Gente di Dublino: donne vendicative e uomini taccagni
Tre racconti di Keegan, la Cechov d’Irlanda
30 Nov 2024
Il Fatto Quotidiano
» Carlotta Vissani
Non è un Paese – una società, una realtà – per donne, vien da pensare terminata la lettura di Quando ormai era tardi, tre short stories che lasciano tanto disturbati quanto ammirati per la maestria con cui Claire Keegan, nata nella costiera contea di Wicklow, Irlanda, nel 1968, riesce a rivelare dolorose e amare verità sulle relazioni. Sono, lo dice il sottotitolo, “storie di donne e di uomini”.
QUEST’ULTIMO VOLUME, tradotto da Monica Pareschi come i precedenti Estate (da cui il film The Quiet Girl, 2022) e Piccole cose da nulla (ora in sala, come racconta la collega Anna Maria Pasetti a pagina 20), è rappresentativo della scrittura di Keegan dagli albori – cioè dal ’99 di Antartide, il più angosciante del lotto un po’ a ricordare La lotteria di Shirley Jackson – fino al 2022 della novella che intitola la raccolta. Si tratta di neanche cento pagine ma, davvero, Keegan si dimostra miracolosa perché nella brevità e nell’essenzialità include una quantità strabiliante di sfumature e sta al lettore coglierle. Gli uomini non ne escono bene, sono esempi di meschinità, prepotenza, incapacità di “dare”.
Quando ormai era tardi si apre su un soleggiato venerdì dublinese. Dalla finestra dell’ufficio di Cathal, un soggetto all’apparenza mesto e riservato, “entrava un sentore di erba tagliata, e di tanto in tanto un vento caldo agitava l’edera sul davanzale”, tutto sembra tranquillo ed è il segnale – tipico dello stile di Keegan – che qualcosa sta per succedere e non sarà né caldo né luminoso. In soli due anni l’idea di condividere la vita con Sabine si trasforma per Cathal in insofferenza, irritante indolenza, gretta taccagneria. L’amore professato marcisce sotto il peso di un egoismo radicato che può solo condurre alla solitudine.
In una morte lenta e dolorosa una donna è in ritiro in una residenza per scrittori ad Achill Island, voluta dalla famiglia del tedesco Heinrich Böll, Nobel per la letteratura nel ’72, che negli anni 50 scrisse Diario d’irlanda proprio in quelle stanze, celebrazione di una terra fiera e insieme fragile. È il giorno del suo 39esimo compleanno, si sente piena di buoni propositi ma non sa – l’autrice usa sovente questo meccanismo di stampo checoviano tale per cui un evento improvviso e apparentemente insignificante, in questo caso lo squillo del telefono, scatena nei protagonisti un nuovo stato di coscienza – che sarà costretta a interrompere i suoi programmi, compresa la lettura di un racconto di Cechov, appunto, a cui tra l’altro Keegan viene paragonata. Dovrà gestire un incontro che la destabilizzerà e che, allo stesso tempo, le fornirà il giusto spirito per scrivere, mossa da un istinto di vendetta.
In Antartide, invece, il sipario si apre su una donna “felicemente sposata” che ogni volta che si allontana da casa si chiede come sarebbe andare a letto con un altro. A ridosso del Natale decide di scoprirlo, “voleva farlo prima di diventare troppo vecchia. Era certa sarebbe rimasta delusa”. È una canzone che esce da un juke-box, The Ballad of Lucy Jordan (si consiglia la lettura del testo), ad attirarla in un pub di Wells, “una prigione riadattata con le sbarre alle finestre”. L’incontro con un uomo selvatico e ferino che si premura per lei, e le rapisce i sensi, si rivela, in un crescendo di tensione, un’agghiacciante favola nera.
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IRLANDA ANNI 80, ORFANI E DONNE NEL CONVENTO DELL’ORRORE
Arriva anche in Italia “Piccole cose come queste” con un intenso Cillian Murphy
30 Nov 2024
Il Fatto Quotidiano
» Anna Maria Pasetti flashback.
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“SE VUOI TIRARE avanti in questa vita, ci sono cose che devi ignorare”. Ma se Bill Furlong, alias Cillian Murphy, avesse ascoltato il consiglio di sua moglie Eileen (Eileen Walsh, già giovane Crispina in Magdalene di Mullan del 2002, e non è un caso...) non ci sarebbe stato Piccole cose come queste (“Small Things Like These”): tanto come romanzo a firma di Claire Keegan quanto, e ancor meno, come il suo omonimo cine-adattamento diretto da Tim Mielants. Che invece trova un suo senso in una confezione dal rigore coerente alla severità dei temi trattati per un cinema ad alto contenuto civile. Al centro è la vicenda di un uomo della profonda provincia irlandese a metà anni 80, onesto e taciturno commerciante di carbone, devoto al lavoro, alla moglie e alle cinque figlie. Capita, sotto Natale, che il convento adiacente alla sua fabbrica “nasconda” un segreto di cui tutti sanno ma nessuno osa dire. Nel villaggio la gente è bonaria almeno in apparenza, di certo semplice e timorata di Dio. Ma dentro le mura gestite da suore più ambigue e potenti di spie russe sopravvivono ragazze degne di punizioni divine, perché di facili costumi, dicono. La Storia insegna che l’ultima Casa Magdalena fu chiusa nel 1996 dopo racconti agghiaccianti e inverosimili ma purtroppo veritieri. Mielants, con Murphy eccelso ed Emily Watson come madre superiora in stato di grazia (premiata non casualmente da miglior attrice alla Berlinale dove il film concorreva), edifica su queste “piccole cose” un solido dramma a tinte cupe sul sommerso e non sul rimosso, giacché il protagonista tutto ricorda del suo traumatico passato, che riemerge in puntuali e non banali flashback. Da vedere.
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