Forse ci stiamo dimenticando di Rooney


Quello che torna all’Everton è uno dei giocatori più taletuosi degli ultimi anni, eppure non ha ricevuto l’amore che meritava

di STEFANO PIRI, Ultimo Uomo, 9 agosto 2017

Il 9 luglio scorso il profilo ufficiale dell’Everton ha annunciato il ritorno di Rooney con un tweet un po’ troppo smielato per i gusti dei tifosi: “once a blue… #WelcomeHomeWayne”.
Il riferimento era al motto “once a blue, always a blue” (“blu una volta, blu per sempre”) che Rooney si era fatto stampare su una maglietta e aveva mostrato ai tifosi dopo un gol oracolare segnato una quindicina di anni fa, quando era un prodigioso teen hero del Merseyside passato direttamente dalla curva alle giovanili dei Toffees.

Come spesso accade quando lo storytelling viene sbrigativamente piegato al marketing, il social media manager dell’Everton ha voluto imporre una schematica morale da favola ad un rapporto – quello tra Rooney e le sue origini – in realtà complesso e contraddittorio. Quegli stessi tifosi al cui sentimentalismo si voleva fare appello hanno iniziato a tempestare il tweet di risposte polemiche, immagini di Rooney con la maglia del Manchester United che esulta dopo un gol segnato all’Everton, foto di striscioni che storpiano amaramente lo slogan in “once a blue… now a red. In our hearts you are dead” (“blu una volta… adesso rosso. Nei nostri cuori sei morto”).


Qualcuno ha anche postato un video intitolato “The Wayne
Rooney song”, in cui tre bambini entusiasti cantano al papà:
“when you sat in row Z and the ball hits your head it’s
Wayne Rooney”, sulla musica di That’s Amore. Mi ha fatto
troppo ridere per non includerla in questo pezzo.


Questa è solo una delle tante ambivalenze della storia di Rooney, un giocatore che sfiora una serie di cliché e categorie archetipiche ma senza finirci dentro fino in fondo: footballer inglese old-style per antonomasia, ma anche giocatore di prodigiosa duttilità e modernità, fuoriclasse in termini assoluti ma gregario in termini relativi di squadra (sembra un paradosso ma è andata proprio così) vincente a livello di club e grande perdente in nazionale, esempio per i compagni e testa calda, bandiera e mercenario.

La sua pagina di Wikipedia in inglese si apre con quattro paragrafi fitti dei suoi record, come se gli autori avessero voluto spazzare via in esergo ogni dubbio: miglior marcatore della storia del Manchester United, più giovane marcatore (poi sorpassato da Milner) e secondo miglior marcatore assoluto della Premier League, più giovane esordiente e marcatore della storia della nazionale inglese (il primo record è stato poi battuto da Walcott), miglior marcatore assoluto e secondo giocatore con più presenze (il primato è ancora alla portata visto che gli mancano solo 6 partite in Nazionale per eguagliare Peter Shilton). Unico giocatore inglese insieme a Carrick ad aver vinto tutte le competizioni possibili a livello di club ad eccezione della Supercoppa Europea (se fosse rimasto allo United, se la sarebbe giocata tra meno di un mese contro il Real).

Eppure il posto di Rooney tra i grandissimi della sua generazione non è saldo come questa raffica di titoli lascerebbe supporre: la giuria del Pallone d’Oro lo ha sempre snobbato, concedendogli al massimo un quinto posto nel 2011. In questi giorni sui giornali inglesi si trovano diversi sondaggi che chiedono ai lettori se a conti fatti Rooney possa essere considerato una delle “leggende” del Manchester United, come Best, Giggs e Sir Bobby Charlton. Nonostante i record di Rooney, in molti sondaggi prevale il no.

A questa sottovalutazione probabilmente contribuiscono la sfortuna di essere contemporaneo di mostri come Messi, Cristiano e Ibrahimovic, le sconfitte in Nazionale e l’irrimediabile insularità del calcio britannico, che anche dopo essersi dotato del campionato più bello e ricco del mondo fatica a sfornare campioni che riescano ad imporsi in modo incontrovertibile al di là della Manica. La freddezza dei tifosi del Manchester è invece da ricollegarsi a una serie di uscite infelici di Rooney, e in particolare a una richiesta di trasferimento nel pieno degli anni d’oro che per modalità e tempistiche non gli è stata mai perdonata del tutto.

Viene però anche da chiedersi quanto abbiano pesato sulla sua carriera le aspettative generate da una gioventù paranormale. Rooney è stato probabilmente il miglior sedici/diciassettenne del calcio contemporaneo. Né Cristiano, né Messi, né tantomeno Ibrahimovic a quell’età mostravano lo stesso vertiginoso potenziale, la stessa sfrontatezza, la stessa capacità di stare in campo con gli adulti e batterli senza fatica al loro stesso gioco, come Rimbaud adolescente che si rivela umiliando i poeti parnassiani alla loro stessa serata.

È possibile che in un certo senso la pur grande carriera del Rooney reale sia stata messa in ombra dalla competizione impossibile con il Rooney immaginario proiettato nella fantasia dei tifosi da quelle incredibili prime annate?


The Man Behind the Goals
Quando nel 2015 Rooney ha segnato contro la Svizzera il cinquantesimo gol in Nazionale diventandone il miglior marcatore di tutti i tempi – il più paradossale tra i suoi record individuali, visto che la sua carriera in Nazionale è stata una sequenza di sfortune, errori e delusioni – la BBC lo ha celebrato mandando in onda un documentario di un’ora intitolato “Rooney – The man behind the goals”. Realizzato nello stile sobrio e antisensazionalistico tipico della TV pubblica britannica, il documentario racconta la carriera di Rooney attraverso la narrativa del ragazzo molto normale a cui succedono cose molto speciali. Lui sembra quasi compiaciuto di definire boring la sua vita fuori dal campo, assaporando il gusto esotico di una parola che probabilmente gli suona strano associare a sé stesso. Ha una moglie molto più loquace di lui, due figli piccoli che scorrazzano in scarpette da calcio e divisa da gioco numero 10, una casa grande e luminosa che sembra abitata da uno che non ha un’idea precisa di cosa fare di tutti i soldi che guadagna. Ci sono un tavolo da biliardo, un juke box, un frigo bar e un bancone con gli sgabelli da pub, una collezione di chitarre autografate con dedica da gente come Paul McCartney e Noel Gallagher. Rooney sembra avere pochissima confidenza con questi oggetti.

La cosa più sorprendente però è il contrasto tra il fascio di muscoli e carisma che siamo abituati a vedere in campo e il ragazzo lentigginoso in jeans stretti e maglietta aderente che vediamo giocare coi figli e ammettere con un sorriso che “quella forte in famiglia” è sua moglie. Fuori dal campo Rooney sembra molto più giovane dei suoi trent’anni, è intimidito dalle telecamere e distoglie continuamente lo sguardo dall’obiettivo con una specie di sorriso da discolo. C’è un momento in cui il montaggio alterna i primi piani del Rooney sedicenne che esulta per il suo primo gol in Premier League e di quello odierno che si lascia lusingare dai ricordi, e si rimane impressionati da quanto poco sia invecchiato il suo volto. Se non fosse per due fasci sottili ma nitidi di rughe sotto gli occhi, non sarebbe semplice distinguere il Rooney del 2002 da quello del 2015. Credo che queste immagini siano rivelatrici di un lato poco discusso ma decisivo per la personalità e la carriera di Rooney, un lato svelato dall’atteggiamento di Rooney nei confronti del giornalista che lo intervista, e perfino della moglie, da una specie di timidezza fiduciosa che in realtà si basa sulla certezza di godere dell’incondizionata attenzione di tutti i presenti: il documentario della BBC è in realtà un documentario su un ex bambino prodigio.

Everton – L’apparizione
Nato a Croxteth, sobborgo popolare di Liverpool sorto dall’ondata immobiliare del dopoguerra e presto diventato una delle zone più povere e difficili del Merseyside, Wayne è il maggiore dei tre figli di Thomas Wayne sr. e Jeanette, addetta alla mensa della scuola locale dove Wayne conoscerà da bambino la sua futura moglie Coleen McLoughlin. Quasi tutti gli aneddoti che conosciamo sull’infanzia di Rooney hanno a che vedere con il calcio, perché già alle elementari è un piccolo fenomeno che attira la curiosità di tutto il quartiere. Nei campionati locali gioca sotto leva ma mantiene una media di un centinaio di gol a stagione. A nove anni entra nelle giovanili dell’Everton, la squadra che ha imparato a tifare da suo padre. Macina record nei tornei giovanili diventando una specie di precoce local hero, e appena può va a tifare per la prima squadra nel Ground del Goodison Park.


Le grandi d’Inghilterra provano ad approfittare delle anguste finestre lasciate aperte dal regolamento per il mercato dei giocatori minorenni. Tra i quattordici e i quindici anni di età Rooney rifiuta più volte il Liverpool e il Manchester United. Quando segna in finale di Youth FA Cup contro l’Aston Villa mostra ai tifosi una maglia con scritto “Once a Blue, Always a Blue”, che come abbiamo visto in seguito lo perseguiterà.

All’inizio della stagione 2002/03 Rooney ha solo sedici anni, ma è stato aggregato alla prima squadra in precampionato e ha segnato 9 gol in 8 partite. Il suo esordio in Premier League è nell’aria. L’Everton, che festeggia in modo un po’ dimesso la centesima partecipazione alla prima divisione inglese, è una squadra modesta che ha confermato per buona parte una rosa che l’anno prima ha dovuto lottare per non retrocedere. I giocatori più rappresentativi sono il danese Gravesen, lo scozzese Ferguson e il centravanti canadese Radzinski. Il nuovo allenatore, David Moyes, sembra però avere nuove idee e il coraggio di metterle in pratica. A convincerlo a puntare su Rooney è soprattutto – racconterà in seguito – un gol segnato in allenamento in pratica dalla linea di fondo, saltando un difensore e poi superando il portiere con un pallonetto da angolazione impossibile: «I membri dello staff stavano guardando e subito dopo iniziarono a scambiarsi occhiate, tutti con la stessa espressione che significava: ‘Avete visto anche voi? È successo davvero?’ Nessuno ha gridato ‘che gol!’, probabilmente tutti si stavano chiedendo se Rooney potesse davvero averlo fatto apposta».

Il 17 agosto 2002 contro il Tottenham è titolare dal primo minuto. Le aspettative sono altissime e l’esperto difensore Unsworth, cresciuto nel club e tra i pochi reduci dell’ultima epoca aurea dell’Everton a metà degli anni novanta, dichiara alla vigilia che Rooney è un crack “come Michael Owen, e forse qualcosa in più”.

Di quell’esordio non ho trovato video online, ma il tabellino ci segnala che Rooney realizzò l’assist per il gol del vantaggio segnato da Pembridge, e nel complesso mise in campo una prestazione sensazionale. Secondo il cronista dell’Independent Rooney è, per l’ora in cui resta in campo, «il tormento del Tottenham e l’attrazione dell’Everton», capace di «mettere insieme uno spettacolo di intelligenza e forza che ha sorpreso anche i sognatori». L’articolo fotografa già molti aspetti del gioco di Rooney che diventeranno familiari al grande pubblico, dalla “rapidità del gioco di gambe” allo “stile di gioco diretto” interrotto improvvisamente da picchi di “pensiero laterale” che portano “devastazione” nelle difese avversarie.

La sensazione è immediata nel Regno Unito, e in poche settimane dilaga in tutta Europa. La partita è di quelle perfette per l’investitura: l’Everton ospita a Goodison Park l’Arsenal dei record, campione in carica e imbattuto da 30 partite in campionato. Parliamo per intenderci della squadra di Henry, Vieira e Bergkamp, che si è appena rafforzata con il controverso acquisto di Sol Campbell dal Tottenham.
Rooney assiste dalla panchina all’immediato vantaggio dell’Arsenal segnato da Ljungberg e al pareggio di Radzinski. A dieci minuti dalla fine, con l’Arsenal in pressione, Moyes lo manda in campo. La sua prima azione è un pressing da toro inferocito che costringe Campbell a spazzare in affanno ed esalta i tifosi dell’Everton.

Poco dopo il novantesimo, Gravesen calcia in avanti una pallaccia a campanile che fa tanto calcio inglese, Rooney la insegue e allunga il collo del piede verso il punto di caduta come se volesse tentare lo stop a seguire, e invece inchioda la sfera sul posto come se fosse una palla medica, forse apposta o forse no. I difensori dell’Arsenal sono presi in controtempo e continuano ad arretrare lasciando a Rooney lo spazio per una piccola giravolta – Rooney per un attimo si ritrova la palla alle spalle, ma se la risistema subito con una sequenza di movimenti talmente rapida, fluida ed essenziale che in un certo senso il gesto tecnico scompare – per preparare la conclusione da venti metri. Colpita di collo interno la palla schizza verso l’alto, poi si piega come un tratto di penna e va a scavalcare il tuffo di Seaman, carezzando la faccia interna della traversa prima di entrare in porta.

«Wayne Rooney! Remember this name!» urla il cronista, a cui mancano le parole descrivere quello che è appena successo in campo. Come chiunque altro è sopraffatto dall’esibizione di forza, tecnica, coraggio e volizione da parte di un ragazzino che non ha ancora l’età per guidare la macchina e come in un cartone animato ha sconfitto con un gesto del tutto individuale una squadra di marziani. Rooney corre verso la linea laterale e poi scompare sotto gli abbracci dei compagni: è uno di quei momenti in cui la grammatica del calcio diventa universale e anche uno spettatore ignaro, guardando le immagini, può capire che è successo qualcosa di incancellabile.

Non è finita: una manciata di secondi dopo la ripresa del gioco, sul fronte opposto dell’attacco dell’Everton, Rooney raccoglie la respinta corta di un difensore dell’Arsenal. Si accentra, finta il tiro da distanza e angolazione proibitive ma il clima psicologico è ancora talmente saturo della prodezza precedente che il difensore dell’Arsenal ci casca e si fa saltare, poi da venti metri Rooney scava sotto il pallone con il collo esterno del piede e disegna un lob che scavalca nuovamente un Seaman del tutto disorientato, che ormai ha l’aria di chiedersi se sia solo un brutto sogno. La palla scende verso l’incrocio dei pali e si abbassa con una frazione di secondo di ritardo, raccolta morbidamente dalla parte superiore della rete. Pochi centimetri di imperfezione che in un certo senso ci fanno tirare un sospiro di sollievo, rassicurandoci sulla natura umana dello spettacolo a cui abbiamo appena assistito.

A fine partita Wenger definisce Rooney senza mezzi termini come “il talento più limpido” che abbia visto da quando allena in Inghilterra. «Ha tutto ciò che si possa desiderare: intelligenza, reazioni rapide, forza nella corsa palla al piede». Anche Moyes fa dichiarazioni del genere, ma il suo entusiasmo è smorzato dal peso della responsabilità: «Guardo al modo in cui Sir Alex Ferguson gestì l’esplosione di Ryan Giggs con i media. Rooney è un bravo ragazzo, stamattina è venuto con me a vedere la partita dell’Under 17. Quello che gli sta succedendo non gli ha dato alla testa, si comporta da persona normale».

Di normale però in quello che Rooney continua a fare in campo non c’è nulla. Due settimane prima dell’esplosione con l’Arsenal Rooney aveva segnato in League Cup contro il Wrexham il suo primo gol e la sua prima doppietta da professionista.

Le azioni dei due gol si somigliano, soprattutto perché in entrambi i casi Rooney sembra qualcosa di inarrestabile come un proiettile o un missile intelligente che punta verso la porta con forza e velocità tali da ridicolizzare qualsiasi tentativo di opposizione. Nel primo caso su rinvio del portiere spiazzato dal contrasto aereo tra un compagno e un difensore Rooney si infila tra due avversari, porta avanti palla con la suola come se avesse le piante dei piedi sensibili come i palmi delle mani e poi aspetta che il portiere sia a metà strada nell’uscita per piazzargli il pallone in mezzo alle gambe.

Qualche minuto dopo parte dalla lunetta di centrocampo per inseguire un passaggio in profondità sulla destra, raccoglie palla sulla trequarti, si accentra andando incontro a un difensore e lo salta sull’esterno con un dribbling che definirei rugbistico (“provo a evitarti ma male che vada ti abbatto con una spallata”). Infine supera l’uscita stavolta disperata del portiere con la stessa freddezza da veterano di prima.

Nelle due stagioni all’Everton Rooney segnerà 17 gol, un bottino enorme per un minorenne, ma soprattutto darà continuamente questa sensazione di furia elementale, come se ogni volta che riceve palla sulla trequarti potesse scatenarsi qualcosa di magnifico e terribile come un uragano. Con Rooney il calcio si rivela appieno come uno sport che si gioca su un terreno accidentato – il calcio visto in TV sembra giocato da acrobati su un panno da biliardo, ma chi ha giocato sa che in realtà è uno scontro tra lottatori su un campo minato – dove più che la capacità atletica lineare conta la capacità di esaltarsi in un ambiente ostile, di portare la palla a destinazione controvento o sotto il bombardamento. Come negli sport di puro contatto – la boxe, le arti marziali – le inquadrature migliori per capire la forza di Rooney sono quelle molto strette, quando la telecamera gli arriva quasi addosso e lo vediamo scivolare pressato da due avversari, fermare la palla con lo stinco, agganciarla col malleolo e poi rialzarsi di scatto e scivolare via, proprio quando sembrava non potesse ritrovare l’equilibrio. Gli avversari hanno l’aria esitante e sgomenta dei marinai che devono decidere se lasciar andare una cima che si è snodata o provare a fermarla scorticandosi i palmi delle mani.

Il gol che invece rende meglio l’idea della straordinaria tecnica spontanea, grezza nel senso migliore del termine, di Rooney, è quello segnato contro l’Aston Villa. Il collo sinistro al volo con palla che resta radente all’erba e si infila nell’angolino, un gesto che fa pensare a un geniale musicista di strada che riesce a tirare fuori cose straordinarie da un pianoforte usato e un po’ scordato.

The Savior
Quando Rooney irrompe nel calcio professionistico in una nuvola di scintille, il calcio inglese si trova a un punto particolarmente basso della propria parabola, comunque stabilmente depressiva da quasi mezzo secolo. Fuori ai quarti agli ultimi Mondiali, ai gironi agli Europei del 2000, agli ottavi ai Mondiali del ‘98, la Nazionale dei “tre leoni” è una lega incompiuta di campioni carismatici che però non hanno le caratteristiche tecniche per “spaccare” le partite (Ferdinand, Campbell, Scholes, Beckham) e giocatori sopravvalutati o semplicemente mediocri.

La spedizione agli Europei del 2004 agli ordini di Sven Goran Eriksson promette però qualcosa di diverso, grazie a una nuova generazione di talenti di caratura internazionale tra cui Steven Gerrard, Frankie Lampard, John Terry, Ashley e Joe Cole. Rooney appena diciottenne è la novità più intrigante, schierato in attacco accanto a un Michael Owen appena uscito dalla prima raffica di quegli infortuni che finiranno per devastargli la carriera, ma ancora sufficientemente integro da essere in procinto di passare al Real Madrid.

Dopo l’incredibile sconfitta in apertura di torneo con la Francia (in vantaggio fino al novantesimo, l’Inghilterra prende due gol da Zidane nel recupero) Rooney si prende la scena internazionale con la stessa facilità da predestinato con cui si è già preso quella inglese. Contro Svizzera e Croazia segna due doppiette con un assortimento di tempi, sensibilità e intensità da lanciatore di coltelli: di testa, incastrando la palla tra palo e portiere come un cuneo, piegando le mani a Butina da 20 metri e poi mettendolo a sedere dopo essersi aperto lo spazio verso la porta dettando un uno-due al compagno all’altezza della lunetta del centrocampo, Rooney sembra disporre di una conoscenza innata di ogni nota concepibile sullo smisurato spartito di una partita di calcio.

L’Inghilterra passa il girone e arriva ai quarti contro il Portogallo trascinata da un entusiasmo assoluto. Rooney è il simbolo del desiderio di riscatto calcistico di una nazione intera, e nei cori dei tifosi e sui giornali il termine che viene più spesso associato al suo nome è “savior” (“salvatore”). La misura dell’entusiasmo fanatico scatenato dalle sue prestazioni è riassunta dal titolo di un articolo del Guardian (non certo un tabloid aduso a toni sensazionalistici) ispirato da una dichiarazione di Eriksson: “Is Rooney the new Pelé?”.

Anni dopo, nel documentario della BBC di cui ho parlato qualche paragrafo fa, Rooney ricorderà di aver provato un senso di invincibilità, un’irrazionale quanto granitica certezza che nessuno avrebbe potuto impedirgli di segnare in ogni partita e di portare l’Inghilterra alla vittoria finale.

Contro il Portogallo Owen segna dopo tre minuti e l’Inghilterra tiene gli avversari alle corde cercando il raddoppio. Intorno al ventesimo minuto un pallone lungo spiove verso la difesa portoghese. Sarebbe lento e innocuo se a inseguirla ci fosse chiunque altro, ma c’è Rooney, che manda in confusione Jorge Andrade spingendolo a saltare a vuoto, gli gira intorno correndo a velocità doppia ed entra in area riuscendo a mettere il corpo tra Andrade e il pallone.

Rooney si ferma con la palla tra i piedi. Solo gli spettatori molto vicini o dotati di supervista si sono accorti di un dettaglio: uno scarpino è volato via nel contrasto con Andrade e adesso il piede destro di Rooney è scalzo. Il replay chiarisce la dinamica, con la caviglia destra dell’attaccante inglese che si piega nel cambio di direzione e finisce per un attimo sotto i tacchetti del difensore portoghese. Rooney avverte il dolore con qualche decina di secondi, o forse addirittura qualche minuto di ritardo. Resta in campo con il volto contratto in una smorfia ma gli occhi ancora iniettati di spirito agonistico, come se al di là della sensazione fisica non avesse compreso razionalmente quello che sta succedendo. «Potrebbe essere un infortunio ai legamenti» mormora sgomento il telecronista inglese, riguardando il replay per l’ennesima volta. Rooney esce dal campo qualche minuto dopo, zoppicando a testa bassa. Il Portogallo pareggia a 5 minuti dalla fine e va in vantaggio con Rui Costa nel secondo tempo supplementare. All’ultimo respiro Lampard pareggia e tiene viva l’Inghilterra fino ai rigori, dove una sorte particolarmente crudele fa commettere proprio a Vassell, entrato in campo al posto di Rooney, l’errore decisivo.

Come nell’Iliade, il destino dell’eroe determina quello della battaglia. Quel che è peggio, Rooney non riuscirà mai più a ricucire il tessuto del sogno che si strappa in questo momento. Sempre presente in Nazionale nei successivi tredici anni, nonostante i record individuali e le ottime prestazioni (o forse proprio a causa di esse) Rooney sarà il volto da copertina e il capro espiatorio di alcuni dei momenti più bassi e deprimenti della storia della Nazionale inglese: dalla mancata qualificazione agli europei del 2008 alle figuracce dei mondiali 2010, quando Rooney uscendo dal campo sibilò in una telecamera: “che bello sentire i tuoi stessi tifosi che ti fanno boo”, scatenando infinite polemiche. Dall’uscita ai quarti agli europei 2012 a quella senza vittorie dai mondiali 2014, fino alla recente catastrofe sportiva dell’eliminazione dagli Europei per mano dell’Islanda a Nizza.

Più doloroso e controverso di ogni altro resta il fattaccio di Germania 2006, di nuovo contro il Portogallo, quando nel momento decisivo per una Nazionale fortissima – Gerrard, Lampard, Terry e tutti gli altri sono maturati di altri due anni rispetto a Euro 2004, e sono davvero all’apice della carriera – Rooney ha la prima vera deflagrazione caratteriale della carriera, rifilando un pestone violentissimo all’inguine a Ricardo Carvalho. Uno scatto aggressivo che rovina una protezione di palla col corpo tra due avversari quasi eroica. L’arbitro non sembra intenzionato ad espellerlo finché non irrompe sulla scena Cristiano Ronaldo, compagno di squadra di Rooney al Manchester, che si sbraccia e mima il pestone, e subito dopo viene sorpreso dalle telecamere mentre fa l’occhiolino alla propria panchina.
Un episodio sul quale la stampa inglese naturalmente ricamerà fino allo sfinimento, e che introduce bene due questioni: quella del carattere di Rooney e quella del suo ruolo nel Manchester di quegli anni.

Il carattere di Rooney
C’è un video che sintetizza in pochi secondi la questione del carattere di Rooney, che per sua stessa ammissione fin da piccolo ha dei problemi a controllare la rabbia. Questo è il motivo per cui in carriera ha avuto un bel po’ di momenti di oscurità e reazioni violente in campo, ma è anche l’impulso fondamentale intorno a cui ha costruito uno stile di gioco inconfondibile.

Il video è stato ripreso durante una partita contro il Newcastle nel 2005. Rooney corricchia all’altezza della lunetta del centrocampo, protestando con l’arbitro che lo ignora. Ha un piccolo gesto di stizza, lo insegue, cerca di farsi sentire. Sembra disinteressato all’azione, ovunque essa si stia svolgendo. Improvvisamente un pallone spiovente entra nell’inquadratura, e ci rendiamo conto di essere arrivati a una decina di metri dal limite dell’area di rigore. Rooney lascia perdere l’arbitro, si coordina e rifila un calcione al pallone con la stessa rabbia con cui io o voi potremmo dare un pugno al muro o un calcio alla sedia durante una lite molto accesa con il/la nostro/a fidanzato/a. È uno dei gol più belli della sua carriera, secondo alcuni il più bello in assoluto.




Manchester United Legend
Nel corso degli ultimi dodici mesi Mourinho si è dedicato all’impresa di scaricare Rooney con tutta la ricchezza lessicale e la capacità di variare i registri – tecnico, aziendalista, sentimentale – che gli sono proprie. Pochi giorni fa ha detto che Rooney “gli manca”, ma non poteva “impedirgli di essere felice”, una dichiarazione che ci trasporta istantaneamente in un mondo da Occhi del cuore e che probabilmente va presa con conseguente serietà. Qualche mese fa invece aveva ammesso che Rooney stava passando un “periodo difficile” nella “parte finale della propria carriera” (al momento della dichiarazione Rooney aveva trentun anni e mezzo e faceva stabilmente panchina a Ibrahimovic che ne aveva trentasei). In un’altra intervista invece si è messo a concionare con aria grave sul fatto che il calcio è una industry nella quale those who lead devono prendere delle decisioni, siano esse in sintonia o meno con i sentimenti della piazza e di loro stessi.

In realtà era chiaro da mesi che questa sarebbe stata l’estate dell’addio di Rooney al Manchester dopo dodici stagioni, e se non fosse tornato all’Everton sarebbe andato in Cina ad appesantirsi, segnare da lontanissimo e diventare ancora più ricco.
L’Everton invece è una squadra forte e ambiziosa, ritenuta da molti una delle regine di questa parte di mercato. Ceduto Lukaku proprio allo United, oltre che con Rooney i “blues” si sono rinforzati con due delle più belle rivelazioni del calcio inglese nella scorsa stagione, Pickford in porta e Michael Keane in difesa, con un giocatore ancora giovane ma di già acclarata caratura internazionale come Davy Klaassen e con due talenti purissimi come Onyekuru e Sandro Ramirez. L’obiettivo è la qualificazione alla prossima Champions League e per riuscirci l’Everton avrà bisogno di Rooney a pieno servizio, per cui non si può parlare né di una scelta unicamente sentimentale né di allontanamento dal calcio che conta.

La tentazione di fare già adesso un bilancio della sua carriera è quindi probabilmente ingenerosa sia nei confronti del giocatore che del suo nuovo club, e può essere giustificata solo dal vistoso e stabile calo di rendimento di Rooney nelle ultime due stagioni almeno, dalla sua perdita di esplosività (che peraltro era già stata vaticinata da Alex Ferguson anni fa, quando aveva scritto nella sua autobiografia che Rooney avrebbe toccato l’apice “intorno ai venticinque anni” e che non riusciva a immaginarselo “fare grandi cose dopo i trenta”) dall’impossibilità di ritagliarsi un posto da titolare in attacco anche dopo l’infortunio di Ibrahimovic, in un Manchester arrivato sesto segnando 54 gol, oltre 20 in meno di ciascuna delle cinque squadre che lo hanno preceduto in classifica e addirittura uno in meno del Bournemouth nono.

Dunque proviamoci, ripartendo dall’inizio della sua avventura con i “reds”: il “tradimento” di Rooney nei confronti dell’Everton si realizza nell’estate del 2004, con modalità brutalmente asciutte, e un senso di inevitabilità che in un certo senso lo rende ancora più amaro. Nessuno pensa davvero che il miglior giovane attaccante d’Inghilterra e forse del mondo possa restare a lungo in una squadra che in quel momento è di medio-bassa classifica, e la rabbia dei tifosi dell’Everton cresce intorno alla frustrazione per questo stato di cose piuttosto che sulla base di una reale aspettativa tradita.

Ferguson racconta nella sua autobiografia la riunione decisiva per la trattativa, a fine agosto a Liverpool, con Moyes cupo e silenzioso e il presidente dell’Everton in lacrime che chiama la moglie al telefono e continua a ripeterle «il ragazzo… ci stanno portando via il ragazzo…».
I 26 milioni di sterline pagati dal Manchester ne fanno a 18 anni l’under 20 più pagato della storia.

L’esordio immediato in Champions League contro il Fenerbahce, quasi senza preparazione, è il momento culminante della prima fase della carriera di Rooney, quella che assomiglia in tutto e per tutto a una favola. Rooney si presenta al pubblico dell’Old Trafford diventando il più giovane giocatore di sempre a segnare una tripletta nella massima competizione europea. Ancora una volta, i tre gol mostrano un armamentario tecnico illimitato: prima una gran botta di sinistro sul passaggio in profondità di van Nistelrooy, poi una rasoiata in diagonale radente al terreno da almeno venti metri, infine addirittura un calcio di punizione a giro sopra la barriera.




Al Manchester deve confrontarsi con una dimensione nuova, come un bambino superdotato che passa dalla scuola pubblica a quella per genii, guadagnando in stimoli ma perdendo il diritto di sentirsi speciale. Il confronto più immediato è naturalmente quello con Cristiano Ronaldo, che ha la sua stessa età e la stessa innata capacità di rendersi pericoloso partendo da qualsiasi punto nella trequarti avversaria. I due si trovano a meraviglia e diventano la miglior coppia di giovani attaccanti al mondo, producendo sensazionale a ritmo continuo in un tridente completato da un terminale spietato e più esperto come Van Nistelrooj. Rooney e Cristiano si completano anche esteticamente, con la postura eretta e il passo da spadaccino del portoghese che fanno da cornice alle esplosioni di forza di Rooney.

Il primo anno non vincono niente, il secondo solo una Football League Cup. Tra il 2007 e il 2009 però, con Tevez al posto di Van Nistelrooj, iscrivono i propri nomi nella prestigiosa storia dello United. Il primo anno riescono a mettersi dietro il Chelsea di Mourinho e a laurearsi campioni d’Inghilterra, venendo eliminati dalla Champions nella storica doppia semifinale contro il Milan. Nella partita di andata Rooney segna una doppietta che è lo zenit della sua carriera internazionale fino a quel momento, prima controllando e girandosi in un fazzoletto e poi trafiggendo Dida sul suo palo con una conclusione di potenza erculea e ideazione geometrica.




Qualcosa di profondo però è cambiato nel gioco di Rooney e dei suoi compagni. Cristiano Ronaldo ormai porta la maglia numero 7 per abitudine, ma si è largamente emancipato dal ruolo di ala. È libero di accentrarsi, arretrare, tastare il polso delle difese avversarie e prendere la forma delle loro peggiori paure. Anche Rooney è diventato molto più duttile, ma in un senso che ha a che vedere con il servizio alla squadra più che con la libertà creativa. Il magnete che lo attraeva continuamente verso la porta avversaria sembra essere stato disattivato e gli highlights della sua stagione comprendono più cross morbidi dalla trequarti e assist per i compagni che gol. Lo troviamo del tutto a suo agio in zone del campo in cui i grandi attaccanti di solito si avventurano solo con lo spirito delle star di Hollywood nel terzo mondo: sforzandosi di sorridere ma augurandosi che finisca in fretta. Troviamo Rooney a duellare a centrocampo con il mediano avversario senza differenze di approccio sensibili con l’avversario. Lo vediamo uscire a testa alta da un ripiegamento difensivo sulla fascia col passo sbrigativo e l’aria pratica di uno che ha fatto il terzino tutta la vita.

Questo in una certa misura accresce la sua fama e la sua popolarità tra i tifosi. Rooney fa nel calcio d’élite come un tizio con cui facevo le partitelle da ragazzino, che nella sua vera vita calcistica giocava difensore centrale a livelli molto alti e allora con noi per divertirsi faceva tutti i ruoli tranne il suo, dal regista alla punta, ed era comunque il migliore di tutti.
Allo stesso tempo Rooney inizia a rimetterci in visibilità: segna “solo” 14 gol in Premier tre in meno di Ronaldo che (fa notare qualcuno) in teoria è “meno attaccante” di lui.

L’anno dopo Rooney si rompe il piede a inizio stagione, ma rientra in fretta nel Manchester che vince (quasi) tutto: Community Shield, seconda Premier League consecutiva e soprattutto Champions League, battendo ai rigori in finale il Chelsea. L’uomo-copertina ormai indiscusso è Cristiano Ronaldo, che a fine anno vince il Pallone d’Oro. Rooney arriva solo tredicesimo, dietro tra gli altri ad Arshavin e Marcos Senna.

Ecco un altro paradosso nella carriera di Rooney: le stagioni migliori della carriera sono quelle che in un certo senso lo confinano per sempre al ruolo di comprimario, sia pure di altissimo livello.

Anni dopo Rio Ferdinand, una delle colonne di quella squadra, dirà senza mezzi termini (e forse, va detto, con una punta di orgoglio nazionalista) che Rooney sarebbe potuto essere migliore di Ronaldo, se avesse avuto il suo stesso egoismo. Ibrahimovic come d’abitudine sarà ancora meno diplomatico, e interrogato su quel pezzo della storia dello United dirà: «Rooney faceva tutto il lavoro, Ronaldo si prendeva tutto il merito».

In conclusione
Anche dopo la partenza di Ronaldo per Madrid l’infinita duttilità di Rooney, il suo essere così incredibilmente bravo a fare tutto, sarà paradossalmente l’ostacolo decisivo per impedirgli di diventare un giocatore da trenta gol a stagione. In un certo senso verrà sempre sacrificato a vantaggio di giocatori magari meno forti ma più specializzati, che si chiamino Owen, van Persie o addirittura Berbatov.


Un leggendario gol di van Persie con leggendario assist di Rooney, che rivela una volta di più una sensibilità di calcio da trequartista.

Per quanto ci sforziamo di studiare il calcio e parlarne con serietà attraverso l’osservazione e lo studio delle statistiche, il giudizio storico sui calciatori resta fondamentalmente sommario e ingiusto, perché ha a che vedere soprattutto con i sentimenti.


Non sono molti gli attaccanti di cui potete trovare su YouTube una compilation di 16 minuti in due parti dedicati a “assists and passes”.

Rooney torna all’Everton senza il tributo unanime che meriterebbe dai tifosi dello United, circondato da un velo di scetticismo e (come ha detto qualche mese fa Rio Ferdinand) con “un corpo da quarantenne”. Può darsi che a Liverpool riesca a scrivere un ultimo capitolo della sua favola, riannodando quella trama sentimentale che adesso pare sfilacciata, oppure il suo declino aumenterà in pendenza e il ritorno a casa sarà soltanto una breve tappa romantica prima di approdare in effetti in Cina o in qualche altro campionato esotico.

Credo però che la storia del calcio sarà generosa con lui. Quando le polemiche e i tweet spiritosi svaniranno, resterà il ricordo di un giocatore capace di assumersi la piena responsabilità di un talento debordante, anche quando questo lo ha portato su strade lontane dal suo immediato tornaconto personale. Rooney è un calciatore in cui l’amore per il calcio in tutti i suoi aspetti prevale su qualunque calcolo. I giocatori così sono rari e non vengono dimenticati.

STEFANO PIRI, Ultimo Uomo


Stefano Piri è nato a Genova nel 1984, ha studiato a Torino e ora vive a Bruxelles dove fa, grosso modo, il sindacalista.

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