Sporting Lisbona, dove nascono i Leoni
http://www.rivistaundici.com/2016/11/08/sporting-lisbona/
Portogallo, Lisbona in particolare. Il successo della Nazionale in Francia ha rivelato al mondo il più grande bacino di talenti dell’intero Paese.
In Portogallo in quasi tutte le città c’è una pastelaria bijou. Se ci andate, cercate i pastel de nata, alla crema. Ovunque. Un avvertimento: creano dipendenza. Ce n’era una a Campo Grande, nella Lisbona d’inizio secolo, il Ventesimo ovviamente. Ogni tanto passava il Visconte. Suo figlio, un Alvalade lui pure, aveva questa passionaccia per il futebol. Il visconte ordinava il caffè col pastel de nata e faceva piovere consigli a velo. «Mettete un leone nello stemma, figlioli». «Sfondo verde figlioli, sfondo verde. Segno di speranza». La pastelaria non c’è più. Tutto il resto, più uno stadio che non poteva che chiamarsi Alvalade, sì. Attorno a questo nome, a questo stadio, poi ristrutturato (a proposito, la fantasia di colori dei seggiolini, dentro, è stato il modello per diversi impianti, non ultimo quello dei Pozzo a Udine), si è creata una squadra con uno spirito unico: lo Sporting Clube de Portugal. Ma, nonostante il nome, la squadra della stragrande maggioranza dei portoghesi, diaspora inclusa, è l’altra.
Inevitabile, se quest’altra squadra ha più che vinto negli Anni Sessanta: ha regalato gioia di vivere e orgoglio a un Paese avvolto su se stesso dalla dittatura di Salazar. E poi il Benfica voleva e vuole anche dire Eusébio, insieme ad Amália Rodrigues, la (non una, la) voce del fado, il simbolo stesso di un Paese. Oddio, Eusébio in verità era dello Sporting, in origine. Cioè, giocava nello Sporting Clube di Lourenço Marques, il nome che aveva Maputo, capitale del Mozambico, prima dell’indipendenza. Lì, nella Província Ultramarina, era nato col pallone al piede, e per fortuna, almeno nel calcio, anche i Mozart possono nascere in Africa senza che vadano persi. Lui, Eusébio, nemmeno quindicenne, aveva scelto di andare a giocare per O Desportivo, la squadra della città legata al Benfica, ma loro lo avevano scartato. Non esattamente con lungimiranza, preferendogli altri Salieri. Poi è stata tutta una rincorsa, frutto di una serie di casi.
I tifosi dello Sporting prima del match di Taca de Portugal (Coppa portoghese)tra Sporting e Sc Braga (Patricia De Melo Moreira/Afp/Getty Images)
Un membro del Brasile che perse il titolo nel Maracanazo contro l’Uruguay, nel ‘50, tale Bauer, detto O Monstro, aveva giocato a San Paolo per Bela Guttmann, il genio magiaro della panchina. Trovandosi in Africa, causa tournée calcistica, una volta routine per diverse squadre sudamericane (il Santos di Pelé visse soprattutto di quelle, i primi Harlem Globetrotters del calcio), Bauer notò in quel ragazzino dalle grandi doti tecniche e fisiche un potenziale fuoriclasse. Un fonogramma a Bela cambiò la storia del calcio: «Qui c’è un fenomeno». Il tecnico ungherese si era trasferito in Portogallo e anche, se non soprattutto, in quel Paese avrebbe fatto la storia, vincendo due Coppe dei Campioni, la seconda grazie al contributo decisivo di quel ragazzo africano. Grazie ad agganci migliori col regime dell’Estado Novo salazarista e a una strategia che aveva messo in moto attività da servizi segreti (Eusébio entrò in Portogallo con una identità falsa, creata ad hoc: si chiamava Rute Malosso e rimase nascosto diverso tempo in un hotel di Lagos, in Algarve), il ragazzo arrivò. Eusébio sarebbe stato una Aquila benfiquista, non un Leone sportinguista. E la storia si sarebbe perennemente dipinta di rosso, i colori del Benfica. Con la Pantera Nera, la Nazionale del Portogallo sarebbe stata finalmente rispettata a livello intercontinentale, e nella Coppa del Mondo del ‘66 solo gli inglesi, per una volta competitivi, oltre che ricolmi di professori del gioco, leggi alla voce Bobby Charlton, riuscirono a interrompere la corsa di Eusébio, miglior giocatore e miglior cannoniere di quella competizione, verso il meritato titolo.
Terra di calcio, il Portogallo, non avrebbe mai vinto un alloro. Fino al 2016, quando la squadra lusitana si laurea campione d’Europa. Ma, stavolta, non è più questione di Aquile. C’è il simbolo, ci sono i colori voluti dal Visconte, a irrorare quel titolo. Marcato soprattutto Sporting. Nella rosa alla fine vincitrice, e con un ruolo da assoluti protagonisti, ci sono dieci giocatori cresciuti nel settore giovanile dei Leoni: Rui Patrício, William Carvalho, Adrien Silva, João Mário, Cédric, José Fonte, João Moutinho, Ricardo Quaresma, Nani e Cristiano Ronaldo. L’ultimo della lista, non esattamente un comprimario, arrivato da un’isola dell’Oceano Atlantico nota per essere stata tappa fondamentale dei grandi navigatori dell’Era dos Descobrimentos, il momento in cui il Portogallo ha trascinato il mondo dal Medioevo all’Età Moderna. Cristiano ad Alvalade ci è fisicamente cresciuto. Nei dintorni e dentro lo stadio che richiama alla memoria il Visconte ha passato mattine di riflessioni, pomeriggi di allenamento intenso e tante notti piene di pianti, ricordando la natia Madeira.
Il suo arrivo nella capitale lusitana non fu lineare. Altrimenti come fai a sederti nell’Olimpo ideale al fianco di Eusébio? «Avevamo un credito con il Nacional di Madeira: circa 250mila euro. Un giocatore chiamato Franco aveva iniziato nella nostra Accademia e aveva poi firmato per loro: quei soldi ci spettavano per diritti di formazione. Loro però non potevano o volevano pagare: ci offrirono un ragazzino di undici anni. “Vediamolo”, dissi. Arrivò per una settimana, in prova, e strabiliò tutti, tecnica e personalità. Il direttore finanziario del club mi prese per matto: “Se lo vuole, mi deve assicurare che arriverà in prima squadra”. Gli risposi che avrebbe fatto ancora di più, e il contratto di Cristiano Ronaldo fu siglato». Ce lo ha raccontato, direttamente dalla sua scrivania, Aurelio Pereira, responsabile dello scouting dello Sporting.
Ma la qualifica non dice proprio nulla. Perché Pereira, baffo portoghese d’ordinanza mai levato, anche oggi che si avvicina ai settanta, è stato il motore di un settore giovanile che da metà Anni Ottanta ha inventato un nuovo modo di reclutare e formare ragazzi. Prima e meglio dell’Ajax o del Barcellona, cioè dei top a livello europeo. Dallo Sporting è uscita la stragrande maggioranza dei giocatori di ottimo-buon livello nella storia recente del calcio lusitano. E tutto è iniziato con Paulo Futre, il primo super talento fabricado em Alvalade. Prima di raggirare il Nacional con la trattativa Pereira, il più grande è stato Luís Figo: una specializzazione in un ruolo, quello che in Portogallo si chiama extremo, esterno d’attacco. Futre, Figo, Simão, Quaresma, Nani e Cristiano, solo per citare quelli che hanno fatto più strada. Nel frattempo, questa fabbrica di campioni ha cambiato casa, riposizionandosi ad Alcochete. Appena oltre quella meraviglia architettonica che è il Ponte Vasco da Gama, l’uomo che arrivò alle Indie circumnavigando l’Africa. E, proprio nella commemorazione dei 500 anni da quell’impresa, quel ponte sopra il Tago è stato battezzato così.
Un giovane tifoso dello Sporting prima di un match di Primeira Liga contro l’Olhanense (Patricia De Melo Moreira/EuroFootball/Getty Images)
Poco da fare, coi portoghesi c’è da parlare di navigatori, se si vuole celebrare qualcosa. Almeno fino al secolo scorso, poi tocca al calcio. Ma per navigare nell’era moderna del gioco, non possiamo fare a meno di citare quel signore coi baffi, che rimane sempre nell’ombra ed è stato invece uno dei massimi responsabili della conquista dell’Europeo 2016. Aurélio Pereira ha prima scoperto e poi formato giocatori, e lo Sporting è rimasto ed è competitivo ad alto livello, soprattutto per quello. Oggi gioca la Champions League ed è allenato da Jorge Jesus, uno dei tecnici più estremi e più interessanti degli ultimi tempi. Ha vinto prima tutto e a ripetizione con il Benfica, poi ha scelto di tornare nella squadra per cui ha sempre fatto il tifo, ricordando quando il padre, ora gravemente malato, gli parlava dei Leoni. E lui sognava Alvalade. Un sogno bellissimo, riguardo ai giovani, riguardo al suo Paese. Ma oggi preferisce non rivelarlo, perché i sogni non si devono rivelare, sostiene. Ammette solo che oggi è davvero felice di rappresentare Alvalade, il verde, il leone e anche il Visconte. Lo sostiene anche Pereira, che ci riporta al capolavoro di Antonio Tabucchi, anche se lui era decisamente più tifoso del Benfica. Gli sarebbe piaciuta anche questa storia: portoghese, quindi minimale, periferica ma grandiosa. Anche il pastel de nata è sottovalutato, in fondo.
Portogallo, Lisbona in particolare. Il successo della Nazionale in Francia ha rivelato al mondo il più grande bacino di talenti dell’intero Paese.
In Portogallo in quasi tutte le città c’è una pastelaria bijou. Se ci andate, cercate i pastel de nata, alla crema. Ovunque. Un avvertimento: creano dipendenza. Ce n’era una a Campo Grande, nella Lisbona d’inizio secolo, il Ventesimo ovviamente. Ogni tanto passava il Visconte. Suo figlio, un Alvalade lui pure, aveva questa passionaccia per il futebol. Il visconte ordinava il caffè col pastel de nata e faceva piovere consigli a velo. «Mettete un leone nello stemma, figlioli». «Sfondo verde figlioli, sfondo verde. Segno di speranza». La pastelaria non c’è più. Tutto il resto, più uno stadio che non poteva che chiamarsi Alvalade, sì. Attorno a questo nome, a questo stadio, poi ristrutturato (a proposito, la fantasia di colori dei seggiolini, dentro, è stato il modello per diversi impianti, non ultimo quello dei Pozzo a Udine), si è creata una squadra con uno spirito unico: lo Sporting Clube de Portugal. Ma, nonostante il nome, la squadra della stragrande maggioranza dei portoghesi, diaspora inclusa, è l’altra.
Inevitabile, se quest’altra squadra ha più che vinto negli Anni Sessanta: ha regalato gioia di vivere e orgoglio a un Paese avvolto su se stesso dalla dittatura di Salazar. E poi il Benfica voleva e vuole anche dire Eusébio, insieme ad Amália Rodrigues, la (non una, la) voce del fado, il simbolo stesso di un Paese. Oddio, Eusébio in verità era dello Sporting, in origine. Cioè, giocava nello Sporting Clube di Lourenço Marques, il nome che aveva Maputo, capitale del Mozambico, prima dell’indipendenza. Lì, nella Província Ultramarina, era nato col pallone al piede, e per fortuna, almeno nel calcio, anche i Mozart possono nascere in Africa senza che vadano persi. Lui, Eusébio, nemmeno quindicenne, aveva scelto di andare a giocare per O Desportivo, la squadra della città legata al Benfica, ma loro lo avevano scartato. Non esattamente con lungimiranza, preferendogli altri Salieri. Poi è stata tutta una rincorsa, frutto di una serie di casi.
I tifosi dello Sporting prima del match di Taca de Portugal (Coppa portoghese)tra Sporting e Sc Braga (Patricia De Melo Moreira/Afp/Getty Images)
Un membro del Brasile che perse il titolo nel Maracanazo contro l’Uruguay, nel ‘50, tale Bauer, detto O Monstro, aveva giocato a San Paolo per Bela Guttmann, il genio magiaro della panchina. Trovandosi in Africa, causa tournée calcistica, una volta routine per diverse squadre sudamericane (il Santos di Pelé visse soprattutto di quelle, i primi Harlem Globetrotters del calcio), Bauer notò in quel ragazzino dalle grandi doti tecniche e fisiche un potenziale fuoriclasse. Un fonogramma a Bela cambiò la storia del calcio: «Qui c’è un fenomeno». Il tecnico ungherese si era trasferito in Portogallo e anche, se non soprattutto, in quel Paese avrebbe fatto la storia, vincendo due Coppe dei Campioni, la seconda grazie al contributo decisivo di quel ragazzo africano. Grazie ad agganci migliori col regime dell’Estado Novo salazarista e a una strategia che aveva messo in moto attività da servizi segreti (Eusébio entrò in Portogallo con una identità falsa, creata ad hoc: si chiamava Rute Malosso e rimase nascosto diverso tempo in un hotel di Lagos, in Algarve), il ragazzo arrivò. Eusébio sarebbe stato una Aquila benfiquista, non un Leone sportinguista. E la storia si sarebbe perennemente dipinta di rosso, i colori del Benfica. Con la Pantera Nera, la Nazionale del Portogallo sarebbe stata finalmente rispettata a livello intercontinentale, e nella Coppa del Mondo del ‘66 solo gli inglesi, per una volta competitivi, oltre che ricolmi di professori del gioco, leggi alla voce Bobby Charlton, riuscirono a interrompere la corsa di Eusébio, miglior giocatore e miglior cannoniere di quella competizione, verso il meritato titolo.
Terra di calcio, il Portogallo, non avrebbe mai vinto un alloro. Fino al 2016, quando la squadra lusitana si laurea campione d’Europa. Ma, stavolta, non è più questione di Aquile. C’è il simbolo, ci sono i colori voluti dal Visconte, a irrorare quel titolo. Marcato soprattutto Sporting. Nella rosa alla fine vincitrice, e con un ruolo da assoluti protagonisti, ci sono dieci giocatori cresciuti nel settore giovanile dei Leoni: Rui Patrício, William Carvalho, Adrien Silva, João Mário, Cédric, José Fonte, João Moutinho, Ricardo Quaresma, Nani e Cristiano Ronaldo. L’ultimo della lista, non esattamente un comprimario, arrivato da un’isola dell’Oceano Atlantico nota per essere stata tappa fondamentale dei grandi navigatori dell’Era dos Descobrimentos, il momento in cui il Portogallo ha trascinato il mondo dal Medioevo all’Età Moderna. Cristiano ad Alvalade ci è fisicamente cresciuto. Nei dintorni e dentro lo stadio che richiama alla memoria il Visconte ha passato mattine di riflessioni, pomeriggi di allenamento intenso e tante notti piene di pianti, ricordando la natia Madeira.
Il suo arrivo nella capitale lusitana non fu lineare. Altrimenti come fai a sederti nell’Olimpo ideale al fianco di Eusébio? «Avevamo un credito con il Nacional di Madeira: circa 250mila euro. Un giocatore chiamato Franco aveva iniziato nella nostra Accademia e aveva poi firmato per loro: quei soldi ci spettavano per diritti di formazione. Loro però non potevano o volevano pagare: ci offrirono un ragazzino di undici anni. “Vediamolo”, dissi. Arrivò per una settimana, in prova, e strabiliò tutti, tecnica e personalità. Il direttore finanziario del club mi prese per matto: “Se lo vuole, mi deve assicurare che arriverà in prima squadra”. Gli risposi che avrebbe fatto ancora di più, e il contratto di Cristiano Ronaldo fu siglato». Ce lo ha raccontato, direttamente dalla sua scrivania, Aurelio Pereira, responsabile dello scouting dello Sporting.
Ma la qualifica non dice proprio nulla. Perché Pereira, baffo portoghese d’ordinanza mai levato, anche oggi che si avvicina ai settanta, è stato il motore di un settore giovanile che da metà Anni Ottanta ha inventato un nuovo modo di reclutare e formare ragazzi. Prima e meglio dell’Ajax o del Barcellona, cioè dei top a livello europeo. Dallo Sporting è uscita la stragrande maggioranza dei giocatori di ottimo-buon livello nella storia recente del calcio lusitano. E tutto è iniziato con Paulo Futre, il primo super talento fabricado em Alvalade. Prima di raggirare il Nacional con la trattativa Pereira, il più grande è stato Luís Figo: una specializzazione in un ruolo, quello che in Portogallo si chiama extremo, esterno d’attacco. Futre, Figo, Simão, Quaresma, Nani e Cristiano, solo per citare quelli che hanno fatto più strada. Nel frattempo, questa fabbrica di campioni ha cambiato casa, riposizionandosi ad Alcochete. Appena oltre quella meraviglia architettonica che è il Ponte Vasco da Gama, l’uomo che arrivò alle Indie circumnavigando l’Africa. E, proprio nella commemorazione dei 500 anni da quell’impresa, quel ponte sopra il Tago è stato battezzato così.
Un giovane tifoso dello Sporting prima di un match di Primeira Liga contro l’Olhanense (Patricia De Melo Moreira/EuroFootball/Getty Images)
Poco da fare, coi portoghesi c’è da parlare di navigatori, se si vuole celebrare qualcosa. Almeno fino al secolo scorso, poi tocca al calcio. Ma per navigare nell’era moderna del gioco, non possiamo fare a meno di citare quel signore coi baffi, che rimane sempre nell’ombra ed è stato invece uno dei massimi responsabili della conquista dell’Europeo 2016. Aurélio Pereira ha prima scoperto e poi formato giocatori, e lo Sporting è rimasto ed è competitivo ad alto livello, soprattutto per quello. Oggi gioca la Champions League ed è allenato da Jorge Jesus, uno dei tecnici più estremi e più interessanti degli ultimi tempi. Ha vinto prima tutto e a ripetizione con il Benfica, poi ha scelto di tornare nella squadra per cui ha sempre fatto il tifo, ricordando quando il padre, ora gravemente malato, gli parlava dei Leoni. E lui sognava Alvalade. Un sogno bellissimo, riguardo ai giovani, riguardo al suo Paese. Ma oggi preferisce non rivelarlo, perché i sogni non si devono rivelare, sostiene. Ammette solo che oggi è davvero felice di rappresentare Alvalade, il verde, il leone e anche il Visconte. Lo sostiene anche Pereira, che ci riporta al capolavoro di Antonio Tabucchi, anche se lui era decisamente più tifoso del Benfica. Gli sarebbe piaciuta anche questa storia: portoghese, quindi minimale, periferica ma grandiosa. Anche il pastel de nata è sottovalutato, in fondo.
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