Battaglin: «Solo la montagna della sfortuna ha fermato le mie scalate»
Alla riscoperta di personaggi che hanno vissuto momenti di grande popolarità: il corridore veneto racconta le sue sfide con Merckx, Gimondi e Hinault
"Cadute, fratture e altri guai mi hanno impedito di vincere di più: però ho messo paura a tanti grandi del pedale"
di Claudio Colombo
DAL NOSTRO INVIATO MAROSTICA - Campione di sfortuna, gentleman, un esempio per tutti. Benvoluto dai leader e stimato dal gruppo. Polemiche poche, anzi niente: aveva voluto la bicicletta e non aveva mai smesso di pedalare. In due parole: ci mancherà.
Quando Giovanni Battaglin diede l' addio alle corse ciclistiche - 7 settembre 1984, alla vigilia di un Giro del Veneto -, gli articoli dedicati alla sua carriera erano già pronti, come nei giornali si usa fare - toccando ferro - per chi ci ha lasciati per davvero: nel suo caso, la notizia del ritiro dall'attività agonistica era nell'aria da qualche mese, anche perché da almeno un paio d'anni Giovanni Battaglin era una specie di fantasma in bici, una controfigura dell' esile ma tenace corridore che nei primi anni '70 e poi a cavallo con gli '80 aveva fatto sognare gli italiani: «Primo aprile 1982, Giro dell' Etna.
Nell' 81 avevo vinto Vuelta e Giro, non so se mi spiego: fino a quel momento c' era riuscito soltanto Merckx. Comincio quell' 82 con un' idea fissa: è l'anno della raccolta, dei bei soldini che arrivano a premiare una stagione d' oro. Primo aprile, dunque: se ci penso adesso, è stato proprio un bel pesce... Insomma, succede questo: a 600 metri dall'arrivo, mentre sono nel gruppetto che si prepara alla volata, Bombini, Petito e Mantovani cominciano ad alzare i gomiti, ad agitarsi. E quando scoppia la bagarre, mi stringono verso il marciapiede, tocco con la ruota, cado, mi fracasso. All'ospedale usano il pallottoliere per contare le fratture. Sono nove: costole, clavicola, un disastro. Meno male che quel Giro dell'Etna lo vinse Panizza, almeno era un amico...».
Giovanni Battaglin, naturalmente, ha messo su qualche chilo rispetto ai 58 che era ai tempi belli in cui era il Battaglin delle montagne, il camoscio delle Tre Cime di Lavaredo, del Giro '81 vinto sul filo di lana, delle tante, gagliarde sfide con Merckx, Gimondi, Fuente, Hinault.
Dalla tolda di comando della sua ditta - produce bici d'alta gamma - sfoglia volentieri il suo libro dei ricordi. Non diresti che ha un passato pieno di fatica e di sudore: veste classico, forse un po' troppo scuro, usa un telefono pieno di tastini, ha una scrivania in tek nero e una poltrona semovente in pelle. Un vero capitano d'industria. «Solo a ricordare certi nomi - dice adesso - mi vengono i brividi. E dovrebbero venire anche a chi si occupa del ciclismo di oggi: ma ci pensa quanti erano i campioni una volta e quanto pochi sono adesso? La mia è stata una fortuna-sfortuna: ho imparato il ciclismo dai fuoriclasse, ma ho vinto meno di quello che avrei potuto perché, di fuoriclasse, ce n'erano troppi. Io ero bravo, sapevo stare in bici, insomma mi difendevo: ma sono stato proprio un gran campione di sfortuna. Ah, fossi nato vent'anni dopo...».
Torniamo al Giro dell'Etna, alla caduta disastrosa, alle nove fratture sparse in uno scheletro che aveva già dato il proprio contributo alla causa: «La mia carriera ha cominciato a frantumarsi proprio lì, a Catania. Poi sono arrivati altri problemi. Un' intossicazione al Giro '83, poi un'epatite. Ho dovuto smettere, ero proprio ko. Ah, lo so che cosa sta pensando, lo vedo, lo capisco. No, il doping non c'entra. Almeno, non quel tipo di doping pesante che è arrivato dopo. È però vero che all'inizio della mia carriera da professionista, nei primi anni, qualcosa mi era stato dato, qualcosa che nemmeno sapevo, qualcosa che mi ha fatto male. E l'altra storia, quella del '79, quando al Tour mi trovarono positivo, io ancora non l'ho capita. Dissero che avevo tracce leggere di efedrina: io so che la mattina il dottore mi aveva dato una pillola di Zerinol perché avevo il mal di gola. Ma ho pagato, ah se ho pagato, certe mie ingenuità da pivello.
Al Giro '75, per esempio, vinco la crono di Forte dei Marmi, io che nasco scalatore, ma poi due giorni dopo mi sciolgo sul Ciocco. Quel qualcosa che mi avevano dato - io mi fidavo, che altro dovevo fare? - ha avuto un effetto boomerang. Morale? Quel Giro lì lo vinse Bertoglio, uno dei miei gregari, al posto mio che avrei potuto dare mezz'ora al secondo».
Rimpianti e sorrisi: «Adesso ci possiamo anche ridere su, certo. Ma all'epoca mi sarei mangiato i serpenti per la rabbia. Sempre nel '79 stavo per vincere il Mondiale a Valkenburg, in Olanda. Lo sapevo io, lo sapevano gli altri. E fu così che Thurau e Raas mi misero in mezzo: una codata e via, l'italiano va in terra e va fuori dai giochi. Peccato: quel 1979, nonostante tutto, è stato l'anno in cui mi sentivo un leone, mai stato così bene né prima né dopo.
Piacevo alla gente perché non mi risparmiavo: nel '73, al debutto da professionista, ho attaccato Merckx al primo minuto del Giro e ho smesso soltanto alla fine. Ricordo la tappa di Aosta: sa quante volte ho dovuto dire «allez, allez» al Cannibale? Non aveva visto che un gruppetto ci stava raggiungendo e mi guardava con due occhi grandi così. Avevo 22 anni e correvo da neanche quattro. Cominciai quasi per gioco, abbandonando le partite di pallone per montare sopra una bici quando ero già maggiorenne. Tutto quell'entusiasmo veniva proprio da lì, dal non essere consumato nella testa. Ero in un mondo nuovo: Merckx, Poulidor, Galdos io li avevo visti solo in tv. E adesso ero lì in prima fila a battagliare con loro.
Fuente è stato l'amico del cuore. Ricordo una sera del Giro '74: nel corridoio dell'albergo, smoccolava fumando un sigaro grosso come un salame. Bei tempi, ma potessi tornare indietro, farei meno il Garibaldi. Mangiare, bere, riposarsi e aspettare le montagne: ecco che cosa avrei dovuto fare». E rinnegare quello spirito che si porta anche nel cognome? «Sarei durato di più, avrei vinto di più, avrei guadagnato di più».
Battaglin, a ben guardare, non è mai sceso dalla bici. Amore tardivo ma fedele: ai primi scricchiolii del fisico, ha messo in una fabbrica di biciclette gran parte del capitale fin lì raggranellato. Gli è andata di lusso: oggi la «Battaglin Cicli», che ha sede a Marostica, a mezz'ora da Vicenza, conta una ventina di dipendenti e fattura 12 miliardi l'anno. Costruisce dalla «a» alla «zeta» bici da corsa e mountain-bike molto apprezzate: metà della produzione (dodicimila pezzi l'anno) finisce in Inghilterra, Spagna, Giappone e Germania. Miracolo del nord-est, uno dei tanti. Miracolo in formato famiglia. «Mia moglie si occupa di contabilità - racconta Giovanni con orgoglio -, il mercato estero è in appalto a mio figlio Alessandro, che ha 24 anni e nel suo lavoro è un piccolo fenomeno: è lui che ha introdotto qui dentro i grafici che curano fregi e colori delle bici. Che sono funzionali, belle e anche costosette: ne abbiamo dai tre-quattro milioni in su, fino ai dieci. Alta gamma, si chiama: diamo il meglio a chi chiede il meglio».
Per lavoro, ma anche per passione: «Non ho mai lasciato il mio ambiente: ogni tanto mi si vede in giro. E quando incontro Merckx, sono baci e abbracci. Adesso siamo un po' più vecchi, un po' più gonfi, un po' meno lucidi. Ma c'è stato un tempo in cui eravamo belli e forti: noi ci ricordiamo così».
Claudio Colombo
LA SCHEDA
Giovanni Battaglin è nato a Marostica il 22 luglio 1951. Sposato con Sonia, è padre di due figli: Alessandro, 24 anni e Francesca, 17.
LA CARRIERA
Passato professionista nel 1973, ha totalizzato complessivamente 43 vittorie: la prima il 22 settembre 1973 (Giro del Lazio), l'ultima il 23 aprile 1984 (circuito di Col San Martino).
LE IMPRESE
Il suo anno d'oro è stato il 1981: ha vinto la Vuelta e il Giro d'Italia con 38'' su Prim e 50" su Saronni.
IN AZZURRO
È stato otto volte azzurro ai Mondiali: prima maglia a Barcellona '73, ultima a Praga '81. Miglior piazzamento il sesto posto a Valkenburg nel 1979.
Commenti
Posta un commento