Orlando Maini, il Marc Madiot italiano


di CHRISTIAN GIORDANO © 
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS © 

“Serata con Davide Cassani”
l’Ustareja d’e Sol
Solarolo (Ravenna), 15 gennaio 2018

- Orlando Maini, se ti dico “Sappada ’87” che cosa ti viene in mente?

«Mi viene in mente un gran casino, perché fra Roche e Visentini è successo quello. Alla fine ha vinto Roche, Roberto ha avuto una crisi di nervi che gli è costata cara. Probabilmente, se riusciva a rimaner più calmo – è facile dirlo, ma non è facile farlo – magari quel Giro poteva essere suo, anche perché lo meritava».

- Tu che ricordo hai invece del Visentini uomo e corridore?

«Secondo me, un grande corridore. Caratterialmente, ripeto, era un nervoso e pagava spesso questo suo difetto d’essere troppo nervoso. Un ragazzo spensierato. Un ragazzo che poteva fare a meno del ciclismo, invece correva in bici, che a quel tempo non erano tanti quelli che si potevano permettere di dire: anche se non vado in bici, a caso ho comunque un’attività che mi permette di vivere bene. Invece lui s’impegnava in bici, al di là di quello che le persone pensavano, era un ragazzo serio, che si allenava con puntiglio. E alla fine, secondo me, quella soddisfazione la meritava. L’hanno vinto i nervi, e a lui sono saltati. Anche perché a quel Giro, Roche aveva già vestito la maglia rosa, poi aveva avuto la crisi, perciò tutto volgeva verso il fatto che Visentini aveva ormai dovesse vincere il giro, Invece poi c’è stato questa di attacco a sorpresa che ha messo in difficoltà proprio lui».

- C’era anche tanta invidia in gruppo e fuori verso questo ragazzo un po’ playboy, che era troppo bello per fare “la vita” da corridore, le auto sportive, alla fine invece era solo – probabilmente – un introverso, con un grandissimo talento per lo sci, oltre che per il ciclismo. Che cosa lo ha portato ad arrivare a Sappada, perché non mi dire che bastano sei, sette minuti presi a Sappada per poi non voler più saperne dell’ambiente?

«Vabbè, quello sicuramente ha influito, perché lui caratterialmente era, come dico io, un “duraccio” che quando prendeva una linea era fatica fargli cambiare idea. Però è altrettanto vero che chi ha avuto la fortuna di correrci in squadra era anche un ragazzo caratterialmente anche delizioso. Non faceva mai pesare né la sua ricchezza né la sua bellezza a nessuno di noi. Era però il suo essere introverso faceva sì che anche in gruppo, oltre a prendere tantissima aria, perché quando dicevano “Visentini va forte a cronometro”, noi dicevamo: “per forza, anche perché ogni corsa, per lui, è una cronometro”, perché era sempre due metri fuori dal gruppo. Perciò il vento che ha preso, lo sa solo lui. Però quella era anche la dimostrazione della forza fisica che lui aveva. Lui era veramente un talento. E ricordiamoci bene, un talento in momenti in cui c’erano corridori con la C maiuscola, perciò “veri” corridori da battere. E lui spesso l’ha fatto».

- Io ti chiamo un po’ “il Marc Madiot italiano”, perché come ti agitavi tu sporgendoti fuori dall’ammiraglia, io ne ho visti pochi. Tu, da direttore sportivo, come valuti l’operato di Boifava? E cosa avresti fatto tu al suo posto, con due galli nel pollaio?

«Il problema è che a tirare la volata involontariamente a Boifava, di decidere di non decidere, è stato proprio Roberto. Perché il fatto di non mollare subito… Non di mollare subito, lui purtroppo ha dovuto inseguire una prima volta, una seconda, poi quando ha capito che era nel pallone, ha ceduto definitivamente. E a quel punto credo che Boifava non avesse più nessuna scelta perché rischiava di perdere tutto… E allora ricordiamoci che era comunque una squadra di riferimento, non ultimo l’unica [italiana] che andava al Tour de France».

- Si può dire che la Carrera fosse una sorta di Team Sky con trent’anni di anticipo? Per almeno due motivi: 1) perché cercavano sempre, dov’era possibile, gli alberghi di prima classe, i viaggi più comodi per i corridori; 2) perché aveva talmente tanti corridori forti che sarebbero potuti essere capitani in quasi ogni altra squadra.

«Sì, Sky è un satellite un po’ suo, particolare, perché comunque è una realtà veramente molto, molto alta. Però delle squadre di allora era non l’unica però una delle poche italiane internazionali, sia come programma di corse sia come corridori nell’organico. Perciò già c’era questa sorta di mentalità di andare a raccogliere il meglio delle nazioni. Perciò comunque era una realtà di tutto rispetto».

- Nel ciclismo dell’SRM, delle radioline, potrebbe accadere oggi una Sappada ’87 o comunque qualcosa di simile?

«Difficile. Difficile, perché se prendiamo come riferimento il Team Sky…».

- ...per esempio Froome e Wiggins al Tour 2012 o Landa e lo stesso Froome al Tour 2017.

«Sì, però la differenza… A parte che a quel punto erano “telecomandati” entrambi e non hanno avuto il tempo di sbagliare, perché sono stati fermati subito, però comunque tutte queste migliorie fanno sì che ormai anche il direttore sportivo abbia sotto controllo la situazione al trecento percento e a quel punto possa avere appunto il pugno fermo per decidere su cosa fare. Allora, le cose erano un po’ diverse. C’erano meno situazioni ideali nelle quali poter valutare e decidere».

- Mi tratteggi i due corridori dal punto di vista tecnico? Roche e Visentini, in cosa potevano essere simili – magari fisicamente – e in che cosa erano diversi?

«Roche sicuramente forte, l’ha dimostrato. Scaltro e sul piano tattico estremamente furbo. Visenta, forte. Caratterialmente, purtroppo, per il suo modo di reagire nervoso in automatico diventava debole, però molto forte fisicamente. E con un’attenzione particolare verso le crono; difficilmente ne sbagliava una».

- È vero che per Visentini, paradossalmente poteva essere più adatto il Tour, come genere di corsa, rispetto ai Giri disegnati da Torriani un po’ per i due sceriffi del gruppo: Moser e Saronni?

«Guarda se non correva cinque e metri fuori dal gruppo ti avrei detto di sì, fisicamente. Ma il problema di Visentini al tour era che, per come era nervoso lui e duro il Tour, nell’approccio del corridore lui avrebbe pagato caro il prezzo; ma fisicamente, per caratteristiche, era sicuramente adatto».

- Roche bravissimo a leggere la corsa, ma anche a tessere alleanze in gruppo. Un aspetto nel quale forse Visentini non eccelleva certo come Roche?

«Sì, era più bravo a parlare e a “vendersi”, sicuramente, Stephen; e Roberto, come abbiamo detto tutti, era un introverso, che magari passava per quello che non voleva, o non gli piaceva. Che poi in realtà, quando si creavano le “ballotte”, era di una simpatia unica».

- Roche o Visentini: la tua scelta di campo?

«Italiano al cento per cento: Visenta».

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