MAESTRI DI CALCIO - Menotti, Flaco a metà
Però non ci sono tempi, non si cercano gli spazi
e non mi ingannano più»
– César Luis Menotti
«El fútbol es tan generoso que evitó que Bilardo se dedicara a la medicina»
– César Luis Menotti
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di CHRISTIAN GIORDANO ©, Guerin Sportivo ©
Rainbow Sports Books ©
Racconta Antonio Ubaldo Rattín, capitano del Boca Juniors negli anni Sessanta, che una sera, con la squadra in svantaggio alla Bombonera, la tifoseria xeneize stava per perdere la pazienza; quindi Rattín si rivolse così al compagno Menotti: «Flaco, corri, ché qua ci ammazzano tutti». E lui, senza scomporsi: «E da quando per giocare a calcio bisogna correre?».
Già da calciatore teneva fede ai princìpi, poi applicati da allenatore, secondo i quali, nel fútbol, «è possibile smettere di correre, si può non entrare in gioco per lunghi tratti, ma l’unica cosa che non si può smettere di fare è pensare»; perché «di un giocatore di calcio si può fare un atleta, ma non viceversa».
César Luis Menotti nasce a Rosario (Santa Fe), Argentina, il 22 ottobre 1938. Il padre, che all'anagrafe lo dichiara nato il 5 novembre, la passione per il pallone gliela inculca sin da ragazzino, tanto che di sé il Nostro dice di essere «nato in un campo da calcio».
Cresce nella casa dei nonni in calle Marcos Paz, poi nel barrio di Fisherton. Pratica nuoto (poco, a giudicare dal torace), basket e soprattutto calcio: come attaccante in squadrette del quartiere, il Fisherton e l’Unión Américana.
Tesserato nella Liga Carcarañense, nel 1960, fallito il provino al Vélez Sársfield, entra nelle squadre minori del Rosario Central, la squadra che da ragazzo seguiva dagli spalti e di tanto in tanto va a integrare le rose di Racing e Boca (dove incontra Rattín).
Alto e magro, si guadagna in fretta il soprannome di “el Flaco” (lo Smilzo) e la promozione nella massima serie, nella quale debutta il 3 luglio: 3-1 al Boca.
Attaccante elegante, di discreto talento e buon fiuto del gol (in tre anni, 47 in 86 partite), è lento di passo ma potente nella battuta a rete. Considerato fra le rivelazioni del campionato, nel ’63 è convocato in Nazionale per il Sudamericano e per la Copa Roca in Brasile.
L’anno dopo sta per chiudere con gli uruguaiani del Nacional Montevideo, ma poi resta a Buenos Aires, al Racing Club di Avellaneda. Il 6° posto finale non soddisfa né lui né il club, così nel 1965-66 passa al Boca Juniors dove vince subito il titolo.
L’anno dopo sta per chiudere con gli uruguaiani del Nacional Montevideo, ma poi resta a Buenos Aires, al Racing Club di Avellaneda. Il 6° posto finale non soddisfa né lui né il club, così nel 1965-66 passa al Boca Juniors dove vince subito il titolo.
Di spirito libero, portato all’avventura e insofferente alla routine, Menotti, archiviate le 65 reti in 122 partite di campionato, lascia l’Argentina per diventare pedatore di ventura.
Approda alla NASL, la prima lega pro statunitense, firmando con i New York Generals nella stagione 1967-68, conclusa col fallimento della franchigia. Poi va in Brasile, al Santos, come riserva di Pelé e, l’anno dopo, alla Juventude São Paulo.
Approda alla NASL, la prima lega pro statunitense, firmando con i New York Generals nella stagione 1967-68, conclusa col fallimento della franchigia. Poi va in Brasile, al Santos, come riserva di Pelé e, l’anno dopo, alla Juventude São Paulo.
A 31 anni, appesi le scarpette al chiodo, torna in patria per fare esperienza nella serie cadetta come allenatore al Central Córdoba, ma è nel 1970, come secondo del “Gitano” Miguel Antonio Juárez al Newell’s Old Boys, che apprende i rudimenti della professione.
Nel ’71 i due mettono insieme una fra le squadre più spettacolari del decennio, con campioni quali Martínez, Montes, Zanabria, Marcos, Obberti e Becerra. In giugno, su intuizione del presidente Luis Seijo (che per convincerlo va di persona a Rosario), passa all’Huracán e la squadra sorprende tutti piazzandosi terza.
Nel ’73 vince il Metropolitano, primo alloro nella storia del club, con un attacco formidabile e mai più visto al Parque Patricios: “el Loco” Houseman (una sua scoperta), Brindisi, Avallay, “el Inglés” Babington e Larrosa; in 32 partite, 62 gol a favore e 30 contro, che fanno della linea formata da Chabay, Buglione, il futuro Ct blanquiceleste “Coco” Basile (oggi di nuovo tecnico del Boca) e Carrascosa la difesa meno battuta del torneo.
Quella squadra fece epoca per l’altissimo livello tecnico e la “voglia” dei suoi campioni, celebrati ancora oggi. «L’Huracán del ’73 è un pezzo di storia del calcio argentino, una bandiera ideologica» dirà Menotti nel trentennale dell’impresa. «E per me, una squadra che giocava con quel tipo di sentimento che i tifosi adorano: sono onorato di averla allenata».
Nel ’71 i due mettono insieme una fra le squadre più spettacolari del decennio, con campioni quali Martínez, Montes, Zanabria, Marcos, Obberti e Becerra. In giugno, su intuizione del presidente Luis Seijo (che per convincerlo va di persona a Rosario), passa all’Huracán e la squadra sorprende tutti piazzandosi terza.
Nel ’73 vince il Metropolitano, primo alloro nella storia del club, con un attacco formidabile e mai più visto al Parque Patricios: “el Loco” Houseman (una sua scoperta), Brindisi, Avallay, “el Inglés” Babington e Larrosa; in 32 partite, 62 gol a favore e 30 contro, che fanno della linea formata da Chabay, Buglione, il futuro Ct blanquiceleste “Coco” Basile (oggi di nuovo tecnico del Boca) e Carrascosa la difesa meno battuta del torneo.
Quella squadra fece epoca per l’altissimo livello tecnico e la “voglia” dei suoi campioni, celebrati ancora oggi. «L’Huracán del ’73 è un pezzo di storia del calcio argentino, una bandiera ideologica» dirà Menotti nel trentennale dell’impresa. «E per me, una squadra che giocava con quel tipo di sentimento che i tifosi adorano: sono onorato di averla allenata».
A fine agosto ’74, David Bracuto, uomo Huracán e presidente della Asociación del Fútbol Argentino, la Federcalcio argentina, gli offre la guida della Selección. Menotti debutta il 12 ottobre 1974, 2-2 con la Spagna nella “cancha” del River.
El Flaco prende in mano la rappresentativa e la rivolta come un calzino, in campo e fuori: il suo arrivo fa da spartiacque nell’organizzazione di tutti gli aspetti che riguardano la Nazionale.
Prima del suo arrivo (e fino al 1979, quando nella AFA entrerà il futuro “presidentissimo” Julio Grondona), la selezione argentina non aveva una precisa identità e i commissari tecnici venivano rimpiazzati anche dopo appena una manciata di partite.
Da Menotti in poi, i selezionatori hanno visto sempre rispettati i quattro anni di contratto tra un Mondiale e l’altro.
Il Director Tecnico organizza in collaborazione con Ernesto Duchini il “settore giovanile” federale e soprattutto dota di un calendario (affidato a un croato trapiantato in Argentina, Rodolfo Kraly) una squadra fin lì abituata a improvvisare la scaletta degli impegni internazionali.
Nel ’77, insieme con il professor Rodolfo Pizzaroti e l’assistente di questi, Rogelio Poncini, Menotti espone volutamente la squadra a quello che in quel momento era considerato un rischio eccessivo: affrontare le migliori nazionali al mondo in una serie di amichevoli da disputarsi allo stadio del Boca (è in una di queste che, il 27 febbraio, farà debuttare il sedicenne Maradona: 5-1 all’Ungheria).
El Flaco prende in mano la rappresentativa e la rivolta come un calzino, in campo e fuori: il suo arrivo fa da spartiacque nell’organizzazione di tutti gli aspetti che riguardano la Nazionale.
Prima del suo arrivo (e fino al 1979, quando nella AFA entrerà il futuro “presidentissimo” Julio Grondona), la selezione argentina non aveva una precisa identità e i commissari tecnici venivano rimpiazzati anche dopo appena una manciata di partite.
Da Menotti in poi, i selezionatori hanno visto sempre rispettati i quattro anni di contratto tra un Mondiale e l’altro.
Il Director Tecnico organizza in collaborazione con Ernesto Duchini il “settore giovanile” federale e soprattutto dota di un calendario (affidato a un croato trapiantato in Argentina, Rodolfo Kraly) una squadra fin lì abituata a improvvisare la scaletta degli impegni internazionali.
Nel ’77, insieme con il professor Rodolfo Pizzaroti e l’assistente di questi, Rogelio Poncini, Menotti espone volutamente la squadra a quello che in quel momento era considerato un rischio eccessivo: affrontare le migliori nazionali al mondo in una serie di amichevoli da disputarsi allo stadio del Boca (è in una di queste che, il 27 febbraio, farà debuttare il sedicenne Maradona: 5-1 all’Ungheria).
Contro ogni previsione, i risultati lo confortano e così Menotti può tradurre in realtà il suo proposito di individuare gli undici titolari con un anno d’anticipo sull’appuntamento che non può fallire: Argentina ’78.
Grazie alla sua fortissima personalità, le istituzioni del calcio e del Paese lo favoriscono in tutto: calendario su misura (col paracadute-Perù del naturalizzato portiere Ramón Quiroga, suo concittadino); nazionali “requisiti” per quasi tre anni al “José C. Paz”, centro sportivo scelto dal Ct per la distanza (30 km da Baires) ma soprattutto per l’inaccessibilità da parte degli estranei; ostracismo ai talenti indigeni emigrati all’estero (con la fortunata eccezione di Kempes del Valencia); spazio a giocatori appartenenti a club di provincia anche a costo di scelte impopolari (nessun convocato del Boca bicampione d’Argentina nel 1977-1978: un altro Ct sarebbe saltato per molto meno).
Per raggiungere l’obiettivo, costruisce l’Argentina nel solco della tradizione: davanti al portiere Fillol, difesa con il duro Passarella libero, due mastini come Luis Galván e Olguín in marcatura, e Tarantini fluidificante a sinistra; in mediana Ardíles assicura geometrie, Gallego il sostegno dinamico per il genio offensivo di Kempes, leader dell’attacco alimentato sugli esterni dalle volate di Bertoni e Ortíz o all’interno dal centravanti-boa Luque.
A fare le spese delle pressioni dovute a una vittoria cui la dittatura non può rinunciare è Maradona, depennato dalla lista dei 22 perché ritenuto, a 17 anni e mezzo, non ancora pronto per quel tipo di responsabilità. Victor Bottaniz e Humberto Bravo, gli altri esclusi, restano per “fare gruppo”, mentre Diego se ne va in lacrime: «Es la amargura (amarezza) más grande de mi vida». Tre giorni dopo, rifila 3 gol al Chacarita.
Grazie alla sua fortissima personalità, le istituzioni del calcio e del Paese lo favoriscono in tutto: calendario su misura (col paracadute-Perù del naturalizzato portiere Ramón Quiroga, suo concittadino); nazionali “requisiti” per quasi tre anni al “José C. Paz”, centro sportivo scelto dal Ct per la distanza (30 km da Baires) ma soprattutto per l’inaccessibilità da parte degli estranei; ostracismo ai talenti indigeni emigrati all’estero (con la fortunata eccezione di Kempes del Valencia); spazio a giocatori appartenenti a club di provincia anche a costo di scelte impopolari (nessun convocato del Boca bicampione d’Argentina nel 1977-1978: un altro Ct sarebbe saltato per molto meno).
Per raggiungere l’obiettivo, costruisce l’Argentina nel solco della tradizione: davanti al portiere Fillol, difesa con il duro Passarella libero, due mastini come Luis Galván e Olguín in marcatura, e Tarantini fluidificante a sinistra; in mediana Ardíles assicura geometrie, Gallego il sostegno dinamico per il genio offensivo di Kempes, leader dell’attacco alimentato sugli esterni dalle volate di Bertoni e Ortíz o all’interno dal centravanti-boa Luque.
A fare le spese delle pressioni dovute a una vittoria cui la dittatura non può rinunciare è Maradona, depennato dalla lista dei 22 perché ritenuto, a 17 anni e mezzo, non ancora pronto per quel tipo di responsabilità. Victor Bottaniz e Humberto Bravo, gli altri esclusi, restano per “fare gruppo”, mentre Diego se ne va in lacrime: «Es la amargura (amarezza) más grande de mi vida». Tre giorni dopo, rifila 3 gol al Chacarita.
Menotti lo consolerà costruendogli attorno la rappresentativa che a Tokyo ’79 stravincerà il mondiale Under 20: Sergio García; Carabelli-Juan Simón-Rossi-Hugo Alves; Barbas-Rinaldi-Maradona; Escudero-Díaz-Calderón. Maradona segna 6 gol in sei partite e, in coppia con Ramón Díaz, trascina la squadra al titolo iridato (3-1 all’URSS in finale).
A Spagna ’82 la Selección campione in carica esce al secondo turno, nel girone di semifinale. Le sconfitte con l’Italia (1-2) e con il Brasile (1-3), ma soprattutto le prestazioni deludenti, sommate alle frizioni con la AFA dovute a questioni economiche, lo mettono alla porta dopo 92 partite (48 vittorie, 22 pareggi e altrettante sconfitte) in biancoceleste.
Nell’82-83, per 700 milioni l’anno, approda al Barcellona, dove sostituisce in corsa José Luis Romero (che a sua volta aveva rilevato il tedesco Udo Lattek) giusto in tempo per vincere la Coppa di Lega, la Supercoppa spagnola e, l’anno dopo, la Copa del Rey.
Il meglio di sé, però, lo dà nelle mille tentazioni della vita notturna catalana. Memorabile, in tal senso, il passaggio di consegne al suo successore, Terry Venables: «Se ti piacciono le donne, Terry, benvenuto in paradiso».
Etica lavorativa a parte (el Flaco annullò gli allenamenti mattutini, fissando alle 15 l'unica sessione quotidiana), la fortuna gli volge le spalle: il primo anno Maradona sta fuori tre mesi a causa di una epatite virale, il secondo altri quattro perché il 24 settembre Andoni Goikoetxea, stopper-killer dell’Athletic Bilbao già giustiziere di Bernd Schuster, gli rompe malleolo e legamenti della caviglia sinistra.
Il resto lo fanno i “soliti” contrasti con i dirigenti, presidente Josep Lluís Núñes in primis, e l’aver messo in bacheca solo la Copa del Rey ’83 (2-1 alla Romareda di Saragozza con cabezazo di Marcos nel finale e conseguente “gestaccio” di Schuster ai tifosi avversari). Traguardo non bissato per colpa dell’Athletic Bilbao di Javier Clemente, vittorioso con un gol di Endika.
Il meglio di sé, però, lo dà nelle mille tentazioni della vita notturna catalana. Memorabile, in tal senso, il passaggio di consegne al suo successore, Terry Venables: «Se ti piacciono le donne, Terry, benvenuto in paradiso».
Etica lavorativa a parte (el Flaco annullò gli allenamenti mattutini, fissando alle 15 l'unica sessione quotidiana), la fortuna gli volge le spalle: il primo anno Maradona sta fuori tre mesi a causa di una epatite virale, il secondo altri quattro perché il 24 settembre Andoni Goikoetxea, stopper-killer dell’Athletic Bilbao già giustiziere di Bernd Schuster, gli rompe malleolo e legamenti della caviglia sinistra.
Il resto lo fanno i “soliti” contrasti con i dirigenti, presidente Josep Lluís Núñes in primis, e l’aver messo in bacheca solo la Copa del Rey ’83 (2-1 alla Romareda di Saragozza con cabezazo di Marcos nel finale e conseguente “gestaccio” di Schuster ai tifosi avversari). Traguardo non bissato per colpa dell’Athletic Bilbao di Javier Clemente, vittorioso con un gol di Endika.
La carriera di Menotti prosegue fra Boca (nella seconda parte della stagione 1986-87, chiusa al 2° posto), Atlético Madrid (9 mesi nell’87-88), River Plate (’89), Peñarol di Montevideo (’90), nazionale messicana (dall’agosto ’91 al dicembre ’92, portata al secondo turno nelle eliminatorie per USA ’94) e ancora Boca (’93). Menotti è fra i pochi ad aver allenato le “grandi” storiche del calcio argentino, River e Boca, il club più vincente e quello più popolare.
Ci sono riusciti anche Juan Carlos Lorenzo, José D’Amico, José Manuel Moreno, Adolfo Pedernera, Nestor Rossi, Héctor Veira e Alfredo Di Stéfano, l’unico a vincere con entrambe: con il Boca il Nacional del ’69, con il River quello dell’81.
Ci sono riusciti anche Juan Carlos Lorenzo, José D’Amico, José Manuel Moreno, Adolfo Pedernera, Nestor Rossi, Héctor Veira e Alfredo Di Stéfano, l’unico a vincere con entrambe: con il Boca il Nacional del ’69, con il River quello dell’81.
Rimasto senza panchina, si dedica alla politica e al giornalismo, due delle sue grandi passioni. Dichiaratamente di sinistra, nel ’94 si candida alle primarie come governatore della Provincia di Santa Fe per il partito Justicialista.
Dopo che ha assunto la direzione di “Deportes” (Sport), inserto del multimediale “América”, viene convocato dall’Independiente, per il quale firma il 20 agosto 1996. Arriva subito il secondo posto nel torneo Apertura e il 31 maggio 1997, quando sta per vincere il Clausura, parte per Genova, destinazione Sampdoria, che dopo appena 8 giornate lo rimpiazza con Vujadin Boskov. César Luis torna all’ovile il 29 dicembre, in tempo per il Clausura ’98 che il club di Avellaneda conclude al 10º posto.
Nell’agosto ’99 se ne va e dopo un breve stop chiude, a 63 anni e romanticamente in linea col personaggio, là dove tutto era cominciato: al Rosario Central, squadra della sua vita. E lo fa gratis, vista la drammatica situazione finanziaria della società («non ha i soldi per la lavanderia, figuriamoci per pagare me»).
Dopo che ha assunto la direzione di “Deportes” (Sport), inserto del multimediale “América”, viene convocato dall’Independiente, per il quale firma il 20 agosto 1996. Arriva subito il secondo posto nel torneo Apertura e il 31 maggio 1997, quando sta per vincere il Clausura, parte per Genova, destinazione Sampdoria, che dopo appena 8 giornate lo rimpiazza con Vujadin Boskov. César Luis torna all’ovile il 29 dicembre, in tempo per il Clausura ’98 che il club di Avellaneda conclude al 10º posto.
Nell’agosto ’99 se ne va e dopo un breve stop chiude, a 63 anni e romanticamente in linea col personaggio, là dove tutto era cominciato: al Rosario Central, squadra della sua vita. E lo fa gratis, vista la drammatica situazione finanziaria della società («non ha i soldi per la lavanderia, figuriamoci per pagare me»).
Sposato con la figlia del suo vecchio presidente al Rosario Central, due eredi, una laurea in chimica, Menotti ama le auto, la caccia e la musica (suona il piano). Lo sguardo disincantato, i capelli portati lunghi anche in tarda età, celano un tecnico geniale e creativo, uno dei migliori “futbolisti” prodotti dal calcio rioplatense, del livello di Carlos Peucelle o di Renato Cesarini.
Nemico dello sforzo fisico fine a se stesso, innamorato del gioco-spettacolo in punta di bulloni, polemico e provocatorio («Ronaldo non sa giocare a calcio, Makelele gioca meglio: perché capisce quando si deve giocare di prima e quando invece bisogna dialogare con i compagni»), predica un calcio che non si fermi ai risultati.
No, in Europa il suo elogio della lentezza non poteva funzionare. Specialmente da quando su quella bocca, dietro la sigaretta sempre accesa, hanno spento il sorriso.
Nemico dello sforzo fisico fine a se stesso, innamorato del gioco-spettacolo in punta di bulloni, polemico e provocatorio («Ronaldo non sa giocare a calcio, Makelele gioca meglio: perché capisce quando si deve giocare di prima e quando invece bisogna dialogare con i compagni»), predica un calcio che non si fermi ai risultati.
No, in Europa il suo elogio della lentezza non poteva funzionare. Specialmente da quando su quella bocca, dietro la sigaretta sempre accesa, hanno spento il sorriso.
CHRISTIAN GIORDANO, Guerin Sportivo
BILARDISTAS O MENOTTISTAS
Senza arrivare alla teorizzazione menottiana – «c´è un calcio di sinistra, creativo, d´avanguardia e un calcio conservatore, tutto forza fisica, collocabile a destra» – e anche se oggi la discussione si è un po’ placata, in Argentina c’è stata un’epoca in cui era impossibile non schierarsi: o con Menotti o con Carlos Salvador Bilardo, suo acerrimo nemico e successore alla guida della Selección.
El Flaco (il magro) schierava i suoi assi tutti assieme, el Narígon (il nasone) era più pragmatico: palla a Maradona, lanci per Caniggia e Burruchaga e via di randello. Esaltato o criticato oltre i meriti e i demeriti, Menotti impersonifica ancora oggi l’idea ludica del calcio e in lui si identifica chi guarda alle radici del fútbol argentino e al sentimento popolare che esso si porta dietro e dentro.
Ma il pensiero “menottista” si estende oltre il campo, abbraccia i movimenti politici della sinistra, il tango, i café, il tirar tardi la notte. I suoi più diretti discepoli sono Jorge Valdano, Angel Cappa e il colombiano Francisco Maturana. Menotti è stato giocatore di buon livello e ottimo allenatore, ma soprattutto un “filosofo”. Gli interessava in primo luogo la creatività nel gioco, lo sport inteso come spettacolo ma nella migliore accezione.
Ha allenato Kempes e Maradona, ma anche altri grandi del calcio argentino meno noti in Europa: Brindisi, Babington, Houseman, “el Mono” Obberti e lo straordinario “el Beto” Márcico, legatissimo ai compagni e al club. Dire che il menottismo riflette l’Argentina per come essa vorrebbe essere e che il bilardismo rispecchia come essa in realtà è resta una forzatura, ma forse rende l’idea.
El Flaco (il magro) schierava i suoi assi tutti assieme, el Narígon (il nasone) era più pragmatico: palla a Maradona, lanci per Caniggia e Burruchaga e via di randello. Esaltato o criticato oltre i meriti e i demeriti, Menotti impersonifica ancora oggi l’idea ludica del calcio e in lui si identifica chi guarda alle radici del fútbol argentino e al sentimento popolare che esso si porta dietro e dentro.
Ma il pensiero “menottista” si estende oltre il campo, abbraccia i movimenti politici della sinistra, il tango, i café, il tirar tardi la notte. I suoi più diretti discepoli sono Jorge Valdano, Angel Cappa e il colombiano Francisco Maturana. Menotti è stato giocatore di buon livello e ottimo allenatore, ma soprattutto un “filosofo”. Gli interessava in primo luogo la creatività nel gioco, lo sport inteso come spettacolo ma nella migliore accezione.
Ha allenato Kempes e Maradona, ma anche altri grandi del calcio argentino meno noti in Europa: Brindisi, Babington, Houseman, “el Mono” Obberti e lo straordinario “el Beto” Márcico, legatissimo ai compagni e al club. Dire che il menottismo riflette l’Argentina per come essa vorrebbe essere e che il bilardismo rispecchia come essa in realtà è resta una forzatura, ma forse rende l’idea.
(chgiord)
La scheda di CÉSAR LUIS MENOTTI
Nato: 22-10-1938 (iscritto dal padre all'anagrafe il 5 novembre, nda), Rosario (Santa Fe), Argentina
Ruolo: attaccante
Club da giocatore: Unión América, Rosario Central (1960-63), Racing Club (1964), Boca Juniors (1965-66), New York Generals (USA, 1967-68), Santos (Brasile, 1968), Juventude São Paulo (Brasile, 1969)
Esordio in massima divisione: 3-7-1960, Rosario Central-Boca Juniors 3-1
Palmarès da giocatore: 1 campionato argentino (1965), 1 campionato brasiliano (1968)
Club da allenatore: Central Córdoba (B), Newell’s Old Boys (1970-72), Huracán (1972-74), Barcellona (Spagna, 1982-84), Boca Juniors (1986), Atlético Madrid (Spagna, 1987), River Plate (1989), Peñarol (Uruguay, 90-91), Boca Juniors (1992), Independiente (1992), Sampdoria (Italia, 1997-98), Independiente (1997-1999), Rosario Central (2000-02)
Palmarès da allenatore: campionato Metropolitano (Huracán, 1973), Copa del Rey (Barcellona, 1983), 1 Coppa di Lega spagnola (1983), 1 Supercoppa spagnola (1983)
In nazionale da Ct: Argentina (1974-1982), Messico (1991-92),
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