenti col minor disagio per i corridori, gli alberghi di prima classe… 

«No, no, non è che… Questo era un altro discorso. Noi avevamo fatto un contratto con gli organizzatori che ci dovevano pagare, dare un rimborso, per i trasporti e gli alberghi. Io sapevo che quando me lo comunicavano… Ho detto che abbiamo avuto dei problemi perché sembrava che all’inizio avessimo un trattamento di favore. Ma ce li davano, tutto sommato, non solo perché io ero il presidente dei Gruppi Sportivi – che non c’entrava niente – È perché porti una squadra che pesa, e la squadra che pesa, è ovvio che un “Billionaire” di Courmayeur ti dice: “Do ospitalità a una squadra, la do alla Carrera; gli altri, tenetevela”. Cioè, si formava automaticamente una “scaletta” dove l’albergo migliore ti diceva: “Se porta quella squadra là…”. È un po’ come gli ingaggi, no? Come gli ingaggi, e cosa vuoi… Anche a quel tempo là poi ti dicevano: “Se mi porti Visentini, ti do un milione, o ti do 500 mila lire. Se mi porti questo gruppetto di corridori, non so, Bontempi e Ghirotto eccetera, oltre alla… Ti do un rimborso di due milioni”. È ovvio che venivano squadre che non avevano niente, ma almeno non spendevano. Non so, andavi a correre in Spagna e ti dicevano: “Allora, se tu vieni con questi corridori, tu vieni e non solo hai tutte le spese di trasporto delle macchine eccetera. Devi farle venire, ma ti do anche qualcosa”». 

- Visentini perché non andava al Tour? Non gli interessava correre all’estero? Sa la battuta di Roche che diceva: “Visentini appena vede il cartello “Chiasso” si perde”. Voi eravate una squadra internazionale. E avevate corridori un po’ in tutta Europa, perché avevate gli svizzeri, Roche in Irlanda, il belga Schepers … 

«Io non lo so. C’era stato l’anno prima al Tour, quell’anno che ha vinto il Giro era andato al Tour, non aveva… ormai s’era sgonfiato, no? E io… però prima non c’era mai stato… allora, come ho detto prima, purtroppo Roche lì per me ha sbagliato. Roche non ha capito lo spirito della battuta. E allora l’ha un po’ offeso e ha detto: Io ti sto aiutando e io faccio la mia corsa, lui ha giustificato se stesso basandosi sulla battuta di Visentini e ha sbagliato». [qui non ha capito niente, nda] 

- Voi non avevate mobilifici, tipo Del Tongo, avevate un tipo di attività diversa, quindi anche “più” internazionale, non era un ciclismo globalizzato, volevo sapere ad esempio se voi come Carrera – voi per esempio avevate i pantaloncini blu, nessuno ce l’aveva in gruppo, eravate all’avanguardia in tante cose, le migliori bici, stranieri di tutta Europa, volevo chiederle se eravate una specie di Team Sky con trent’anni di anticipo, per la capacità di guardare avanti… 

«Era il nostro lavoro. Cioè il discorso dei pantaloncini è nato direi che forse io me lo ricordo perfettamente, è stato [mio figlio] Gianluca». 

- Ah, è suo figlio che ha avuto l’idea? 

«Sì. Allora, aveva… È del ’68, nell’87 non aveva vent’anni, era all’università ma era già… E mi ricordo che un giorno dice: Ma perché – siccome avevamo già fatto delle prove, perché tra l’altro c’era anche questo, no?, lavorando nel settore –, perché non facciamo un coordinato? Cioè: tutti ’sti pantaloncini neri, chi fa una striscia di qua di là, una scritta…». 

- Voi sui pantaloncini da gara avevate la scritta «Peugeot» come “rimborso” per aver preso Roche che era ancora sotto contratto. 

«Solo il primo anno. Ecco. Perché non facciamo un coordinato. Facciamo un pantaloncino che lo stampiamo come se fosse jeans. Facciamo jeans. E facciamo scarpe, anche blu, mi ricordo. È nato qua, parlando, quando si doveva preparare. Allora: chiama, mi sembra che avevamo, sì, questo [Vincenzo] Mantovani[12] lì, che faceva i pantaloncini, ’sto qua di Castel d’Ario, marchio… Comunque abbiamo chiamato, ci ha portato un pezzo di tessuto copiato dai jeans. Di pantaloncini sai quanti ne ha venduti…». 

- Quella maglia è diventata un’icona, ancora ci sono i collezionisti. 

«Sai quanti pantaloncini ha venduto quell’anno lì? 250 mila pantaloncini». 

- Solo quell’anno lì? 

«Sì. Dopo è passato, ma ha fatto due-tre anni che veramente è andato come un treno». 

- E invece l’idea della maglia – il disegno, i colori – com’è nata? 

«Allora: i colori sono i nostri. Perché noi abbiamo se vai a vedere, sempre rosso e azzurro. Abbiamo sempre cercato di farla più pulita possibile. Cioè abbiamo preso la maglia della Inoxpran, la squadra aveva… e l’abbiamo praticamente cercato di inserire… Poi cioè la base bianca con l’azzurro e il marchio, cioè abbiamo cercato di mettere in evidenza il marchio perché tutto il resto ci sembrava un…». 

- Chiappucci mi ha detto una frase molto bella, mi ha detto: la nostra era una maglia, non era un giornale. Perché non era piena di marchi, l’ho trovata calzante. 

«Sì, certo. Era quello che dicevamo qua. Cerchiamo di fare una maglia, dopo ovviamente abbiam messo perché i costi… però cerchiamo di fare una maglia pulita insomma, dove il marchio si vede, non deve nascondersi con disegnetti eccetera. Poi avevamo provato a cambiare all’inizio dell’87 l’avevamo fatta azzurra dopo siamo ritornati subito su quella». 

- La Vagabond cos’era un modello di… 

«Vagabond è un marchio nostro che allora ha avuto una certa notorietà. Era una linea riservata ai negozi, adesso per questo torniamo sempre, a volte, che si dice… Andava abbastanza bene, però anche lei abbiamo sbagliato il momento per farla andare bene, cioè proprio nel mercato. E adesso teniamo il marchio, facciamo delle cose marginali, c’è ancora il marchio. C’è ancora in giro, fanno delle calze, fanno delle cose, perché non vogliamo disperdere su tanti nomi, ecco. Teniamo lì in caldo se un domani possiamo vedere di fare anche qualche prodotto. Ma lì lavoravamo abbastanza, all’inizio aveva avuto un discreto successo. Poi sempre in quegli anni lì i negozi stavano sfalsandosi, allora non eravamo nella fase a top. Diciamo Carrera era qua, Vagabond era qua, la top era quella là, eravamo in questa [fascia], che è quella che ha subito il tracollo immediato. Cioè i bei negozi mezzi eleganti di un certo livello che poi con l’arrivo delle jeanserie loro non erano più jeanserie perché erano un po’ di tutto, son spariti. Ecco». 

- Non mi ha risposto se la Carrera era un Team Sky dei suoi tempi, o no? Regge il paragone? Era il Team Sky di oggi con trent’anni di anticipo? Perché avevate i corridori più forti, e anche voi ammazzavate le corse, o certe corse. 

«Mah, allora io potrei anche dire una cosa». 

- Mi dica quello che pensa, sincero. 

«Eh, abbiamo avuto culo». 

- Ci vuole, nella vita, eh. 

«Massì. È questo il fatto. Perché, allora: parliamo un attimo di Pantani. Una sera mi chiama Davide [Boifava] e mi dice: “Senta, può venire? Ché vogliamo… C’è qua un corridore che vorrebbe venire a correre con noi”. E allora gli ho detto: “Ben, parliamo”. E loro erano in ritiro, era dopo i mondiali che poi potevano “passare” [professionisti]… Erano in ritiro in un albergo di Salò. Io ero lì. Aveva qualche capello in più ma per il resto… Era lì, smagrito, timido eccetera ’sto ragazzino. Dico: “È questo? Cosa fa?”. Dice: “Va in salita”. Allora dico: “Va bene”. Ma non sapevo neanche chi era. Aveva vinto il Giro d’Italia dilettanti. Ha scelto lui, cioè: non siamo andati noi a cercarlo. Lui era…». 

- Lo sa che uno dei motivi per cui vi ha scelto è anche la maglia? Lo sapeva? 

«Ma lui voleva correre con Chiappucci. Difatti un anno han “resistito”. Son stati in camera insieme. È ovvio: due galli nel pollaio... Cioè lui ha posto, lui ha detto: “Io voglio andare a correre con Carrera”. Cioè, non si è… Fortuna che ha scelto Carrera. Poteva scegliere anche un’altra squadra, per mille cose, no? Poi, sai, non è che si trova un gruppo di corridori… adesso non lo so, ma allora, come Ghirotto, Leali, Bontempi, Perini, Mächler, cioè avevi una struttura che quando bisognava far la volata si mettevan davanti, quegli altri stavan lì, cioè, non so, anche le tappe a cronometro, insomma, andavano, eh. E quando ne hai sei-sette, e poi aggiungi Roche, Visentini e coso, fai presto a far una squadra». 

- Di Davide Boifava che ricordo ha? Che rapporto avete poi mantenuto, in tutti questi anni? 

«Be’, abbiamo un rapporto bellissimo anche adesso, perché ero a cena, pranzo con lui la settimana scorsa. No, ma anche perché abbiamo questo rapporto legato alle biciclette, no? E praticamente il marchio ce l’ha lui in gestione per la bicicletta, però lui in Giappone è su adesso quindici giorni, Chiappucci è un dio. Sì, figlio del vento». 

- Anche per quel mondiale là di Utsunomiya, nel 1990? 

«No, Chiappucci ha avuto la fortuna di… quando si parla… ha fatto gli ultimi anni che noi eravamo nel ciclismo, c’era una corsa in Giappone, organizzavano un aereo portavano un aereo di corridori europei a correre in Giappone, li ha vinti i primi tre anni tutti e tre Chiappucci. Da lì… abbiamo il distributore, siamo… la ditta di alto livello di biciclette che distribuisce è chiusa ma ne abbiamo quattro distributori per cui Chiappucci va là tutti gli anni, eh. Adesso è in Giappone con Boifava. Cioè si è portato dietro…». 

- Quando tornano? 

«La settimana prossima. Sta via quindici giorni, dicevano che è andato via la settimana scorsa, giorno più, giorno meno, è qua. Ma in Giappone proprio c’è una notorietà incredibile per quello che riguarda le biciclette. Chiappucci vince tre gare, a fine stagione. E lui aveva queste doti “strane”, no? Poi aveva un bel recupero. E anche se alla fine, era ottobre-novembre, magari aveva un po’ di energie sapeva spenderle. Ecco, ha vinto tre anni in fila, per dire. Cioè ci sono… non è questi corridori non son stati scelti, però il gruppo per esempio svizzero – Mächler, Zimmermann, dopo chi c’era? Breu e quell’altro, Mutter, e son venuti via in gruppo da una squadra [la Cilo-Aufina, nda] e son venuti a chiedere da noi perché non si trovavano [in realtà perché falliva, nda] E arriva e quell’altro [Mächler] ti vince subito la Milano-Sanremo, prende la maglia gialla al Tour. Perché la maglia gialla al tour l’ha presa Mächler. Il primo è stato Pedersen. E dopo l’ha presa Mächler. Era un bel passista. Passisti che, quando era ora, menavano». 

- Mi ha detto di Pedersen. È nata da lui l’idea del trentennale. Mi racconta della cena? 

«Allora: io non lo so. L’idea… Devo esser sincero, l’ho saputo in seconda battuta. Ma credo che l’abbiano decisa Boifava e Gianluca, devono aver studiato… Perché quando, a un certo momento, io non c’ero. Quando arrivo a casa e parlando dice: “Ah, che facciamo la festa”. Per cui… Non son neanche andato a cercare. Ho detto: “Avete fatto bene”. E basta». 

- E si aspettava di vedere Roberto? O non ci ha mai creduto? Davide Cassani ci ha provato a convincerlo, me l’ha raccontato lui… 

«Quello, no. Ma guarda, quello che mi ha deluso più di tutto… A parte che ero, no, ormai avevo già perso la speranza. No, perché alcuni anni fa, a Negrar, che c’è il Palio del Recioto, gli avevano dato… L’avevano scelto per premiarlo, come corridore significativo, gli davano la targa. Tramite Quintarelli che avevano il contatto eccetera. C’eri?». 

- No, ma me l’ha raccontato lo stesso Sandro. 

«La mattina lo aspettiamo, no: la sera lo aspettiamo». 

- E lì lei c’è rimasto male? 

«Siamo rimasti tutti… Ma perché, scusa? E anch’io. Vado a Negrar, porto su qualche amico eccetera. Me dico, quell’ambiente qua, festeggiano Visentini, abbiamo l’occasione, non arrivi? A un certo punto cosa vien fuori la scusa, che gli era … Un funerale, che doveva andar a prendere a Malpensa e portarlo a… coso, e non poteva venire. Dai». 

- Era davvero una scusa? 

«Non lo so. No, ma anche se c’era, chiami, non hai mica… Non sarà mica lui solo che ha la macchina, che può andare a prenderlo. Non stia mal, cosa che sospendono il funerale, per quindici giorni, se ha una malattia? Dai. Cioè: lui non riesce più ad affrontare il pubblico. Per me, lui è come quello che perde i contatti e poi non riesce più a trovare il filo per portarlo. Per mi, è questo, perché non è possibile. Qui i suoi amici tentano... Roche l’ha pregato. Perché Roche se l’è fatto un po’ come coso [cruccio, nda] di avere un incontro con Visentini». 

- Quindi, secondo lei, anche Roche un po’ ci sta male, per questa cosa di trent’anni fa? 

«Roche dice: io vorrei spiegarmi». 

- È vero che Roche lo chiama e l’altro mette giù. 

«Sì. Dice: ma io vorrei spiegarmi, perché non è stata una cattiveria. D’altra parte, per cui non capisco, e poi non si può fare in tempo di trent’anni, quarant’anni. A un certo punto ci deve essere… No? Anch’io magari potrei aver “massacrato” Bugno qualche volta, però ho detto: “Ohé, Bugno, cosa fai?” Io non posso pensare di vincere su… Pensare che altri ciclisti… per far vincere il mio corridore, per cui lui ha fatto, da un certo punto di vista, il suo dovere, anche di più, però non importa. Basta, tiro giù la saracinesca e quando lo trovo lo saluto, no? Io non lo so… Dispiace anche a noi perché ci avrebbe fatto immensamente piacere che fosse venuto». 

- Ha mai provato a chiamarlo? Da persona a persona non da Tito Tacchella patron Carrera a un suo ex corridore… 

«No, no. Ma no. Allora: il problema è questo: io lo chiamerei…». 

- …ma? 

«Ma no, però io… Dobbiamo essere… Dobbiam tener presente una cosa. Sarebbe brutto per tutti e due che lui dicesse di no. Allora preferisco lasciar stare». 

- Ah, ecco. Non ci avevo pensato. Cioè lei ci rimarrebbe male ancora una volta. 

«Ci rimarrei male io e anche lui, magari ti dice di no perché è coso, magari dice di sì. Allora piuttosto dico un giorno o l’altro, lo dicevo con Boifava, andiamo a casa sua». 

- Perché abitate a… Quant’è, non è tanto distante, no? 

«Una volta ogni tanto io passo lì da Boifava. Ho detto: prendiamo la macchina e passiamo da casa sua. Io quando correva son anche andato a mangiare a casa sua da sua mamma e da suo papà». 

- Ma perché se lei ha questo pensiero qua, che è bello no? Perché uno aspetta trent’anni? Per quello mi chiedo, no? Cioè se volevate farlo avevate, questa cosa della macchina, anche Davide, volendo si può fare… però evidentemente c’è qualcosa che manca, o no? 

«Sì, però… Allora il problema, il discorso è questo: non l’abbiamo, non l’ho fatto non l’abbiamo fatto perché non sappiamo quali sono le reazioni di questo ragazzo, magari… Se si riuscisse a fare attraverso non so attraverso Leali, o Cassani o…». 

- Ma io so che lui ogni tanto va a cena con Bontempi… 

«…o con Bontempi. Se lui riuscisse, è un discorso allora. Però visto il suo carattere metterlo di fronte a un fatto… Non sai la reazione e allora potrebbe essere peggio che lasciar aperto una porta. 

- Perché io credo che alla fine sentendo tutte queste persone come voi alla fine tutti vorrebbero un riavvicinamento. 

«Sì, però vede che lui non cede, questo fatto che lui non cede. È questo che ti mette…». 

- Un po’ a disagio? 

«Per me è disagio, per me è lui a disagio. Noi non siamo a disagio perché lo accoglieremmo come figliol prodigo. Cioè non siamo quelli che… però la mia paura sarebbe quella di creare un muro più grande ancora. E allora chiudi la porta, no? Perché allora la chiudi definitivamente». 

- Anche con Mino Denti ho parlato, lui è vicino a Roberto… 

«Sì, ma appunto per quello è, come si dice, quel diaframma che si riesce a… Perché se non è venuto al trentesimo, se non è venuto prima quando abbiamo fatto le cose… Non è venuto a Negrar, perché poi l’ho avuto lì di sopra il premio del Recioto due-tre mesi, perché go dito a Boifava: “Dighe che veni a chorselo”, digli che venga a prenderselo. Dai che viene qua, andiamo a pranzo e…». 

- Mi dice una cosa off record Perché Belleri non vuole rilasciare interviste? Boifava non vuole rilasciare interviste. Ma cosa c’è? Perché. Ha visto che noi abbiam fatto una chiacchierata tranquilla, no? 

«Sì, allora, non ci pensavo neanche a questo, cioè mi fai una domanda che io non ero…». 

- Lei non mi ha fatto nessun problema perché non c’è nessun problema. 

«No, ma non è che ci siamo lasciati…». 

- Sono un po’ amareggiato per quello, poi magari ce la faccio lo stesso. Magari li convinco. 

«Sì, perché come dico noi lo abbiamo invitato, c’era qua quando abbiamo fatto la festa è venuto tranquillamente». 

- Poi vorrei parlare anche con Luciano Bracchi, il meccanico che lavora con Boifava. E con Enzo Verzeletti, massaggiatore anche della nazionale. 

«Verzeletti non l’ho più visto. No, forse l’ho visto. Bracchi sì, l’ho visto anche la settimana scorsa, e ogni tanto…». 

- E quindi per lei Sappada non solo un brutto ricordo è anche un bel ricordo, no? 

«No, allora. Il brutto ricordo sarebbe quando io ho fatto qualcosa che non… dovevo fare., questo ecco, questo è il brutto ricordo. Però siamo entrati in una come si dice e ne siamo usciti, questo è il discorso, cioè…». 

- Ne parliamo ancora dopo oltre trent’anni, quindi vuol dire che è stata una “bella” storia del ciclismo. 

«E alla fine comunque diciamo ha avuto, abbiamo vinto il coso. E che poi oltre dico: noi ovviamente abbiamo la nostra filosofia eccetera e non siamo superstiziosi perché non fa parte del nostro costume insomma… però io potrei pensare, posso pensare che qualcuno che tira i fili qualche volta ci potrebbe anche essere. Per cui a un certo punto se fosse se avesse vinto il Giro Visentini non nasceva la favola di Roche. Questo sicuro perché non poteva fare… non è che lo rimando all’anno prossimo, quello non l’avresti … cioè per cui alla fine…». 

- Non solo: quel Giro lì, il secondo consecutivo che avete vinto, aveva un percorso piatto. Non succedeva mai niente, se si ricorda: a parte due-tre volate, non è successo niente. Invece, per quella vicenda lì, è entrato nella storia. 

«Sì, era troppo dominato. C’era troppo divario, in quel momento lì. Perché con due avevamo un sacco di…». 

- Questa è una storia da film, per quello è… 

«Ma è per quello che a volte pensando, così, mi dico: Ci sono delle cose che sembrano negative e che alla fine trovano un epilogo positivo. Perché in realtà è stato pagato in maniera… Non vedo… come dicevamo, non…». 

- A Blessing in disguise, dicono gli americani: non tutto il male vien per nuocere. Ma oggi, con le radioline, internet e i social, le mille telecamere, la diretta integrale, una “Sappada” potrebbe succedere? O è impossibile? 

«A parte che io il ciclismo guardo. E sono meravigliato a vedere da come vanno via. È una cosa folle vedere a che velocità vanno, sempre bom-bom-bom. Ma non so come… Anche il Giro delle Fiandre». 

- O la Roubaix una settimana fa o ieri l’Amstel,,, 

«Ah sì, la Roubaix con Sagan da solo. Ma dimmi te, e quindi è difficile… Però una volta, mi ricordo che andavo… Ero molto amico di [Vittorio] Adorni, perché era in Consiglio per… e andavamo d’accordo. E mi raccontava i primi tempi che correva con Merckx. Diceva: Era una macchina, una bestia. Andavamo fuori, a ogni allenamento, e a un certo punto si metteva davanti e ci seminava tutti. A un certo punto lui partiva e non ce n’era per nessuno. Cioè lui… Non sapevi se era allenato o no, lui partiva e non ce n’era per nessuno. Cioè: quando hai quegli elementi lì… Sagan è un tipo così. Forse non vincerà i Giri, anche perché se corresse oggi Merckx non farebbe… Non avrebbe questo risalto. A ognuno il suo tempo ma… Con tutte le corse che fanno adesso… Perché, vedi, anche Nibali: fa un bel risultato ma poi si “siede”. Non è che abbia la continuità di quei mostri lì». 

- E invece Hinault, quando lei ha visto Bernard Hinault? 

«Io, Hinault… [sorride, nda] Allora, Hinault mi ricordo, così, quando l’hanno massacrato in quella discesa là, prima c’è cascato, però, all’Alpe d’Huez, quando è andato via prima LeMond o Hinault, sì, era andato via e lui cercava di star sulla ruota di Hinault. Quell’altro rallenta, in discesa, e a pochissimo dalla fine della discesa fa uno scatto, gli passa vicino e a quaranta-cinquanta metri in fondo trova il suo compagno e vanno via in due, quell’altro resta da solo. Ha fatto lo stesso errore che ha fatto così lì, Bernard con Roche quel giorno lì. Perché se Bernard invece di andare subito in tilt… Perché sai che abbiam fatto l’attacco al rifornimento, no? Io lo sapevo. Lo sapevamo, noi, che avrebbero attaccato al rifornimento. Perché ce l’avevano detto. Quindi, fatalità: Bernard, anche lì, buca. Ha bucato prima della discesa, però dopo che è rientrato… Ma non è mica rientrato, non è mica andato davanti. È rimasto dietro, in fondo al gruppo. Quegli altri, c’è il rifornimento, e tu sei in fondo al gruppo… Quando lui se n’è accorto avevano già mezzo minuto. Quando è partito… Chi c’era? A parte Roche – Mottet no, era già in fuga – c’era Fignon, mi sembra. Erano in quattro-cinque, Delgado eccetera, che picchiavano. Questo qua va a rincorrere, cerca di rientrare, però ne hai quattro davanti, e ti tiri il gruppo. Ma nessuno gli ha dato una mano. Per cui, lui, o trovi l’aiuto o sennò stai nel gruppo e speri… Solo che prima lui in salita ha tenuto. Perché quando siamo arrivati a fare il falsopiano – io lì c’ero – era lì, a mezzo minuto. Solo che quel falsopiano lo ha stroncato. Invece di aspettare quelli dietro, ha continuato a pedalare da solo». 

- E lì era a bagnomaria tra i due gruppi. 

«Era a bagnomaria. Quando ha cominciato la salita quelli che erano assieme – Fignon eccetera – son rimasti Roche e Delgado, ai quali ormai non fregava più niente. E lui ha cominciato a salire, ha perso tre minuti su quella salita lì. Ma se lui si faceva dar una mano, o cercava di… Stessa roba di Chiappucci quando ha perso il Tour. Quando ti lasci prendere dalla paura e dai tutto, dopo la paghi…». 

- C’è un corridore a cui lei è rimasto più affezionato? Dei suoi… E non per forza famoso, eh. 

«Ma sai, è facile dire Chiappucci, per dire, no? Potrei dire anche con Pantani, ma Pantani non aveva… non c’era, ci conoscevamo, ci salutavamo eccetera ma non c’era un rapporto nel senso come Ghirotto per esempio, Perini, erano personaggi coi quali ti piaceva anche parlare, ecco». 

- E come è uscito dal ciclismo? Perché è uscito? 

«Be’, ormai era…». 

- Cominciava a cambiare, in tutti i sensi? 

«No, allora: noi siamo usciti dal ciclismo per… Noi avevamo già i nostri problemi aziendali, cioè e sostenere la squadra… diventava una cosa, per cui… siam rimasti dentro un anno in più, due anni in più, perché son cose, per cercar di dare una mano anche a Boifava ma ormai… perché dopo cominci a capire che quando tu cadi, devi tagliare. Non puoi… Allora: quando sei abituato a star sopra, eh, non vuoi… Uno sponsor a un certo punto deve smettere, perché perdi il ricordo “vincente”». 

- Certo poi lì è difficile dire basta perché dici: magari investo ancora in pubblicità magari mi risollevo, invece… è una spirale negativa, dopo… 

«No, no: non è vero, perché lo sport è micidiale. Se tu vinci, sei sull’onda. Ma quando perdi, perdi. Eh, ma varda lì che squadra… Pur nella… Con tutto il rispetto eccetera, insomma, perché… Pantani, Coppi son rimasti nella… Cioè, ti rimane quell’aura… Perché poi chiudi in maniera minore. Perché la squadra non puoi…». 

- E perché poi quella famosa stella a un certo punto si spegne, vero? È la vita... 

«Era un “cinque stelle”, adesso è un vicolo. E poi… Intanto bisogna anche essere concreti, cioè se io… Se cambia il mercato, e il mio mercato cala e quell’altro cresce in maniera esponenziale, o io ho il coraggio… Sennò ci pensa il mercato a buttarmi fuori. Non c’è bisogno: adesso io… Non voglio essere impietoso, però ci sono delle scelte che devi fare. Sennò tutti farebbero la squadra più forte… Ma nessuno fa la squadra più forte al mondo». 

C’è sempre qualcuno che prima o poi ti ruba l’idea. E magari la fa meglio. Ma che anni, quegli anni di successi. Tredici anni di gran Carrera. 

CHRISTIAN GIORDANO


NOTE:

[1] Legge Merlin: Legge del 20 febbraio 1958, n. 75, dal nome della promotrice nonché prima firmataria della norma, la senatrice socialista Lina Merlin, all’anagrafe Angelina Merlin, padovana di Pozzonovo, prima donna a essere eletta al Senato della Repubblica italiana. Introducendo i reati di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione, quella legge abolì la regolamentazione della prostituzione. La prostituzione in sé, volontaria e compiuta da donne e uomini maggiorenni e non sfruttati, restò però legale, in quanto considerata parte delle scelte individuali garantite dalla Costituzione, come parte della libertà personale inviolabile (Artt. 2 e 13). 

[2] La legge per l’abbassamento della maggiore età dai 21 ai 18 anni fu approvata dal parlamento italiano il 10 marzo 1975. 

[3] Sait. Sindacato Agricolo Industriale Trentino. Consorzio delle Cooperative di Consumo Trentine, organizza le strutture per la distribuzione dei prodotti e gestisce i servizi per le Famiglie Cooperative e per i loro punti vendita; Il 23 novembre 1899 l'ingegnere Emanuele Lanzerotti, nato a Romeno, fonda il Sindacato Agricolo Industriale Trentino (Sait) per organizzare l’acquisto in comune di merci e macchine da parte delle Famiglie Cooperative. Sait nasce come una centrale di rifornimento e smistamento per sostenere i piccoli dettagli: ha lo scopo di far risparmiare sugli acquisti da destinare alle Famiglie Cooperative, ma non solo. È un sindacato in grado di indirizzare i consumi, di organizzare le scelte per far capire alle persone cosa possono consumare, quale è la provenienza, il significato della merce in vendita 

[4] Euro Cormar: azienda di Sesto Fiorentino specializzata in abbigliamento, in venti anni di attività da importatrice di sole magliette col marchio “Fruit of the Loom”, diventò una delle più note aziende produttrici di jeanseria e sportswear, con un fatturato annuo di cento miliardi di lire. 

[5] Genoa. Il primo sponsor sulla maglia del Genoa fu la Seiko, colosso giapponese di orologi da polso, nell’anno del centenario dell’azienda. L’abbinamento dura due stagioni, poi nel 1983 il club opta per un’azienda locale, la Elah, industria dolciaria fondata a Genova nel 1909. Nella stagione 1984-85 compare la Carrera. Il Genoa è appena retrocesso in Serie B, e al vertice societario c’è il cambio tra Renzo Fossati e Aldo Spinelli, che nel giugno ’85 rileverà l’intero pacchetto azionario. Nuovo presidente e nuovo anche lo sponsor, Levante Assicurazioni. 

[6] Giorgio Grigolli (1927-2016): storico esponente della Democrazia Cristiana, è stato per due mandati (dal 13 marzo 1974 al 15 marzo 1979) presidente della Giunta della provincia autonoma di Trento. Tra i fondatori (nel 1970) della Marcialonga, è stato vicepresidente (sotto l’ingegner Ito Del Favero) e poi, negli anni Ottanta, presidente del Calcio Trento. 

[7] Finale di Coppa Korać 1980-81. Al Palau Grana di Barcellona, il 19 marzo: Joventut (Freixenet) Badalona - Carrera-Reyer Venezia 105-104 dopo un tempo supplementare. 

[8] Tacchella cita lo sfogo post-partita di Gianluigi Buffon, espulso nel finale di Real Madrid-Juventus 1-3, ritorno dei quarti di finale della Champions League 2017-18. Quella del «bidone di immondizia al posto del cuore» riferito all’arbitro inglese Michael Oliver, che al 93’ aveva concesso al Real Madrid il rigore poi decisivo per la qualificazione. 

[9] Reyer Umana Venezia 1980-81: Dražen Dalipagić, Fabrizio Della Fiori, Andrea Gracis, Spencer Haywood, Luigi Serafini, Claudio Soro. Completavano il roster: Carraro, Marella, Silvestri, Grattoni e Gorghetto. Allenatore: Tonino Zorzi. La Reyer vinse il campionato di A2, ottenendo così la promozione in A1 e l'accesso ai play-off scudetto. Al primo turno eliminò in tre partite la Recoaro Forlì, poi uscì nei quarti in due partite contro la Turisanda Varese. 

[10] La storia dei telefoni cellulari inizia il 3 aprile 1973, quando Martin Cooper, ingegnere senior che lavorava per la Motorola, ne ha usato un prototipo per chiamare un potenziale concorrente nel mercato della telefonia mobile. Fu la prima chiamata da un telefono cellulare. Quel prototipo pesava 1,1 kg e le sue dimensioni erano di 228,6 x 127 x 44,4 millimetri. Si caricava in circa dieci ore e permetteva una conversazione della durata massima di trenta minuti. 
Dieci anni dopo, nel 1983, uscì il Motorola DynaTAC 8000X, il primo in commercio a fornire un’autonomia di trenta minuti di conversazione, con la possibilità di memorizzare trenta numeri e un tempo di attesa di sei ore. 

[11] Cangrande d’oro, riconoscimento annuale che il Comune di Verona attribuisce alle eccellenze dello sport cittadine. Nel 2019, per la 25esima edizione, è stato assegnato all’unanimità a Elia Viviani, campione italiano in carica e vincitore di quattro tappe al Giro d’Italia 2018. Viviani, olimpionico a Rio2016 e bronzo a Tokyo 2020 nell’omnium, lo aveva vinto anche nel 2017. A Damiano Cunego fu assegnato il premio alla carriera. 

[12] Vincenzo “Cencio” Mantovani (Castel d’Ario, 1941), professionista dal 1966 al 1969. Ottimo passista, argento olimpico nell’inseguimento a Tokyo 1964 (con Luigi Roncaglia, Carlo Rancati e Franco Testa, oro a Roma 1960), dopo il ritiro dall'agonismo, a fine anni Sessanta, si diverte a disegnare e realizzare capi d’abbigliamento ciclistico per gli amici. Sarà la sua seconda, e ancor più fortunata, carriera.

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