Talansky, elogio dell'autoscopa


È tornata alla ribalta per «la straordinaria lezione di coraggio» di Andrew Talansky nel finale dell'11esima tappa, la Besançon-Oyonnaz, ma è attrice non protagonista al Tour dai tempi del cinema muto. Ecco come e perché nacque sui Pirenei... 

di Christian Giordano

Voiture balai in francese, broom wagon in inglese. Da noi è l'autoscopa. O carro-scopa. Il mini-van o il mega furgone che raccoglie i corridori, e le relative bici, che si ritirano dalla corsa, oppure già troppo staccati per sperare di non arrivare fuori tempo massimo. Esiste dal 1910, quando per la prima volta il Tour de France affrontò le montagne. E che montagne. I corridori chiamavano i Pirenei “il giro della morte”. E persino il patron Henri Desgrange era così preoccupato dal suo azzardo da restarsene a casa pur di non venire associato al possibile disastro. Timori in parte giustificati, visto che solo 41 dei 110 partenti raggiunsero Parigi: il 37,27%. Nel dopoguerra il più alto tasso di ritiri è stato quello al Tour 1948, concluso da 44 dei 120 partenti (36,67%).

La balai aveva una vecchia scopa legata sul tettuccio, e puntata verso la strada. Scomparve nel 1992 quando la direzione del Tour decise di darsi un'immagine più moderna. Anche se si vocifera che, ancora oggi, in ossequio alla tradizione, all'interno ci sia sempre una scopa. In gara segue l'ultimo in gruppo, ma sono pochi i campioni che la usano. Preferiscono l'ammiraglia, che li accompagna subito in hotel. E un motociclista ne porta al traguardo i dossards, i dorsali col numero che fin lì avevano sulla schiena. Tutti gli altri devono solo toccare l'autoscopa, e il numero gli vien tolto. E il loro nome echeggerà su radiocorsa prima ancora che scendano di bici. 

A volte gli anonimi passeggeri della balai restano stupiti dall'illustre compagnia che si ritrovano a bordo. Federico Martín Bahamontes ci si arrampicò nel 1965 nella sua tuta azzurra Margnat-Paloma. Attimo immortalato in Pour un maillot jaune (Per una maglia gialla), documentario a colori del 1965 di Claude Lelouch; da non confondersi con Pour le maillot jaune (Per la maglia gialla), reportage del 1940 in bianco e nero di Jean-Michel Leulliot, Adolphe Dhrey e Yves Bonsergent. 

Jean-Christophe Dauman, che l'autoscopa l'ha guidata, nel 2002 la raccontava così: «Sono proprio in coda alla corsa. Dietro di me c'è solo il van per raccogliere le bici. Qualcuno preferisce proseguire in ammiraglia, gli altri salgono in autoscopa. Un commissario gli prende il numero, la bici va nel van, e poi ci rimettiamo in marcia. Ci sono dei corridori che hanno subito voglia di parlare ma in gran parte se ne stanno seduti lì, tranquilli, a bere, a mangiare frutta e forse un pezzo di torta, per aiutarsi a recuperare. Poi, dopo venti minuti iniziano a parlare, della corsa, di quanto fosse dura, della pendenza delle salite, quelle cose lì. E a volte piangono e basta». 

Andrew Talansky, invece, proprio non ne voleva sapere. Nell'11esima tappa, da Besançon a Oyonnaz, il 25enne statunitense della Garmin-Cervélo voleva ritirarsi per la botta alla schiena, ma il suo ds lo ha convinto a non mollare. Per Christian Prudhomme è stata «una straordinaria lezione di coraggio» con cui «Andrew Talansky è entrato nella leggenda del Tour. Ha dimostrato una forza di carattere fuori del comune». E che al direttore del Tour ha ricordato l'impresa di Bernard Hinault, che nel 1977 cadde sulla salita de La Bastille a Grenoble, quasi abbandonò e invece finì per vincere la tappa». Talansky ha pedalato da solo per 80 km con alle spalle soltanto la balai, ha chiuso 179esimo e ultimo, a 32'05” dal vincitore Tony Gallopin. Ma entro il tempo massimo. Il giorno dopo, non è ripartito. Ma l'autoscopa, no: Andrew non ci è salito.
CHRISTIAN GIORDANO

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