#20annisenzaPantani - Il gigante del Galibier (Tour 1998)


27 luglio, 15ª tappa: Grenoble - Les Deux Alpes, 189 km
Alla partenza: Jan Ullrich maglia gialla; Pantani 4° a 3’01”
All’arrivo: Pantani in giallo; Ullrich 4° a 5’56”


di CHRISTIAN GIORDANO ©
Sky Sport ©

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Trentaquattro.
Come i suoi battiti a riposo del suo cuore d’atleta.
Come il dorsale con cui, nel back-to-back Merano-Aprica, al Giro ’94, s’era rivelato al mondo.
Come gli anni di quando, poi, s’è jamesdeanizzato, diventando così (ancor più) mito.
Come i chilometri di salita del Col du Galibier, forse – e anche senza forse – la sua impresa più grande.

Lassù avevano vinto Gino Bartali nel ’37 e Fausto Coppi nel ’52.
In qualche modo entrambi con qualcosa in comune col loro degno epigono.
Bartali a quel Tour si era presentato con poca convinzione (eufemismo).

Come il Panta veniva sì dalla fresca vittoria al Giro, ma Ginettaccio pure da una broncopolmonite. E più che il fascino dell’ignoto, avvertiva le insidie del territorio inesplorato. Sin lì nessuno aveva mai osato tanto: vincere nella stessa stagione due grandi giri, figuriamoci Giro e Tour.

Ci riuscirà Coppi, due volte: nel ’49 e nel ’52. L’anno del Galibier, la salita forse più adatta alle sue caratteristiche.
Un dominio tale, quello dell’Airone, da indurre gli organizzatori a raddoppiare il premio per il secondo posto; che a Parigi – a 28’17” dalla maglia gialla – sarà del belga Stan Ockers, l’idolo la cui tragica fine farà piangere il Merckx bambino.

Neanche il Pirata avrebbe voluto salpare per il Mar d’Irlanda, nuova frontiera da dove quell’anno – e per la tredicesima volta dall’estero – sarebbe partita la Grande Boucle.
Ormai un mastodontico Barnum itinerante dello sport-biz globale. E così malato di gigantismo da fagocitare se stesso nella sempre più affannosa caccia di spazi vergini. Purché danarosi.

Marco a quel Tour neanche voleva andarci. Il percorso non gli si addiceva, e lui non c’era con la testa prima ancora che con le gambe, girate a vuoto (o punto) nelle tre settimane di bagordi.

La conquista del Giro aveva inebriato il Pirata, e il bottino forse più ancora la sua ciurma.
Ma l’hangover era stato – per tutti, e per il Panta di più – traumatico.
All’improvviso – dal 26 giugno – Luciano Pezzi non c’era più.
E chissà come sarebbe andata se ci fosse stato almeno per un altro po’, magari fino al post-Campiglio ’99. Forse il Pirata neppure avrebbe tentato la doppietta Giro-Tour, ma magari oggi saremmo qui a celebrare – non a commemorare – “soltanto” Marco Pantani. L’erede del suo idolo di gioventù Charly Gaul.
Il più forte scalatore dell’èra moderna. Uno che vinse un Giro e subito dopo ne perse un altro già vinto.

Quel Tour del 1998 aveva però, tra le tante maledette, una particolarità salvifica.
Quell’estate il mondiale di calcio si giocava in Francia e così l’ASO, fiutandosi fra cannibali, s’era posticipata la propria fête de juillet alle ultime tre settimane del mese, slittando la passerella finale di Parigi addirittura al 2 agosto.
Questo, pur con lo scotto di certe bollenti estati transalpine, avrebbe consentito ai reduci del Giro una decina di giorni in più di scarico per anche solo pensare di poter correre, una dietro l’altra, le due maggiori corse a tappe della stagione.

Per Marco, da domenica 7 maggio, in rosa sul podio finale di Milano, al cronoprologo di Dublino dell’11 luglio al Tour: trentaquattro (!) giorni per ricominciare. A respirare. A rinascere. A vivere.

Nei 5,6 centralissimi chilometri da Grafton Street al rettilineo di O’Connell Street, il Panta chiude 122°, a 48” dallo spaziale Chris Boardman, primo a 54,194 km/h di media. Ma quel che più conta è che lui sia di nuovo lì, in sella.

Senza più Luciano in ammiraglia, ma col suo ricordo nei pensieri, la sua presenza nel cuore. Il vecchio saggio, romagnolo e maniaco della bici come lui. L’ex partigiano “Stano” che aveva corso per Alfredo Binda, contro Bartali e Coppi, con Gastone Nencini e diretto Felice Gimondi, Vittorio Adorni, Francesco Moser e… Marco Pantani.

Quel lunedì 27 luglio, neanche pare estate.
Freddo, pioggia, nebbione. Un cielo pesto da tregenda che i fari della carovana tagliano a malapena.

Il Col du Galibier fa paura sempre. Ma in quello scenario – dantesco – ancora di più.
Scendervi in corsa, anche solo imbucandosi guidando un’auto accreditata al seguito, tra due ali di folla sui costoni, è un’esperienza quasi mistica. Al limite del trascendente.
Provata di persona al Tour 2017, pur in condizioni meteo meno apocalittiche, inseguendo Chris Froome e Fabio Aru nel tappone di Serre Chevalier vinto da Primož Roglič, una roba da cuori forti. E comunque da non ripetere.

Nel ’98 il girone infernale prevede un toboga di 189 km da Grenoble a Les Deux Alpes con quattro GPM: due hors-catégorie oltre quota duemila (i 2067 metri del Col de la Croix de Fer dopo 70 km e il Galibier ai 146,5); uno di seconda (i 1566 metri del Col du Télégraphe al km 123) e il prima categoria fino ai 1644 metri dell’arrivo.

Al via della tre giorni alpina, in giallo c’è Jan Ullrich, tedesco di Rostock della tedeschissima (pure troppo) Telekom.

In classifica generale lo inseguono a 1’11” lo statunitense Bobby Julich della francese Cofidis e a 3’01” il francese Laurent Jalabert della spagnola/tedesca ONCE-Deutsche Bank e Pantani della Mercatone Uno-Bianchi.

Il Galibier, con i suoi 2645 metri di altitudine il Souvenir Henri-Desgrange (la “Cima Coppi” di quel Tour), è a 42 chilometri dal traguardo.

A poco più di cinque chilometri dalla vetta, l’aedo Adriano De Zan, attualizza il suo mantra.
Il suo mitologico «scatttaaa Pan-tttaaa-ni» diventa «parttteee Pan-tttaaa-ni» sul primo affondo del Pirata, cui risponde Luc Leblanc dell’italiana Polti ma non la maglia gialla Ullrich né Julich, e tantomeno l’altro francese Jalabert, già staccato.

Pantani si volta e, nel vedere Leblanc che abbozza una reazione, sembra come rialzarsi. Sta bluffando.
Poi, nel tratto più duro, seconda rasoiata: «Riparrr-ttteee Pan-tttaaa-ni». E lì salta anche Leblanc.
Pantani s’invola. In due chilometri gli rifila quaranta secondi.
Riprende via via i fuggitivi, la maglia a pois Rodolfo Massi (il suo Tour finirà ad Albertville, fermato in gendarmeria e poi rilasciato), Marcos Antonio Serrano e Fernando Escartín della Kelme, per penultimo il francese Christophe Rinero, lanciato come testa di ponte per il suo capitano Julich, e che cerca invano di restare a ruota.
Poi toccherà a José Maria Jiménez, il suo altrettanto “maledetto” alter ego spagnolo della Banesto.

Più dietro, a 1’13”, Ullrich è intruppato con Julich, Jean-Cyril Robin, Giuseppe Di Grande e Michael Boogerd, che si era già spento sulle prime rampe del Galibier.
Nel mezzo il Panta manda a quel paese un “tifoso” che a piedi gli corre accanto ma pericolosamente troppo vicino.
A un chilometro dalla vetta ha ormai due minuti e mezzo dalla maglia gialla. E una volta in cima, con 2’56” sul tedesco, ancora 42 chilometri per recuperare i cinque secondi che gli mancano per sfilargliela. Almeno virtualmente.

Ma oltre al bluff di quel primo scattino c’è un’altra (duplice) magata in arrivo. La piazza, lassù in cima, il suo terzo diesse Orlando Maini, che tutto imbacuccato lo aspetta per passargli una borraccia e soprattutto una mantellina.
Errore esiziale, quello di fiondarsi giù senza coprirsi e idratarsi, che Ullrich commetterà e il Pirata no.

Brividi, e non solo di freddo, quando, subito dopo aver scollinato, l’operatore in moto inquadra Pantani con un piede e a terra e dietro di lui l’ammiraglia. Si temono l’ennesima caduta, il millesimo incidente, invece – per una volta – è solo saggia prudenza: non riusciva a infilarsi la manica sinistra. Un meccanico in maglietta scende e lo aiuta.

Al Panta basta averla, senza neanche chiudersela la mantellina, perché Jiménez gli ha rimontato i dieci secondi di svantaggio e ora i due scendono – meglio: picchiano – assieme.

Ai piedi della salita che in nove chilometri porta al traguardo il suo gruppetto di testa (Escartín, Rinero e Massi) ha 3’59” su quello di Ullrich, che è già in crisi non solo di fame.

E, al solito, senza più la guida dei suoi due Peter, Seger prima e Becker poi, come tanti ex DDR, è perso: non sa cosa fare. In corsa e fuori.

Pantani è quindi maglia gialla virtuale.

Il suo personalissimo Tour in teoria l’aveva già salvato vincendo, pur senza convincere appieno, cinque giorni prima sui Pirenei, a Plateau de Beille, recuperando 1’33” su Julich e 1’40” su Ullrich.

Poi entrambi con lui, ma in ordine invertito e staccatissimi, sul podio finale di Parigi: Jan a 3’21”, Bobby a 4’08”.

A Les Deux Alpes però è altro: for the ages. Per i posteri.


Sul traguardo il Panta – mantellina tolta, manicotti neri calati sui polsi, occhiali in testa sopra la bandana – socchiude per un attimo gli occhi e allarga – più che alza – le braccia al cielo pesto da tregenda.

Vuole guadagnare più secondi possibile, non esulta, ma “sente”: il momento, l’impresa, la storia.

È un’immagine diversa dal cristo in rosa quasi trasfigurato del 4 giugno a Montecampione, meno tormentata.

Là c’era un come senso di sofferta, dolorosa liberazione. Qui più di consapevolezza, di consacrazione, quasi di affrancamento, di astrazione dalle umane cose, dal tanto patire.

Capisce che – trentatré anni dopo Gimondi, ora suo padre putativo alla Bianchi – può puntare al bersaglio grosso.

E sarà proprio “Felicione” ad alzargli il braccio, come l’arbitro col pugile vittorioso, nel trionfo sugli Champs-Elysées.


Ullrich, scortato dal suo ex capitano Bjarne Riis e da Udo Bolts, arriva 25º a 8’57”. E nella generale precipita quarto a 5’56”, scavallato da Julich a 3’53” e da Escartín a 4’14”.

E anche se nella crono di 52 km a Le Creusot (piovosissima pure quella) il penultimo giorno sarà super favorito il tedesco, il Panta – sulla carta – ha dalla sua ancora due tappe alpine consecutive: Albertville con La Madeleine e, pur meno dura, di Aix-les-Bains. Quest’ultima però poi neutralizzata per lo “sciopero” dei corridori contro il trattamento intimidatorio e irrispettoso usato dalla Gendarmerie di Albertville nella perquisizione notturna in albergo dove pernottava la TVM.

«Noi siamo atleti: non mi va che ci trattino come delinquenti. Se il gruppo decide di proseguire io ci sto; se si decide per lo sciopero, mi fermo anch’io», dichiara il Pirata, leader dei big che il patron Jean-Marie Leblanc implorava di ripartire.


Lo stesso Leblanc che nel 2003 gli rifiuterà la wild card con cui, chissà, Marco magari avrebbe potuto salvarsi.

In quella 17ª tappa si ritireranno per protesta cinque squadre: ONCE, Banesto, Riso Scotti, Vitalicios Seguros e Kelme. La TVM lo farà alla 19ª. A Parigi, dei 189 partiti, arriveranno in 96.

Nato moribondo con l’arresto di Willy Voet, il massaggiatore della Festina, alla frontiera franco-belga l’8 luglio, a tre giorni dalla Grand Départ, mai il Tour era stato a tanto così dal chiudere bottega.

Pantani, che con quell’impresa aveva ipotecato, ma non ancora vinto il Tour, aveva in realtà fatto molto di più.
Non solo lo aveva salvato, ne aveva scritto – à la Matheson – la Storia: io sono leggenda.

«C’EST UN GÉANT» titolò l’indomani, in maiuscolo a tutta prima pagina, L’Équipe. È un gigante.
Sul Galibier. Come Bartali. Come Coppi.
CHRISTIAN GIORDANO ©
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