Moreno Argentin: "Visenta, te la do io la sveglia"
«Meglio correre all'estero che in Italia, dove certa gente gareggia per farti perdere e mantenere intatto il loro potere»
– Moreno Argentin
di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per Rainbow Sports Books ©
Un fuoriclasse tale da definire col proprio nome un'intera categoria di arrivi: "alla Argentin", appunto. Meno potente ma un po' à la Sagan di oggi: volata ristretta su strappetti che fan male, malissimo.
Uno dei campioni più agonisticamente "cattivi" e cinici nella storia del ciclismo mondiale. Corridore e uomo d'intelligenza acutissima, duro e tagliente come un diamante. Ma che classe.
A Sappada ''87 fu una delle menti del gruppo, se non "il" mandante (mica tanto) occulto, nel presunto golpe di Stephen Roche. Il Visenta - a dire il vero - ci aveva messo del suo, a inizio Giro, quando a una domanda sull'Argentin potenziale vincitore finale aveva risposto più o meno con un "seh, quest'anno per lui ci vuole la sveglia", per dire i minuti di ritardo che il buon Moreno avrebbe accumulato.
Epperò il buon Moreno è uno che non dimentica. Pure trentun anni dopo, alla presentazione della tappa sappadina del Giro 2018, occhi iniettati del furore agonistico che fu, saltava sulla sedia come fosse ancora in sella, per rigridare di nuovo al mondo - e al Visenta ovvio assente - "te la do io la sveglia". Stavolta, visto coi nostri occhi e sentito con le nostre orecchie.
Giù di sella, la vita è stata anche parecchio dura con l'ex iridato. Ben più dei suoi amati strappetti. Noi però ne tralasceremo le vicissitudini personali e finanziarie. Di quelle son piene le cronache.
Niente TMZ de noantri, qui. Argentin siamo andati a trovarlo nella sua San Donà di Piave, in un piovoso venerdì mattina, prima di lasciarlo ai suoi impegni con politici e business-men locali per la sua prossima scommessa, l'organizzazione della nuova corsa a tappe: la Adriatica Ionica Race.
Gentilissimo e ben disposto, nonostante il febbrone da cavallo, Moreno ci dedica il suo tempo e non lesina, nel suo stile, aneddoti e bacchettate. Ha tante idee, ma il ciclismo - quello di oggi come era il suo - su certi argomenti di modernizzazione sembra perennemente recalcitrante e ben poco ricettivo.
Capo, Capetto, Furbino, ma mai "promosso" a Sceriffo, in gruppo il Principe delle Ardenne è stato più sopportato e rispettato che amato. A parte i suoi fedelissimi, dai gregari - su tutti "Cavallo Pazzo" Pagnin, per il quale è sempre stato e sempre sarà "il mio capitano" - agli storici diesse, che per lui stravedevano.
Del primo tra i pro', Valdemaro Bartolozzi, mancato il giorno prima del sessantesimo compleanno, è sempre stato il pupillo, con buona invidia del co-capitano Visentini già dai tempi della Sammontana. Col più vincente, Giancarlo Ferretti, condivideva la spaventosa fame di vincere.
Con Ferron eran fatti l'uno per l'altro, Domenico De Lillo è stato più che un mentore. Ma è ad Alcide Cerato, per averlo fatto crescere nei dilettanti alla Nuova Baggio San Siro, che deve tutto. È lì che Moreno ha cominciato a diventare Argentin.
L'arc-en-ciel di Colorado '86 è stata l'apice, il capolavoro di una vita, ma le istantanee più rappresentative della sua carriera, nel bene e nel male, sono forse più la Liegi dell'87 scippata al duo in fuga Roche-Criquielion, la Sanremo '92 per converso "regalata" a quel Sean Kelly col quale, per marcarsi a vicenda, finì infinocchiato da quel Furbone di Roche. Corridore brechtiano il Moreno, se ne è esistito uno.
Calaluna Pasticceria
San Donà di Piave, venerdì 2 febbraio 2018
- Moreno Argentin, la schiettezza è sempre stata una tua caratteristica, nel bene e nel male.
«Esatto, per cui... Sono un libro aperto, tu lo sai che sono così… Non è che cambi con gli anni… Dipende da chi hai davanti, eh, per carità. A meno che so che uno mi tira dei trabocchetti, allora…».
- Moreno, per i più giovani, dire “Moreno Argentin” dice già tanto ma tu che corridore eri, nelle tue parole, in una tua definizione? Che gran corridore eri, scusa.
«Noi abbiamo vissuto un’epoca dove si navigava nella spensieratezza sportiva, direi, rispetto adesso, no? E rispetto a tante cose, l’evoluzione che c’è stata. La spensieratezza cos’era? Era quella che era un piacere correre in bicicletta, non era una fatica. Cioè era… Noi staccavamo tre mesi l’anno, e quei mesi erano di riposo. Volavano via, perché facevi un po’ di tutto, di più. Andavi a sfogarti. Sfogarti, non so, sci da fondo, sci da discesa, andavi a giocare a calcio, facevi un po’ di tutto. Cose che adesso sono impensabili, perché non si fermano più, i corridori, no?».
- Tu eri un predestinato da dilettante, ma da professionista hai fatto cose che sono andate forse al di là di ogni previsione…
«Sai, predestinato non direi tanto, ricordati che io non ho vinto tanto. Io ho iniziato la mia carriera giovane, avevo sei anni, però solo ho fatto sempre tanta fatica, a vincere e ad affermarmi, probabilmente ero molto esile allora e probabilmente la maturazione, son nato a dicembre, quindi… è cominciato probabilmente a scattarmi la molla, perché anch’io ho vissuto la mia adolescenza non tanto bene, perché vengo da una famiglia molto modesta. Quindi non dico che mancavano i soldi per mangiare ma insomma non mi hanno mai fatto mancar nulla eh, però, io vengo dopo tre sorelle e le mie sorelle han dovuto andar a lavorare tutte e tre, per sbarcare il lunario. Quindi venivamo da momenti duri. Io non ho mai sentito questo problema. Evidentemente coi piccoli guadagni, la molla che mi ha fatto scattare è stata da juniores, probabilmente: da allievo/juniores, quando son riuscito a vestire per la prima volta la maglia azzurra, ma non ero tra i migliori, c’era gente più forte di me allora. Quindi io non ho fatto la strada, ho fatto la cronometro a squadre, quindi, per farti capire che non ero predestinato».
- La differenza però era qua dentro, nella testa, nella tua determinazione?
«Credo di sì. Credo che questo… io ho dovuto… Quando ho capito che bisognava collegare la testa alle gambe, e non utilizzare solo la forza, perché io non ero dotato di grande forza, questo ha fatto la differenza perché mi ha permesso di sviluppare senso tattico, visione della corsa. Ho capito, i primi anni, quali erano le mie possibilità, le mie caratteristiche che mamma natura mi ha dato. E questo dovrebbe essere presente in tutti, cioè mamma natura mi ha dato delle caratteristiche, per esempio, non so, lo scatto bruciante…».
- …magari su quei tipici arrivi con una leggera pendenza “alla Argentin” da allora si dice così, no?
«Bravo. Bravo… Ma non si sapeva il motivo. Poi, col passare degli anni è arrivata anche un po’ la scienza e da lì abbiamo capito le motivazioni. Quindi io riuscivo, il mio corpo, il mio metabolismo, riuscivo a lavorare in acido di più rispetto gli altri. Quindi è per quello che riuscivo a fare la sparata e tenere, ecco. Questo è stato. Una volta che tu hai capito questo, quindi, gli ultimi anni, se ti ricordi, alla Gewiss-Ballan, erano delle fucilate, cioè, la tappa di Osimo, se ti ricordi al Giro d’Italia…».
- Quest’anno il Giro torna a Osimo… Quindi spero di trovarti là.
«Sì, m’han chiamato… Vado alla presentazione, alla tappa non ce la faccio perché io son impegnato su ’sta corsa qua… Oggi pomeriggio devo andare… che m’hanno fissato i sindaci della Pedemontana del Grappa, perché vorrei far la tappa sul Grappa io…».
- Quando sei passato pro’, l’impatto com’è stato?
«Allora, io ho avuto la fortuna di incontrare nella mia vita una persona che in quel momento aveva delle ambizioni personali di fare qualcosa per il ciclismo, ed è stato Alcide Cerato, non dimentichiamo. Senza tralasciare quello che avevo qui. Perché comunque qua avevo delle piccole società che mi garantivano di poter tesserarmi. Naturalmente il primo di tutti è stato mio padre, grande passione, tifoso di Coppi, quindi in famiglia avevo una persona che ha insistito parecchio. Io da adolescente avevo avuto qualche sbandamento, a metà stagione ho smesso, non ero proprio a posto con la testa. Quando ho capito che il ciclismo, la scuola per me non era tanto un futuro, il ciclismo poteva essere la mia strada, allora lì ho cominciato a investire, capire, studiare. Io poi son sempre stato abbastanza curioso di… alle nuove metodologie, cioè non è che mi fermavo. Perché ricordati che son “passato” che avevo dei mostri sacri, avevo Saronni, avevo Moser, avevo Battaglin, avevo Hinault».
- Tu, a differenza dei dilettanti, hai cominciato a vincere subito da professionista… E questo ti ha creato forse qualche antipatia…
«Anche da dilettante. Ti dicevo, la svolta è stata quando Alcide Cerato mi ha preso dal Veneto e mi ha portato nella squadra lombarda e ha iniziato a farci fare i “professionisti”».
- A inquadrarvi…
«A inquadrarci. Lì ho incontrato un amico, direttore sportivo, che è Domenico De Lillo, che evidentemente mi ha preso a cuore, e mi ha aiutato. Sai, ti mettono le bandine [mima il gesto dei paraocchi per i cavalli, nda] e… I veri educatori, dal punto di vista ciclistico, son stati loro, se vogliamo, e anche della vita. Perché, sai, le attività della vita quotidiane influivano sull’attività sportiva quindi… Quando io stavo via tre mesi, non me ne rendevo neanche conto. Da casa era una festa perché per noi partire da qui, da questo paesello qua, andare in Lombardia e dormire negli alberghi, o avere la signora che ci puliva la casa dove eravamo, insomma era tutto una cosa nuova. Quindi era una cosa da vivere. Poi la bicicletta è venuta dopo, prima è stato il cambiamento di vita. Poi i risultati, quello era… per me, probabilmente per me ero naturalmente dotto e mi veniva facile, quindi con poco riuscivo a… Sai, in quei momenti vigeva nella mia testa, perché le capisci dopo ’ste robe qua, minimo sforzo-massimo risultato… Quindi io ero molto pigro anche nell’allenamento. Io son passato da qua che mi allenavo tre giorni la settimana, perché questo m’avevan detto, anzi due più l’uscita il sabato, una sgambata. Ma era insufficiente. Quando son passato dilettante, ho iniziato con gli altri più grandi che mi portavano fuori tutti i giorni. io andavo fuori di testa, ma cazzo, dobbiam allenarci tutti i giorni?! Poi quando andavi alle corse vedevi che non ’rivavi, capivi… [sorride, nda] Abbiam dovuto modificare un po’… Cioè, per me è stata una lezione di vita. Non sportiva. Lo sport è arrivato dopo. Cioè, per me… Dai mondiali in poi posso dire che è stato un sacrificio. Perché eri sotto i riflettori, perché eri un uomo pubblico. Perché noi non avevamo manager, non c’era nessuno, quindi avevi un direttore sportivo che ti dava… Allora, torno indietro: quindi Alcide Cerato, De Lillo. Io dopo il primo anno da dilettante, ho firmato il contratto da professionista. In quell’anno c’era Valdemaro Bartolozzi che aveva finito l’esperienza con Moser e ha fatto una squadra nuova. Aveva lo sponsor come la Sammontana e quindi è venuto a farmi firmare il contratto per l’anno dopo. Però l’anno dopo non c’era la squadra quindi io nel dicembre ’79 firmai il contratto. Feci un altro anno perché ero militare, ’80, quindi avevo l’obbligo anche del militare, ero nella caserma dei bersaglieri di Milano di Viale Suzzani [la caserma Mameli, sede del terzo Reggimento, l’unità più decorata d’Italia, nda]. E praticamente non eravamo mai dentro perché essendoci inserito nella squadra nazionale eravamo sempre in giro. Quindi io da là cosa ho fatto? Quindi le persone-chiave: Cerato, che mi davano 250 mila lire al mese, che allora non erano spiccioli. Per dieci mesi. E sono riuscito anche a comprarmi la macchina. Coi premi, con ’ste robe qua. Macchinetta eh, però… Costava tre milioni allora quattro milioni di lire. Mi son comprato la macchina, al compimento dei diciotto anni. Tutti ’sti premi che ci davano nei piazzamenti – perché allora nei piazzamenti da dilettante, ti davano un assegno: 50, 70 quelli mi bastavano perché a casa comunque ero mantenuto. E son riuscito a pagarmi anche la macchina. A rate, ma l’ho pagata. Quindi son tutti passaggi fondamentali, importanti».
- Raccontami di quando invece hai cominciato a vincere e magari a qualche “vecchio” non andava tanto bene.
«Allora io sono passato, ritengo, professionista troppo presto. Perché avevo diciannove anni vent’anni perché fine… io ero un po’… litigai col mio commissario tecnico Angelo Laverda nell’80. Litigai perché tra virgolette non mi dava garanzie di inserirmi della squadra della pista alle olimpiadi di Mosca. E a un certo gli dico: o mi dai…, o abbiamo delle certezze allora io mi impegno, altrimenti io vado sulla strada, ché il mio futuro era la strada. Insomma mi portò, mi ricordo ancora, Antonini, che era maestro dello sport, che collaborava con Laverda, maestro dello sport, eravamo a Lecce-Montironi, adesso la pista non c’è più. E mi portò in stazione, io con la mia valigia andai in stazione, tornai a casa, e dopo due giorni andai a correre in circuito per dilettanti qui nel Trevigiano e vinsi. Quindi quella è stata la risposta a… e quindi mi son messo… avevo già il contratto da professionista in tasca. E volevo dedicarmi alla strada. Poi fortunatamente è venuto fuori che a causa dell’embargo tra America e Mosca i militari non sono andati, quindi è stato anche un… culo. Che magari se mi metteva dentro correvo il rischio che non andavo».
- Ma tu eri non eri un P.O., protetto olimpico, che magari ti bloccavano il passaggio al professionismo?
«Eravamo… “Probabili Operai”, sì, PO, noi ci chiamavamo così noi. Però se il commissario tecnico non aveva fiducia di me e non mi garantiva dentro, mi lasciava libero. Quindi mi ha lasciato libero e io son andato. Subito dopo andai con la squadra di Alcide sempre a fare il Giro della Val d’Aosta [1979] e abbiamo vinto il prologo [la cronosquadre di Saint-Vincent, nda]».
- Perché dici che non sei passato troppo presto? Non ti sentivi pronto?
«Oddio, allora: la smania e la volontà di passare era a mille, quindi io son passato consapevolmente, contento come una Pasqua».
- Poi però su strada?
«Poi però ti rendi conto che hai il fisico che non è maturo. Se tu vai ad analizzare bene, son arrivato davanti pochissime volte, nell’81, però ho vinto tre gare. Perché vinsi due tappe al Giro d’Italia [la Sala Consilina-Cosenza all'ottava e la Arezzo-Livorno all'undicesima, nda] e l’Industria e Commercio di Parato. E per un neoprofessionista non era poco».
- Non avevi neanche 21 anni…
«Bravo. Però… però, se tu vai ad analizzare gli ordini d’arrivo, vedi che non sono mai riuscito ad arrivare coi primi, o per scarsa preparazione o perché erano più forti o perché dovevo ancora capire…».
- …le dinamiche del gruppo…
«Quindi posso dire adesso che non ero assolutamente maturo e poi c’era anche il rischio di bruciarti. Probabilmente la costanza, la voglia di tener sempre duro… quindi… quindi ecco è stato un… poi quando tu “passi”, noi avevamo la squadra di dodici corridori, avevamo due ammiraglie della Opel e un furgone Ducato, per farti capire la squadra com’era composta. Adesso hanno venti mezzi. Va bè, l’evoluzione… E non passavano tanti, quegli anni là. Perché passavano sette-otto persone, non di più. E quindi ero uno dei “fortunati”. Poi ho vinto quelle… e figurati, quindi. E con me c’era Visentini. E Visentini era lui l’uomo della classifica. Quindi l’ho conosciuto da giovane. Poi ci siamo separati».
- Alla Sammontana, questo…
«Sammontana-Benotto. Io passai nell’80 con la San Giacomo per mi fecero una deroga e feci tre corse, [tra cui] Giro del Friuli e la Tre Giorni Bresciana».
- E com’era avere in squadra due tipini come Moreno Argentin e Roberto Visentini.
«Allora. Non ci incrociavamo mai, perché lui era l’uomo della classifica. Quindi lui aveva una certa preparazione, doveva puntare al Giro d’Italia, poi al Giro d’Italia lì è andato un po’ in crisi. Sai, io ero uno di quelli che non ero ligio tanto ad aiutare gli altri, no? Perché ero… ero… mi rendo conto che per riuscire devi essere egoista e portare a casa… Però se arrivi poche volte davanti non è che puoi essere utile a Visentini, quindi avevamo due strade diverse».
- E caratterialmente?
«Ma lui è sempre stato un introverso. Un personaggio…».
- A differenza tua, per dire?
«Non possiamo dire che non sia stato dotato di grandi caratteristiche, probabilmente lui aveva dei limiti mentali».
- Caratteriali?
«Caratteriali. Non è riuscito a sfruttare il meglio della sua mente. Perché credo che il segreto sia anche quello».
- Ma fisicamente era un purosangue, aveva proprio il motore di un’altra cilindrata?
«Era un purosangue».
- E il recupero? Qual era la sua dote principale?
«Ma sai, qua il motore… Anch’io sono convinto che non avevo il motore di Eddy Merckx. Però ho cercato di ricavare il meglio che potevo. Quindi anche lui sicuramente non aveva il motore di Eddy Merckx o di Hinault. E doveva con la tecnica, con la strategia, con… Doveva trovare una soluzione».
- Non sono mai stati i suoi punti di forza, però.
«No, lui era molto fragile, anche mentalmente. Non digeriva bene se in squadra c’era uno che faceva le stesse cose sue. Questo il caso di Roche e lui è stato un esempio».
- Ecco, per esempio, per come leggevi la corsa, o per la tua durezza mentale, ti ritieni più vicino a Roche come tipo di corridore? O come persona?
«Mah, Roche è stato anche lui uno che non era un superman però è riuscito a sfruttare il meglio di se stesso».
- Però come te ha fatto tanta gavetta.
«Certo. Però è stato molto… sai, nella bici bisogna essere umili, eh, non puoi pensare… Io ti ricordo che… adesso la racconto, ma allora non la raccontavo così. Prima delle corse non è che dicevo vado a correre per vincere. Mai mi sarei permesso».
- Dentro di te però lo sapevi.
«Certo. Solo gli ultimi anni dicevo vado per essere protagonista, ma non dicevo: vado sul podio. Io vado lì per correre o per salire sul podio non so cosa, ma era una mia formazione mentale questa».
- Ma ti è pesato il fatto che non riuscivi a vincere quel mondiale? E dai e dai e dai…”
«Ma sai, lì, anche lì son passato attraverso il mondiale di Altenrhein, ricordiamoci che avevo Alfredo Martini, anche lì è un’altra…».
- Tanti dicevano e scrivevano che magari peccavi di presunzione perché sapevi di avere più gamba di essere più forte e però alla fine non riuscivi. Prima di quei tre podi consecutivi non riuscivi a concretizzare tutta quella presunta superiorità.
«Allora, quando prima ti ho detto non ero fisicamente maturato. E ad Altenrhein son saltato all’ultimo giro. In altre corse lo steso, cioè non avevo quella brillantezza che dovevo avere dopo i 240 km, che l’ho acquisita col tempo. Come l’ho acquisita? L’ho acquisita esclusivamente lavorando di più, allenando la mente a sopportare i carichi di lavoro. Il segreto è lì, eh».
- Però un Viviani che ha questo stesso problema, non ce la farà mai perché non aveva le tue caratteristiche?
«Oddio, lui ha altre caratteristiche».
- Lui da 250 km in poi è un altro corridore, io non lo so se nei prossimi anni può cambiare nei prossimi anni.
«Sicuramente può cambiare. Ma un corridore come lui non può fare di tutto e di più. Lui corre tutto l’anno tra pista, tra qua e tra là… Non sei Merckx, deve far delle scelte. Io ho scelto di non fare le corse a tappe quelle più importanti. Ma questo non vuol dire che non le ho vinte, perché ho vinto anch’io le piccole corse a tappe. Le ho vinte ma di sei, sette giorni, cinque. Ho fatto terzo al Giro d’Italia, ma salite non ce n’era, chiaro? Bisogna anche esser consapevoli».
- E ne avevi due davanti mica male…
«C’era Moser e Fignon. Moser, il buon Torriani gli ha tirato via le salite, eh».
- Infatti, volevo chiederti cosa ne pensavi.
Quegli anni là c’era la moda di Torriani, quando vedeva… C’erano Moser e Saronni che erano non dico protetti, forse Saronni un po’ meno, però Moser era protetto. Cioè il Giro non riusciva a iscrivere personaggi importanti, no? Avere un Moser davanti, per lui vincere un Giro voleva dire avere una risonanza. Però mi ricordo gli han tirato via lo Stelvio, gli han tirato via tante salite. Ho vinto io sul Blockhaus, quindi… Cioè diciamo pane al pane… Tanto rispetto a Francesco, ha fatto una grande carriera, enorme, tanto di cappello. Questa non è una mia critica, però diciamo la verità. Io i primi anni, perché mi dicevamo è un furbino, no? Perché dovevo sfruttare tutto, per tentare di vincere. Dovevo sfruttare tutto. Poi magari, acquisita la maturità, capito che dovevo allenarmi di più, perché io mi allenavo eh, dopo, gli ultimi anni io mi allenavo, cioè non è che stavo lì a cincischiare. E il segreto era quello».
- Poi quando invece ti dicevano il Capo, il Capetto?
«Ma il capetto perché probabilmente ero un punto di riferimento, sì, dotato di un carisma magari più elevato degli altri e quindi era quasi automatica la cosa. Mi viene normale».
- Cioè, non alla Hinault però anche tu sapevi leggere la corsa…
«No, Hinault non era un carismatico per esempio, non quello che ho conosciuto. Un grande campione, grande forza ma non era “il Sceriffo”, il Moser di turno. Dopo, magari… almeno quello che ho visto io. Fatto di una pasta diversa».
- Tu o anche Visentini quando c’era da dire le cose le dicevate pane al pane, appunto…
«E Visenta era uno di quelli».
- Ecco, ma l’avete un po’ pagata questa cosa di mettervi contro i due sceriffi o Torriani, che annulla lo Stelvio, disegna i giuri su misura per loro? L’avete pagata secondo te?
«No, perché io ho sempre… Io, fortunatamente, quando son andato in Ariostea, ho avuto la possibilità di andare al Tour e ho saltato tre anni in fila il Giro [1990-92, nda] Perché ho detto è un’esperienza che io devo fare, non posso non fare. Perché una volta andato al Tour, ho detto: ma la differenza qual è? Che qui siamo all’università, e il Giro siamo all’asilo. Anche dal punto di vista organizzativo. Io l’ho detto».
- Puoi capire che non l’abbiano presa benissimo, no?
«Ovvio. Ovvio… Però insomma con questo non è che mi hanno tenuto alla larga».
- Spiegami il concetto che volevi esprimere, allora: l’asilo e l’università…
«L’asilo e l’università. Vedevo grosse potenzialità, allora: il Giro dal punto di vista tecnico è più impegnativo del Tour, perché ha più salite, più posti belli da far vedere cioè hai tutto quello che vuoi, chiaro? E anche dal punto di vista organizzativo era un po’… Non era sviluppato come il Tour. Il Tour è avanti anni-luce, no? È questo che io dico. Probabilmente anche per la limitatezza, con tutto il rispetto, di Torriani. Perché Torriani doveva farsi aiutare, da qualcuno più giovane, che magari è più attento. E che non è stata possibile finché… probabilmente… e tu cosa fai? Se tu sei fermo ai tuoi, alle tue tradizioni, perché il ciclismo è una tradizione centenaria, vai a rischio di non essere appetibile. Per sponsor, per… Poi, per carità, negli ultimi anni si è evoluto, però… il Giro è l’unico grande giro che paga i corridori per venire a correre. Il Tour non si è mai permesso… cioè, non è una critica, è per farti capire. Cioè al Tour tu basta che fai una tappa fatta bene e ti fai il contratto. Quindi c’è una competizione enorme, anche tra gli atleti. Qui, anche quest’anno, a Froome gli hanno sganciato un milione di euro. Non scriverlo, questo. Te lo dico, cioè…».
- Uno o due? Perché c’è chi dice due…
«Mettiamo uno, io penso due, va bè. Perché c’è anche la squadra da accontentare. Lo hanno fatto un’altra volta quando c’era Indurain. Quindi vedi che il Giro ha bisogno di personaggi…».
- Mi stai dicendo, come sostiene Zomegnan, che il Tour fa il campione e il campione fa il Giro?
«Con questo non voglio dire che il Giro sia… anzi è uno dei più grandi eventi che abbiamo in Italia, quindi chapeau. Però il nostro mondo è conservatore. È giustamente gestito dai grandi organizzatori, cioè chi tira le fila sono i grandi organizzatori, neanche la Federazione, ricordatelo. Perché quando a livello internazionale c’è stata la presa di posizione dell’UCI nei confronti dei diritti televisivi dei grandi giri, c’è stata un’alzata di scudi. Infatti son impegnati finché non hanno eliminato Pat McQuaid e [Brian] Cookson e adesso c’è il francese [David Lappartient]. Quindi ricordati sempre che chi tira le fila sono i grandi Giri, e in particolar modo il Tour».
- Certo che averne due su tre nella stessa società non è che aiuta il panorama.
«Non ti muovi. Non ti muovi, e lì… questo per farti capire che tutte le nostre lamentele da corridore, da presidente dei Gruppi Sportivi che ho fatto, dove son stato tre mesi presidente dei corridori internazionali, ho dato le dimissioni dopo tre mesi perché ho capito come funziona. Cazzo, io sono uno di quelli che vorrei essere operativo. Vorrei fare qualcosa. Dare anche un segno. E invece quando ho capito che i corridori non avevano la forza di fare qualche dimostrazione... Perché purtroppo bisogna passare attraverso qualche dimostrazione, in Italia lo dimostrano le lotte operaie nostre. Non otterrai niente. Infatti, noi abbiam perso delle piccole battaglie che magari ci potevano portare ad ottenere qualcosa di più. Per esempio, è un sistema sbilanciato. Un sistema sbilanciato: cioè, gli organizzatori introitano una montagna di denaro e lasciano i Gruppi Sportivi nel guado. I Gruppi Sportivi hanno i Gruppi che costano sempre di più e non riescono a “vendere” la visibilità perché loro, il meccanismo mondiale, è quello di vendere visibilità garantita. Tu non puoi garantire la visibilità? Adesso i Gruppi costano dai 10 ai 15 milioni di euro, cioè: dove vai? Son tutti improvvisati, cioè si chiamano professionisti ma forse alla Sky che ha una montagna di soldi e sta rovinando…».
- E che viaggia a più del doppio però perché siamo a 35…
«Bravo. Bravo, bravo. Ecco anche qua e, infatti, sento tante lamentele da parte degli altri Gruppi».
- Ecco, perché, secondo te? Non sei il primo che dice questa cosa qua? Perché stanno ammazzando il ciclismo?
«Stanno ammazzando… allora, loro è ovvio che lo fanno perché hanno capito che mettere sul piatto dieci quindi milioni di euro in più si possono permettere chi vogliono. E correndo a 360 gradi fan la differenza quindi sotto questo aspetto qua, nulla da dire, no? Però è anche vero che questo, cosa vuoi, porti via tuti i migliori corridori e li catalizzi là. Quando Sky finirà, adesso Sky è stata venduta, no? Come andremo a finire fra qualche anno? Disney: garantirà il mercato, continuerà? Però se cambia il management?».
- Ma perché la Carrera non faceva lo stesso lavoro, trenta, quarant’anni fa? In proporzione, per quei tempi…
«Sai, c’era la Mapei così. La Mapei: vergognosi».
- E allora, quando è finita la Mapei, è uguale il discorso.
«Tu devi essere in grado di valorizzare i corridori. Tu devi prendere i giovani, no? Li fai crescere e li valorizzi. Quello è il valore aggiunto. La Mapei prendeva i corridori e anche Sky, se vai ad analizzarli bene, li prendono che vanno forte, li strapagano per venire via e li fanno andar piano. È la contrattazione che io ti dico, ho dei dubbi anche nel management, qua eh, cioè… I direttori sportivi. Perché un Gruppo Sportivo deve essere in grado di valorizzare l’atleta, non di farlo andar piano».
- Ma queste cose qua le dicevano anche per la Mapei? Perché la Carrera...
«Ovvio. Certo, uguale. Perché la Carrera non era uguale alla Mapei. Poi, sì, c’era questo malumore contro Squinzi però in confronto al dio denaro, cosa fai?».
- È questo il punto. Perché alla fine tutti cercano di entrarci, poi però…
«La Mapei ha capito che il limone era spremuto fino alla fine. Sky ha capito che il limone era spremuto. Perché il ciclismo ha una grande visibilità. E se tu lo sai sfruttare bene… Ma io non sto facendo delle critiche. Io vedo un sistema malato. È sproporzionato, cioè non è equilibrato. Perché tu hai, io vorrei vedere delle squadre che acquisiscono valore commerciale, come quelle di calcio. Cioè bisogna mettere in moto un meccanismo di questo genere. Quando finirà la Sky, non vale niente la società. È chiaro? Quindi è giusto che chi ha speso i dieci anni una montagna di soldi che… Quindi bisogna inventarci un sistema, secondo me, che deve cambiare nel ciclismo, sennò più crescono i costi delle società e più vanno in difficoltà, più…. Cioè le società per potere anche investire nei giovani hanno bisogno di tempi lunghi… Quindi tu una base iniziale gliela devi dare. E loro una base iniziale non ce l’hanno. La Quick Step sai perché sta in piedi? Perché c’è un magnate appassionato che ogni anno metterà cento milioni…».
- Però già quest’anno Patrick Lefevere ha trovare un secondo sponsor (la Deceuninck, che poi sarebbe diventato quello principale, nda).
«E allora, vedi? Ma è così da sempre, non è che dico…».
- Ma anche la FDJ non bastano più i soldi dallo Stato, è andata a prendere i soldi dalla Groupama…
«Lì areavamo arrivati al punto che anche il Tour non aveva più società, squadre francesi quindi anche lui si è dato da fare a trovare le sponsorizzazioni, perché una mano gliel’ha data, il Tour».
- Senza contare che Madiot ha una bella mano su tutto il ciclismo francese…
«Bravo, quindi. È bravo, sa muoversi. Madiot era mio avversario. Marc Madiot. Mi ricordo ancora, lì ancora, la terza Liegi che ho vinto, eravamo io, Millar, e Madiot. Però credo Yvonne, il fratello, adesso non mi ricordo esattamente. Tu sai che Millar è diventato donna, adesso?».
- E ha corso per Roche, al Giro ’87.
«E ha corso per Roche». [ride, nda]
- "Ma Millar con chi corre?", si chiedeva all’arrivo, a Canazei, il suo capitano alla Panasonic, Erik Breukink. Tu che eri in gruppo, mi racconti quella tappa di Sappada che cosa ti ricordi e poi anche i giorni successivi?
«Allora, la cosa che ci ha fatto scattare, là… Io non ero… Avevo vinto tre tappe quell’anno là, maglia di campione del mondo quindi avevo un impegno normale, ed ero… E Visentini correva per la Carrera con Roche. E aveva vinto il Giro l’anno prima quindi era forte… L’aveva vinto a Gorizia, io ho vinto l’ultima tappa»
[Argentin qui si confonde: lui vinse a Gorizia l’ultima tappa in linea prima della crono finale Gorizia-Udine al Giro '83; Visentini conquistò il Giro del 1986 a Merano, nda]
- Guarda ti dico io cosa hai vinto: hai vinto a Borgo Val di Taro in volata, a Montalcino e a Roccaraso.
«Io quell’anno lì mi ricordo si partiva da Jesolo… Mi ricordo che siam partiti da Jesolo. Visentini, forte della vittoria dell’anno prima, poco furbo, perché, capisci, mentre Roche riusciva a curarsi le pubbliche relazioni nel gruppo, e io dico poco attento, no furbo: poco attento, l’hanno intervistato e gli dicono: E Argentin? Ma io non avevo velleità di vincere il Giro, quindi ero già stracontento di quello che avevo fatto. E lui mi fa: a fine Giro Argentin dovrà mettersi la sveglia per contare i minuti. Questa… C’è scritto anche… Queste robe qui dopo…».
- Dopo, a te t’è saltata la mosca al naso…
Bravo. Io ero morto, perché in quel strappetto… Perché non era una tappa impegnativa eh, si partiva da Jesolo, si faceva il Monte Rest e poi Sappada…».
- Ma verso Sappada non era una salita da prendere quasi sette minuti.
«Ma è andato in crisi patocca… Come l’abbiamo visto in crisi, io ho fatto lo scattino del morto, eh? Io ho fatto lo scattino del morto quando gli ho dato la… quando ho sentito “si stacca Visentini”, avevo radio, pum! Ho acceso le micce dopo…».
- Questo per dargli una lezione?
«Ma certo, per metterlo in difficoltà».
- Ha vinto van der Velde.
«Ha vinto van der Velde. Ma c’era anche Rominger in mezzo. E quindi lì ha beccato… Poi lui è mandato in crisi, per il discorso…».
- Ma tu volevi toglierti ‘’sto sassolino? Tipo: ti faccio vedere io…
«Ovvio. ’scolta, scattano questi meccanismi quando sei… Convinto di non potergli… cioè se lui sta bene, non gli faccio neanche aria. Il mio scattino che ho fatto. Ma essendo in crisi, figurati te. Poi lui veramente ha avuto un calo psicologico, perché lì ti attaccano tutti. E io non sono in classifica…».
- E il giorno dopo?
«Il giorno dopo mi ricordo che ha vinto… Lì il grande problema l’aveva in casa, tra lui e Roche e Boifava che cercava di metterli d’accordo. Il giorno dopo mi pare che arrivavamo a Canazei e ha vinto van der Velde».
- Sì, le ha vinte tutte e due lui, un pazzoide… In senso buono, eh.
«Mi ricordo che andò via, mi ricordo ancora adesso, pazzoide… per non dirti altro, è meglio lasciar stare. Aveva un motore… è andato via, nessuno gli è andato dietro: dove va questo qua, mancava sessanta settanta chilometri… è arrivato con due o tre minuti, se non di più. E noi facevamo il Fedaia quell’anno là. E mi ricordo che c’è stata la selezione, io tenni duro sul Fedaia, cioè mi staccai, mi staccai a due chilometri dalla cima. E poi grazie, avevo un compagno, Alberto Volpi, mi aspettò Alberto e a Mortes??? (Ortles???) sul falsopiano siamo riusciti nei primi km di salita siamo riusciti a rientrare. Siamo rientrati su ‘sto gruppettino di sette-otto e siamo arrivati a Canazei e ho vinto la volata [degli inseguitori, poi però fu retrocesso dal 2° al 12’ posto, a 2’24”, e quindi privato degli abbuoni per le spinte ricevute sulla Marmolada, e con lui una cinquantina di altri corridori tra cui Rominger, Pagnin, Saronni, Cassani, Bombini, Fondriest, Anderson, Corti, Planckaert, nda]. Però poi stato retrocesso perché nel Fedaia un giudice che era dietro di me, io mi ero staccato, ha ritenuto che una spinta di un tifoso fosse troppo eccessiva. Quindi mi ha squalificato e mi ha portato al quarto posto [in realtà 12° a 2’24”, nda]. Quindi ho perso… Ero maglia di campione del mondo».
- Le spinte, un’altra cosa che faceva impazzire Visentini.
«Noi non avevamo le spinte, c’era un tifoso…».
- Al di là del caso tuo, parlo in generale.
«Io sono passato che le spinte erano state abolite, quindi non ho vissuto quel momento là. Però una volta c’erano. E infatti…».
- Qualcuno anche un passeggino in macchina. Anche…
«Questo è successo sicuramente nella tappa del Gavia, più di qualcuno è salito in macchina. Però son casi sporadici, lì era un tempo veramente infame, dai. Io neanche ero a quel Giro… Son stati anche troppo bravi».
- Ma voi come la vivevate questa cosa qua? Per voi è cambiato qualcosa in corsa? Con questo dualismo…
«Noi cercavamo di approfittarne. Cioè conoscevamo il dualismo, anzi semplicemente non ci davano… poi lui è andato al Tour. E quindi figurati…».
- E poi al mondiale. Mi racconti quel mondiale lì che alla fine tu avevi gli occhi addosso, sembrava fatto apposta per te.
«In effetti non era così. Percorso abbastanza… non durissimo».
- La pioggia ha inciso…
«Eh! La pioggia ha inciso. Io mi chiedo ancora come ho fatto a tener duro tutti quei chilometri».
- Roche nei suoi libri – anche se cambia versioni – lui ha aperto le tende alla mattina e ha detto: Oh, piove, e gli è balenato il pensiero. Sennò neanche ci pensava a vincere, è arrivato quattro giorni prima a Villach, senza preparazione, aveva fatto i circuiti in Irlanda, aveva picchiato un'altra volta il ginocchio, poi ha visto che pioveva e lì è cambiato tutto.
«Io invece il mondiale lo sentivo perché di notte c’erano i temporali, e quindi ti svegli e… Quindi cosa vuoi, io ho sempre dormito poco le ultime notti».
- E invece l’anno prima avevi fatto la scelta giusta perché tu e Beppe avete fatto al Coors Classic, siete stati quaranta giorni là. E invece gli altri, tipo Kelly, che è arrivato quattro giorni prima…
«Quando prima ti dicevo che son sempre stato attento alle nuove metodologie. Io ero già nell’82-83, col gruppo Assi, capitanato da Angelo Laverda, maestro dello sport, e un gruppo di tre-quattro maestri dello sport, ricordiamoci che noi… che il Coni aveva sfornato dei grandi preparatori. Erano questi maestri dello sport., Ferretti è uno di questi maestri dello sport. Ha fatto anche lui il corso. Al di là di questo diciamo… io avevo anch’io sperimentato l’altura, quindi con questi, col gruppo Assi, mi andavano su in montagna. Io ho passato diverse giornate, diversi periodi sul Bernina, c’era l’ospizio prima, adesso c’è un albergo. Ma se tu hai occasione di passare, prima c’era un ospizio senza balconi, con le mucche, a 2400, quindi andavo su tre settimane, mi allenavo lì…
- Sei stato uno dei primi a farlo?
«Certo, credo di sì. Credo di sì. E mi allenavo lì e stavo là e fatto sta che quando è capitato il mondiale, son andato via quaranta giorni prima perché sapevamo che dovevamo anticipare. Quella è stata la svolta secondo me».
- Perché della tua squadra alcuni sono andati altri no, dipendeva dai programmi?
«C’era la Coors Classic che era una gara per squadre quindi ero con la mia squadra, poi si sono fermati solo i compagni che erano stati selezionati da Martini. Ma quell’anno lì non c’era nessuno tranne me della mia squadra. Quindi son tornati tutti a casa. Quindici giorni prima, è finita la Coors Classic».
- Tu invece sei rimasto lì.
«Io son rimasto lì. E mi son allenato…».
- Ma con la testa c’eri, perché ho letto anche di un ritiro molto noioso.
«Sai, stare quaranta giorni là. E abbiamo in qualche maniera l’abbiamo fatto passare. Infatti finita la gara siam tornati a casa subito».
- Tranne Bugno. Che è andato in vacanza negli Stati Uniti. Mi racconti quell’aneddoto? Tu che giocavi con Beppe e a biliardo e lui era più bravo perché ce l’aveva in casa. E tu gli fai: eh, però, tu ce l’hai a casa… E lui ti ha detto: còmpratelo anche tu…
«Era l’unico svago, mi ricordo ancora eravamo all’hotel Cheyenne, Colorado, alla sera avevamo un tavolo da biliardo, io il biliardo l’ho imparato nella mia infanzia, nella mia adolescenza, che andavo al bar con gli amici a giocare, quindi avevo un po’ di dimestichezza, ma non avevo… Cosa vuoi, lì abbiamo anche sperimentato, mi ricordo… andavamo… siccome non c’erano strade per allenarsi, c’erano tutti rettilinei, autostrada, una roba schifosa».
- Anzi i poliziotti vi hanno anche richiamato quando siete usciti ad allenarvi dove non potevate andare, vero?
«Bravo. E siamo andati alla ricerca di qualche salita, no? Quindi andavamo dentro sui canyon, lì, però più di qualche volta erano strade sterrate, battute ma sterrate. E quindi ci siamo allenati parecchie volte su quelle strade lì, quindi anche faticose. Però era, cosa vuoi, la novità, il piacere, perciò, le sei sette ore dovevi farle…».
- Ma com’era avere in squadra avere tanti galli, perché lì ce n’erano tanti di galli…
«Guarda, finché c’è stata la gestione-Martini, noi non abbiamo mai avuto problemi. Noi sapevamo che quando arrivavamo in ritiro, quando ci convocava, già noi cambiavamo la mentalità, perché sapevamo…».
- Perché lui era un abile diplomatico…
«Bravo. Avevamo la responsabilità della maglia azzurra. Lui ce la faceva pesare».
- Nel senso migliore del termine: vi responsabilizzava.
«Certo. Se tu guardi anche il mondiale di Goodwood, quello che ha vinto Beppe, che c’era una guerra micidiale tra lui e Moser, anche lì Moser si è messo a disposizione all’ultimo giro per lui. Anche se non ne aveva, quello che doveva fare l’ha fatto. E perché lo ha fatto. Perché c’era una grossa responsabilità. Cioè quando, tu devi essere anche onesto intellettualmente, ritieni di non essere all’altezza della giornata, ti metti… ti sacrifichi per gli altri. E questo è stata sempre la filosofia di Martini. Noi non siamo mai partito, anche a Colorado che io venivo da un momento… mi ero rotto la clavicola… Lui comunque aveva fiducia in me, gli ultimi giorni mi accompagnava fuori, mi parlava. Io non ho mai avuto problemi di leadership perché sapevamo che non c’era un capitano unico. Mai. Cioè nella strategia di una corsa, non può mai essere un capitano… se viene la tosse, la foratura, la caduta, rimani…».
- Però a Zolder 2002…
«Zolder era pianeggiante completamente e quindi anche là devi far delle scelte. Però avevi gente come Lombardi, o Petacchi. Non è che avevi… delle scartine».
- È il problema di adesso.
«Adesso hai Viviani, sulla carta».
- E come massimo devi far quarto con Trentin [quarto a Bergen 2017, secondo a Harrogate nel 2019, nda].
«Bravo. Quindi devo anche là esser capace di scegliere le persone giuste per quel percorso e farli muovere intelligentemente. Io son stato anche critico con Cassani. Mi ha chiamato dopo il mondiale perché mi sono permesso di dire…».
- Tu sei andato giù…
«No, non son andato giù… Ho detto io avrei fatto correre diversamente, non ho detto… se sono lì mi chiamano per commentare, sto a casa allora se devo commentare… poi ho visto che anche Beppe è andato giù anche lui pesante».
- Anche Cipollini.
«Anche il Cipolla. E va bè. Cosa vuoi che ti dica. Questo è il nostro mondo. Questo è il nostro mondo…».
- E tu come avresti corso, quindi?
«Io avrei innanzi tutto scelto delle persone diverse, le avrei responsabilizzate… Perché, Martini cosa faceva? Sapeva che tu puntavi al mondiale, già da gennaio».
- Ma non ci sono quelli del tuo spessore, oggi. Sono tanti soldatini.
«D’accordo. Devi prendere i migliori che hai. Devi prendere i migliori che hai. Le mezze… i mezzi capitani devi farli muovere a cinquanta km dall’arrivo».
- In questo ti seguo…
«Quest’anno che c’erano… il De Marchi, che cazzo lo mandi... Se l’hai preso per fare il “mulo”, con De Marchi ci deve essere un mezzo capitano. E lui deve tirare per un mezzo capitano, perché obblighi gli altri a tirare e Viviani sta a ruota».
- Altrimenti uno come Sagan lo porti in carrozza fino all’arrivo.
«Bravo. Ha avuto culo. Perché comunque a pochi chilometri dall’arrivo il gruppo s’è ricompattato. E lui è forte, lui è un fenomeno, niente da dire. Però rendigli la vita almeno dura».
[Moreno poi torna su argomento che, intuisco, gli sta a cuore, nda]
«Quindi cosa ti posso dire della mia infanzia? È stato un ciclismo spensierato, per me. E certo, non è stato facile però… però quando ho capito che il nostro sport è sacrificio e dedizione, la chiave è lì. uno deve, soprattutto adesso che s è ancora più evoluto, è molto più sofisticato. Tu vedi… una volta, cosa vuoi, anche il discorso alimentazione, noi non la curavamo tanto. Adesso son tutti bei magri… Guai a…».
- Anche troppo, dici? Nel bene nel male. Addio anticorpi…
«Dipende insomma. Però l’evoluzione ma come fai a fermarla? Se hai uno che va più forte perché è più quadrato, il Froome di turno non è dotato di classe infinita questo qua, si è costruito negli anni. Tanto di cappello. O no? È brutto da vedere, in bicicletta. Pare… Però, cazzo io apprezzo questa gente qua. Anche se sono dell’avviso che se uno ha un certificato deve curarsi a casa e poi viene alle corse. Qua l’UCI non può fare ’ste cazzate qua. Perché crei delle discriminazioni. Io se fossi in gruppo, sicuramente uno sciopero veniva fuori. Sette otto che han il certificato, stai a casa, ti curi poi vieni».
- E questa è la parte, e poi a parità di sostanza per non parlare delle quantità, ma come Ulissi nove mesi, Petacchi un anno, non due ma 18 pesi e 18 misure… Del grano...
«Sììì, io capisco. Bravo. Allora hai capito, perché quando ti dico che gira troppo denaro, hai sempre paura che ci siano… Questo è il nostro mondo. Anche se tu vai analizzare il periodo di Pantani, secondo me c’è stato qualcosa che non ha funzionato. Perché ha illuso un ragazzo di essere indispensabile per un movimento ciclistico. E probabilmente lo hai anche coperto, protetto, tollerato. E lui gli ha preso la mano, poi quando era incontrollabile l’han lasciato che si ammazzasse. È andato in depressione. È andato. Se vai ad analizzare».
- Detta in maniera cruda ma forse è andata così. Prima parlava di progresso, evoluzione eccetera ma quindi nel ciclismo dell’SRM, delle radioline una Sappada oggi potrebbe essere possibile? Un tipo di tappa così? Con il colpaccio del co-capitano che alla fine invece che difendere la maglia rosa attacca due volte, si porta via il suo gregario...
«Mah, adesso non ho presente il percorso, però… Io voglio vedere, mi viene in mente il Landa di turno, in passato».
- Al Tour 2017, ma anche il Froome con Wiggins nel 2012…
«Io con quel carattere che ho io, se sono in corsa, faccio i cazzi miei, cioè scusami, sai. Cioè se ho le possibilità di poter vincere un Giro io faccio il Giro. Quello lì dice: sì, già, aspetta che faccio il prossimo… No. È perduto».
- In squadra da te non è mai accaduto? Io ti aiuto al Giro e tu mi aiuti al Tour o viceversa?
«Diciamo che io ero un corridore da corse di un giorno quindi non mi è mai capitato».
- Non a te ma magari nelle tue squadre?
«Ferretti quando eravamo in Ariostea ha costruito una squadra da corse di un giorno, quindi non avevamo mai ’sto problema qua. Avevamo il problema di vincere tappe, abbiamo vinto una cronometro, abbiamo passato dei momenti strepitosi da lui. Perché è veramente un tecnico – era un tecnico perché adesso l’età… – bravo, preparato, stimolava. Io quegli anni là lui sapeva già, e questo per me era orgoglio e fiducia, veniva in camera e mi diceva: come corriamo? Ho detto: Tu cerca di... Organizza la squadra in modo che, in base al percorso che era, ci sia assistenza in caso di forature, in caso di distacchi... E lui su questo riusciva a motivare i compagni in una maniera veramente forte. Quindi avevamo in Belgio otto soldati, cioè io ero l’ottavo ma avevamo sette soldatini, elmetto in testa, e andavamo in guerra come mentalità. Perché? Perché ci preparava lui, sceglieva anche lui questa mentalità dei corridori».
- È il direttore sportivo a cui sei più legato?
«No, non son stato. Io son legato all’infanzia [intende l’adolescenza/giovinezza, nda], quindi ho... Con De Lillo mi trovo ancora perché poi De Lillo l’ho inserito nel mondo professionistico. Abbiamo fatto fino all’89 con la Gewiss-Ballan, Gewiss-Bianchi. E poi lui… io son passato in Ariostea e lui è andato da un’altra parte. Lui diciamo che è stata una parentesi che ho avuto modo di conoscere. Lui mi ha sempre apprezzato e…».
- E quello invece con cui ti sei trovato meno, per vari motivi, di corsa, caratteriali, professionali?
«Io ho sempre cercato squadre dove avevo la certezza di avere, per esempio anche con Emanuele Bombini che eravamo insieme, quindi c’era motivo di… Sapevano cosa potevo dare io. E quindi gli ultimi anni mi sono prestato. Per esempio noi gli ultimi anni si correva per… Avevamo il Berzin di turno, correvo per quello che garantiva maggiori garanzie. Questa era la filosofia. Cioè non è come Visentini: parto io capitano. Dimostralo. Cioè, se hai in squadra uno come Roche, cioè devi dimostrarlo staccandolo. No? Pensando che si giocano le cose a tavolino, lui se Roche molla…».
- Perché poi Roche veniva da una primavera strepitosa, quasi perso l’86 per gli infortuni, poi ha vinto… Non lo devo dire a te. Anzi, raccontami tu cosa è successo in quella Liegi lì, dell’87.
«Quella lì… lì io… Io non ero in grandissima condizione, però sufficientemente avevo una condizione sufficientemente adeguata e… è successo che nell’ultima salita, mi pare che era la [des] Forges, o quella dell’Università. Adesso non mi ricordo… e Criquielion non vedeva l’ora e Roche di staccarmi perché se tu vai a vedere gli ordini di arrivo eravamo sempre… cioè Criquielion c’era ancora prima che arrivassi io alla Liegi davanti, quindi lui è sempre stato frustrato e bastonato, poverino. E ho dovuto mollare perché sotto gli scatti di Criquielion e Roche mi presero i crampi e ho dovuto mollare quindi dovevo star seduto e ho cercato di andare su piano piano, piano piano, finché loro sono andati e noi abbiamo formato un gruppo di tre corridori, io, Yvon Madiot e Millar mi pare. Cioè inizialmente io ormai ero lì, cazzo, se mi stacco… se ne avessi sarei stato coi primi, loro non credevano ai miei crampi, perché io saltavo i cambi inizialmente, finché non abbiamo scollinato, che era una strada a quattro-sei corsie, e poi si scendeva dritti a Liegi, e non mi credevano. Non mi credevano e son rimasto là cinque-dieci minuti a recuperare poi ho iniziato a dare i cambi perché la strada era in discesa e quindi… E vedevamo loro, avanti. Quindi, all’inizio non ho collaborato con loro, quindi mi hanno visto male, e poi iniziai a girare ma non giravamo con molta convinzione. Quando abbiamo visto la distanza che si stava… che non erano poi così lontano, però avevano a un minuto e dieci, un minuto… E si avvicinavano sempre di più, abbiamo girato perché abbiamo detto: dietro… Non dobbiamo farci prendere da dietro. Loro comunque han girato, tutti quanti. E quindi davanti mancando le radioline non si sono accorti che noi stavamo rientrando, loro hanno rallentato perché giocavano. Si son fermati loro, eh, perché sennò… tira te che tiro io, tira te che tiro io, quando ho fatto la curva che ho visto che erano lì, non ci ho più… cioè è stata una cosa istintiva, non preparata. Son scattato. Ho fatto un primo scatto e li ho raggiunti. Questo scatto ha creato scompiglio in Millar e Yvonne Madiot che avranno detto: guarda che bastardo questo qua, non ha tirato… Però i crampi passano, non è che durano tutto il giorno. Cazzo, come mi sono accodato sono andato via dritto, mancava poco e… è andata. Lì è stata la fortuna della mia vita».
- E invece Villach? Lì l’hai vissuta un po’ dall’altra parte?
«C’è sempre la compensazione, infatti, io dico nella vita c’è sempre la compensazione. E lì mi bastavano ancora cinquanta metri e…».
- Ma com’era il piano? Ai -5 km dovevi andar via tu?
«No, lì non c’era. Se tu hai visto l’economia della corsa, non si riusciva ad andare via fughe, noi eravamo sempre davanti e dovevano andare dentro, almeno due persone, sempre, con Martini. Naturalmente gli ultimi giri sto davanti anch’io, quindi quando hanno fatto quella menata forte che hanno staccato, hanno portato via il gruppo, io mi sono accodato a uno degli ultimi. Mi sono abbassato per non farmi vedere, perché c’è una scena che si vede ancora, perché essendo da solo e emi vedevano, ho detto: se mi nascondo, tirano e portano via il gruppo, ora che io vado avanti, perché saremmo stati venti corridori, tra cui Roche e… A un certo punto Kelly, che è un volpone, è venuto indietro chi c’era no? E lì mi ha scoperto, a ’sto punto ho dovuto anch’io girare, quindi abbiamo tutti girato… ma non era che non volevo tirare, volevo che… perché ora che vai davanti cioè gli fai vedere troppo che stai bene. Uno se va, va; altrimenti, pazienza. E lì poi, cosa vuoi, c’è stata… Mi pare che è andato via Sørensen, agli ultimi due km, e anche lì – e ha portato via, credo, Roche o Roche è entrato dopo – Io non avevo nessuno. Io se avevo un compagno di squadra magari mi teneva unito un po’ di più il gruppo, perché il compagno di squadra serve per quello. Ho dovuto essere in balia di quello che accadeva, poi siamo partiti, c’era la squadra che tirava leggermente in su, e son partito quando ho ritenuto… Son partito anche lungo, per quello, perché mi ricordo che le gambe erano… però Roche stava tornando indietro… perché da solo non è facile, la strada tira su, torni indietro. Mi bastavano cinquanta metri. E allora io l’avrei passato a doppia velocità. Tipo Basso con [Bitossi a Gap ’72, nda]. Però tieni presente che la mattina il buon Omini, che era vicepresidente della federazione internazionale, hanno ritenuto che l’arrivo fosse troppo in salita per la partenza e lo hanno tirato indietro cinquanta metri. Se lo lasciavi dov’era magari s’impiantava di più, però… Roche ha colto l’occasione. È stato bravo».
- Mi dici invece una tua valutazione il ciclismo di trenta, quarant’anni fa quello dove tu eri Argentin e quello di oggi invece?
«Cosa ti posso dire. C’è stata indubbiamente una grande evoluzione dal punto di vista alimentare, metodologia di allenamento, mezzo meccanico. Possiamo dire che correvo ancora a quell’età coi cavi dei freni fuori dal manubrio. Avevo un telaio di acciaio, cioè… C’era la Columbus allora, adesso cosa vuoi vedi che c’è stata l’evoluzione tra l’alluminio e adesso il carbonio che impera dappertutto».
- Ma tu eri con Stanga quando lui ha preso il pullman usato dalla PDM e tu hai detto…
«No, io ero in Ariostea. Anche là, io ricordo una battutaccia che io ho fatto. Visto che siamo in tema, ero in Ariostea, dove abbiamo detto: noi prendiamo i corridori e Stanga prende il pullman. [ride, nda] Se vuoi… Sai, son stato abbastanza… Noi eravamo con le solite macchine…».
- Col senno del poi, il pullman serve. Eccome…
«Col senno del poi, ho sbagliato. Devo dire che ho sbagliato, aveva ragione lui. Lui è sempre stato… su questo…».
- Un gigante.
«Devo dire di sì. Perché c’era l’immagine…».
- Ma anche la comodità per i corridori.
«Eh, ma poi lui aveva un visione di marketing completamente diversa dalla mia,. Perché io corridore non capivo».
- E adesso che sei di qua della barricata? In quante, quali cose il nostro ciclismo è rimasto troppo ancorato al passato?
«Ma noi purtroppo abbiamo le nostre squadre italiane che son rimaste, come gestione, per necessità economiche, ancorate a trasmettere poca immagine, diciamo, no. Però per fortuna che ci sono, perché se non ci fossero, se non ci fosse la Bardiani, se non ci fosse la squadra del “Principe” Savio, la Wilier, se non ci fossero questa gente qua, non avremmo veramente…».
- E però ha fatto fatica Savio questi anni, eh.
«Eh, lo so ma questi abbiamo. Per il discorso che ti ho detto prima».
- Ha fatto fatica anche Bruno Reverberi.
«Ma per il discorso che ti ho detto prima. Perché, loro cosa “vendono”? A parte che ha avuto problemi con i corridori trovati positivi, ma non “vendono” visibilità garantita. La Sky, tanto per fare un esempio, ha capito, così ha una visibilità stratosferica, a 360 gradi. Poi voi la fate girare bene insomma».
- Visentini abbiano detto che era sempre piuttosto schivo, sulle sue, invece Roche che mi hai confermato anche tu che sapeva leggere bene la corsa e sapeva dispensare favori eccetera, ecco ma in corsa voi vi siete accorti che Millar correva per lui invece che per Breukink o Anderson.
«Io non ero direttamente interessato quindi su certi arrivi non c’ero neanche là con loro quindi non potevo neanche… sì, lo sentivi, ma per noi son cose normali. È normale. Cioè quando hai un Millar, che sa di non essere vincente per il giro, fa il mercenario, cosa vuoi che ti dica? Queste son sempre successe... in tutte le corse… Ma succede anche adesso basta che leggi… Poi ci sono per dirti degli interessi automatici no? Per dire, la Sky negli ultimi anni è stata quella che è sempre stata protagonista nelle grandi corse. Magari nelle ultime tappe non è accanita di andar a prendere il corridore o il gruppetto di singoli se son corridori che non corrono per la classifica li lascia andare, capito? Quindi lì ti crei le alleanze. Che poi in ammiraglia si parlano: lasciali andare che se hai bisogno ti do una mano, quindi succede che magari, una tappa impegnativa sicuramente devi dar la mano a Sky, okay per me va bene però a quelle squadre che sai che può avere un corridore nel finale. Son logiche che…».
- In tanti ce l’hanno col Team Sky perché sai una volta c’era la visita parenti, lasciavano andar via il corridore della zona, oggi non c’è neanche più la visita parenti… non te lo permettono. Hanno sette potenziali capitani, che sarebbero capitani di altre squadre, li mettono a tirare là davanti a 50 km all’ora e nessuno va più via.
«Da noi non esisteva, cioè è cambiato il modo di correr. Adesso pronti-via, bum, da noi invece no, si partiva, c’era la visita parenti, uno andava avanti, salutava e poi si aggregava al gruppo. Adesso magari hai della gente che fanno anche i furbetti, vanno via e menano. Li chiamano i fagiani. Magrini li chiama i fagiani».
«Io sono in crisi. Ho la febbre…”
- Avevo piacere che mi parlassi tu del tuo nuovo progetto visto che vuoi rientrare nel ciclismo.
«Questo è un progetto, di una corsa a tappe, mi auguro di poter veder a Sky, devo ancora contattarla, sto aspettando di raccogliere… Ho avuto i patrocini che mi servivano dalla Regione, è una 2.1, si chiama Adriatica Ionica Race. Verrà fatta il 20-24 di giugno. Quindici giorni prima del Tour».
- Ci stiamo coi tempi per partire quest’anno?
«Sì-sì-sì. È nel calendario. Devo. Assolutamente partire. Ci abbiamo messo un po’ perché abbiamo ottenuto le date a ottobre, la burocrazia… la Regione Veneto mi ha inserito dentro di un programma si chiama GECT, Gruppo Europeo di Cooperazione territoriale, praticamente sono quei gruppi che… e dentro ‘sto progetto ci sono il Friuli e la Carinzia. Quindi il primo anno partiremo da Venezia e arriveremo a Trieste passando per la Carinzia».
- Quante tappe e che tipo di tappe.
«Cinque giorni. Ma ci saranno due tappe impegnative, impegnative per la classifica, ci sarà una cronometro squadre. E stiamo lavorando anche per avere una corsa pianeggiante negli sterrati, visto che va un po’ di moda, e soprattutto per valorizzare i territori. Perché la Adriatica Ionica Race inseriamo dentro magari quei quattro o cinque sterrati perché sappiamo che anche il Tour c’è la corsa col pavé, così si abituano…».
- Quante squadre pensi di poter coinvolgere?
“18/20. Vediamo, insomma».
- E hai già qualche nome che puoi anticipare che pensi verrà?
«Mah, allora, contratti scritti non ne abbiamo, però abbiamo avvisato tutti che lo facciamo. Adesso voglio muovermi coi passi giusti, una volta che ho almeno coperto il 50% del budget iniziamo a ufficializzare. Entro un mese la ufficializziamo. Conferenza stampa…».
- E il tuo ruolo in questa corsa? Coordinatore?
«Ma io sono quello che fa tutto, per il momento, che ha inventato l’idea… E quello che va a bussar le porte della politica, quello che andrà a bussar le porte degli sponsor. Poi stiamo facendo crescere un gruppo di operatori che mi garantisce… in sostanza».
- Dammi una chiusura. Ti chiedo se trent’anni fa fu tradimento. E, nel caso, tu da che parte stai?
«Mi parli di Sappada, vero? Mah, secondo me non è stato un tradimento, lui, Visentini doveva aspettarselo. È lui che è saltato di testa. Perché non giustifica i sette minuti che ha preso, era una tappa abbastanza facile. Quindi lì son saltati dei meccanismi mentali che già da qualche giorno lui gli dava fastidio di vedere questo Roche che era brillante e che non sottostava alle volontà di Visentini, non della squadra. Perché la squadra, secondo gli ordini di Boifava, mai avrebbe fermato Roche, li tiene là insieme, fino alla fine, poi i migliori… funziona così. e lui credo che sia saltato dal punto di vista mentale. Io non credo che né [la] Carrera né Boifava abbian detto all’inizio del Giro: Roche, tu devi aiutare lui, perché avrebbe corso in maniera diversa. Hai un campione, cioè… se accetti di far parte di una squadra, sai che hai un compagno come Visentini che l’anno prima ha vinto il Giro… Ma anch’io sono uno che è un corridore da corse a tappe, cazzo, io non posso tirare i freni, se ho la condizione, la sfrutto perché l’anno dopo non so se ce l’ho ancora uguale. Infatti ha vinto il Giro e il Tour, no?».
- Sei stato chiaro.
«Quindi nell’indole del campione c’è questo, come fai… Lì ha sbagliato Vis, anzi doveva confrontarsi dal punto di vista psicologico, tatticamente, con lui. E conquistando sul campo, su strada. È quella la maniera, è sempre stata quella la chiave».
- Ma non sarebbe stato Visentini, vero?
«Però, cosa vuoi, questo non toglie che lui sia stato un grande personaggio. Ha vinto un Giro e credo che per quello che ah dimostrato può essere contentissimo insomma di quello che abbia fatto. Perché non è riuscito a trovare degli equilibri psicologici tra la forza, tra le gambe e la testa. Poi, sai, le corse a tappe vanno gestite, e van gestiti anche i rapporti con gli avversari. Questo è fondamentale. Perché poi se parli male di me, anche se son uno che non può vincere il Giro, e però ho sempre l’indole di fartela pagare. Mi capita l’occasione, te la faccio pagare».
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