#20annisenzaPantani - Merano & Aprica: epifania di un alieno (Giro 1994)
Sabato 4 giugno, 14ª tappa: Lienz-Merano, 235 km
Alla partenza: Evgenij Berzin in rosa; Pantani 10° a 6’28”
All’arrivo: Evgenij Berzin in rosa; Pantani 6° a 5’36”
Domenica 5 giugno, 15ª tappa: Merano-Aprica, 188 km
Alla partenza: Evgenij Berzin in rosa; Pantani 6° a 5’36”
All’arrivo: Evgenij Berzin in rosa; Pantani 2° a 1’18”
di CHRISTIAN GIORDANO ©
Sky Sport ©
In duecentomila sul Mortirolo, il Maracanã del ciclismo.
In 6,73 milioni (alle 17,55 il record) incollati davanti la tv, il 59% di share.
L’epifania in un back-to-back da sogno o son desto: in due giorni, fra Merano e Aprica, il Giro ’94 e, aprendo il grandangolo, il ciclismo dell’epoca trovano una stella del futuro che arriva dal passato.
Da quello ancora “eroico” di Federico Martín Bahamontes e Charly Gaul, senza azzardarsi a scomodare Bartali e Coppi.
Uno scalatore puro – per caratteristiche, coraggio e modo di scattare – destinato a infiammare i cuori, a rovesciare i pronostici, a ribaltare le classifiche. A far la “guerra” in corsa. A vincere da solo. Come da dilettante.
Déjà-vu. Il film di quel Marco Pantani, uno scricciolo di 24 anni e 56 chili, che vince a braccia alzate, i più attenti fra gli addetti ai lavori l’avevano già visto. In anteprima, al Giro Baby ’92 e con tanto di replica. Anche allora in back-to-back: la nona tappa, la Verona-Canavese di 144 km il 25 giugno e la Canavese-Alleghe di 111 km, il giorno dopo.
È infatti sulle salite dell’Alto Adige che nasce il mito dello scalatore nato, per un capriccio del fato, al mare di Cesenatico.
Pantani proprio sconosciuto già allora non era, anzi. Perlomeno nell’ambiente.
Il suo, infatti, nei tre anni precedenti era stato un crescendo, magari non rossiniano, ma certo da predestinato.
Terzo alle spalle di Wladimir Belli e Ivan Gotti al Giro Baby nel 1990, con la selezione Emilia B.
Secondo nel 1991 dietro Francesco Casagrande e davanti a Giuseppe Guerini. Sì, con Gotti assente, ma dando spettacolo sia vincendo ad Agordo dopo aver scalato i passi Rolle e Valles, sia lottando con Casagrande sui quattro GPM della frazione successiva: Falzarego, Giau, Forcella Staulanza e Cibiana.
Primo nel 1992. Da promosso capitano della selezione Emilia-Romagna A può contare sui compagni Nicola Raffaele, Stefano Chiodini, Enrico Bonetti, Davide Taroni e Davide Dall’Olio. E all’occorrenza anche sui ragazzi della formazione B: Andreani, Barbero, Donati, Patuelli, Tartaggia e soprattutto Stefano Cembali.
La maglia è gialla con colletto rosso e fascia orizzontale bicolore: in nero su bianco la scritta “Emilia”, in nero su rosso “Romagna”. Su entrambe le spalle, appuntato con quattro balie, porta il dorsale #49 (e non il #41 come invece riportato in varie cronache) e sui pantaloncini neri campeggia in bianco su fascia rossoblù «Giacobazzi», lo sponsor del suo Gruppo Sportivo di appartenenza.
Gone (Giro) Baby Gone
Fra i 155 al via da Marotta (Pesaro), schierati in 27 squadre fra regionali italiane e nazionali, oltre al “Panta” – perché allora è solo così che tutti lo chiamano – i più accreditati sono il toscano Casagrande, col dorsale #1 di vincitore uscente, e Guerini, terzo nel 1991 e primo nel 1993, col #98 della Lombardia D.
Tanti i prospetti interessanti, anche in ottica pro’: lo stesso Belli che aveva vinto nel 1990, Vincenzo Galati e Andrea Noè pure loro sul podio finale, Daniele Cignali, il georgiano poi naturalizzato statunitense Vassili Davidenko, Gian Matteo Fagnini, Marco Fincato, Riccardo Forconi, Massimiliano Gentili, il velocista Nicola Minali, il futuro tricolore dei professionisti Filippo Simeoni, Luca Panichi (poi scalatore in carrozzina dopo il suo terribile incidente in un Giro di Umbria, Mariano Piccoli, Leonardo Piepoli che vincerà nel 1994, Michele Poser, Luca Scinto, Marco Serpellini, i fratelli Maurizio e (il povero) Simone Tomi, Paolo Valoti.
Per otto tappe Pantani corricchia coperto in fondo al gruppo, abitudine-vizio che, in attesa delle salite, non perderà mai nemmeno da pro’. E tiene d’occhio da lontano i rivali più pericolosi. Su tutti l’ucraino Alexander Gontchenkov, leader per una settimana e vincitore di due tappe: la prima (Marotta-Mondolfo) e la crono di Marina di Pietrasanta (Lucca) alla quinta. La rivelazione Serpellini, non ancora ventenne, gliela sfila alla settima, prima di cederla, alla nona, a Belli.
Poi, negli ultimi tre giorni, al terzo tentativo e dopo due podi in fila, il Panta si prende – finalmente – il Giro Baby.
E lo fa alla sua maniera, mirando alle stelle.
Con la vittoria a Cavalese lo ipoteca. E l’indomani lo blinda prendendosi maglia e tappone dolomitico che prevede Sella, Gardena, Valparola e l’arrivo ai 1347 di Piani di Pezzè, sopra ad Alleghe.
Già maglia verde di leader del GPM, s’invola sul Valparola e trionfa in solitaria nel pienone assiepato sul rettilineo d’arrivo staccando di 2’02” Pavel Cherkasov (russo della allora CSI), 2’26” Andrea Noè (Lombardia C), 2’37” Alexander Chefer (altro CSI ma kazako) e di 2’38” Vincenzo Galati (Lombardia D).
Conquistata così pure la gialla della generale, deve solo difenderla nella 11ª e ultima tappa, la Alleghe-Gaiarine di 145 km. Una scampagnata con due colli di seconda categoria (il Nevegal e il Campon) vinta da Mariano Piccoli (Veneto A).
Pantani, a 22 anni, conquista il 22° Giro d’Italia Dilettanti con 1’32” su Vincenzo Galati (Lombardia D) e 2’16” su Andrea “Brontolo” Noè (Lombardia C).
Terzo, secondo e finalmente primo in altrettante partecipazioni.
«Mi toccava vincere se non altro per continuare la serie – racconta su Bicisport di luglio 1992 a Enzo Vicennati, poi uno dei giornalisti storicamente a lui più vicini, per reciproche stima ed empatia – Nel ’90 finii in terra e fui costretto a correre con un reggispalle. L’anno scorso persi nelle tappe di pianura. Quest’anno, era ora, è andato tutto bene».
Marco dedica il suo primo successo importante al nonno Sotero, che gli aveva donato la prima bici da corsa: una Vicini rossa. Quanto al suo innato senso di Smilla per la montagna, dice sorridendo a Gino Goti, regista tv della corsa: «E pensare che la mia prima vittoria nelle categorie giovanili l’ho ottenuta nel 1984 a Case Castagnoli di Cesena: tutta pianura».
Una cometa a Merano
Tutta montagna invece quella aspetta lui e i girini al via della Lienz-Merano.
Primo tappone della due giorni dolomitica al Giro dei “grandi” 1994, il suo secondo dopo la tendinite che l’anno prima – al debutto nei pro’ – lo aveva costretto al ritiro alla 18ª tappa, la Sampeyre-Fossano. Alla vigilia del suo territorio di caccia: la cronoscalata di Sestriere e il tappone di Oropa. Quella della rimonta sui 49 dopo il salto di catena al Giro ’99.
Sabato 4 giugno, la 14ª frazione prevede, oltre il secondo sconfinamento in due giorni dopo quello sloveno di Kranj, 235 km e cinque Passi di cui tre oltre quota 2000 metri di altitudine (cioè un altro sport): Stalle (2052), Furcia (1759), delle Erbe (2004), di Eores (1863) e quello di Monte Giovo (2094) prima della discesa di 42 km fino all’arrivo.
Ed è proprio in discesa, due volte, che il Panta finalizzerà la sua prima grande impresa da professionista.
Nata andando a prendere sul Giovo lo svizzero Pascal Richard, in fuga da 112 km. Ancora misconosciuto esponente della Nouvelle Vague del ’70 – lui, la maglia rosa Evgeni Berzin e Michele Bartoli, primo in solitaria il giorno prima a Lienz (col Panta a inseguire in picchiata lui e Fabiano Fontanelli) – aveva fatto le prove generali scendendo di nuovo a tutta ma stavolta dalla città austriaca.
E aveva rifinito il capolavoro planando a Merano con 40” sul gruppo, poi regolato in volata da Gianni Bugno su Claudio Chiappucci, suo rivale per antonomasia ma più per sponsor e media che tra i diretti interessati. Perché la vera rivalità con Bugno, sentita più dal trentino che dal brianzolo, c’è sempre stata con Maurizio Fondriest.
Il Panta scende con un fuoco erasmiano. Il suo è un Elogio alla follia su due ruote: ma fuori sella. A uovo.
La posizione a braccia allungate e busto proteso col sedere sospeso, oggi vietata dalla UCI (la federazione internazionale), che in tv aveva visto tenere a Dmitrij Konyshev al mondiale francese di Chambéry ’89.
Il secondo per lo statunitense Greg LeMond, a sei anni da Altenrhein ’83 e due dopo il terribile incidente di caccia (impallinato per sbaglio dal cognato). E conquistato, in una sorta di simbolica fine Guerra Fredda, proprio davanti al russo allora ancora sovietico Konyshev, ancora oggi nell’ambiente come direttore sportivo (dal 2020) del team Gazprom-RusVelo e papà dell’italianissimo Alexander attuale professionista con la Corratec.
Chiappucci però è anche il capitano nonché compagno di camera del Panta alla Carrera. E conoscendolo, al di là delle dichiarazioni ufficiali, non è che quell’azione e le successive inazioni le avesse prese benissimo.
«È sempre la stessa solfa – si era sfogato al traguardo con Eugenio Capodacqua de la Repubblica – : quello non collabora perché è stanco, quell’altro perché deve difendere la maglia verde, quell’altro ancora perché aspetta il compagno: insomma, alla fine mi sono ritrovato solo. Ormai succede sempre».
Il Diablo, peraltro mai amatissimo in gruppo e ancor meno in squadra, ci aveva provato in tutti i modi ad andar via. Era pure nella fuga giusta, con 2’40” di margine e davanti il solo Giovo prima della planata verso l’arrivo. Ma prima la Polti di Bugno e Gotti e poi la Gewiss-Ballan della maglia rosa Berzin non gli avevano dato scampo.
E lo stesso Bugno aveva giustificato così, nel dopo-gara a Pietro Cabras del CorSport, la tattica attendista sua e degli altri big (su tutti la maglia rosa Berzin e Miguel Indurain): «È assurdo: “passeggiate” di 240 km non servono a niente, ci vorrebbero tappe brevi e durissime. E poi quaranta km di discesa prima del traguardo, ti tolgono la voglia. La tappa giusta è quella di domani». Un insospettabile e pionieristico modernismo ciclistico, quello di “Vedremo” – meravigliosa cornice in cui per l’intercalare e i tentennamenti lo incasellò Gianni Mura – E che però almeno il pronostico l’avrebbe azzeccato. Il tappone giusto sarebbe stato quello del giorno successivo. Giusto per Pantani, però.
Quell’alieno la cui Epifania al Nuovo Mondo si era appena palesata alzandosi sui pedali sopra Bolzano, al primo chilometro della Valle del Passi di Monte Giovo. E che, insospettabilmente, stava per concedere, concedersi e concederci un irresistibile, e spartiacque, bis. Out of the blue, un giorno all’improvviso.
Come in A Star Is Born per Esther Hoffman Howard (Barbra Streisand) e Ally Maine (Lady Gaga) nel remake di 42 anni dopo. E niente, in primis per la neonata stella, sarà come prima. A cominciare dalla sua squadra.
Bene, bravissimo, bis
Alla fine, per l’alta classifica, le prime montagne “vere” avevano partorito un topolino di distacchi minimi o nulli.
Alla partenza da Lienz, Berzin era in rosa con 2’16” sul francese Armand de Las Cuevas (della Castorama), 2’32” su Bugno, 3’39” su Indurain (Banesto) e Pantani a 6’28” a chiudere la top 10.
All’arrivo a Merano, Berzin in rosa era rimasto, con gli stessi margini o quasi. Bugno, ora a 2’24”, con la volata aveva rosicchiato gli 8” di abbuono. E, saltati Marco Giovannetti e Francesco Casagrande, l’unico bel balzo lo avevano compiuto, più in posizioni che nei tempi, Belli e Pantani. I protagonisti del famoso Giro Baby del ’92, quando Marco sfilò a Wladimir la maglia gialla vincendo a Piani di Pezzè al penultimo giorno, ricordate?
Qui invece il bergamasco restava ancora a 5’24” ma salendo da settimo a quinto. Il romagnolo, con i 40” guadagnati su Berzin e i 12” di abbuono per la vittoria di tappa, schizzando dal 10° posto a +6’28” al sesto a +5’36”.
Il suo a quel punto forse già co-capitano Chiappucci, invece, languiva dieci gradini più giù, 16° a 10’35.
Chiaro che, per il tappone dell’indomani, nella pentola Carrera qualcosa (di grosso) stesse bollendo.
La 15ª frazione, domenica 5 giugno (data non banale nella Pantaneide), è la Merano-Aprica di 195 km con tre GPM: i 2758 metri dello spauracchio Stelvio dopo 73 km, i 1852 del Mortirolo ai 142,4 km e i 1427 del Valico di Santa Cristina prima di scendere in 6,6 km ai 1181 metri di altitudine del traguardo.
Ne verrà fuori un tappone epocale, di quelli da raccontare ai nipotini: io c’ero.
Il Panta se ne va via sul Mortirolo, e dove sennò?
Nel tratto più duro, nel territorio di Mazzo di Valtellina, dove – a imperitura memoria – oggi campeggia il monumento, voluto dall’Assocorridori e finanziato dalla Bianchi, che ne ricorda lo storico scatto. E meta di continuo pellegrinaggio di cicloamatori e semplici appassionati.
Nell’azione si trascina dietro il Chiappa e Franco Vona, compagno nella GB-MG di quel Richard che Pantani era andato a prendere in fuga il giorno prima sul Giovo. Vona però ha dato tutto per passare primo sullo Stelvio, Cima Coppi di questa edizione. Marco scollina da solo con 10” sul colombiano Nelson “Cacaito” Rodríguez, un escarabajo persino più leggero di lui, 40” su Gotti e Belli, 50” su Indurain, 1’50” su Chiappucci, 2’23” su Berzin e 3’10” su Bugno.
A rispondere a Pantani ci provano stavolta i primi due della generale, Berzin e de Las Cuevas, ma saltano presto sugli scatti reiterati e irresistibili di quel satanasso delle salite.
A loro si aggiunge poi Indurain, che li rimonta fiondandosi a tomba aperta giù dal Mortirolo.
Ed è lì che subentra tutta la sapienza tattica di Beppe Martinelli, il rampante direttore sportivo cresciuto alla scuola di Davide Boifava nella Carrera e che il Panta avrà, tranne le ultime due stagioni, anche nei trionfi alla Mercatone Uno.
Il saggio “Martino”, sul falsopiano dopo la discesa, gli consiglia di temporeggiare: «Mangia, bevi e aspetta Indurain». Genialata. Il navarro, in coppia con Rodríguez, ci riesce a ridosso dell’Aprica.
Perché poi, sul Santa Cristina, l’alieno col #34 s’invola e agli umani non resta che prenderne il dorsale.
Lo rivedranno al traguardo, che Pantani taglia forzando fino all’ultimo. Prima di esultare a braccia levate e pugni chiusi dopo quasi sette ore di corsa e in pratica – a forza di scatti e rilanci – più fuori che in sella: 6h 55’ 58. La doppietta Carrera si completa con Chiappucci piazzato a 2’52”. Belli è terzo a 3’27”, Rodríguez e Indurain seguono a 3’30”.
Berzin, sesto a 4’06”, conserva la rosa ma con “solo” 1’18” su Pantani e 3’03” su Indurain, che scavalca Bugno, ottavo a 5’50” all’arrivo e ora quarto a 4’08” nella generale.
Al traguardo tutta la Carrera è in lacrime, dal giemme Boifava al meccanico Michele Gatti, che – parole sue – non piangeva così da tre anni.
Tolta la poi ininfluente cotta di Oropa ’93 contro Piotr Ugrumov, mai re Indurain era stato così nudo. «Ho rischiato l’osso del collo giù dal Mortirolo – confiderà a Gianni Ranieri de la Stampa il sovrano prossimo ad abdicare – ma negli ultimi dieci chilometri ho preso una legnata». Dopo i suoi due anni di dominio al Giro, il cambio generazionale era già in atto. E il navarro, staccato due volte di prepotenza, lo aveva capito forse prima e di sicuro meglio di tutti.
Non per caso, di lì a sei settimane, al Tour saranno Indurain, Ugrumov (col senno del poi un altro “Mr. 60%” di ematocrito come il danese Bjarne Riis) e Pantani, terzo e maglia bianca al debutto, a salire sul podio finale di Parigi.
Quello esploso nella due giorni alpina è infatti un Pantani diverso: nella percezione che ne hanno i media, il gruppo e persino se stesso: nella propria consapevolezza, più ancora che nella mai mancatagli autostima.
«Ora siete in tanti a dire che posso vincere il Giro – dice a Leonardo Coen de la Repubblica – Se lo dice anche Berzin è perché forse, ha un po’ di paura, ha visto come vado in salita. Io non ho niente da perdere, la maglia rosa non ce l’ho».
Guidato dal suo (ormai ex) capitano Moreno Argentin, Grande Vecchio al passo d’addio come Felice Gimondi con Johan De Muynck al Giro ’78, la rosa se la terrà fino alla fine la meteora Berzin. Come il Panta un altro ragazzo del ’70.
Il russo (dunque anche maglia bianca) trionfa con 2’51” sull’italiano e 3’23” sul vincitore uscente Indurain.
Il cerchio aperto fra Merano e Aprica il 4-5 giugno 1994 si chiuderà in un lustro, il 4-5 giugno 1999 a Campiglio. Anche allora con Aprica, Santa Cristina e Mortirolo. Ma in ordine inverso e senza più il Panta.
Da cometa a supernova, e per sempre alieno.
CHRISTIAN GIORDANO ©
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