#20annisenzaPantani - Il bronzo «magico» di Duitama (Mondiale 1995)
Domenica 8 ottobre, 62ª edizione dei Campionati del mondo
Prova in linea (265,5 km):
1. Abraham Olano (Spagna) in 7h09'55"
2. Miguel Indurain (Spagna) a 35"
3. Marco Pantani (Italia) s.t.
di CHRISTIAN GIORDANO ©
Sky Sport ©
Era come se avesse «piovuto per quattro anni, undici mesi e due giorni».
«Il mondo», comprese le strade appositamente appena asfaltate, «era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito».
Grazie, Gabo. Altro che terra, più luna di Macondo.
Mai il campionato del mondo s’era – e s’è più – arrampicato così prossimo al nostro satellite: fino ai 2833 metri in vetta all’Alto del Cogollo (dal versante per “la gruta”, la grotta), e senza mai scendere da quota 2400 di altitudine.
Duitama 1995: il mondiale più duro da Sallanches 1980 e fino a Innsbruck 2018.
In Francia, sulla terribile Côte de Domancy, vinse il Bernard Hinault più grande. Con tre “eroici” azzurri – Gibì Baronchelli (2°), Miro Panizza (4°) e Giovanni Battaglin (9°) – nella top 10 e gli unici italiani fra i soli 15 arrivati dei 107 partiti. Un’ecatombe sparpagliata in 268 km, e sette ore e mezza di supplizio, dai 35,554 km/h di media del Tasso. Alla lettera più che mai le Patron, di casa come del peloton.
In Austria, con un Vincenzo Nibali che la bretella di uno pseudo-fotografo, il 19 luglio sull’Alpe d’Huez, ha tirato giù dal Tour (frattura composta alla decima vertebra) e dunque dai favoriti per l’arc-en-ciel –, domina un quartetto di stambecchi: lo spagnolo Alejandro Valverde, il francese Romain Bardet, il canadese Michael Woods e il neerlandese Tom Dumoulin.
Regolati in una volata che l’Imbatido non poteva perdere, a coronamento di una carriera tanto longeva quanto leggendaria. Quinto a 13” il miglior Gianni Moscon poi rivisto solo nella per lui sfortunatissima Roubaix (ottobrina per Covid-19) vinta da Sonny Colbrelli. Altrettanto stoici l’eterno Domenico Pozzovivo 21° a 1’21”, Alessandro De Marchi 40° a 5’05” e lo stesso Nibali 49° a 6’02”, gli altri azzurri meglio piazzati fra i 76 superstiti dei 188 partiti da Kufstein.
Mai visto un mostro come il Gramartboden: 2800 metri all’11,5% medio e punta che, per pochi metri, rasenta il 28%.
Fidatevi, c’eravamo: ultimi 1,7 km infernali, mai sotto il 10,6%, con poco più di 300 metri al 19,7%. Più duro del Muro d’Huy, ecco perché il “Balaverde” – recordman con nel palmarès cinque Freccia Vallone – là non poteva perdere.
Il mondiale colombiano è però molto altro (e alto).
Perché per i pro’ è il terzo (dopo Montreal ’74 e San Cristobal ’77) nel Nuovo Mondo, il secondo sudamericano (in Venezuela, vinse Moser sotto il diluvio) e il primo che si disputa a ottobre.
E per il contesto che nella “perla del Boyacá”, capoluogo e maggior centro urbano della provincia di Tundama, nella regione centro-orientale dell’Alto Chicamocha, ne ospita la ultraselettiva 62ª edizione: dei 98 partiti, sui 106 iscritti, ne arriveranno 20.
La gara in linea, domenica 8, prevede un circuito di 17,7 km da ripetere 15 volte per un totale di 265,5 km. E un unico, grande favorito: Miguel Indurain, fresco dominatore, mercoledì 4, della prova a cronometro con 49” sul connazionale Abraham Olano (annotatevelo) e 2’03” sul tedesco Uwe Peschel. Miglior azzurro Maurizio Fondriest nono a 3’56”, 14° a 4’44” Andrea Chiurato, argento a Catania ’94 dietro il fenomenale britannico Chris Boardman.
Miguelón aveva divorato i 43 km (con 580 metri di dislivello) da Paipa a Tunja a 46,486 km/h di media. Irreale.
In stagione aveva già vinto crono e generale al Delfinato e poi il suo quinto Tour de France. Recordman ogni epoca (con Jacques Anquetil, Eddy Merckx e Hinault) ma l’unico a riuscirci in fila, vista la successiva revoca, per doping, dei sette di Lance Armstrong.
Presa la maglia gialla con la crono-fiume di Seraing (54 km) all’8ª, l’aveva blindata con quella di Lac de Vassivière (46,5 km) alla 19ª, dopo aver lasciato agli altri le briciole contro il tempo (il prologo di Saint-Brieuc a Jacky Durand) e poi controllando il resto da signore del gruppo quale è sempre stato.
Più che ovvio, per di più con una Spagna forse mai così forte, fosse lui l’osservato speciale. Del resto, non aveva nascosto che fosse proprio la doppietta iridata il suo principale obiettivo dell’annata.
Stravinto il Tour, era andato a prepararla in altura, a Fort Collins, in Colorado, con il fratello Prudencio e altri tre compagni della Banesto: i connazionali José María Jiménez e Santiago Blanco e lo statunitense Andrew Hampsten, homeboy di Boulder a far loro da cicerone sulle proprie strade di casa.
Non solo: nelle sue sei settimane di preparazione, nulla era stato lasciato al caso. Dopo qualche giorno di acclimatamento, e sempre sotto il controllo del suo fedele doctor Sabino Padilla, Indurain aveva lasciato quota duemila per raggiungere un rifugio ai 2600 metri, per simulare ancora meglio l’altitudine e le condizioni di gara che avrebbe poi trovato a Duitama.
Dopo due settimane, lo aveva raggiunto Miguel Echavarri, suo storico diesse alla Banesto, per rifinire negli ultimi dettagli un programma di avvicinamento ancora più specifico e mirato.
Infine, una volta note le convocazioni da parte del Ct Pep Grande, quattro nazionali – Fernando Escartín, Aitor Garmendia, José Ramón González e Francisco Mauleon erano volati in Colombia con un mese di anticipo per allenarsi in loco.
Eccetto gli escarabajos di casa (su tutti Oliverio Rincón, Israel Ochoa e José Gonzalez e Nelson “Cacaito” Rodriguez), che a quelle altitudini ci sono nati e cresciuti, in pochi sembrano poter insidiare la corazzata spagnola.
L’Italia è al solito “La Squadra”, come ci chiamano all’estero a ogni rassegna internazionale. Ma stavolta forse non così in grande condizione, e soprattutto unita e compatta, come in altre edizioni. I co-capitani designati sono Gianni Bugno, anche se, dopo l’esclusione del ’94 per l’affaire-caffeina è lontano da quello del bis iridato di Stoccarda ’91 e Benidorm ’92; Claudio Chiappucci, perfetto per il tracciato e idolo in Colombia per il secondo posto nel Clásico RCN 1992 (primo podio per uno straniero) e il modo di correre (il suo nick “el Diablo” è nato là); e come terza punta Marco Pantani, capace in salita di fare sconquassi come ha dimostrato al Tour, tre mesi addietro, con la doppietta Alpe d’Huez e Guzet-Neige.
Al loro servizio, il Ct Alfredo Martini ha chiamato Francesco Casagrande (la quarta opzione), Davide Cassani, Stefano Colagè (che la Colombia la conosce dal ’92), Alberto Elli, Gianni Faresin, Ivan Gotti, Paolo Lanfranchi, Oscar Pellicioli e Leonardo Piepoli, neopro’ che nel ’94 ha vinto il Giro Baby e da cui il selezionatore si aspetta «una corsa superba».
La Svizzera, pur con soli quattro corridori al via (ma poi tre nei primi dieci), conta su Mauro Gianetti e Pascal Richard, iridato nel cross ’88 e dato in gran forma dopo aver rivinto, il 16 settembre davanti a Piepoli e con Bugno ritiratosi, il suo secondo Giro del Lazio in tre anni. Alla vigilia si è però beccato l’influenza che fatalmente lo condizionerà. Sia Gianetti sia Richard saranno comunque fra i protagonisti, chiudendo nell’ordine appena giù dal podio.
Subito dopo di loro, lui pure rispettando i pronostici, arriverà Richard Virenque, leader di una Francia con buoni corridori (Pascal Hervé, Laurent Brochard, iridato a sorpresa a San Sebastián ’97, Laurent Madouas) ma priva di stelle.
Tra gli outsider il russo Dmitri Konyshev, discesista spericolato (da lui il Panta ha mutuato la posizione “a uovo” vista in tv al mondiale di Chambéry ’89), il danese Rolf Sørensen, il nederlandese Erik Breukink e lo stesso Hampsten, gli ultimi due rispettivamente vincitore di tappa e nuova maglia rosa nella tregenda del Gavia al Giro ’88, poi vinto dall’americano.
Sulla carta il percorso, come la salita – 4 km al 6,6% medio e 20% massimo – è duro, ma non “impossible”. E invece tale si rivelerà, per la carenza di ossigeno, l’ancor più asfissiante umidità e la pioggia battente che rende le strade appena rifatte ancora più pericolose per via dei rivoli di terriccio che le attraversano.
Pronti-via ed ecco i primi giù per terra, tra questi gli svizzeri Rolf Järmann e Richard, che però se la cavano con poco.
Bugno si stacca subito, rientra ma al quarto giro, dopo 68 km, si ritira per difficoltà respiratorie. Una grande speranza azzurra salta subito, e nel dopo gara il Gianni si sentirà addirittura di chiedere scusa per la sua giornata-no. Il peso della corsa per l’Italia sarà quindi tutto sulle spalle di Claudio Chiappucci, con Pantani primo guastatore.
Al terzo giro la prima vera azione, il francese Laurent Roux – a caccia di un contratto per la stagione successiva – guadagna fino a 5’ e resta in fuga per cento km, fino al nono giro.
È là, ai -100 km che parte il Chiappa con l’altro azzurro Faresin e gli spagnoli José Ramón González (quasi omonimo del colombiano José Jaime González) e Francisco Javier Mauleon, non a caso scudieri di Indurain volati con lui in Colorado.
Chiappucci però scivola due volte in discesa e a tre giri dalla fine si ritira.
Errore forse esiziale, il suo come di Piepoli e altri tra cui Pantani (che a ogni scatto sente partire la ruota posteriore), di farsi montare i copertoncini a mescola differenziata nero-arancio (adatti a percorsi asciutti) anziché morbida o i tubolari, dopo l’acquazzone che nell’arco di dieci ore ha allagato, e stravolto, il circuito. E siccome piove sempre sul bagnato, già da come gli inservienti in aeroporto ne avevano maltrattato la bici (tubo orizzontale ammaccato) si poteva presagire che quello nella “sua” Colombia non sarebbe stato il mondiale del Diablo.
Altra azione destinata a fallire quella promossa dallo svizzero Felice Puttini (poi decimo) e tamponata dallo spagnolo Escartín, che guadagnano non più di trenta secondi.
Gli italiani restano in quattro: col Panta, sin lì guardingo, i generosissimi Lanfranchi (poi 17°), Casagrande (12°), dato fra i più forma dei suoi, e Pellicioli (16°). Via via, infatti, si ritirano Cassani (poi sul palco con Adriano De Zan a commentare per la RAI il finale), Colagè, Elli, Gianni Faresin, Gotti e Piepoli.
La corsa esplode sull’ascesa finale. Ai -20 km lo spagnolo Olano infila tutti di sorpresa.
Alla campana dell’ultimo giro ha 20” di vantaggio, che ai piedi della salita schizza a 46”.
Pantani, che in buona probabilità ha sbagliato ad attaccare a quattro giri dalla fine, ha una gran gamba ma è da solo. Col senno del poi, con ancora i tre compagni superstiti al fianco, forse sarebbe potuta andare diversamente. Ma è un forse grosso così, e la controprova – nel ciclismo come nella vita, figuriamoci nel Paese del «realismo magico» – non c’è.
Dietro, con lui e Gianetti, c’è Indurain – che ci aveva provato nella spianata sotto lo striscione d’arrivo – che però ormai non “può” più attaccare perché in fuga c’è un suo compagno.
Davanti, ai -800 metri el golpe de efecto come solo nella terra di Macondo: Olano fora il tubolare posteriore.
Il sosia, quasi lombrosiano, del suo capitano però non fa un plissé, e sotto l’acqua spinge a tutta fino al traguardo cercando solo di non sbandare e di non dilapidare i 16” di vantaggio.
Il basco Abraham Olano Manzano – nato a San Sebastián il 22 gennaio 1970, nove giorni dopo il Panta – oltre che primo spagnolo iridato nella prova in linea è il primo campione del mondo a ottobre.
Chiude ai 37,054 km orari di media dopo 7h 09’55 di corsa. A metà tra le sette ore e mezza di Hinault a Sallanches ’80 e le sei ore e tre quarti di Valverde a Innsbruck 2018.
A 35” (Olano ha persino guadagnato), nella volatona a quattro, resta giù dal podio Gianetti (oggi pezzo grosso nello staff alla UAE Emirates di Tadej Pogačar), e Miguelón con un colpo di reni da finisseur brucia il Panta per l’argento.
«È andata abbastanza bene, ma io penso che poteva andar meglio», dirà sconsolato il miglior azzurro al traguardo.
Quinto a 53” Richard, sesto Virenque a 1’31”, a 1’53” il gruppo con Konychev, Rincón, Sörensen e Felice Puttini, il terzo su quattro svizzeri in gara a finire nella top 10. Ultimo, a 37’55” col messicano Miguel Arroyo, proprio Hampsten. Quello della tormenta sul Gavia e il cicerone di Indurain negli USA.
Tutto torna nel Paese del realismo magico. Ma solo per chi, con la malicia indígena, c’è nato.
Sul podio, il Pirata sfoggia una medaglia che neanche all’inno lo fa sorridere. Quasi avvertisse un drammatico presagio.
Dieci giorni dopo, il 18 ottobre, l’incidente contro un suv alla Milano-Torino.
Il suo perenne calvario è appena – e solo – (ri)cominciato. Dalla luna di Macondo all’inferno in terra.
CHRISTIAN GIORDANO ©
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