Roberto Pagnin: Sappada? Io avrei piantato casini
IN ESCLUSIVA per Rainbow Sports Books ©
“Nuova Barina”
Fiesso d’Artico (Venezia), 9 dicembre 2017
- Roberto Pagnin, che corridore sei stato?
«Io son sempre stato un corridore impulsivo. Quando mi svegliavo la mattina, sentivo già delle sensazioni mie positive e che potevo affrontare anche una corsa difficile, impegnativa e potevo essere protagonista e mi prendevo tutte le mie responsabilità. E facevo la mia corsa e vincevo. Andavo contro anche a certe, diciamo, “contraddizioni” dei direttori sportivi, e alcune cose, però alla fine, quando uno vince, dicono sempre “ha ragione”».
- È vero che eri un corridore amatissimo proprio per questo tuo modo di correre? Tu dicevi: io vado all’attacco, perché io corro per vincere, sennò me ne sto a casa.
«Io ho sempre avuto una filosofia sin da bambino, e l’ho sempre portata avanti così. Sono nato battagliero e da piccolo fino a quando ho avuto queste grandi soddisfazioni vedevo che riuscivo a farlo, mi veniva semplice, non mi veniva complicato e quella poteva essere la cosa migliore nei miei confronti, forse davanti ai miei compagni, portando rispetto, però, son sempre stato voluto bene da tutti insomma».
- “Passista veloce” è una definizione che può calzare per il corridore che eri? E con anche tanto fondo?
«Sì, sì. Tutte le mie vittorie le ho sempre fatte da solo. Cavalcate lunghe, non mi è stato regalato niente [sorride, nda])».
- Tu sei un ‘62, quindi la tua carriera è stata a cavallo degli anni Ottanta e Novanta. Che gruppo era, che ciclismo era in quel periodo?
«Il ciclismo di allora era un ciclismo molto più passionale perché non c’era le radioline e tutte ‘ste cose che ci sono al giorno d’oggi. Il ciclismo si è modernizzato, ci son tecnologie avanzate, gli studi. E una volta invece queste cose qua non c’erano, però era un ciclismo diciamo più “evoluto” nel senso che si andava allo sbaraglio, si sbagliava, però c’era spettacolo. Adesso è tutto “sincronizzato”. Cercano sempre di migliorare i corridori, nell’alimentazione, dormono con l’ossigeno, per vedere che non prendano questo e quell’altro, cioè diventano dei ragazzi “meccanici” diciamo».
- Pagnin con l’SRM che corridore sarebbe stato? Un po’ con le briglia tirate?
«Se fosse stato un ciclismo come dici te... Io ho avuto la fortuna di avere anche dei medici che mi hanno seguito a livello mondiale e hanno visto che avevo le potenzialità, mi hanno seguito a livello di test Conconi e tutte queste cose qua e infatti da come ero prima e seguendomi a livello medico e non diciamo, “farmacologico”, però con test, io ho avuto un’evoluzione enorme. Infatti io subito all’inizio di stagione ho fatto la [Volta] Valenciana ero primo in classifica e l’ho persa per pochissimo. Son stato leader alla Valenciana per diversi giorni, con tutto il rispetto per i miei compagni di squadra, ma avevo Rooks, Theunisse, tutti gli spagnoli più forti. C’era Kelly… E andavo, con i test. E questo medico mi ha detto: “Io non ho mai visto un corridore del genere, con i test che hai, già cominci a fare questi risultati qua”. E con le evoluzioni che ci son state, con i test, così, il corridore migliora. Dato che io era già…».
- Insomma, la base era ottima…
«Esatto. Come ti ripeto, bisogna essere corridori, prima. Perché se non si è corridori, puoi fare quello che vuoi a un corridore, non diventerà mai corridore».
- Hai citato le radioline e mi dai un assist: se ti dico “Sappada”, trent’anni dopo, che cosa ti viene in mente?
«Ah, ecco: se ci fossero state le radioline, forse, quel giorno lì che Visentini ha perso la maglia rosa, che ci son state delle discussioni con Roche, molto probabilmente avrebbe avuto un’evoluzione diversa».
- Tu quel giorno eri in fuga. Che ricordi hai di quella tappa?
«Quel giorno là io ero davanti e per quelle vicissitudini poi mi sono documentato, ho parlato, alla mattina sui giornali: Visentini era stato un po’ messo da parte nei confronti della squadra. Quel giorno là c’è stata una “evoluzione” grandissima perché, tra l’altro, tra giornali, tutto il giorno di parlava in gruppo che Roche aveva fatto questo sgarbo nei confronti di Visentini. E poi dopo la cosa migliore secondo me che ha fatto Boifava – perché in quel periodo [il ds] era Boifava – ha ottenuto che Visentini avesse un cinquanta percento di ragione e un cinquanta per cento ne aveva Roche, per cui doveva gestire la squadra, perché sennò andava a discapito sia degli sponsor sia del Giro d’Italia».
- Tu corridore come avresti reagito nei panni o di Visentini o di Roche? O di un gregario di questi due co-capitani? E un Pagnin direttore sportivo che cosa avrebbe fatto al posto di Boifava?
«Beh, a quel punto, prendendo una responsabilità, perché quel giorno era una grande responsabilità, perché Boifava era preso in mezzo fra due grandi campioni, non è che uno era all’inizio e l’altro no, ecco… Erano due campioni e lui si è trovato in mezzo a una bufera e non sapeva neanche lui che cosa decidere. Però, secondo me, ha fatto bene a tenere le acque calme e tranquille. E sappiamo com’è andata. Dispiace per Visentini e mi dispiace per tutti e due, perché uno ha ragionato in un modo e Visentini ha ragionato… Se io ero Visentini, come ero caratteriale, avrei fatto casini. Roche invece, essendo irlandese, loro sono più pacati, più tranquilli, non so…».
- Tu che ricordi hai in gruppo, sia di Roberto Visentini con cui magari avevi più confidenza anche per via della lingua, e di Stephen Roche, proprio dal punto di vista caratteriale? Com’erano in gruppo? Roche era bravo a farsi degli amici, a fare favori, a chiederli e a ricambiarli…
«Visentini era una persona benvoluta da tutti, perché era un ragazzo che, da quel che ho visto e ho avuto anche il piacere di essere in squadra insieme alla Malvor, era un ragazzo simpatico, scherzava sempre. Non teneva mai il muso con nessuno. Era molto schietto anche lui, quello che ti doveva dire te lo diceva in viso, davanti. E Roche non ho mai avuto il piacere di conoscerlo personalmente. Sì, si parlava, ciao… ma niente di… mentre Visentini l’ho avuto in squadra e ho visto che persona poteva essere».
- Perché si è allontanato in maniera così totale, definitiva, dal mondo del ciclismo?
«Per me ha preso una nausea, completamente, dell’ambiente. Perché, adesso io parlo dopo tanti anni, ho staccato, mi son preso una pausa e poi ho ricominciato di nuovo in bicicletta perché io ho sempre avuto la passione della bicicletta. E son passato a livello amatoriale, l’ho preso come un gioco, non come sport, perché non mi dava da vivere, niente, però, da piccolo ho sempre auto questa grande passione del ciclismo. E quando ho provato questa dimensione ho visto che quando stacchi, le persone non ti cercano. Come se tu fossi stato una persona che non ha mai fatto niente. E questo dispiace perché quando sei tanti anni che hai fatto sport, che hai fatto vittorie, tutti ti venivano lì ad abbracciare, a darti la botta sulla spalla: dai, vieni qua. Io ho avuto, lo posso anche dire, un club di cinquecento persone. Quando io ho smesso non c’è stata una persona che mi ha cercato. Nessuno. Mi hanno abbandonato. E infatti ho avuto anche una depressione, però ho avuto i miei problemi a livello mentale quando stacchi hai una depressione, perché è normale. Perché quando passi da un mondo di sport, passi da una realtà com’è al giorno d’oggi e nessuno mi ha mai dato una mano. Mi son sempre arrangiato da piccolo e fino adesso. …
- E quindi, secondo te, Visentini ha avuto una sorta di repulsione verso questo ambiente, ma non può essere legata solo a quanto successo a Sappada. Ci sarà stato un insieme di queste situazioni a cui accennavi…
«Essendo una persona molto riservata, non aveva quella esuberanza di farsi vedere in pubblico, perché è sempre stato uno, anche quando vinceva il Giro d’Italia, è sempre stato sulle sue posizioni. Non ha mai fatto vedere più tanto di quello che… Poteva fare di più. Forse lui avrà preso una grande delusione, in generale, secondo me».
- C’era invidia in gruppo, perché comunque lui veniva da una famiglia benestante, qualche malelingua diceva che non facesse vita da corridore o comunque che era troppo ricco, troppo bello, per far fatica…. Tu in gruppo le percepivi queste cose?
«Io queste cose qua non riuscivo a capirle, cioè non riesco a capirle, perché se un corridore veramente è un corridore e Visentini aveva questa diciamo “visibilità” perché aveva soldi… Se uno ha soldi, penso che a sacrifici, a vincere il Giro d’Italia, signori miei, non esiste… Non esiste. Lui era un gran campione, ha vinto. Si è dimostrato anche disponibile con tutti. Se anche lui ha fatto la bella vita, tanto di cappello, perché non è facile fare la bella vita e correre in bicicletta. Questo lo assicuro. Però secondo me lui aveva gran, gran passione della bicicletta e i risultati si vedevano».
- Che corridore era Visentini? E Roche?
«Visentini mi sembrava un ragazzo molto concentrato sul fatto che lui aveva un obiettivo, il Giro d’Italia. E ha sempre dimostrato al Giro d’Italia di essere sempre stato davanti, con i primi. Era completo. Roche, sì lo conosco, per quel poco che ci ho corso insieme, perché lui era sempre all’estero, anche se correva con una squadra in Italia, mi sembra un po’ costruito».
- C’è una battuta, anche un po’ cattiva di Roche che diceva che Visentini appena leggeva il cartello “Chiasso”, quindi era fuori dall’Italia, si perdeva. Perché Visentini teneva tantissimo al giro, alle corse italiane e invece magari non andava al Tour – e se ci andava, ci andava credendoci poco – e invece era una corsa molto più adatta a lui, paradossalmente…
«Molto probabilmente sarebbe stato più sul tradizionale, essendo italiano sentiva più… la corsa sua era il Giro d’Italia… Io come corridore quando andavo fuori all’estero mi esaltavo, mentre in Italia ho fatto i miei risultati, però, quando andavo all’estero, avevo più risultati, a livello risultato ma anche a livello umano. Mentre in Italia questo non è mai stato».
- Vincere tappe alla Vuelta però ti ha dato quella popolarità che in Italia non riuscivi ad avere?
«Sì, esatto. Infatti, io al Giro di Spagna riuscivo a dare il doppio di quello che davo in Italia perché avevo le persone… le persone erano calorose. Ti venivano a fare i complimenti. E sentivi che era un complimento di cuore, non quelle cose che vinci sì, tanto è stato fortunato…».
- È vero che all’epoca nel gruppo comandavano gli sceriffi del gruppo? Oltre a Moser e Saronni ce n'erano altri, e in che cosa erano sceriffi?
«Nella mia carriera ho avuto diversi capitani, che mi hanno insegnato moltissimo. Io son partito con Zandegù alla Malvor-Bottecchia. C’erano [Mario] Beccia, Acácio da Silva, con noi neoprofessionisti c’erano Stefano Allocchio e tanti altri. Però in ogni squadra in cui passavo, guardavo sempre il capitano. Guardavo sempre il migliore, quello che faceva, a che ora andava a dormire, come mangiava. Io guardavo sempre loro. E quello che mi ha colpito più di tutti è stato Sean Kelly. A parte Argentin che è sempre stato il decano, quello che mi ha insegnato tantissime cose: gli allenamenti, mi portava via lui, forse perché lui credeva in me. È stato lui a venire a farmi il contratto personalmente, a casa mia. Ed io l’ho ricambiato in tutti i modi. Ho cercato di imparare tantissimo da lui. E ho visto gli allenamenti che faceva, ci metteva impegno. Non mi ha mai lasciato un attimo fermo, mi insegnava anche negli allenamenti; mentre Sean Kelly era molto pignolo, alle dieci di sera era già a letto che dormiva. Tutte ‘ste cose qua mi hanno fatto crescere, e capire i sacrifici che i campioni facevano per arrivare. Adesso ti dico una stupidaggine: facevamo il Tre Valli Varesine, dovevamo preparare una grande corsa; finito il Tre Valle Varesine si andava a fare 70-80 km dopo la corsa. Per farti capire, un capitano, per raggiungere un obiettivo cosa deve fare. In tanti pensano che sia… però, finita la gara, ottanta km di allenamento».
- Oggi è tutto diverso: finita la gara, si fanno i rulli. In che cosa è cambiato il ciclismo in questi aspetti tecnici e di preparazione?
«Il ciclismo oggi è cambiato tantissimo in confronto ai nostri tempi. Noi facevamo ottanta km su strada e invece adesso faranno quell’ora lì, saranno trenta km di defaticamento, i muscoli recuperano prima, senza andare in giro… Però il ciclismo di oggi a me personalmente non piace. Lo guardo alla televisione perché sono appassionato e ho il ciclismo nel cuore. Però, da spettatore, vedo che si mettono lì, fanno chilometri, li fanno andare in fuga, li prendono che ormai ci son già tutte le schede preparate. I direttori sportivi che hanno il monitor, questi ormai sono stanchi, rallentate…».
- Quindi una “Sappada” sarebbe impossibile nel ciclismo di oggi?
«Sì. Se io dovessi correre [oggi] in modo come correvo gli anni miei, io avrei finito di correre. Cioè mi stancherei a correre. C’era Roscioli, che era un altro come me, andava in fuga tutto il giorno. Attaccanti puri. Senza avere problemi di fare i chilometri. E ce ne son pochi».
- Mi racconti di quella volta in cui tutta la squadra voleva lasciare la Vuelta e tu sei rimasto, perché gli altri volevano preparare il Giro e tu invece sentivi una gran gamba?
«Ero con la Bianchi e il giorno prima avevano deciso di andare a casa per preparare il Giro d’Italia. E la sera io al direttore sportivo gli ho detto: “Guardi, che io non voglio venire a casa, voglio restare qua perché mi sento di vincere, domani”. “È impossibile per un corridore tenere uno staff per te solo”. Ho detto: “Voi potete andare a casa, io resto qua domani e parto”».
- Chi era il tuo direttore sportivo?
«Domenico De Lillo».
- E come lo hai convinto, poi?
«Ah, non lo so. Hanno fatto loro, poi. Hanno visto che ero talmente deciso, talmente determinato».
- E poi hai vinto, però…
«Sì, sì. Ho vinto. L’unico corridore al mondo che ha vinto da solo, senza squadra. Sono l’unico corridore al mondo»
- Che ricordi hai invece di Eddy Schepers, il gregario fidatissimo di Roche? L’unico poi in quella Carrera che è rimasto con il suo capitano.
«Io Schepers me lo ricordo al Terminillo. Quel giorno lui era con Bagot, e Schepers davanti, ed io ero da dietro, che ero in fuga con loro, m’ero staccato, avevo quaranta secondi. A un certo punto, mancavano due chilometri all’arrivo, io stavo per rientrare su di loro e Schepers si voltava sempre dietro per vedere se rientravo. E quando vedeva che rientravo allungava, per cui lo “odio” (ride…). No, a parte gli scherzi, è sempre stato uno fedele per il capitano, poi era in mezzo tra Visentini e Roche, anche lui».
- Mi racconti invece anche una pagina brutta del ciclismo italiano, per quanto riguarda i “tifosi”, che ce l’avevano con Roche, gli sputavano riso e vino rosso?
«Eh, i tifosi di Visentini molto probabilmente non l’hanno presa bene».
- Tu ti sei accorto di quelle situazioni o in quei momenti non eri vicino a Roche? Li hai visti di persona?
«No, questo no».
- Roche sostiene di essere andato in fuga, con Bagot e Salvador, per indurre i Panasonic (e quindi i loro uomini di classifica Millar e Breukink) a tirare per chiudere il buco, e così facendo avrebbe difeso la maglia rosa di Visentini. Boifava invece raccontò che una volta che Roche era entrato in azione gli gridò di aspettare Roberto, altrimenti gli sarebbe andato addosso con l’ammiraglia. Sono cose verosimili? Poteva capitare che un corridore venisse affiancato dall’ammiraglia e costretto, anche con le cattive, a fermarsi?
«Può anche essere. A livello verbale. Non penso a livello di…»
- E nelle tappe successive pare che Visentini fosse andato a cercare di far cadere Roche e Schepers. Prese una multa di tre milioni di lire per comportamento antisportivo.
«Può essere. Non l’ho visto ma sentivo che c’era discordia tra loro, quel giorno là».
- Visentini, al traguardo, urlò sotto il palco della premiazione “Stasera qualcuno va a casa”. Ti ricordi di queste cose?
«No, perché io ero già arrivato, quel giorno là. Perché lui è arrivato indietro. Io ero in fuga già davanti con un gruppetto e lui è arrivato dopo.
- Voi in squadra poi parlavate tra voi o anche in gruppo la mattina dopo o i giorni successivi in quel Giro?
«Non eravamo ancora, diciamo, lucidi, sul fatto. Eravamo documentati sul fatto, i giornali scrivevano che Visentini aveva perso la maglia rosa e Roche aveva attaccato, quel giorno. Son passati tanti anni, per cui…».
- Era un ciclismo molto provinciale quello italiano, molto autarchico, che aveva il centro del suo mondo in Italia, ma anche che all’estero faceva tanta fatica.
«Noi avevamo i corridori, una volta. Italiani forti».
- E gli sponsor erano molto legati al territorio italiano, quindi non c’era quella visibilità globale di un marchio. È per questo che le corse italiane erano così importanti?
«Sì, perché adesso ormai nel ciclismo l’importante è andare al Tour de France. Questo è il principale, perché quando uno va al Tour de France ha una visibilità mondiale. Il Giro d’Italia ha diciamo che ha un sessanta, il Tour ha il cento percento. Un corridore che vince una tappa al Tour de France e va a fare un circuito, ha già un ingaggio diverso dal Giro d’Italia».
- Nel ciclismo di oggi, per avere Froome al Giro pare sia stata stanziata una cifra attorno ai due milioni di euro. Ma questo non falsa un po’ la corsa in sé?
«E mettiamo che lui venga a fare il Giro d’Italia. E dice: io una settimana lo faccio, e vengo a casa. Cosa succede?».
- Lo chiedo a te, da corridore. E non è la prima volta che succede.
«Eh eh (sorride). Anche recentemente ci son stati i tedeschi che han detto “domani io vado a casa” [André Greipel, dopo 12 tappe, nda…]. Ma come fai a dire una cosa del genere. Io se fossi nel Giro d’Italia, non gli do neanche più i soldi alla società, se avevano fatto un contratto. Non esiste. Stai zitto, almeno. Non parlare. Dici che hai avuto un’influenza intestinale. Ma non pubblicarlo. Tra giornalisti, voi che siete là giustamente a fare il vostro lavoro, stai zitto e vai a casa, senza dir niente: perché è anche un rispetto nei confronti di tutto. E sì perché se tutti facessero così allora il Giro d’Italia?»
- C’è un Pagnin nel gruppo di oggi? A chi ti si potrebbe accostare?
«Ci sono dei ragazzi che hanno voglia di mettersi in mostra, però nel ciclismo di oggi non si può permettersi a fare ‘ste cose qua. Negli ultimi Giri d’Italia vedo che c’è più spazio anche per le fughe. Si vede che c’è qualcosa che sta cambiando. Però se io fossi un tecnico o un alto [dirigente] federale, io per avere più spettacolo leverei subito le radioline. Subito».
- Ma non è una cosa un po’ fuori del tempo? In quest’epoca, correre senza radioline, si può tornare indietro?
«Perché la Formula Uno adesso sta facendo tutta un’evoluzione nuova, la Ferrari ha detto: se non è così io vado fuori. Perché ha fatto così la Ferrari? Ci sarà un motivo se fa questa azione, giusto? Perché? Perché la Mercedes vince sempre, giusto? E la Mercedes perché vince? Perché c’è qualcosa che loro sanno. E non lo possono dire».
- E come lo vedi il paragone con il ciclismo? Cosa ti fa pensare che senza radioline ci sia modo per tornare a fare spettacolo?
«La radiolina è un mezzo che può servire per dire sì, ci son pericoli o qualcosa. Ma che senso ha? Un corridore viene dietro; come noi si andava dietro in ammiraglia, si diceva: “Guarda che fai così, così, così”, poi è il corridore che deve far la corsa. Cosa succede? Loro dicono: “Perfetto, sono dieci minuti”. Fanno già una scheda: ogni minuto dieci km: Devi recuperare, e si mettono là: vanno via ai cinquanta, 52-53 all’ora. Sanno che quando arrivano a 5,6 km, son già presi. Senza consumare, e niente. Se tu devi pensare, dieci minuti: come facciamo adesso a gestirli? È diverso».
- Però, se il Team Sky che è uno squadrone composto da corridori che sarebbero capitani in qualsiasi altra squadra, se mettono loro davanti con o senza radioline lo spettacolo lo ammazzano lo stesso.
«È diverso perché quello che è davanti, loro non sanno come sono messi davanti. O vai a tutta, perché co le radioline ti dicono “guarda che così e così”, ti dimensioni e rimani fermo là. Però se hai dieci minuti, come fai a sapere quelli là se sono stanchi, se sono bravi, se sono staccati. Come fai a sapere? Invece loro dicono “Si sono staccati cinque e sono in tre, vai tranquillo”. Se io so che sono dieci e li trovo per la strada, uno a uno li ritrovo, quanto ne ho davanti ancora?».
- Al Tour dell’87, la tappa di La Plagne, quella con l’ossigeno di Roche, che quel Tour lo vinse. Fu la tappa dell’inseguimento a Delgado, e Roche non lo prese per pochissimo, ma il bello di quell’impresa lì – quando lui arriva crolla e gli danno l’ossigeno perché sviene e pensavano addirittura che ci scappasse il morto – è che oggi non avrebbe mai fatto quell’impresa, perché non serviva: quei secondi lì Roche li aveva già guadagnati, solo che Roche non lo sapeva…
«Quando correvo con Zandegù, con la Malvor, alla Tirreno-Adriatico [del 1986, nda] era stata una giornata bruttissima, fredda, io ero in fuga. Avevo quaranta secondi, mancavano venti km all’arrivo. Cosa sono quaranta secondi per un gruppo? Niente. Io sono arrivato con 6” di vantaggio e ho vinto la tappa a Montegiorgio. Per sei secondi. [In realtà furono sette, nda] C’era la PDM, tutti squadroni forti. Se c’erano le radioline, sai dove arrivavo io? Dieci minuti indietro».
- Figuriamoci poi vincere il Giro di Puglia di un secondo su Saronni…
«Ecco. L’ho vinto per un secondo su Saronni. Se c’erano le radioline non vincevo. Perché quando son andato via su uno strappo, sono andato via per conto mio, da solo, loro non sapevano quanto avevo di vantaggio io. Se loro dicevano, “guarda che ha dieci secondi, quindici secondi. Aumentate”. Questi aumentano, mi tengono lì, ma senza radiolina come fanno loro a sapere? Tanto mi vedono là, lo prendiamo, lo prendiamo. Non sapevano quanto avevo di vantaggio. Con le radioline, ti dicono tutto. Aumenta. Aumenta. Tienilo lì, tanto vince la tappa però, viene con un secondo. Tutto questo è spettacolo».
- Mondiali di Villach '87, in Austria. Tu c’eri e facesti un grandissimo lavoro. Che piano tattico avevate per la gara, come l’avevate preparata? E poi invece come andò su strada?
«Il capitano era Argentin. Poi c’erano Saronni e Moser, che però in quel periodo non andavano tanto forte. Moser era vento là per il nome. Era un decano, uno “sceriffo” come dicevi prima te, e lasciarlo fuori era… Comunque ha fatto la sua parte lo stesso al mondiale, ha dato una mano, per Argentin».
- Quali erano i tuoi compiti in quel mondiale?
«Io da metà gara dovevo tamponare tutte le fughe, cercare di tenere compatto il gruppo, perché poi dovevano subentrare altri corridori. Ma io quel mondiale là andavo, ti giuro, a mille. Andavo fortissimo perché avevo Argentin che mi stimolava perché sapevo che poteva essere un potenziale vincitore. Ed essendo il mio capitano lo conoscevo bene. E mi dava tanta stima e per cui tutto quello che avevo gliel’ho dato a lui, insomma».
- Sbagliò qualcosa sul piano tattico Argentin? Aveva battezzato la ruota di Sean Kelly, doveva attaccare a cinque giri dalla fine invece poi aveva ritardato. Com’è andata?
«Argentin aveva il compito di attaccare a cinque giri. Poi ci son stati dei cambiamenti in gara e dopo è successo che è andato via quel gruppetto con Argentin dentro, anche, solo che c’era Kelly e c’era Roche, due corridori [irlandesi], e poi c’erano altri corridori che erano validi. E Argentin non aveva altri compagni di squadra che potevano dargli una mano. Perché se quel giorno c’era un altro italiano, Argentin vinceva il mondiale. Se mi lasciavano stare vicino a lui, molto probabilmente vinceva il mondiale. Quel giorno là io andavo il doppio degli altri. Il doppio».
- Il fatto che corresse da campione uscente può aver pesato? Marcavano tutti Argentin…
«Era il favorito, però secondo me è mancato nel finale».
- Innsbruck 2018 è un mondiale che può assomigliare a quello di Villach ‘87? E come dovrebbe giocarsela l’Italia, con Aru e Nibali che potrebbero davvero fare un grande Mondiale.
«Eh sì, ma bisogna trovare corridori di non sfruttarli al massimo, perché se va via una fuga, li lasciano contro gli italiani. Devono sempre essere uno dentro. Uno. Devono sacrificare tre corridori, e devono entrare. Metti un, due, tre corridori. Pronti-via, devono esser tre corridori davanti. Dopo che si stacchino, e tieni quei sette, o sei, o quelli che sono. Sono sei corridori che devono stare vicino ad Aru [o a Nibali]. Metà corsa penso che tre corridori riescano a farla, no? Cento, centocinquanta km riescono a farli. Son professionisti. Tre corrdiori si mettono là a disposizione, devono entrare uno alla volta. Non due. Uno. E deve stare posizionato lì, tranquillo».
- Se invece ti dico Vittorio Veneto e pioggia, che cosa ti viene in mente?
«Guarda, fatalità, quando tu mi hai detto che venivi qua a farmi l’intervista, mi sono documentato un po’ su youtube perché era tanto che non guardavo. E ho visto la vittoria di Vittorio Veneto, non so come ho fatto a farmi squalificare. L’ho guardata ieri sera dieci volte. Io mi sono spostato ma non l’ho ostacolato…».
- E il giorno dopo, hai vinto e pianto…
«Eh be’, è normale. A parte che passavo anche davanti a casa mia. Non ho mai trovato tanto pubblico così in vita mia. Mai. Le strade erano piene piene piene. Mi hanno anche tirato le uova…».
- Perché?
«Grazie alla Del Tongo. Loro on avevano colpa, però…».
- Quale è stato il Pagnin più forte in carriera?
«Della mia carriera son contento di quel che ho fatto, perché l’ho fatto sempre con voglia e in bicicletta».
- E solo con le tue forze?
«Sì, questo lo posso dire. Ho avuto la fortuna di trovare, nell’ambito del ciclismo, persone sane, che mi hanno sempre detto: vai avanti con le tue forze. Perché ne hai tante. E no ho mai avuto uno che mi ha detto: fai questo, fai quello; al di fuori.
- E quindi, il Pagnin più forte? Dimmi una corsa o una tappa…
«Io ho vinto, non tante ma quelle corse che ho vinto, le ho vinte con un mio sacrificio, proprio mio di corridore. Però la corsa che io volevo vincere a tutti i costi, era il Giro del Veneto. Correre in casa e vincere. Quell’anno son rimasto fuori dal Giro d’Italia con la Malvor di Saronni, e Giupponi ha fatto secondo al Giro d’Italia [del 1989 a 1’15 dal vincitore Laurent Fignon, nda], e avevo vinto una tappa alla Vuelta di Spagna e avevo battuto Pulido. E allora mi avevano lasciato a casa al Giro d’Italia. Ma forse perché avevano già fatto la formazione. Vabbè, comunque andavo forte. E ho detto dentro di me, io voglio vincere. A tutti i costi. Mi son messo un mese di sacrificio, allenamenti, a dormire presto. Vita da atleta, ma al cento percento. Ho fatto il Giro del veneto tramite un ragazzo che mi ha dato una mano, che è Massimo Giacon. Lui mi ha detto, io ti do una mano a vincere, tu mi fai contento a me? Ho detto: Massimo, se tu mi dai la tua disponibilità, io ti do la mia disponibilità di atleta e insieme vediamo cosa riusciamo a fare. S’è preso una vespetta cinquanta, sai ha un ritmo di marce, per cui andava come al ritmo nostro. Per un mese abbiamo fatto sempre il Giro del Veneto, in Vespa, e mi son allenato. Massaggi, allenamento e alimentazione: tutto a regola d’arte. Son arrivato al Giro del Veneto e ho vinto per due minuti e mezzo su Fondriest. E quella è stata a più bella vittoria che potevo fare. Non per dargli sul naso alla squadra perché non è giusto, però per fargli capire che volevo vincere a tutti i costi».
- Qualcosa che ha fatto tanto male a questo sport in carriera l’avrai vista. Riusciamo ancora a credere in questo ciclismo? E perché possiamo e dobbiamo crederci?
«Gli atleti del ciclismo sono atleti: devi pedalare con le tue forze, perché sennò…. Queste metodologie, cose nuove, le radioline di cui parlavamo prima, l’ossigenazione, l’altura: una volta tutte queste cose qua non c’erano. Però il ciclismo d’oggi è così».
- E il doping?
«Il doping, si sa, da quando c’era Coppi, c’era Merckx… Son tutti gli sport... Hai visto anche la Russia, son stati espulsi dalle Olimpiadi, dai Mondiali. E adesso li vogliono anche metter dentro. Però… Il doping è sempre esistito. Però c’è quello che è più furbo e quello meno furbo. E questa è una piaga. Questi atleti li si potrebbe aiutare...».
- Ma tu da corridore in gruppo cosa provavi quando vedevi gente che magari andava il doppio di te e sapevi che magari aveva la metà del tuo talento? O della tua forza fisica?
«Io non voglio rimpiangere e dire ma perché così, perché colà. Io ero pulito, mi sentivo di essere un corridore del genere. E se non ho preso sostanze o cose del genere, io sono tranquillo così perché a vincere con le tue forze vuol dire avere vinto il doppio degli altri. Il doppio. E io ho corridori che hanno dormito con me, direttori sportivi, medici, che possono testimoniare. Per farti capire una cosa: alla Tirreno-Adriatico, io avevo... non un'allergia, però sono andato da un medico omeopata e mi fa: “Roberto, vuoi avere più forza? “Sì”, ho detto. E mi ha dato un prodotto omeopatico da iniettare, che ti dà un po’ di forza, che era la Damiana. Un prodotto naturale, è una radice. Io son andato da questo farmacista e gli ho chiesto: mi può dare questo? Io non mi ricordavo se era la parola giusta o sbagliata, gli ho detto: questo. E lui mi ha dato queste punture omeopatiche. Me le facevo tutti i giorni. Ho detto, diobono, non vado forte. Era la Tirreno-Adriatico. A un certo punto, all’ultima tappa, si va a San benedetto del Tronto. C’era Citracca, che era in camera con me, e gli dico: “Citro, oggi mi faccio ‘sta puntura qua e vinco”. E invece era una puntura che serviva per problemi di allergie… per i maiali. Per chi era allergico ai maiali, praticamente. Sai, le intolleranze alimentari. E io facevo una puntura che non serviva a niente. A niente. Perché quando son tornato, Citracca fa: “Cazzo, hai fatto la puntura e hai vinto. Cos’è che hai fatto? Ho detto: “Guarda qua, che fiale ho fatto. Tieni qua. È andato dal suo medico e [quello] gli ha detto: “Ma cos’hai fatto?! È acqua…” E ho vinto la tappa, ho battuto Tafi e Baffi, Konychev e tutti quelli che erano alla Tirreno-Adriatico. Per farti capire che molto probabilmente io ero convinto che quella lì fosse una cosa che doveva darmi forza. E invece arrivavo sempre a mezz’ora tutti i giorni. E quel giorno là, fatalità, ho vinto. E ho detto: chissà, è stato l’ultimo… Ma non era quello…».
- Quale è stato il corridore più forte con cui e contro cui hai corso?
«Saronni, Argentin, Sean Kelly, poi c’era Acácio Da Silva. Poi ho corso in Francia con [Christophe] Capelle, dopo [Christophe] Rinero, che era un ragazzo molto giovane che è passato con una squadra di Marsiglia: io come l’ho visto gli ho detto: “Tu farai carriera”. Era in camera con me ‘sto ragazzo, primo anno da professionista. E aveva delle doti… Infatti, con la Cofidis, ha fatto terzo [in realtà fu quarto, nel 1998, nda] al Tour de France. Però, corridori che mi hanno insegnato e con cui avrei avuto il piacere di correre un giorno, Saronni. Moser era il mio idolo. Sempre battagliero anche lui. Correva sempre all’attacco, mi piaceva. Però come tecnica, come livello di testa, Saronni era molto più…».
- Quello che invece ti ha deluso o non è riuscito a dare di più?
«Ho corso con campioni ma hanno sempre vinto. E son sempre stato fiero di essere loro gregario o vice-capitano, quel che doveva essere».
- L’ultima cosa che ti chiedo: se siamo qua a parlare trent’anni dopo Sappada, per quale motivo ancora ne parliamo? Perché il ciclismo regala storie affascinanti come la vita?
«Sì. Se riuscissero a buttare via le radioline, secondo me il ciclismo cambia.».
- Quando rientra Pagnin nel ciclismo?
«Fosse vero. Mi piacerebbe anche a stare in ammiraglia o stare vicino ai miei ex colleghi, perché la maggior parte son tutti corridori che han corso con me. Il mio sogno sarebbe stare almeno un paio d’anni dentro nell’ambiente. Perché quando vado al Giro d’Italia, anche un giorno, non riesco… è una cosa forte, fortissima. Dopo tanti anni, undici da professionista, ne ho viste di tutti i colori [sorride…] però quando c’è il Giro d’Italia…».
- Riesci ancora a commuoverti?
«Sì, sempre».
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