MAESTRI DI CALCIO - Wenger: Arsèneal e vecchi merletti




«A football team is like a beautiful woman. 
When you do not tell her, she forgets she is beautiful».
Una squadra di calcio è come una bella donna.
Se non glielo ricordi, si dimentica di esserlo. 

«We do not buy superstars. We make them».
Non compriamo superstar. Le produciamo.
(Arsène Wenger)

di CHRISTIAN GIORDANO, Guerin Sportivo

«Arsène who?». Il Daily Mirror titola così l’arrivo all’Arsenal di uno sconosciuto francese proveniente dal Giappone. È il 28 settembre 1996, data-spartiacque per il club nord-londinese, che mai si era affidato a un allenatore straniero. Da allora ci saranno un Arsenal avanti e uno dopo Wenger. Su quella panchina il più longevo e il più vincente: 3 Premier League e 4 FA Cup (con due Double) e 4 Charity/Community Shield. Più quattro finali perse: in Champions League nel 2006 a Parigi contro il Barcellona, in Coppa UEFA a Copenhagen nel 2000 (0-0 col Galatasaray, 1-4 ai rigori) e le due in Coppa di Lega (1-2 a Wembley col Chelsea nel 2007 e col Birmingham nel 2011).

Nato a Strasburgo il 22 ottobre 1949, figlio di ristoratori alsaziani, il calcio agonistico lo conosce a 16 anni, nel Duttlenheim, squadretta dell’omonimo paesino dove è cresciuto, vicino al confine tedesco. Ai tempi lo scouting non è certo una scienza e solo a 18 anni viene notato nei dilettanti da Raymond “Max” Hild, che l’anno dopo se lo porta al Mutzig, terza divisione. Wenger, centrocampista con un futuro da difensore centrale, non è un campione ma può fare carriera. 

Alto 1.91 e filiforme, dopo il Mulhouse, ritrova Held al Vaubane e allo Strasburgo, dove debutta nei pro’ a 28 anni quando ancora studia alla locale università Robert Schuman. Accade contro il Monaco. Un segno del destino.

Nel 1974, pur continuando a giocare, si laurea in economia: “il Professore” pensa già al futuro. Nel 1979 lo Strasburgo è campione di Francia, ma il suo contributo è minimo: 3 presenze. Due anni dopo, dal centro federale di Clairefontaine, la Coverciano di Francia, consegue il patentino con la generazione di Robert Herbin, Gérard Houiller, Aimé Jacquet, Roger Lemerre, Henri Michel, Guy Roux, Jacques Santini. 

In quello stesso anno, il 1981, ecco il primo incarico: lo Strasburgo gli affida la squadra giovanile. Nel 1983 fa il secondo al Cannes, ma già la stagione successiva è capo allenatore al Nancy. Nonostante la fresca retrocessione, l’esperienza gli vale, nel 1987, la chiamata al Monaco. Alla prima stagione completa, vince da Allenatore dell’anno il campionato. Sotto la sua gestione, i monegaschi non scendono mai oltre il terzo posto, alzano la Coppa di Francia nel 1991 e, dopo aver eliminato la Roma nei quarti, perdono al Da Luz di Lisbona – il 5 maggio, il giorno dopo i 18 morti per il crollo di una tribuna dello stadio Armand Césari di Bastia – la finale di Coppa delle Coppe 1992: 2-0 dal Werder Brema di Otto Rehhagel, arbitro l'italiano Pietro D’Elia. 

Nel 1994, dopo sette stagioni di successi e la squadra nona in classifica, viene esonerato. Un tradimento mai dimenticato: per lealtà verso il club del Principato, aveva detto no alla nazionale giovanile francese e, soprattutto, a Franz Beckenbauer che lo voleva al Bayern Monaco. Il presidente Jean-Louis Campora gli aveva impedito di incontrare i dirigenti bavaresi e poi lo aveva licenziato.

Sbattuta una porta, gli si apre un portone, e nel modo più inaspettato. Invitato ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi, come relatore a una serie di seminari della Fifa sul mondiale di Usa 94, in ottobre conosce un giornalista inglese, Jeremy Walker, che a Hong Kong dirige la rivista ufficiale della federazione asiatica. I due vanno a cena e Wenger, notoriamente astemio, si concede un paio di bicchieri di Chablis. Si lascia un po’ andare e gli fa domande sul Giappone e in particolare su Stuart Baxter, l’inglese che allena il Sanfrecce di Hiroshima, squadra di proprietà della Mazda. Perché tanto interesse? Perché al convegno a Wenger era stata offerta la panchina del Nagoya Grampus Eight, club in cui militava l’ex nazionale inglese Gary Lineker e appartenente a un’altra casa automobilistica, la Toyota. 

Ora, per un giocatore il tramonto nel Sol Levante era dorato, e aveva attirato altri grossi nomi come Zico (Kashima Antlers), che si era già ritirato, e “Totò” Schillaci (Jubilo Iwata). Ma per un 45enne allenatore emergente, campione di Francia e finalista in Coppa delle Coppe, la J-League, nata nel 1993, era ben più che un passo indietro, seppure strapagato. Era un passaporto per l’oblio, la Legione Straniera del pallone. «Credi che andare a Nagoya sia l’ideale per avere offerte da Bayern, Real o Barcellona?» chiese Arsène a Richard Conte, sodale dai tempi di Cannes. La domanda era retorica persino per uno come Wenger. Un cosmopolita aperto a ogni esperienza, ma anche deluso: dai tre suoi ex giocatori implicati nelle scommesse, dal brutto finale di campionato, dalla pugnalata del Monaco, club per cui aveva scovato gemme preziose quali George Weah, Emmanuel Petit, lo Thierry Henry, David Trezeguet e Lilian Thuram. «Doveva voltare pagina », dirà Conte.

Nel gennaio ’95, quattro giorni il terremoto di Kobe, Arsène dirige il suo primo allenamento a Nagoya. Trascinata da Dragan Stojkovic (transfuga dal Marsiglia, retrocesso per l’affaire-Valenciennes), la squadra sale dal terzultimo al secondo posto, vince - con Wenger anche qui Allenatore dell’anno - la Coppa dell’Imperatore e la Supercoppa. Ma soprattutto, in quei 18 mesi, il francese si innamora del Giappone: «Ero arrivato con molti pregiudizi ma là ci sono cose che migliorano la vita e che in Europa abbiamo perduto, come il rispetto per gli altri e per il gruppo, l’educazione, l’entusiasmo per ciò che si fa, la determinazione a dare il meglio e il rispetto per la libertà altrui. Era come fossi a casa mia da sempre. I valori in cui ho sempre creduto, in Giappone sono ancora apprezzati». 

Altrove, invece, alcuni reputano ridicolo il suo «credere nel fair play, perché nello sport di alto livello viene associato alla sconfitta». Forse è anche per questo che all'Arsenal – dove arriva su dritta di Houllier al vicepresidente Dein, amico fraterno di Arsène - si vede un Wenger “diverso”. Nel 1998, con gli arrivi di Petit, Overmars e Anelka, centra il primo Double (2-0 in finale di FA Cup al Newcastle). Il secondo arriva nel 2002, battendo al fotofinish Manchester United e Liverpool in campionato. Nello scontro diretto dell’Old Trafford ai Gunners basta un punto, invece Sylvain Wiltord firma al 56’ la vittoria. Storica come quella che, nel 2004, al White Hart Lane con l’odiato Tottenham, regala il titolo agli “Invincibili”: 17 mesi e 49 partite senza sconfitte (36 vinte, 13 pareggiate). È il punto più alto della cavalcata wengeriana. Un’epopea intrisa di un calcio palla a terra paragonabile solo al “tiqui-taqui” del Barcellona vincitutto di Pep Guardiola, e forse - per bellezza e velocità di movimenti e passaggi –persino più celestiale. Ultimo esempio, gli ottavi di Carling Cup col Liverpool. Mèrida, Ramsey, Wilshire: il futuro è adesso.

Squadre, i vari Arsenal di Wenger, che fanno innamorare gli esteti e imbufalire i puristi. Perché l’alsaziano che col sorriso rivendica di difendere la tradizione del calcio inglese, è nei fatti il primo a demolirla. Non tanto schierando per primo una sorta di Inter d’oltremanica - con a referto soli stranieri - quanto minando alle fondamenta l’essenza stessa del football britannico. Un paio di esempi per tutti: quando, in turno marzolino di FA Cup, non riuscì a battere il Chelsea, auspicò l’abolizione del “replay” (la ripetizione, a campo invertito, della gara terminata in parità). Troppe partite, disse. 

Memorabile anche la polemica col suo nemico storico, Alex Ferguson, sui calendari, stilati - secondo il francese – «per far rifiatare il Manchester United, e fargli vincere tutto». Ecco perché qualche nostalgico, nonostante le vittorie e il bel gioco della “nouvelle vague”, sente più suoi i Gunners retrò e molto British di Chapman e Allison, di Whittaker, Mee, Neill, Hapgood e persino il “Boring, boring Arsenal” del re delle bustarelle George Graham. O del “Drinking Arsenal”, dove la cultura del bere era degenerata in patologia. Nessun vero tifoso, però, tornerebbe ai quei tempi. Col Professore – che ha preferito al Real Madrid la libertà di insegnare calcio a modo suo – il ricambio generazionale è garantito da una rete di scout inarrivabile. Le vittorie (punto debole caro a Mourinho) torneranno. Anche per “Arsène who?”.
CHRISTIAN GIORDANO
Guerin Sportivo


La scheda di ARSÈNE WENGER
Nato: Strasburgo (Francia), 22 ottobre 1949
Club da giocatore: Mutzig (1969-73), Mulhouse (1973-75) e Vauban (1975-78) da dilettante; Strasburgo (1978-79) da professionista
Club da allenatore: Strasburgo (giovanili, 1981-1983), Cannes (assistente, 1983-84), Nancy (1984-1987), Monaco (1987-1994), Nagoya Grampus Eight (Giappone, 1994-1996), Arsenal (Inghilterra, 1996-)
Palmarès da giocatore: campionato francese (Strasburgo, 1979)
Palmarès da allenatore: campionato francese (Monaco 1988), Coppa di Francia (Monaco 1991), 3 Premier League (Arsenal 1998, 2002, 2004), 3 FA Cup (Arsenal 1998, 2002, 2003), Coppa dell’Imperatore (Grampus Eight, 1995), Supercoppa giapponese (Nagoya Grampus Eight 1996)
Riconoscimenti: 2 volte Allenatore dell’anno (Monaco 1988, Nagoya Grampus Eight 1995)


10 grandi colpi di Wenger all’Arsenal

Thierry Henry – I 10 milioni di sterline alla Juventus nell’agosto 1999 fecero scalpore. Preso come rimpiazzo di Nicolas Anelka, Wenger – che centravanti lo aveva allevato al Monaco – ne fece uno dei più temibili attaccanti nella storia della Premier League. E il top scorer ogni epoca dell’Arsenal, che guadagnò pure 6 milioni cedendolo al Barcellona nel 2007.

Patrick Vieira - Per spezzare l’egemonia del Manchester United in Premier League, l’Arsenal doveva trovare una risposta a Roy Keane a metà campo. La risposta era Vieira. Wenger lo chiese al Milan come pre-requisito per andare ad Highbury. A 3,5 milioni di sterline, un affarone.

Nicolas Anelka – Sul piano finanziario, forse il miglior acquisto di Wenger. Preso dal PSG per 500 mila sterline nel 1997, fu ceduto al Real Madrid per 23 milioni due stagioni dopo. Decisivo nello sfilare al Manchester United il titolo del 1998. 

Robert Pirès – Dal Metz per 6 milioni di sterline nel 2000, l’ala francese faticò ad adattarsi alla Premier League. Ma già dal secondo anno era un idolo dei tifosi e proprio nel 2002 l’associazione dei giornalisti inglesi di calcio lo nominò Giocatore dell’anno. 

Cesc Fàbregas – Arrivato 16enne dalle giovanili del Barcellona nel settembre 2003, il capitano è l’anima della squadra e l’assicurazione sul futuro del club. Tecnica e visione di gioco straordinarie, personalità da leader nato. Oggi, non ha prezzo. O sì?

Emmanuel Petit – Lanciato da Wenger al Monaco, raggiunge il suo mentore ad Highbury nel giugno 1997 per 2,5 milioni di sterline. Trasformato da centrale di difesa a centrocampista difensivo, in coppia con Vieira sarà la colonna dell’Arsenal che vincerà subito il Double. Nel 2000, la sua volontà di andare al Barcellona sarà accontentata per quasi 7 milioni. 

Freddie Ljungberg - Catapultato a Londra nord dall’Halmstads per 3 milioni di sterline nel 1998, l’esterno svedese, professionista modello (in tutti i sensi), diventa uno dei beniamini della North Bank, in particolare delle ragazzine. Protagonista assoluto nel 2001-02, l’anno del secondo Double, segnava come un attaccante. Un gioiello il gol nel 2-0 in finale di FA Cup sul Chelsea. 

Andrei Arshavin/Robin Van Persie – Firmato dallo Zenit di San Pietroburgo per 15 milioni di sterline, il russo ha sfondato il salary cap interno e spazzato via una legge non scritta di Wenger: niente follie per gli over 25. L’olandese ex Feyenoord, genio ribelle, gli deve la carriera. «Se vuoi arrivare al top, devi cambiare» gli intimò dopo il rosso col Southampton. «Cosa?», la replica dell’ala sinistra reinventata seconda punta. «Non devo dirtelo io, devi capirlo tu». 

Marc Overmars – Dopo Bergkamp, ad Highbury un anno prima di Wenger, l’altro olandese volante atterrato dall’Ajax (nel 1997, per 6 milioni di sterline). Ribattezzato “Bip bip” per l’incredibile velocità e poi - forse ingiustamente - “Overbars”, “oltre la traversa”, perché lassù finivano le sue conclusioni. Alle stelle, però, schizzò anche il prezzo al quale, nel 2000, fu ceduto al Barcellona : 25 milioni. 

Sol Campbell – Sfilato a parametro zero al Tottenham nel 2001 per colmare il vuoto del dopo-Tony Adams. Con lui al centro della difesa, due Premier League e 3 FA Cup. (chgiord)


Il settebrutto di Wenger

In tredici anni di Arsenal, Arsène Wenger non sempre è stato infallibile. Ecco sette flop offensivi, più che perdonabili per uno che in attacco ha stravinto le scommesse Bergkamp e Henry, Adebayor e van Persie, Eduardo e persino Bendtner. E che su Ibrahimovic era arrivato prima dell'Ajax.

Fabián Caballero - Argentino di Misiones, classe 1978, "Tyson" arriva ad Highbury nell'ottobre 1998 in prestito dal Cerro Porteno. Tre subentri (uno in campionato) poi torna in Paraguay e gira il mondo. Oggi è al Panachaiki, terza serie greca.

Kaba Diawara - Franco-guineano di Tolone (1975), ai Gunners dal gennaio al giungo 1999: 12 presenze senza gol. Poi i ritorni in Francia (due volte) e in Premier League, i passaggi in Spagna (II divisione), Qatar, Turchia e Corsica. Sverna a Cipro, all'Alki Larnaca.

Cristopher Wreh - Liberiano di Monrovia (1975) come l'illustre cugino George Weah, tra il 1997 e il 2000 segna gol decisivi in FA Cup ma mai da titolare. Gioca in Francia, Grecia, Olanda, Arabia Saudita, Scozia e Iran. Ora, è in Indonesia (al Perseman Manokwari). In nazionale, 11 reti in 36 presenze.

Francis Jeffers - "Fox in the box", la colpe d'area, per il fiuto mostrato nel vivaio dell'Everton: 18 gol in 48 gare. nell'Arsenal ne segna 4 in 22 spezzoni dal 2001 al 2004. Nato a Liverpool nel 1981, torna ai Blues e gira il Regno. Ultima fermata, Sheffield Wednesday. Nell'Inghilterra un cap, un gol. One shot, one kill. 

Quincy Owusu-Abeye - Testa calda doc, il ghanese di Amsterdam (1986), cresciuto nell'Ajax, resta ai Gunners dal 2002 al 2006. Lo Spartak Mosca lo parcheggia ovunque (Celta Vigo, Birmingham City, Cardiff City) senza riportarlo all'ovile. A 23 anni, altrove, si potrebbe recuperare.

José Antonio Reyes - Fanfare all'arrivo nel gennaio 2004, indifferenza all'addio per la Perla di Utrera (1983), mai ambientatasi in campo e fuori. Toppa anche all'Atlético Madrid. A 25 anni cerca il rilancio nel Benfica.

Julio Baptista - A Londra nel 2006-2007, in prestito dal Real Madrid nell'affare-Reyes. Il climax la quaterna nel 6-3 al Liverpool, quarti di finale di Coppa di Lega. Dopo 10 gol in 35 presenze, il rientro alla base e la Roma. Fisico bestiale, ruolo indefinito. A 28 anni, non un bel segnale.
(chgiord)


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