Giovanni Battaglin - Campione e gentiluomo


di CHRISTIAN GIORDANO ©
IN ESCLUSIVA per Rainbow Sports Books ©

sede Cicli Battaglin 
Marostica (Vicenza), venerdì 23 febbraio 2018 

- Giovanni Battaglin, fortuna e sfortuna di aver corso nella sua epoca? 

«Be’, è stata un’epoca magica, per il ciclismo, anni Settanta-Ottanta. È stato veramente epico. Io ho avuto la sfortuna ma anche la fortuna, il privilegio, di aver corso con grandi campioni, a quell’era. Perché ho corso con la generazione di Eddy Merckx, Raymond Poulidor, Bernard Thévenet, Joop Zoetemelk, José Manuel Fuente. E tutti gli italiani che c’erano…». 

- …e che italiani. 

«E ce n’erano un’infinità. Perché nell’èra mia, e prima quella di Felice Gimondi, Marino Basso, Italo Zilioli, narrarli tutti sarebbe un elenco interminabile. Diciamo che è stato anche bello correre con questi campioni, perché o ti fai le ossa subito o altrimenti non te le fai più. Perché bisognava subito mettere un’etichetta, che sei uno di quelli che puoi dire la tua, altrimenti passi poi in secondo piano e non emergi più». 

- Per chi non ha avuto il privilegio di vederla correre, che corridore è stato Giovanni Battaglin? 

«Mah, un corridore che nella carriera ha avuto sfortuna. Perché ho avuto fratture, ho avuto…». 

- In una caduta addirittura nove… 

«Sì, sì. L’anno dopo il Giro d’Italia, il 1° aprile [1982] ad Aci Catena, son caduto in volata. Una bicicletta m’ha attraversato la strada proprio all’arrivo. Eravamo in tre in volata, mi sono impiantato appunto sulla bicicletta, ho cappottato in avanti, son andato a sbattere con testa e metà corpo sul marciapiede e mi son disintegrato tutto. E lì ho perso la stagione. Poi l’errore mio è stato anche che, dopo 42-43 giorni, ero già in bicicletta. Ho fatto il Tour d’Indre-et-Loire e il [Grand Prix du] Midi Libre perché dovevo fare il Giro d’Italia, perché era l’anno dopo che avevo vinto il Giro quindi era l’anno che si incassavano anche un po’ di quattrini. Perché la nostra risorsa era quella, i circuiti a ingaggio. E io avevo già trenta circuiti firmati per dopo il Giro di Francia. Avevo tutti i circuiti quindi ho voluto partecipare». 

- Ha commesso però quell’errore lì, di essere tornato troppo presto? 

«Tornare troppo presto. Perché dopo quelle fratture son stato fermo trenta giorni. Senza toccare la bicicletta, perché avevo un pachiderma di ingessatura dappertutto. E quindi ho voluto poi partecipare, ma ero senza allenamento. Tour de Loire e Midi Libre io l’ho fatti per la preparazione. Perché subito dopo c’era il Tour de France e quindi, per gareggiare, per essere un po’ in condizione… Però è stata un po’… Sai, quando parti sei pieno di energia. È come una candela nuova: l’accendi e poi ogni giorno si consuma. E lo stesso era per me. Ogni giorno ce n’era sempre meno fino a che, a quattro-cinque giorni dalla fine del Tour, ho dovuto abbandonare, perché ero proprio esausto. E ho preferito abbandonare il Tour. Però se io avessi avuto l’accortezza di “rallentare”, di fare la mia preparazione adeguata nell’arco di un mese, un mese e mezzo, preparandomi bene eccetera, quando arrivava agosto potevo far quello che volevo. Perché avrei avuto una base di allenamento, una preparazione, una base. Invece non avevo alcuna base e quindi alla fine ho perso una stagione, perché poi, facendo tutto in fretta, ho un po’ rovinato la stagione. L’anno dopo però mi sono un po’ rifatto. Però, sai, dopo quello che ho fatto a Vuelta e Giro ’81, l’anno dopo rimetterci tutta la stagione per via di una banale caduta… Anche perché non è che io avessi sgomitato con gli altri due, che erano Emanuele Bombini e, mi sembra, Giovanni Mantovani; uno è caduto, la bicicletta ha picchiato… Eravamo a Aci Catena, proprio dentro, nel budello di Aci Catena, in leggera salita anche, a 150 metri dall’arrivo. La bicicletta ha picchiato contro le case sulla sinistra e mi è venuta contro, mi ci sono inforcato “dentro” e lì è stato un trauma». 

- Le caratteristiche del Battaglin corridore? 

«Ero un passista-scalatore. Però in discesa ero alla pari degli altri, anzi con Moser facevamo delle lotte… Moser e io siamo della stessa classe, ’51, e abbiamo iniziato lo stesso anno a correre. Abbiamo sempre fatto la carriera, io e lui, costante. Quasi tutte le corse: lui trentino, io veneto, e quindi si correva molto in Trentino, da dilettanti. Poi, tutte le corse più importanti si correva assieme, quindi abbiamo fatto un percorso parallelo, diciamo. Lui era un po’ più veloce, molto più veloce di me e quindi tante volte sono anche arrivato secondo, però… In quell’èra, da dilettanti, quando siam “passati” [professionisti] io, Moser, Aldo Parecchini [bresciano di Nave, classe ’50, nda], Luciano Borgognoni [varesino di Gallarate del ’51, nda], eravamo cinque-sei. Eravamo veramente i più forti d’Italia. L’anno prima, ’72, io avevo vinto il Giro Baby e quindi son anche “passato” con credenziali positive». 

- Questa etichetta di “campione sfortunato” lei l’ha un po’ pagata, magari qualche giornalista ci ha un po’ marciato sopra? Penso al mondiale di Valkenburg ’79, se vuole parlarne. So che glielo avranno chiesto tutti, quindi cercavo piuttosto di farmi raccontare da lei il Battaglin meno noto… 

«Ma no. L’anno di Valkenburg avevo una condizione… Io quell’anno, ’79, per via della congiuntivite non ho fatto il Giro d’Italia, ma avevo vinto sette-otto corse». [quattro prima del Giro: Reggio Calabria, Pantalica, la seconda e la quinta tappa alla Vuelta al País Vasco; e quattro dopo: Matteotti, Coppa Placci e Coppa Agostoni, nda] 

- Quel virus della congiuntivite s’era diffuso in gruppo. 

«Un virus in gruppo. Io avevo appena vinto a Reggio Calabria, avevo vinto per distacco. Due giorni dopo ho vinto il Pantalica. Poi sono andato alla Tirreno-Adriatico, l’ho persa per pochi secondi. Ho avuto la maglia dal quarto giorno in poi, e l’ho persa, alla cronometro, da Knudsen [primo per un secondo su Beppe Saronni e 25” sullo stesso Battaglin nella classifica generale, nda], però stavo andando in condizione. Poi ho vinto il Giro dei Paesi Baschi, e anche due tappe, avevo una condizione eccezionale. Son venuto a casa… Ma lì…». 

- E il Giro aveva un percorso che le si addiceva? 

«Sì. Però io quell’anno lì, ’79, ero al primo anno in Inoxpran. Era una squadrettina di tutti giovani». 

- Boifava era agli inizi da diesse. 

«Era al primo anno. Aveva appena smesso di correre. Si correva assieme anche con lui. E quindi abbiam fatto la squadra assieme, ma quasi tutti giovani. C’erano Guido Bontempi, Bruno Leali…». 

- Poi si sarebbero fatti una signora carriera ma anche loro erano agli inizi. 

«Erano all’inizio. E il primo anno siam andati. Per quella congiuntivite ho dovuto fermarmi. Son andato da un professore perché, in due giorni, avevo una debilitazione enorme. Non riuscivo da sentir neanche le gambe, una debolezza eccetera… Gli occhi erano come due… Tutti pieni, tutti rossi, infuocati, come fosse stato sangue. Sono andato lì e ha detto: No, no, qua bisogna fermarsi. Perché questo virus, con l’aria che noi si prendeva, si alimentava sempre di più. E ho dovuto star fermo. Son stato fermo un quindici giorni, però arrivava il Giro d’Italia. Quindi abbiamo dovuto…». 

- Neanche i rulli, niente? Poca roba, come non far niente? 

«Rulli, come non farli. Perché io ci credevo anche poco, nel rullo… E quindi ho preso de star fermo, troncare proprio. Quando [il professore] mi ha detto: “Sì, comincia pian pianino ad allenarti”, ho cominciato a prepararmi. Però abbiam dovuto decidere, la squadra ha dovuto decidere di non fare il Giro. E abbiam abbandonato. Allora ci siamo iscritti al Tour. Abbiamo fatto, in preparazione, il Giro di Svizzera, ed era bello durino, anche. Perché son belle salite, in Svizzera. E l’ultimo tappone l’ho vinto io, per distacco, a Laax. Ho vinto, poi da lì siamo andati a Aci Catena. C’era il campionato italiano, siamo arrivati io e Moser e mi ha battuto in volata: secondo al campionato italiano. Da lì siamo andati al Tour de France e ho cominciato a fare il Tour. Ho trovato una condizione che bastava solo guidare la bicicletta. Una condizione eccezionale». 

- E che non ha più ritrovato? 

«No, no. Anche nell’80 e ’81 l’ho trovata, quando poi ho vinto il Giro. Però [nel ’79] avevo una condizione eccezionale. Ho fatto il Tour e finito il Tour – un gran Tour, potevo arrivar secondo –, purtroppo, triste da dirsi, mi hanno beccato con lo Zerinol». 

- Ho letto, lei aveva la… 

«…la maglia a pois, avevo…». 

- So però che non stava bene, no? 

«Io stavo bene, avevo…. Allora: c’era una tappa, una cronometro vicino Bruxelles, e il Tour faceva il giro. Abbiam fatto, nella tappa di Roubaix, gli ultimi cinquanta chilometri della Roubaix “originale”, come era all’epoca, non quel pavé di oggi. Quello di oggi è asfalto. È asfalto questo, perché, cosa vuoi… Allora c’era un sasso ogni trenta centimetri, c’era una mattonella. Si correva sempre “dentro”… Però era luglio, quindi… Però, nonostante il periodo, c’erano ancora le pozze d’acqua. Sono arrivati in quattro davanti e poi il gruppettino di sette-otto dietro. Nel finale avevo forato, son rientrato agli ultimi due chilometri. Da lì siam andati poi in Belgio, siamo andati a fare una cronometro vicino Bruxelles, e da lì poi siam ripartiti – mi sembra – dal confine con la Francia [a Rochefort, nda] fino a Metz. Abbiamo fatto tutte le Ardenne per venir fuori. Erano tappe da 230-240 km, sotto vento e acqua, e una nebbia a morire, a fare le Ardenne il mese di luglio. Una cosa… Un freddo da morire. E mi ricordo che nel finale siamo andati via un gruppo. Siamo arrivati che il gruppo si era decimato, e siam rimasti in una trentina davanti. E io non avevo nessuno, perché in squadra eravamo rimasti in tre: quattro corridori erano già andati a casa per fuori tempo massimo [Nazzareno Berto, il francese Patrick Busolini, Gianfranco Foresti e Giovanni Mantovani, nda], e uno [Luigino Moro] si era rotto la clavicola.[1] E avevo Knut Knudsen [nel ’79 alla Bianchi-Faema, nda], che aveva corso con me alla Jolljceramica». 

- Era forte… 

«Eh sììì. E poi siamo sempre stati amici io e lui, con la Jolljceramica in camera assieme quindi… E allora ho detto: Vai, tieni duro. Era pieno di freddo. E la mattina – mi ricordo questo particolare, di Knudsen – mi ha detto: Stammi a ruota che ti copro un po’ il vento eccetera. Perché c’eran sempre ventagli. E siamo arrivati lì. Il giorno dopo c’era una tappa che si arrivava al Ballon d’Alsace [la 13ª, il 10 luglio, 202 km con partenza da, vinse Pierre-Raymond Villemiane, in maglia gialla Joop Zoetemelk, nda]. Una tappa “corta” per il Giro di Francia, per me era abbastanza ma non era di quei tapponi lunghi, e con arrivo in salita. E allora abbiam detto: Io son fuori classifica. Perché c’erano, quel Giro là, sette cronometro, due cronometro a squadre. E io avevo perso parecchi minuti perché gli altri correvano in dieci e io correvo… io. Be’, la prima eravamo in cinque, l’ultima eravamo in quattro. Quattro: io, Dorino Vanzo e Bruno Leali e un altro, non mi ricordo se era il francese Patrick Busolini. Quindi: in quattro contro dieci il ritmo cambia. E allora lì abbiamo perso molto tempo. Ho perso, in quelle due cronometro [2], 19 minuti dal primo, Bernard Hinault. Da morire. E quindi ho detto: Attacchiamo, provo ad attaccare, attacchiamo con la squadra, abbiamo detto, attacchiamo in partenza, tiro via una fuga, se son capace posso anche vincere la tappa, se mi lasciano andare, visto che sono anche un po’ fuori classifica. E la mattina – come programmato – siamo partiti dall’albergo per andare a quel paesino dove c’era la partenza. Dovevamo fare dieci-quindici chilometri dietro la macchina, a scaldarci, con dei maglioni, perché è stato un anno anche abbastanza “freschevolino”, quell’anno lì. Quando siamo arrivati là, eravamo tutti sudati quindi si girava in continuazione. Mi ricordo sempre che c’era un piazzale enorme, dove c’era tutta la carovana. Abbiamo visto il dottore e gli ho detto: “Dottore, ho un po’ di raucedine”. 
- “’spetta-’spetta, vieni qua, ti do io qualcosa”. 
Mah, pensi che il dottore sappia… Allora, mi ha dato una pastiglia, mi sembrava, ho mandato giù, poi pronti-via quando si è abbassata la bandierina, ho provato ad attaccare. Ci siamo trovati in fuga prima con Thurau, che era venuto in fuga però non l’hanno lasciato andare e son venuti a prenderci. Poi si è creata un’altra fuga, c’era Villemiane, gregario di Hinault, sempre stato a ruota, c’era un altro bel corridorino, René Bittinger, che aveva vinto la prima tappa in linea a Luchon e che andava. È sempre stato un bel corridorino, scaltro, anche furbetto. E anche lui tirava poco. Eravamo cinque, però il peso della fuga l’avevo avuto io, anche perché prendevo punti per il Gran Premio della montagna. Io ero già in maglia à pois. Poi siamo arrivati in volata ma all’arrivo Villemiane m’ha battuto, son arrivato secondo. Vado al controllo antidoping, dopo due giorni arriva la gendarmeria, mi danno una busta: positivo. Positivo? Abbiam fatto una riunione quella sera. E tra l’altro avevo fatto una grande cronometro, siamo arrivati a Morzine-Avoriaz. Ho fatto il secondo tempo sulla scalata e ho preso dei punti, perché si prendevano punti anche sui tempi dell’ultima salita. Si arrivava su, in quota. Era la quarta cronometro. Insomma, eravamo contenti e arriva questo gendarme, perché in Francia è la gendarmeria che ti porta quei comunicati: “positivo”. Positivo? Ma io non ho preso... Allora, riunione con tutto il personale, cosa è, cosa non è eccetera…». 

- Boifava era infuriato? Perché poi il dottore lui l’ha mandato via… 

«Sì, perché… Io ero secondo in classifica. Però, con tutto questo, con gli arrivi in salita, la cronometro che ho fatto eccetera: primo Hinault, secondo Battaglin, terzo Agostinho. Agostinho era dietro di me di cinque-sei minuti. Insomma, riunione. Cosa è, cosa non è, creme o non creme, i massaggiatori guardavano. Siam stati lì due ore a scervellarci, ma niente. Va ben. Dopo due giorni, ma sai, anche in corsa poi… Perché quando sanno che in gruppo c’è qualcuno positivo: “…eeehhh... hanno beccato “qualcuno”… Sai, specialmente i francesi, perché Hinault era una brava persona quando veniva in Italia, quando si correva in Francia era… Copacabana!». 

- Si trasformava, diventava il vero "Tasso": in tutti i sensi… 

«Sì. In Italia veniva lui a cercarti, per salutarti al mattino… Quando andavi là [in Francia]… a stento. A stento perché… Voleva qualche alleanza, per non pestargli i piedi, no? A me questi qua danno un po’ di… prurito. E niente, c’erano da fare due tappe di montagna. Potevo far meglio però non ero concentrato, non correvo con la grinta con cui avrei dovuto correre. Perché in classifica mi hanno retrocesso da quarto a nono, e il discorso cambia. Poi anche l’onta, no?, di dire: sei positivo. Di che cosa, se non prendo niente? Cazzarola…». 

- Il danno e la beffa… 

«Sì. Allora ero un po’ giù, perché potevo far molto meglio in quelle tappe lì. Si arrivava una su a Avoriaz-Les Menuires e una all’Alpe d’Huez, due tapponi importanti. E insomma dopo due giorni arriva la gendarmeria, ti portano il comunicato e ti dicono a cosa sei positivo. E l’hanno dato al dottore, il comunicato. Quando il dottore l’ha aperto, mi ricorderò sempre, ha tirato due bestemmioni che Gesù credo sarà… [sorride, nda] Lui, il dottor Balestra, non bestemmiava mai, ma lì… Balestra era un medico condotto di Iseo. Era lì come amico del titolare, perché non c’era l’obbligo. Ai nostri tempi l’obbligo era un medico solo alle tre grandi corse a tappe: Vuelta, Giro e Tour e basta, sennò noi i medici non li vedevamo mai. Dopo tre minuti, arriva e mi fa: Ecco qua cosa è stata, è stata la pastiglia che ti ho dato quel giorno là, alla partenza: Zerinol. Zerinol. È una beffa proprio, perché lo danno ai bambini e ai neonati». 

- È un farmaco da banco. 

«Non lo so, adesso. Zerinol, quando vedo la pubblicità per televisione…». 

- Infatti, a quello pensavo. 

«Lo danno ai bambini e ai neonati ancora oggi. E invece si diceva fosse un farmaco che eccitava, ti poteva dare dei vantaggi. Anzi, a me faceva venire sonnolenza». 

- Ma poi la gola almeno s’era sfiammata? 

«Sì, e lui tranquillo, perché ai nostri tempi al Tour, mi ricordo, al dottore davano la lista delle nuove sostanze positive. Gli davano due foglietti A4 con… E specificando tutte le varie sostanze che non dovevano esserci dentro…». 

- Quindi il dottor Balestra non ha controllato che lo Zerinol non contenesse quelle sostanze proibite della lista? 

«Si vede di no, perché… Se mi hanno beccato, quindi…». 

- E a parte i bestemmioni, la vostra reazione qual è stata? 

«E cosa vuoi fare, quando ormai hanno… Quando è successo non c’è più rimedio. È inutile arrabbiarsi. Non ci si può arrabbiare. Quando il danno è stato fatto, è fatto. E cosa vuoi, si cerca di andare avanti. E dopo sono arrivato sesto in classifica e ho vinto la maglia à pois». 

- E con quella condizione strepitosa è poi arrivato al mondiale di Valkenburg? 

«Poi, finito il Tour, io e il mio massaggiatore eravamo alloggiati al Sofitel di Parigi, la squadra la sera è tornata a casa. Il massaggiatore Bruno Vendemmiati e io siam stati là. Io avevo dei contratti in Belgio e Olanda, ho fatto tre settimane in Belgio. Avevo un alberghetto lì, hotel Il Campanile, me ricorderò sempre. Era un alberghetto gestito da familiari, avevano due figli, appassionati di ciclismo. E quando andavo venivano tutti i giorni alle corse, con me e Vendemmiati. E col massaggiatore si andava in Belgio o Olanda, si partiva e venivano via, mi pulivano la bicicletta. In ’sto hotel ho trovato una famiglia veramente… E si sono anche un po’ affezionati. Tutti i giorni, specialmente la sera, anche in Olanda, c’erano delle feste quindi si correva. La mattina fino all’una in Olanda, in Belgio se era in notturna. Ho fatto anche due circuiti nella stessa giornata. E il sabato sera prendevo l’aereo, venivamo giù a fare… La prima corsa che ho fatto è stata il Matteotti [il 29 luglio, nda], l’ho vinto con otto minuti di distacco [7’56” su Silvano Contini, 8’20” su Serge Parsani, nda]. Poi la sera stessa tornavo indietro, perché lunedì avevo il circuito. Finito [il Matteotti] a Pescara, prendevo l’aereo e tornavo su, sempre a Bruxelles. Era lì vicino a Bruxelles, un paesino, Last. E poi si correva il lunedì, il martedì, tutti i giorni si correva. Sabato prendevo l’aereo. La seconda, son venuto giù a Imola, Giro dei Tre Monti, l’ho vinto con quattro minuti quasi, per distacco, ho staccato tutti. E poi son tornato indietro. C’era da fare l’ultima settimana e poi c’era il mondiale. C’era il Trittico Lombardo e ho fatto la Bernocchi e l’Agostoni, perché la Tre Valli Varesine era in mezzo [il 20 agosto, vinse Saronni su Gavazzi e De Vlaeminck, nda]. Allora ho detto: corro già… Son già sotto pressione da parecchio, magari un giorno di riposo…». 

- Quindi ha corso solo la prima e la terza? 

«No, ho fatto: la Bernocchi [il 19 agosto, nda] che siam arrivati… Ha vinto Pacho Lualdi, terzo Moser [piazzato a un secondo Ottavio Crepaldi, a 2” Moser ha regolato il gruppo con Martinelli, Battaglin, Ceruti, Santimaria, Baronchelli, Caverzasi e Gavazzi, nda]. Siamo arrivati sul rettilineo lì, io la volata neanche la facevo. Quando ho visto che lì al rettilineo eravamo… Ero quasi in fondo al gruppo, ho trovato un varco e ho detto: vado anch’io. Moser se c’erano altri due metri dopo, lo battevo in volata, e ho fatto quinto, secondo lui, quinto io. E il giorno dopo ho fatto riposo. Ho fatto l’Agostoni [il 21 agosto, nda] e ho vinto per distacco [3’12” sul gruppo regolato da Moser su Chinetti, Saronni, Masciarelli, Baronchelli e gli altri, nda] a tre giorni dal mondiale. Dopo, al mondiale, sai, dovevano darmi più appoggio». 

- La squadra? 

«Come squadra, logico. Con la condizione che avevo io dovevano darmi…». 

- Ma lei è partito come capitano unico o no? 

«Nooo. Siamo partiti con tre capitani: Saronni, Moser e io. Siam partiti. A me avevano dato Serge Parsani, è ancora vivo e vegeto e quindi può testimoniare. Era il mio gregario. Sarebbe stato il mio compagno di ventura, doveva stare vicino a me. Allora: a un certo punto, lì al mondiale, la mattina ha piovuto. Io avevo una condizione che era strepitosa: dal Giro di Svizzera fino al mondiale, sempre piazzato». 

- Quindi lì Martini sbagliò un po’ a valutare? O magari ha dovuto un po’ accontentare tutti? Quello di Ct è un ruolo anche molto politico. 

«Secondo me ha dovuto un po’… Le pressioni, un po’ l’uno e l’altro e ’st’altro. E capisco anche… Con la mia condizione dovevan mettermi… Allora, la mattina pioveva e dopo, prima di metà corsa, mi scappava di far la pipì. E io a far la pipì in bicicletta non riuscivo, dovevo fermarmi. Allora a un certo punto, dopo l’arrivo, c’era uno stradone largo che andava giù e un po’ in discesa, poi si girava e si andava a fare la prima salita. Allora, prima di scendere, son passato in testa al gruppo, mi son fermato, ho fatto la mia bella pisciatina e poi mi sono tirato su e son partito e ormai non vedevo più il gruppo. E insomma a un certo punto trovo Parsani e mi dice: “Maaa dooove sei andatooo? Adesso non rientriamo più”. “Calma – ho detto [sorride, nda] – rientriamo sì”. Abbiam fatto due cambi assieme e dopo…». 

- …li avete ripresi subito? 

«Sì, eh be’… Dove vuoi che andassero?! Come sono andato dentro il gruppo, mi son portato in testa, è andata via la fuga. Ero già in fuga, tra l’altro. C’è da considerare questo: prima in gruppo c’era malumore perché ogni volta che si faceva la salita c’era Raas che, tutte le volte, la faceva sempre attaccato alla macchina. Chiamava la macchina, faceva finta di parlare o di mettere a posto il cambio… Sempre! Tra l’altro, Hinault aveva chiamato i giudici e gli ha detto: “Se non smette, io ritiro la squadra. Ritiriamo la squadra, perché non è possibile”. Al Mondiale, se solo si prende la borraccia fuori, terminati quei venti-cinquanta metri dal posto di rifornimento, se la prendi oltre ti squalificano, vengono lì i giudici e ti levano il numero. E ’sti qua [gli olandesi padroni di casa, nda] avevano carta bianca a far tutto quello che era possibile. Poi è andata via la fuga. Anche in fuga, se vai a vedere il filmato, le salite le faceva sempre attaccato alla macchina. Chiamava la macchina e intanto lui si appoggiava, faceva finta di parlare e faceva la salita… 
Poi un grande errore che ho fatto io, e penso che lì è stato l’errore della mia vita. Allora: a un certo punto, l’ultimo giro, si arrivava giù al paesino, al paese di Valkenburg. Però si arrivava dall’alto e c’era un po’ di discesa ad arrivare giù. In fuga erano in quattro-cinque della stessa squadra [di club] di Didi Thurau, la TI-Raleigh. Cosa succede? Che ci siamo messi a fare l’andatura, eravamo tutti in fila indiana, e non ti permetteva... E quando siamo arrivati giù, che si girava per fare il Cauberg, ecco, loro erano tutti in fila, uno dietro l’altro. E hanno sempre tirato-tirato-tirato che nessuno poteva scappare. Hanno cercato di portare l’andatura sempre forte, tirata, perché non si scappasse. Quando loro hanno un po’ mollato, perché è venuto il pezzo duro – il pezzo duro, il Cauberg, è corto –, son partito io. E ho preso cinquanta-settanta metri… A un certo punto io ero in cima, già allo spianare, mi son girato e ho visto lì il gruppo... Era a settanta-ottanta metri, il gruppo. E però, venti metri più avanti, c’era il francese [André Chalmel, nda], che neanche era veloce e l’han preso a trecento, duecento metri dall’arrivo. A un certo punto, quando io ho visto così, mi sono rialzato…». 

- È stato lì l’errore, quindi? 

«È stato lì l’errore. Perché? Io ero già nella fase… Finito il [tratto] duro, loro erano nel pieno del duro del Cauberg, e il distacco non era settanta metri, magari diventavano duecento metri e non mi prendevano più. Mi è passato via questo francese che non è che era… Discreto corridore ma non super. E l’ho lasciato andare. Tanto, ho detto, mi son girato, li ho visti là… Sì, sì… L’abbiam preso perché Thurau ha tirato a morte fino all’arrivo. Thurau. Perché era “comperato” da… E anche quella “bandata” è stata chiamata. Perché prima del mondiale – e dopo – si sa… E siccome che Thurau voleva essere protagonista nel suo Paese. E lui andava. Aveva fatto il Giro di Germania, quindi gli avevano dato una mano per vincere il Giro di Germania, perché come squadra aveva sì bisogno anche della TI-Raleigh. [Thurau aveva vinto prologo e classifica generale al Giro di Germania, 6-11 agosto ’79, nda] Altro che: il favore ha dovuto ricambiarlo». 

- Ma quella era stata solo una sbandata o l’avevano fatta apposta per farla cadere? 

«Fatta apposta. Non si può… andare a sinistra e passare a destra così…». 

- Però un conto è tagliarti fuori in volata, un conto è buttarti a terra. 

«Oh be’, ma lì è il Mondiale… [sorride amaro, nda] Sai che… Thurau e Raas… Sai, io non me l’aspettavo mai al mondo, perché io ero anche… C’era il vento, quindi ero anche protetto dal vento, no? Perché eravamo un po’ a ventaglio, e non pensavo… Poi però lì c’è stato un errore. Secondo me non è possibile arrivare a 125 metri dall’arrivo e non… Loro erano seduti sul sellino, non era ancora stato lanciato lo sprint, a 125 metri dall’arrivo. Lì il primo che parte, se passa, non ha più lo spazio per rimontare, se non ha un motore di un… Kawasaki. Perché l’arrivo è lì, io son fermo, la caduta è a 75 metri dall’arrivo. Basta guardarla, c’era il cartello: “75 metri” prima dell’arrivo, c’ero io sotto. Loro hanno sbagliato… E io mi ricordo, il mondiale delle donne, quella che ha vinto [l’olandese Petra De Bruin, nda] aveva alzato le mani a cinquanta metri. C’erano tanti striscioni, c’era un casino… Non era come gli arrivi di adesso che c’è l’arrivo e stop, due transenne, non era proprio così. E c’erano tanti striscioni. E quella che ha vinto aveva alzato le mani cinquanta metri prima, si è accorta dell’errore e ha fatto appena in tempo. E aveva vinto quasi al fotofinish, perché ha vinto per… Aveva una bicicletta di vantaggio, si è accorta e…». 

- Ma quindi l’errore qual è stato? 

«…che lui [Raas] ha tagliato. Se tu osservi, quando ho passato l’arrivo lui ha sprintato cinquanta metri… E lui si vede che ha sprintato per cinquanta metri oltre la linea… Per me, ha sbagliato. Poteva anche vincerlo, però…». 

- Ma senza quella scorrettezza lì? Non c’è la controprova ma ormai son passati quarant’anni, possiamo dirlo: ve la sareste giocata? 

«Ma io, senza quella scorrettezza lì, potevo vincerla. Ma tranquillamente, perché ero già arrivato. La mia ruota… Io ero quasi al pari della sua. Però, dopo, nella sbandata, io ho dovuto… Io ero in piedi sui pedali. E quando sei in piedi sui pedali, il controllo della bicicletta è minimo, perché non si controlla. Quando sei seduto tu allarghi a destra e sinistra, fai quello che vuoi, puoi sbandare e fare… E quindi quel tragitto che ho fatto io è stato un tragitto che ho dovuto fare, senza pedalare, tirando un po’ indietro la bicicletta, perché quando sei sui pedali così, non… E invece lui aveva dato gas e io tiravo indietro e quindi son andato con la ruota… La mia ruota l’ho messa “dentro” nel pedale suo, m’ha tranciato via un po’ di raggi e poi mi sono inclinato e col manubrio son andato giù, quasi in cima alla sua ruota posteriore e son rovinato… Son rovinato a terra. Per me, se loro stavano dov’erano, io li avevo anticipati. E potevo vincere con…». 

- E la sera in albergo, Giovanni? 

«Aaahhh, tu non pensi più… Io sono uno che, quando una cosa è successa, non…». 

- …sta lì a rimuginarci sopra? Mi complimento per la freddezza… 

«È inutile. Perso. Perso! Non c’è più rimedio. Quando non c’è rimedio, nella vita o nelle cose…». 

- Inutile prendersela più di tanto? Fosse facile… 

«Più di tanto… Però ti rimane sempre un magone, qua». [si indica la gola, nda] 

- E questo l’ha condizionata nel prosieguo della carriera? 

«No. No, no…». 

- Non è cambiato il suo approccio magari… No? 

«No. L’approccio cambiava se vincevo». 

- Le sarebbe cambiata la vita. 

«Ti cambia. Fino a quel momento lì, non avevo vinto il Giro. Non avevo vinto niente, fino a quel momento lì. Sebbene avessi fatto una stagione straordinaria, nel ’79… [otto vittorie in totale e la classifica generale alla Vuelta al País Vasco, nda]. Però, sai, vincere un mondiale è il massimo». 

- Mi racconta dei suoi anni alla Inoxpran e poi in Carrera? 

«Nel ’78 io correvo con la Fiorella, poi l’inverno chiudeva però, nel frattempo, non avevo ancora capito se tenevano o non tenevano la Fiorella, sebbene avessi lì Luciano Pezzi, che era una brava persona, mi ci son trovato una meraviglia. Ho vinto quattro corse quell’anno alla Fiorella, ho vinto tre tapponi in fila al Giro di Svizzera [a Grächen, a Lugano e a Glarona]…». 

- Alla Jolljceramica chi aveva come diesse? 

«Marino Fontana. E quindi, con Pezzi, era una persona squisita. Era proprio un padre, consigliava, era…». 

- …una guida, un punto di riferimento? 

«Sììì. Per me era come una chioccia, no? Perché lui era anziano, quindi ti dava i consigli giusti, pacati, sempre a modo eccetera. E nel frattempo avevo parlato con Boifava, che era ancora in gruppo: “Mah, avrei voglia di fare una squadra, così-così-così… Così poi son venute fuori un po’ le chiacchiere… Pezzi mi dice che non sanno se continui o no… E allora ho detto: bisogna cercare… Poi, il mese di agosto, ci siamo trovati su, a casa, dove abitavo io. È venuto Boifava e lì abbiamo concluso». 

- Boifava non era ancora sicuro di riuscire a fare la squadra e infatti Visentini aveva rifirmato per il secondo anno per la Vibor del diesse Zilioli. 

«Allora, io ho detto: io vengo. Però quando ho firmato era ai primi di agosto e allora ho detto: io vengo però voglio essere libero di fare la mia corsa, per essere il capitano della squadra». 

- Si è portato qualcuno di sua fiducia? 

«Mi son portato degli uomini di fiducia, poi il grosso eran tutti giovani, e mi stava bene». 

- Quali erano i suoi gregari di fiducia? 

«Mi son portato Dorino Vanzo, me ne son portati tre o quattro. Mi son portato Pasquale Pugliese, Gianfranco Foresti…». 

- Quelli su cui poteva contare. 

«Sì, ci potevo contare, e poi solo giovani. Però c’è stato il “problema” che quell’anno lì [1978, nda] c’era il campionato del mondo al Nürburgring. E la sera prima è venuto lì Boifava e ha detto che in un incidente stradale era morto il titolare, Angelo Prandelli, papà di Achille e fondatore della Inoxpran. Boifava però ha detto: Giovanni, non preoccuparti che la squadra la facciamo. Però da lì era un po’… C’erano un po’ di problematiche…». 

- Perché il vero appassionato di ciclismo era Prandelli padre? 

«Era il padre. Era stato il padre a voler fare la squadra. Era stato. E ci ho anche parlato assieme, quando poi son venuti su a firmarmi il contratto. Son venuti assieme [Angelo Prandelli e Davide Boifava, nda]. Quindi sai, non sai… Ci son sempre dei dubbi, no? Non lo so se, dopo, Visentini ci aveva già parlato. Io però avevo già messo in chiaro le cose ancora il primo anno che son andato lì all’Inoxpran». 

- Quindi si correva tutti per Battaglin. 

«Si correva per me, e basta. Io ho detto: Accetto solo se la squadra viene imperniata su di me». 

- C’erano altre opzioni aperte o no? 

«Alla Fiorella avevo Bernt Johansson, ma è stato compagno eccezionale. Però c’era Carmelo Barone, e qualche volta che io ero via in fuga e veniva…». 

- Due galli nel pollaio, insomma. 

«Sì, magari gli dava fastidio… Mi ricordo, avevo vinto a Lugano, era lì, io ero davanti a duecento metri e lui era lì, dietro, a trenta metri dal gruppo che tirava, che mi veniva a prendere. E poi la sera gliel’ho anche detto. Vai via quando prendono me, eventualmente. E invece…». 

- E lì il direttore sportivo che cosa faceva? 

«Pezzi invece ha detto: “Con la gamba che avevi era impossibile venire a prenderti”. Ha fatto la battuta però aveva capito anche lui che non si doveva fare. Se hai dei compagni di squadra, non puoi…». 

- Ferretti alla Bianchi ne aveva tre: Prim, Contini e Baronchelli. E pure un Paganessi che si sentiva più forte di quello che era. 

«Difatti hanno perso il Giro quell’anno lì [1981, nda], perché io ho dato corda un po’ a uno, un po’ all’altro, un po’ a ’st’altro. E quando è stata l’ora decisiva li ho “ammazzati”, con un colpo li ho “ammazzati” tutti e tre. Eh, lo sbaglio è quello, per mia fortuna è stata vantaggioso…». 

- A Ferretti l’ho chiesto: Ma come si fa quando i galli nel pollaio sono addirittura tre? Mi ha risposto che preferiva giocarsi le tre carte, ma poi ha ammesso che “di tre non ne faceva uno”. 

«Eh, ma io quell’anno lì ho lasciato un giorno…». 

- Si cuocevano a vicenda, vero? 

«Sì. Un giorno davo la possibilità a un pollo, il giorno dopo a un altro e il giorno dopo a un altro, quindi erano sempre a portata, tutti e tre erano sempre a portata, a tiro. Fucilata. Quando è stata l’ora di fare la fucilata…». [sorride, nda] 

- Ha impallinato tre tordi… 

«Tre tordi…». 

- Mi racconta quell’episodio al Giro ’84, quando nella tappa di Selva di Val Gardena lei è andato a riprendere Visentini e l’ha fatto risalire in bici dopo che lui era sceso per affrontare dei “tifosi” che l’avevano insultato e gli avevano sputato addosso? Non una grande Italia, dal punto di vista del tifo, quella… 

[ride, nda] «Mamma mia. A parte che era il finale della mia carriera, anche, quella lì che poi mi sembra che io abbia smesso… Era l’84, vero? L’ultimo anno che ho corso con la Inoxpran [già Inoxpran-Carrera, nda]. Visentini, eh. Da quando ho smesso di correre non l’ho più visto». 

- Ero convinto foste ancora in contatto e che lei fosse uno dei pochi con cui fosse rimasto in buoni rapporti. 

«Sì, però… Avevo organizzato, gli davano una premiazione a Verona. Fanno il Palio del Recioto, quella corsa per dilettanti, famosa, io l’ho vinta [nel 1971, nda]. E un anno son stato premiato io. L’anno dopo han detto: Giovanni, lo diamo a Visentini, però tu sei in grado di potercelo portare. Va bene, ho detto. L’ho chiamato eccetera. “Dài, vieni, che sono io che ti premio, ti do il premio io”, ho detto. “Sì-sì vengo, sì-sì vengo”. Alla fine, aveva trovato una scusa che era andato all’aeroporto a Malpensa a prendere un morto. Ma vai in mona, va’. Vai… Ma lui col ciclismo ha tagliato». 

- Perché? Più che col ciclismo, ha tagliato con l’ambiente del ciclismo. Perché in bici ci va ancora… 

«Con l’ambiente ciclismo: lui ha tagliato». 

- Magari con direttori sportivi, dirigenti, sponsor. Perché con alcuni ex corridori si sente e vede ancora. Ho parlato con Chiesa, Bontempi… Vanno a cena tra di loro, in tre o quattro, così… 

«Sì, però feste no… Anche alla festa Carrera: mai venuto. Organizzata l’anno scorso e una qualche anno fa a Verona, in Fiera. Anche lì… A parte forse che lui era in maglia rosa, e Roche non doveva attaccarlo…». 

- Ma in Carrera c’era o no quel patto: Visentini capitano al Giro e Roche al Tour? 

«Questo io... Correvano con le mie biciclette. Io quel Giro là l’ho seguito tutto. E però son stato sorpreso anch’io…». 

- C’è chi dice che quel patto c’era e c’è chi dice di no. 

«Non lo so. Questo non lo so. Roche però quell’anno lì ha fatto…». 

- Volava. 

«Volava, perché andava a cronometro, andava…». 

- Ma quindi basta la vicenda di Sappada per non voler più saperne dell’ambiente? 

«Ma nooo, ma no». 

- Ci sarà stato qualcos’altro, no? Per il suo carattere, per… 

«Visentini ha un carattere un po’ particolare». 

- Con lui si trovava bene? 

«Ma sì-sì, mai detto tanto così, anzi…». 

- “Un po’ particolare” perché? 

«Un po’ particolare perché lui, quando s’incazza, molla tutto… È buio, è buio… Come in quella tappa, e forse aveva ragione però, per avere la ragione, non puoi… Non puoi comportarti in quel modo. Allora: lui doveva essere più diplomatico e non fare i giochetti da bambino. Perché lui quel giorno lì s’è fermato sulla salita, ha avuto una crisi, aveva buttato via la bicicletta quel giorno che si arrivava su a Canazei. Ha buttato via la bicicletta, era sceso, ho dovuto dargli uno schiaffotto in bocca, in faccia. Gli ho detto: “Adesso prendi su la bicicletta e andiamo”. Se non facevo così lui… Quindi lui poi doveva spiegare il motivo, per cosa, percome. Perché la gente non lo sa. Dalla ragione è passato dalla parte del torto. E aveva tutte le ragioni perché quel giorno lì hanno eliminato… Si doveva far lo Stelvio, non l’hanno fatto, hanno fatto el Tonae [il Tonale in dialetto veneto, nda]. Moser, che poi il Giro l’ha vinto, sul Tonae era in difficoltà. Era in difficoltà. E quindi c’era su un tornante, c’era uno che spingeva Moser e alla ruota di Moser c’era Visentini, e lui è arriva’ e aveva il giaccone con un cappuccio chiuso, e Visentini quando è arrivato vicino gliel’ha tirato giù, ed era Diego, il fratello di Moser che spingeva [Francesco]. E Visentini ha fatto un terremoto, ha fatto un casino. Ha fatto un casino perché avevano eliminato lo Stelvio. Torriani aveva detto che sullo Stelvio non si passava per via della neve…». 

- E non era vero, perché la gente era salita a controllare, no? 

«E non era vero. Tutta la gente era su». 

- Ma perché Torriani avrebbe favorito Moser? 

«Eh, volevano fargli vincere il Giro. Perché sennò… Se facevano lo Stelvio, quell’anno lì, Fignon vinceva la tappa e dava due minuti, era finita. L’hanno “falsato”, eh. Però l’hanno fatta un po’ sporca, perché la gente non sa di queste cose. Magari vinceva…». 

- Come per la (presunta) scia dell’elicottero nella crono finale da Soave a Verona? 

«Dicono. Dicono… Moser però l’ha anche vinto. Nell’albo d’oro c’è “Francesco Moser”, e quel che conta è quello, capisci?». 

- Roberto però là aveva ragione. 

«Sì, ma allora spiega il perché. Non fare quelle stupidaggini, no? Dalla parte della ragione è passato alla parte del torto. E poi ha chiuso con tutto. Da lì ha chiuso un po’ con tutto, perché lui è un po’ fatto così, a suo modo. Quando dice basta, basta. Non c’è… Era particolare, però… Fatto così. Ha persino segato la bicicletta, perché sembrava non andasse bene, che facesse fatica. Ma magari sei tu che sei indisposto, quel giorno». 

- Era una Battaglin quella bicicletta? 

«Madonna… Sì, sì. Segata. In tre tocchi, in tre pezzi. Matto, matto… Sotto sotto però era un bravo ragazzo. Uno semplice, e anche buono. Perché se gli chiedevi di fare un favore, te lo faceva. Questo: era un compagno corretto. Io ci ho corso due anni assieme [Inoxpran-Lumenflon ’83, Carrera-Inoxpran ’84, nda], è stato più che corretto. Mai avuto tanto così…». 

- Me l’hanno detto tutti. Per esempio, il Giro dell’83 meritava di vincerlo lui? Senza gli abbuoni, come tempi effettivi su strada, lo avrebbe vinto… 

«Eh, ma anch’io [nel 1981 su Prim, nda], c’erano gli abbuoni. E ho dovuto lottare per gli abbuoni. Ho dovuto andare a sprintare, darmi da fare anch’io». 

- Visentini ha preso quindici secondi di abbuoni al Giro ’83, Saronni due minuti, però Beppe era sempre là a giocarsi le volate. Ma sia lei sia Roberto avete un po’ pagato questo vostro non essere amici degli Sceriffi del gruppo? O magari il mettersi contro Torriani? 

«No, no, no. Non c’entra niente, perché non ci siam mai messi contro Torriani, contro nessuno. Io con Moser sono anche amico. Sai, sono fatti che possono succedere, no?». 

- Roberto era amico con Saronni, non con Moser, no? 

«Sì, era più per… Io invece ero più per Moser, perché Moser aveva un carattere… Però quello che ti diceva faceva…». 

- Saronni era più furbacchione? 

«Eh, se voleva mettertelo nel sederino, te lo metteva. Però io, siccome ho corso con Moser dall’inizio, lo conoscevo. Abbiam fatto la carriera assieme. Abbiam cominciato nel ’69 a correre tutti e due…». 

- Moser ce l’aveva sempre con qualcuno, penso a Mario Beccia… 

«Ma nooo. Beccia è stato anche suo gregario». 

- …o a Gibì Baronchelli… 

«Ma vedi, con Baronchelli…». 

- Era solo questione di carattere? 

«No, neanche. Baronchelli era un buono, un pezzo di pane. Però c’era la stampa, che aveva creato rivalità». 

- Inventata? 

«Inventata. Come c’era la rivalità Saronni-Moser. Certe volte andava a favore mio, e loro dicevano: “Eh, ha vinto perché abbiamo bisticciato”. I giornali: “Hanno bisticciato, allora ha vinto Battaglin”. Vincevo lo stesso. Perché tanto Saronni, quando vedeva che non aveva la giornata, lui la corsa la buttava… a puttane. A puttane. Perché lui se ne sbatteva le scatole. Tanto tirava i freni e si fermava. Moser invece era un lottatore, fino alla fine lottava. Moser, dovevi ucciderlo perché si fermasse. Lottava fino alla fine. Se perdeva, perdeva. Saronni no. Saronni, quando vedeva che non aveva la gamba, lui si fermava. E magari il giorno dopo, caspita!, faceva un’altra gara». 

- E volava. 

«E volava». 

- Chiedo una cosa al Battaglin imprenditore del ramo. In ottica campionato mondiale, e quindi squadre azzurre, quanto contava avere dalla propria parte un Colnago invece di un altro costruttore di biciclette? 

«Ah be’, Colnago… Allora: il ciclismo è sempre stato più “a vantaggio” dei lombardi che non i veneti. Perché i veneti “polentoni”, dicevano… Moser è stato avvantaggiato perché veniva fuori da una famiglia di campioni, da Aldo eccetera, quindi c’era…». 

- Diciamo che non partiva da zero, ecco. 

«Non partiva da zero, quindi… Era partito già alto, gli altri partivano dal piano-terra, lui era già sul grattacielo, per il nome, per questo, per quello. Poi andava, eh. Moser è stato…». 

- Ci mancherebbe altro, non è che dobbiamo sta qui a scoprire Moser. 

«Esatto. Esatto. Perché bisogna dir la verità. Saronni è stato avvantaggiato. Un altro che è stato avvantaggiato perché aveva alla sua corte Colnago, e poi era lombardo e il ciclismo era lombardo, dalla Gazzetta a tutti. Era lombardo, quindi è stato molto più avvantaggiato. Ma bastava vedere, anche corridori mediocri lombardi e campioni veneti, erano messi quasi alla pari…». 

- Come le è venuta l’idea di mettersi in proprio? Anche oggi tanti ex corridori, una volta smesso con l’agonismo, aprono un negozio di bici o si mettono a produrle. A lei l’idea com’è venuta l’idea? 

«Io son sempre stato appassionato. Perché la mia bicicletta, anche quando andavo alle corse, era pulita, ordinata. Sempre. Mi piaceva la meccanica eccetera. Pensa che la tripla l’ho inventata io». 

- L’ho letto. 

«L’ho inventata io. Alla Ruota d’Oro, adesso la chiamano Brixia Tour, allora c’erano tre tappe: si faceva Bergamo, Brescia e Valcava, che era sterrata, con dei sassi grossi così, che tirava al 22%. L’abbiam vista il giorno prima, siam andati alla punzonatura, alla partenza. Si partiva il giorno dopo che partiva il Giro e abbiam detto: “Andiamo a vedere ’sta Valcava”. Siam andati a vederla in macchina, e ho detto: “Chi è che va su, là? Neanche Cristo”. E allora siam andati. ’orco cane, son rimasto colpito da questa salita. Son stato colpito. Non era… La sera ho pensato… Abbiam fatto la prima tappa, e l’ha vinta Bontempi [primo sia nell’83, sia nell’84, nda]. Mi ricordo che l’aveva vinta lui che era giovane, e io quando son arrivato in albergo – perché io facevo sempre il massaggio per ultimo – ho detto al massaggiatore: “Lo faccio per primo, oggi, perché devo fare un lavoro”». 

- C’è un trucchetto dietro, vero? Voi capitani il massaggio lo facevate per ultimi perché… 

«Intanto riposi». 

- E perché così anche il massaggiatore fa una specie di riscaldamento, giusto? 

«Sì. Oltre a quello, recuperi un po’ le energie, ti si rilassano i muscoli». 

- Ed è vero che basta un sonnellino anche di pochi minuti, ma fatto subito? Oggi i giovani invece non vogliono saperne, si mettono lì col telefonino… 

«Tante volte io prendevo sonno sotto i massaggi. Prendevo sonno». 

- Magari anche solo un quarto d’ora, venti minuti, ma è importante… 

«C’è rilassamento totale. C’è rilassamento». 

- E i giovani oggi non lo fanno… 

«No. Del resto, è cambiato tutto. E allora ho detto al meccanico, Belluomini: «Giuliano, quando hai finito dimmelo, intanto io vado avanti». 

- Giuliano Belluomini per lei stravede. 

«Mamma mia. Ogni tanto… “Oh toscanaccio”, lo chiamo. “Oh, ma chi parla? Chi parla?”». 

- Mi ha portato nel suo garage. È pieno di vecchie foto di Battaglin, «un campione-gentiluomo. Un gentiluomo…». Parole sue. 

«Eh, abbiam fatto… No, bei ricordi, dai. Bei ricordi. Ho lasciato dei bei ricordi, penso. E anche con tanti corridori. Io non ho mai bisticciato con nessuno. Mai». 


Felice Gimondi e Battaglin, secondo e terzo al Giro '73

- Qualche capitano però non portava tanto rispetto. 

«Gimondi, come capitano, era un carognon. Dio bon!». 

- Rispetto non solo per i propri gregari, ma anche per lo staff: meccanici, massaggiatori... 

«Allora: ai miei tempi, da Gimondi a… Moser, tutti… Beccia, poverino, arrivava che aveva sempre i pantaloncini in fondo, fin qua… Perché Moser, quando lo trovava davanti in salita, lo… Chiedi a Bortolotto. Porca puttana. E odiavo, odiavo, che la gente si attaccasse. Io non mi son mai permesso a un compagno di squadra di... Un compagno di squadra deve starti vicino…». 

- …ma non è un tuo schiavo… 

«Caspita. Ci vuole rispetto. Deve anche lui portare… le palline all’arrivo. Cosa devi portarlo, morto? Il giorno dopo, cosa fai?». 

- Sì, ma non solo perché ti serve. Perché… 

«Anche rispetto. Mi son rotto lo scafoide io, per colpa di Saronni. Eravamo sul Muro di Ferentino, alla Tirreno-Adriatico. Quasi finito, sullo strappo, quasi in cima, si vede che Saronni era un po’ al gancio e ha preso Luciano Conati e gli ha dato… Si è attaccato, gli ha dato un colpo, ma quando si attacca… Torna indietro, e io ero là. E l’ho tamponato. L’ho preso un po’ di fianco, ho cercato di schivarlo ma avevo anche altri corridori, son andato giù per terra, mi son rotto lo scafoide… Ho perso tre mesi di… per quello schifoso di scafoide. E ho fatto una lotta coi giudici, andavo a chiamare i giudici io, chi si attaccava… E dopo, per fortuna, dopo un po’ tutti quanti hanno capito e hanno smesso. E allora è stato un bene. Però…». 

- Tornando alla sua invenzione della tripla… 

«E allora ho detto: “Giuliano, io intanto vado avanti”. Ho preso una guarnitura. Ho tirato un segno, perché c’erano le quattro razze, ho fatto un segno, ho messo lì l’ingranaggio per la terza moltiplica. Ho fatto i punti lì, con un pennarello, i punti dove forare e nel frattempo ho detto: “Giuliano, fammi i fori, poi mi fai il filetto”, un “maschietto” con un filetto. E ho preso degli spessori, perché dovevamo spessorare da un ingranaggio all’altro. Ho misurato col calibro, ho fatto gli spessori, delle rondelline, ho messo le rondelline e l’ingranaggio, la vite, l’ho infissa’, l’ho stretta e allora avevo la terza moltiplica». 

- E nessuno aveva mai pensato alla terza moltiplica? 

«No. E lì son passato su con due minuti e mezzo in cima alla salita. Poi, l’inverno, ho preparato la bicicletta apposta per la salita. Al Giro d’Italia si facevano le Tre Cime di Lavaredo. L’abbiam fatta più bella, tutta quanta, per l’81. Ho vinto con la tripla, io. A San Vigilio di Marebbe [quartultima tappa, 100 km con partenza da Dimaro, Battaglin conquistò tappa e maglia rosa, sfilandola a Silvano Contini, nda], che abbiam fatto il Passo Furcia, l’ho fatto con la terza moltiplica: lì è dura, eh. C’è uno strappo che tira al 22%. E allora avevamo sei velocità, non undici come adesso. Sei. E c’era massa [“troppo” in dialetto veneto, nda] agile o troppo duro, da un rapporto all’altro. Invece con la tripla…». 

- …si aveva più varietà di scelta… 

«E certo, capisci? Però a quei tempi, anche Pinarello, dicevano: «Eh, l’ho fatto io…». Cosa ha fatto, lui? Fatto un cazzo, lui marchiava le biciclette. Però la terza moltiplica l’avevo inventata io». 

- Mi racconta della famosa Piranha, la bici da crono carenata con le ruote bombate che poi al Giro ’85 non fu omologata? 

«Eh, la Piranha me l’hanno rubata tre anni fa, qui sotto». 

- Ma erano due i prototipi, no? 

«Due. Una l’aveva Giovanni Arrigoni, perché l’abbiamo fatta in collaborazione assieme». 

- Quello delle ruote Fir? 

«Sì». 

- Poi magari mi racconta del Giro “del Guttalax”, se vuole… 

«Lì, non ho mai capito il perché. Ma lui era amico di Colnago. Per me era come fosse stato mio papà, quasi. Meglio, anche. Avevamo un rapporto eccezionale». 

- La sua Fir vi forniva le ruote, no? 

«Sì, l’ho portato io dentro il ciclismo. Poi siam stati amici. Dopo, purtroppo… Siam andati in Taiwan, l’ho portato in tutte le fabbriche in Taiwan, a suo tempo. Eh, madonna. Perché io nel frattempo ero già andato in Taiwan a lavorare. All’inizio [dell’era] delle mountain bike, io già ero giù. Son stato uno dei primi a portare in Italia telai, roba da mountain bike. E dopo è venuto lui, allora siam andati giù, ho aperto la strada. Si andava giù assieme, io per il mio, lui per il suo, stavamo giù otto-dieci giorni, si programmava. E da lì portavo a casa ventimila pezzi l’anno, c’era ancora l’acciaio, no carbonio, no alluminio: l’acciaio. Pensa… E so che… Parlavano, era solo una questione pubblicitaria, dovevano…». 

- Arrigoni aveva questo amico o conoscente, e l’intento sarebbe stato quello di salvare la maglia rosa, e averne così un ritorno di immagine... 

«Dovevano salvare la maglia rosa, e invece… Perché era come un salvatore. Far vedere che al Giro d’Italia si poteva dare [qualunque] qualcosa ai corridori…». 

- E lui ne sarebbe uscito come il salvatore della patria, l’eroe che… 

«…sì, che smascherava… E invece s’è… Parole che mi ha detto lui, Giovanni Arrigoni». 

- L’hanno poi arrestato Arrigoni, o no? 

«No, no, no». 

- È finito tutto in una bolla di sapone? 

«Sì, sì, sì. È finito in una bolla di sapone, dopo». 

- Quello che ancora oggi non si spiega è che la Fir andava bene, non è che fosse in crisi e allora dici: devo inventarmi qualcosa per… 

«No, lui [Giovanni Arrigoni] era un miliardario. Miliardario. Con Colnago aveva un rapporto perché con Colnago, con la Bianchi, faceva tutte le ruote della Bianchi…». 

- Giovanni Arrigoni forniva le ruote alla Inoxpran, la squadra di Visentini, ed era tifoso anche di Saronni? 

«Era tifoso di Saronni, di tutti… Sai, anche suo fratello Piergiacomo è stato professionista, e anche lui è morto in bicicletta, l’hanno trovato morto [il 5 novembre 2000, nda]. Il fratello aveva corso alla Legnano con Ferretti. E allora, sai, era dentro, nel ciclismo. Giovanni aveva iniziato da ragazzino, aveva l’officina. Aggiustava le biciclette a Boltiere». 

- So che vi state trasferendo nella nuova sede. Officina Battaglin è un’azienda nuova? 

«Sempre nostra. È un marchio nostro». 

- E in cosa si differenzia da Cicli Battaglin? 

«È uguale». 

- Cambia il logo? 

«Sì, cambia il logo. Perché è l’acciaio, siam tornati a rifare i telai in acciaio. E allora abbiam fatto l’Officina, per dare un po’ più il senso…». 

- Vendete molto negli Stati Uniti. 

«Sì, negli Stati Uniti». 

- E perché tornate all’acciaio? 

«Perché c’è richiesta. Stati Uniti, Australia, Giappone. Noi abbiamo tutti i mercati nell’acciaio». 

- Perché? 

«Perché è molto più comodo, più confortevole. Meno rigidità, più confortevole. L’alluminio ha sempre un processo di invecchiamento, è facile che col tempo si spacchi. Perché quello, l’alluminio, nasce e muore. Mentre l’acciaio è molto più confortevole e…». 

- Mi racconta come ha cominciato? Il passaggio dai Prandelli ai Tacchella eccetera? 

«L’anno dopo è diventata Inoxpran e c’era solo un marchietto “Carrera”, perché avevano loro la gestione della società. Ma e dopo è diventata tutta Carrera. Io, quando ho vinto il Giro d’Italia, quell’anno lì [1981] con la Carrera ho fatto un accordo: davo io le biciclette alla Carrera, io ero già dentro a produrre e quindi…». 

- E come si trovava in quella duplice situazione di corridore e costruttore-fornitore di bici della propria squadra? 

«Era il primo anno. È stata un po’ duretta. È stata un po’ duretta il primo anno. Perché, sai, ho portato dentro Giovanni Arrigoni per le ruote. E all’inizio abbiam fatto il collegiale giù a Palermo, dov’è la spiaggia, a Mondello. Eravamo giù là. Ritiro collegiale. Allora, han portato giù tutto quanto prima, le bici… Quando è stata ora che si cominciava a far le prime corse, caspita, ci siamo accorti che le ruote avevano una raggiatura... Allora c’erano i tubolari, avevano una raggiatura troppo… Non “a uovo”, ma un po’ più “piana”, quindi il tubolare tendeva a staccarsi e a rimanere un po’… Mi ricordo, Arrigoni è venuto giù a prendere tutto il materiale. In tre giorni ha fatto smontare tutte le ruote, tenuto validi solo i mozzi e fatto tutte le ruote nuove, con la cerchiatura… Ha risolto tutti i problemi. E lì ho avuto un po’ di problemini perché, sai, io costruttore ti do le ruote che… Ma anche lui, che aveva fatto il cerchio… C’era l’Easy, il modello, quello stabilito, che aveva una raggiatura… E io – ha detto – ho fatto quello lì. Però il tubolare invece non era proprio così, con “quella” raggiatura. Cambiavano, ed era facile che [il tubolare] si staccasse. Allora, per non avere dubbi… Però dopo non abbiamo mai avuto problemi». 

- Come aveva la “testa” giusta per fare il corridore e allo stesso tempo occuparsi anche di… 

«Ma sì, ma non mi preoccupavo, una volta consegnato tutto il materiale, poi avevo Giuliano Belluomini che mi montava le biciclette. Quelli della squadra eran venuti qua l’inverno, c’era [Luciano] Bracchi, c’era Giuliano [Belluomini], venivano qua, montavano tutte le biciclette, in due-tre giorni montavano le settanta-ottanta biciclette della squadra, cromo, questo, quello, coi miei meccanici… E quindi erano a posto. Dopo, se mancava del materiale, eran solo pezzi che man mano si spaccavano, o per usura, si cambiavano quelli lì… Venivano qua, prendevano su e via. Ma non abbiamo mai avuto grossi problemi. Anche coi telai, mai avuto problemi. Poi con l’acciaio, sai… Non sono telai come il carbonio che vengono fatti in Cina, in Taiwan, che li stanno lì a limare. Ci son ditte brave, ditte non brave, che si inventano... L’acciaio: eravamo i maestri dei telai in acciaio, quindi avevamo esperienza da anni e quindi si facevan tutti i telai…». 

- Quando lei ha cominciato s’è ispirato a qualcuno? 

«No, no. Io ho fatto la mia strada. Tranquillo. E sono arrivato a trentasei dipendenti, eh. Saldatori. Si faceva con la Germania, un desìo [in dialetto veneto “una gran quantità”, nda] di telai. E c’era un business enorme. E avevo un capo-officina che era bravo quindi stava lui dietro, e anche in mia mancanza faceva tutto». 

- E poi c’era sua moglie Sonia che seguiva, no? 

«Sì, seguiva lei, ma più che Sonia c’era la signora della contabilità che è ancora qua. No, no, per quello, anche se io ero impegnato con le corse, si arrangiavano». 

- Mi racconta il Battaglin post-corse? Com’è stato il passaggio? L’aveva già maturato? 

«Il passaggio, be’… L’avevo già maturato, perché l’81 ho vinto il Giro, l’82 mi son rotto tutto e quindi ho perso la stagione. L’83, al Giro d’Italia, a Terracina, ho preso l’epatite virale. Quattordici persone son state male giù lì. Bontempi e Leali son andati a casa quel Giro lì. La mattina son andato giù a mangiare, non vedo neanche… Ma stamattina, ho detto, non c’è nessuno che viene [a far colazione?]… Bisogna far la tappa, ho detto, dove sono? Arrivano, non arrivano…. “Ah, non lo sai?” – m’han detto – “Sono stati tutti male. Meccanici, massaggiatori, personale…”». 

- Intossicazione da cibo avariato, quindi? 

«Da verdura. Alimentare. Avevo la transaminasi a… Ho tenuto duro. Io, niente: stavo bene. Sono arrivato fino a Savona, [mancavano] quattro giorni dalla fine del Giro, ero come un vecchio. Avevo la transaminasi[3] a quasi 900. Son stato ricoverato a Castelfranco Veneto. Neanche camminavo più, andavo via gobbo, mal ai reni, ero giallo come…». 

- Il suo rapporto con Boifava? Come va? 

«Benissimo, benissimo. Ecco, stavamo dicendo prima, il rapporto dei… L’èra nostra, il ciclismo… Era lo sport principale, se non era il primo era il secondo sport in Italia, poi c’era un abisso… con gli altri sport. Oggi invece… C’è il calcio, che è logico che… Col business che c’è, va bè, però gli altri sport sono cresciuti e noi, come sport, siamo diminuiti. Però bisogna dire una cosa: oggi è la Federazione che comincia a fare tanti errori…». 

- In Federazione ci sono stati a lungo parecchi degli stessi soggetti che c’erano già trenta, quarant’anni fa… 

«È come la politica». 

- Troppo attaccati alla poltrona? 

«Sono attaccati, sono imbullonati, come… saldati. Ma non si può… Stanno distruggendo il ciclismo, in Italia. Perché, allora: la crisi economica ha portato via sponsor, non ci sono più tanti soldi che circolano, come sponsorizzazioni eccetera, che investono per fare le squadre, i vivai eccetera. Quindi, sta morendo. Be’, è già morto, il professionismo in Italia, perché squadre italiane…». 

- …nel World Tour non ce n’è. 

«…neanche una. Qualcuna piccolina…». 

- …ma continental… 

«Continental. Ma perché non possono fare investimenti enormi. Quindi lì non possiamo dire tanto. Però il disastro che sta succedendo è nel vivaio, nei giovani. Le gare si son dimezzate. Squadre che prima avevano i ragazzini si fondono con altre squadre perché non hanno più il budget da poterli… eccetera. Le gare mancano. Ci sono pochissime gare. Hanno tagliato il cinquanta per cento delle gare. Son sparite. Poi hanno fatto la legge che le continental corrono con gli under 23, gli élite. E quindi portano via molto interesse perché questi qua, i continental, corrono coi professionisti. Mentre gli under 23 o gli élite corrono con gli élite under 23, quindi si… “paragonano” a questa categoria. Quando vanno con questi qua, come noi quando ai nostri tempi correvamo coi russi, polacchi, cecoslovacchi che erano [di fatto] professionisti, e i primi anni sbattevamo… Allora però c’erano tantissimi che eran venuti fuori, e siam rimasti in pochi, è venuta fuori la crema della crema, perché è difficile. Oggi invece, il tenore di vita che far fatica… È sempre più difficile, per un giovane, far fatica, perché ci vuole impegno, ci vuole questo, ci vuole quello, serietà, andar a letto presto. Non si può andare in discoteca la sera e il giorno dopo andare a fare duecento chilometri… E quindi: tenore di vita che si è alzato, i giovani che dicono: ma perché, chi me lo fa fare? Cioè: soldi ne circolano pochi, non ti danno da vivere, quindi… Ma soprattutto: mancano i vivai. Se manca il vivaio, fra qualche anno non ci sarà più il professionismo. Non abbiamo più futuro, per farli crescere, dove possiamo attingere per farli “passare” [professionisti]. Più avanti andiamo, penso, e devono fare qualcosa. Soprattutto per avere il professionismo un domani. Dobbiamo avere il vivaio, che cresce “sotto”. Perché se manca questo, poi manca la crema “sopra”. È quello il problema. E la vedo difficile. Perché, anche qua, c’erano tante squadre che adesso hanno chiuso, perché poi per la burocrazia…». 

- Il punto è che se vai a chiedere, per una piccola-media squadra, una sponsorizzazione da 15 milioni di euro, che per una grande azienda sono magari bruscolini, ma nemmeno puoi garantire che andrete al Giro, cosa le offri “in cambio”? La società non ha valore, non sei proprietario del cartellino dei corridori, non hai un centro di allenamento, un qualche bene immobiliare: son quindici milioni, ai loro occhi buttati via. E allora magari li investono altrove, per accordi più remunerativi o con un ritorno di immagine migliore… 

«Fortunatamente, certe squadre venute fuori adesso… Prima c’era la Russia. Ma anche i russi adesso stanno calando…». 

- Si riferisce alla Katusha, alla Gazprom? Sono multinazionali, o enti (para)statali come la Movistar, l’Astana, la Bahrain, la FDJ, la Lotto… 

«Adesso vanno in Qatar. E “morti” questi, quando si stancano? Dove vai a reperire, poi, i grandi sponsor? Mancano. E sparisce. Crolla. Il castello si sta sgretolando, piano piano… Devono fare… Cercare dal piccolo, portare dal vivaio…». 

- Prima parlavamo di Carrera già all’avanguardia. I Tacchella volevano almeno un corridore per Paese in cui loro volevano espandere il proprio marchio. La differenza con gli altri sponsor “locali” è che la loro azienda produceva jeans, abbagliamento, merce quindi più esportabile ovunque. Anche in quel ciclimso non ancora globalizzato. Non erano il piccolo mobilificio dietro casa… 

«Esatto, esatto…». 

- La Carrera aveva i migliori materiali, è stata la seconda in Italia a dotarsi di un pullman per i corridori. Era all’avanguardia in tutto… 

«In tutto…». 

- I tessuti della Carrera per le divise di rappresentanza, l’abbigliamento tecnico della svizzera Descente eccetera. 

«Dall’abbigliamento a… tutto. Eravamo i leader. Perché? Perché avevano una mentalità anche molto aperta, per…». 

- E Boifava in questo quanto ci ha messo del suo? O era più un input che gli arrivava dall’alto, dai patron Tacchella? 

«Ma no… Eh, ma se hai disponibilità… Boifava era capace di giostrare…». 

- Però la forbice tra le grandi e le medio-piccole non era così ampia come oggi. 

«No, no, non era ampia». 

- Oggi tra la Bardiani e la il Team Sky c’è un abisso. 

«C’è un abisso». 

- Come rapporto, siamo uno a quindici… 

«Sì, sì: è un abisso. È quello il guaio. Una volta non c’erano gli abissi, eravamo tutti quanti abbastanza… C’erano sette-otto squadre che…». 

- Quanto poteva essere la forbice, uno a quattro? Per dire, tra l’Atala di Franco Cribiori e… 

«Sì, ma l’Atala era già… La Carrera aveva il pullman. Son stati tra i primi ad avere il pullman. Aveva un’immagine. Sai, la gente poi ci guardava anche, no? Oggi, un po’ meno». 

- La stessa maglia Carrera, con un unico sponsor: “La nostra non era un giornale”, mi ha detto Claudio Chiappucci. 

«Appunto, appunto». 

- E in voi c’era quel tipo di orgoglio, di appartenere a uno squadrone così? 

«Be’ sì, eh. Eh be’. Tutti quanto abbiamo la mira di andare in grandi squadre. Però certe volte, magari, nella grande squadra puoi stare anche peggio». 

- Le responsabilità che ti schiacciano… 

«Sì. Io, quando son “passato”, ho preferito farlo alla Jolljceramica, nel ’73. Io dovevo firmare con la Salvarani, e andar a correre con Gimondi. Perché io andavo allenarmi da dilettante con Marino Basso, che sta qui [ad Arcugnano]. Andavamo ad allenarci assieme, allora m’ha detto: “Dài, vieni con noi, vieni con noi”. Io dovevo trovarmi il martedì e firmare il contratto con Vittorio Adorni, che era il direttore sportivo, a casa di Marino Basso. Era già tutto programmato. Il lunedì sera mi chiama Marino Fontana e mi dice: “Giovanni, non andare, perché…”. Allora non c’erano i telefonini, c’era il telefono, e i primi anni dovevo andare al bar, perché [a casa] non c’era il telefono. Allora, mi chiama e mi dice: “Non andarci, perché il presidente, Franceschini, vuole fare la squadra. Perché avevo vinto il Giro d’Italia ’72, da dilettante, e allora avevamo un bel vivaio come Jolljceramica Padova [con ds lo stesso Fontana, nda]: c’era Federico Baldan, c’era Giacomo Bazzan, che è stato campione del mondo eccetera. E allora m’ha detto: “Ho voglia di far la squadra con te”. E così ho detto…». 

- Aveva già dato la parola di là? Se l’è dovuta rimangiare, o no? 

«No, no. Ci troviamo, vediamo, discutiamo. Doveva venire su ma… Io volevo “passare” [professionista]. Perché allora c’era il blocco olimpico: si “passava” ogni quattro anni. Quell’anno lì siam passati in 42, mi sembra. C’era il blocco. Bisognava approfittarne, perché se andavi, andavi. Ma se non andavi, prendevi un calcio nel sedere. E allora ho detto: Va bè, se fa la squadra, son già là, conosco tutti quanti, mi fan la squadra per me. E son stato là. Difatti: primo anno ho fatto terzo al Giro d’Italia…». [a 10’20” da Eddy Merckx, secondo a 7’42” Felice Gimondi, nda] 

- Se fosse andato alla Salvarani magari avrebbe fatto la fine dei tanti gregari “bruciatisi” per Gimondi… 

«Difatti c’era Annibale De Faveri, che era un bel corridorino, in salita andava, un bel corridorino, Gimondi gli ha tirato giù anche i pantaloni, fino ai calzini…». [sorride, nda] 

- È contento Battaglin della sua carriera, quindi? 

«Sììì, bisogna contentarsi. Quando le cose son fatte, son fatte». 

- E quella sua leggendaria “sfortuna”? 

«Diciamo che potevo… Un Giro d’Italia in più potevo averlo vinto. Un Giro d’Italia, benissimo. Potevo averlo vinto…». 

- Quello del…? 

«’75. Andavo come una fucilata. Lì son stato un po’ tradito però. Lì c’è stato un complotto. Perché, in maglia rosa, ho forato a cinque chilometri dall’arrivo. Mi son passai via tre corridori della mia squadra, nessuno si è fermato a darmi la bicicletta o la ruota». 

- E perché? 

«Eh, perché… È chiaro perché…». 

- Ma lì c’era Pezzi? 

«Da lì s’è innescato tutto un meccanismo. Dopo mi sono scatenato io e ho corso per riprendere la maglia… Io potevo ’spettare le montagne, e quel Giro lì potevo vincerlo con venti minuti di vantaggio. Perché come andavo quell’anno lì…». 

- Visto che mi ha parlato di “tradimento”, quello di Sappada è stato tale? O solo una cosa che in corsa può succedere? 

«È nata… Ma neanche un tradimento, è stato… Ma anche Visentini… Io ero già fuori. Non correvo e quindi certe cose non posso saperle, certi accordi, cosa si sono detti al mattino… Perché al mattino dicono: Si corre così-così-così…». 

- Però mi può dire se i gregari “seguono” i soldi… 

«C’è stato un po’ un tradimento, nel senso che non doveva… Forse, magari, [Roche] l’ha fatto senza volerlo e poi invece è venuto fuori così, però neanche doveva… Con Visentini in maglia rosa, tu dovevi stare lì vicino a lui. Se dopo lui si blocca, sei tu che devi… Allora hai carta libera». 

- Dentro quella Carrera – con Roche, Schepers, Valcke da una parte e gli italiani dall’altra – c’erano tante anime, no? 

«Eh, loro avevano fatto gruppetto. Sì, c’era il meccanico Valcke, c’era Schepers che è stato devoto a morte a Roche. E andava forte quell’anno lì eh, Schepers. Era stato un gregario eccezionale. Eccezionale. Dopo, Roche è stato un fenomeno perché, oltre al Giro d’Italia, ha vinto il campionato del mondo e anche il Tour, ragazzi… Io ho corso ancora prima. Ho corso con Stephen Roche, era già un bel corridore… Io ci ho corso anche al Giro di Svizzera…». 

- Roche quell’anno aveva vinto anche la Volta Valenciana, il Romandia, s’era fatto beffare con Claude Criquielion alla Liegi, vinta in rimonta da Argentin. 

«Sì, son bisticciati con l’altro: tira-ti che tiro-mi… Io invece avevo corso all’inizio con Stephen Roche. Era un bel corridore. È sempre stato un bel corridore, velocino… In salita andava. Era un bel cronometrista». 

- Bravo a leggere la corsa, e a farsi alleanze… 

«Eh sì. Era uno che si faceva voler bene. Perché vuol dire molto farsi voler bene in gruppo, eh». 

- Visentini, in questo, doveva andare a scuola. 

«Sì, sì, perché era un carattere… A tutti quanti, sì, andava bene per le battute che faceva, però se dovevano farti un favore magari non te lo facevano, hai capito? Perché l’altro era più ruffiano e Visentini non era un ruffiano. E invece tante volte ci vuole anche una “partina” di… O sei così, perché hai rispetto per tutti eccetera, ed è il tuo comportamento, altrimenti… Però l’altro era più…». 

- …occhio lungo? 

«Eh sì. Però son stati dei bei corridori tutti quanti…». 

- Il più forte che ha visto? Eddy? 

«Merckx». 


Eddy Merckx e Battaglin, primo e terzo al Giro '73

- E poi Hinault? 

«Hinault». 

- Al di là della doppiezza di comportamento… 

«Hinault. Dopo, anche se ha vinto poco, però che in salita andava, che mi entusiasmava, come Fuente non c’era nessuno. Nessuno…». 

- Roger De Vlaeminck, come classe pura? 

«Signor corridore». 

- C’è chi sostiene che, come classe pura, De Vlaeminck fosse persino superiore a Merckx. 

«Sì, sì, sì. E a quei tempi là era una bella lotta, eh, fra Merckx e… Ragazzi, che corridori». 

- Oggi sarebbe improponibile mettere De Vlaeminck e Moser nella stessa squadra, no? Invece allora è successo, e due volte. Entrambe per un anno, ma è successo. 

«È successo. Però è che De Vlaeminck forse aveva accettato… Più vecchio di Moser, aveva accettato. Sai, bastava un po’ di grana, stranieri…». 

- Visto anche com’era cresciuto, da dove veniva, no? Il gitano di Eeklo… 

«Eh sì, ma… È stata una bella èra la nostra, una bella generazione di campioni. Ed è stato bello anche correrci assieme. Ci siamo anche divertiti. E sai cosa? C’era rispetto fra di noi». 

- Quello c’è anche oggi, fra corridori. 

«Sì? Mica tanto… C’è il gruppetto che fa nicchia, ognuno nel suo…». 

- Penso sia più una cosa generazionale. Tutti col telefonino, si ride e si scherza poco assieme. Però il rispetto per la fatica comune c’è. Quello intendevo. 

«Però adesso… Ma la nostra èra, c’era proprio un rispetto reciproco, sai?». 

- Si riferisce alle umili origini di quasi tutti i corridori della sua generazione? 

«C’era gerarchia». 

- Verso i “vecchi” del gruppo? 

«Prima di avere il rispetto da parte della vecchia gerarchia, bisognava dargli sui denti. Allora ti rispettavano. Allora noi dovevamo essere seri, non sbruffoni…». 

- Dovevate fare la gavetta… 

«Dovevamo fare la gavetta… Però, allora c’era la gerarchia netta, limpida, proprio». 

- E poi c’era un altro aspetto, in squadra. Anche i tuoi compagni erano “concorrenti”, per una corsa, per dei premi. E quindi ti “insegnavano” poco o niente. Anzi, se potevano ti mettevano i bastoni tra le ruote perché eri uno che magari gli portava via la pagnotta. 

«Eh, portava via la pagnotta… Io mi ricordo che ho corso con tanti compagni. Luciano Loro, per esempio, è stato con me. Il rapporto che abbiamo avuto io e Loro era meglio che fra due fratelli. Meglio. Non abbiamo detto una parola… “Stai zitto”, ma proprio c’era… Eravamo come… Meglio che due fratelli. Il primo anno in Inoxpran [1979, nda], io ero un po’ il vecchio e c’era Giacinto Santambrogio, ha corso due mesi e dopo s’è fermato lì… Non aveva più voglia di correre. Eravamo in ritiro a Salò. C’era da fare il Giro del Trentino, e da là siamo andati a Riva del Garda, in albergo, ci siam trasferiti lì. C’erano da fare quattro o cinque tappe, del Giro del Trentino e io ero in una bella condizione. Però, sai, avevo un po’ il marchio, il “fragile”. E un po’, sai, io il freddo lo odio ancora adesso. Non è che mi piace… Ma io più caldo era, meglio andavo. Il caldo non mi dava fastidio, anzi: meglio. Bevevo pochissimo in gara, quindi… Gli altri bevevano Io mettevo la mano sulla borraccia dopo cento chilometri, prima non bevevo mai. E questo è un grande “segreto”, perché sennò fai… E allora, cosa succede? Andiamo lì a ’sto albergo e la sera, finito di mangiare, si stava lì col personale. Col personale eravamo lì, uno con l’altro, tutti quanti, gruppetto eccezionale, affiatatissimo. Stavamo là, perché i corridori mangiavano prima. Tante volte io mi fermavo, mi mettevo in fianco al massaggiatore o al meccanico, facevo quattro chiacchiere finché loro mangiavano, mi mettevo lì con loro… Tante volte. E dopo, quando si andava su in camera, ci trovavamo, venivano tutti in camera mia, Luciano Bracchi, Bruno Leali, Guido Bontempi, Gianfranco Foresti, Pasquale Pugliese. Stavamo là, sette, otto, dieci in camera. Si parlava di una cosa e l’altra. Avevamo fatto un gruppo, un’amicizia, un affiatamento, tra di noi. E ho fatto le prime due-tre tappe, l’ultima si faceva… C’era il circuito del Lago, da Riva, che andava su e dopo si andava giù a Arco e si tornava a Riva. Un circuito. Pioveva e nevicava. C’era neve [alta] così per terra. E Boifava mi ha detto: “Giovanni, è meglio che non parti. È meglio che ti teniamo qua. Non partire”. E neanche son partito, alla gara, perché aveva paura che mi prendessi qualcosa. E dopo siam partiti. Da lì siam andati alla Tirreno-Adriatico. Il secondo giorno ho preso la maglia e la settimana dopo ho vinto il Pantalica. E anche [il Giro della Provincia di] Reggio Calabria. Pensa che condizione che avevo, io che a inizio stagione non andavo mai tanto forte. Quell’anno lì, ho fatto un inverno bello, con tanta palestra eccetera. Ma l’affiatamento che avevamo fatto noi del gruppo della Inoxpran… Finito quella domenica, ci siamo sciolti come gruppo, perché si andava a casa e la settimana dopo partiva la Tirreno-Adriatico. Pensa che… avevamo il magone perché andavamo a casa. Ed erano già quaranta giorni che eravamo in ritiro assieme. Pensa! Mai successo, in tanti anni di corse, che un gruppo… Bracchi era quasi in lacrime. Adesso, quando ci troviamo… Dio bon, giovedì siamo già insieme un’altra volta. L’affiatamento che c’era… E questi corridori qua, quando si andava alle corse, ti davano il centocinquanta per cento, non il cento per cento. Perché ti davano fino all’ultimo “goccio” di… forza che avevano, capito? Vedi cosa fa il gruppo, certe volte… Anche le squadre di calcio, se c’è l’allenatore, se c’è il gruppo che fa… gruppo, rendono il centocinquanta per cento, non il cento per cento: il centocinquanta per cento! Se non c’è affiatamento, di gruppo, [le squadre] non segnano, non fanno niente. Ma in tutti gli sport, eh». 


Luciano Loro con Giovanni Battaglin, vincitore del Giro '81

- Non gliel’ho chiesto all’inizio, ma perché in famiglia la chiamavano Giantonio? 

«Giantonio… A casa mia mi chiamavano [così]. Io avevo anche un secondo nome, Giovanni Antonio: Giovanni era il nonno di mia mamma e Antonio era il papà di mio papà. Allora mi hanno messo il nome Giovanni Antonio, e mi chiamavano Giantonio. Pensa che la prima volta che son andato a farmi fare i documenti in Comune, gli ho detto: “Nome… Giantonio”. E non lo trovavano». 

- Questa la sanno in pochi. 

«Era sfuggita anche a me… [ridiamo, nda] Allora il municipio era a Crosara, un paesino sopra… Io abitavo sopra il castello, un paesino, si chiama San Luca». 

- E invece adesso sta qua a Marostica? 

«Sì, sì. Adesso sto qua. È da quarant’anni che sto qua, ormai. E ’sto paesino, ’sto comune piccolino che faceva due frazioni e c’era il municipio, son andato lì a farmi fare il documento. E han detto: “’‘Giantonio' non c’è…”».[ride, nda] 

C’è, c’è. Ma si deve cercare bene: Giantonio Battaglin, campione e gentiluomo. 

CHRISTIAN GIORDANO

NOTE:
[1] All’epoca, i grandi giri si correvano con dieci corridori per squadra. Nella Inoxpran il Tour ’79 lo conclusero solo Battaglin (6°), Leali (77°) e Vanzo (64°). In quattro furono esclusi per fuori tempo massimo: Nazzareno Berto e il francese Patrick Busolini e Giovanni Mantovani nella 15ª tappa, Gianfranco Foresti alla seconda. Ritirati: Luigino Moro (prima tappa), Riccardo Magrini (12ª) e Pasquale Pugliese (17ª). 

[2] Due le cronosquadre al Tour ’79: la Captieux-Bordeaux di 86,6 km alla quarta tappa, la Deauville-Le Havre di 90,2 km all’ottava. Le vinse la TI-Raleigh, e a Le Havre Bernard Hinault perse la maglia gialla in favore di Zoetemelk. 

[3] Le transaminasi (o aminotransferasi) sono una sotto-sottoclasse di enzimi (appartenenti alle transferasi) predisposti a catalizzare la reazione di transaminazione, cioè il trasferimento del gruppo amminico α da un amminoacido a un α-chetoacido. Le transaminasi sono usate in medicina soprattutto per evidenziare la presenza di un danno epatico, e i loro valori normali, indicati nei referti di laboratorio, variano a seconda della metodica analitica adottata.

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