Cristiano Gatti, il quarto d'ora di umanità dell'ultimo giapponese
di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©
Se non proprio l’ultimo dei mohicani, Cristiano Gatti è rimasto uno dei pochissimi “giapponesi” cui ancora non han comunicato che la “guerra” è finita. E che bisogna arrendersi, perché l’han stravinta gli altri. Quelli di oggi.
Cronista vecchia scuola – l’unica, per forma e sostanza – Gatti a Sappada non c’era. Né era uno dei dei “Quattro dell’Ave Maria” (Beppe Conti, Maurizio Evangelista, Gianfranco Josti, Paolo Ziliani) o dei "Giovani Leoni” (Pier Bergonzi, Marco Galdi, Paolo Viberti e Maurizio Crosetti), i più celebri quartetti di suiveur italiani dell’epoca. E allora perché sentirlo? Presto scritto.
Antico sodale d’ammiraglia di Pier Augusto Stagi (Tuttobiciweb), Gatti è sempre stato un suiveur atipico. Più colore che tecnica, più storie che numeri, più uomini che mezzi. E soprattutto, niente mezzi uomini.
Antico sodale d’ammiraglia di Pier Augusto Stagi (Tuttobiciweb), Gatti è sempre stato un suiveur atipico. Più colore che tecnica, più storie che numeri, più uomini che mezzi. E soprattutto, niente mezzi uomini.
Atalantino prima ancora che bergamasco DOC, classe 1957 (30 gennaio), la stessa di Visentini e Saronni, tanto per dire; una laurea in economia e una passionaccia tutta bergamasca per i motori (fuoristrada in moto da ragazzo, F1 da inviato, MotoGP – oggi – da telespettatore), ha iniziato al Giornale di Bergamo, poi inviato speciale de Il Giorno e Il Giornale, per i quali spazia fra attualità, cronaca e costume, collaboratore di Europeo e Gente, ora columnist per CorSera e Tuttobici.
Autore di non-fiction (Romanzo ImPopolare, la sua inchiesta con Ario Gervasutti sul crollo della Banca Popolare di Vicenza) e romanziere (La grande idea; L'amore sublime; Memo e il generale; Negli anni, l’amicizia), ha in bacheca i premi giornalistici Palumbo, Piedicastello, Zanetti, Guttenberg d’oro: ma guai a ricordarglielo.
Dopo un lungo inseguimento telematico («io a Sappada non c’ero, non saprei cosa raccontarti»), lo incrocio incontro in sala stampa al Palafiori di Sanremo durante l’edizione numero 110 della Classicissima. In attesa che la corsa esploda, ne approfitto per una lezione – gratis – da un professore del mestiere. Anche qui, però: guai a ricordarglielo.
Sala stampa del Palafiori
Sanremo (Imperia), sabato 23 marzo 2019
- Cristiano Gatti, mi spieghi chi erano i “Quattro dell’Ave Maria” e, visto che non ne facevi parte, perché ti ci han tirato dentro?
«Ma chi mi ha tirato dentro?».
- Non eravate voi i “nuovi” Quattro dell’Ave Maria, quelli dopo?
«No: erano [Gianfranco] Josti, Beppe Conti, Maurizio Evangelista, Paolo Ziliani. Son quelli i quattro, che erano più anziani di noi. E c’erano prima di noi. Io sono entrato nel ciclismo per sostituire Paolo Ziliani al Giorno».
- Era l’89?
«Bravo. L’89, mi hai aiutato. Era l’89, perché Paolo Ziliani andò a Mediaset e io ero già al Giorno. Prima ero capo della redazione di Bergamo. Andando via Ziliani, l’allora capo dello sport Franco Grigoletti prese me, mi chiese se volevo andare a Milano, son andato lì e ho fatto anche altre cose».
- Un bel maestro, un signor giornalista.
«Grigoletti? Sì, grandissimo giornalista. Grandissimo, grandissimo…».
- In che cosa era grandissimo, per chi non ha avuto modo di leggerlo o di conoscerlo?
«Eh, nella fattura del giornale, poi nella scelta degli uomini. Aveva una cura… E poi aveva un grande senso per il buon giornalismo, scritto bene».
- Oggi sarebbe ostracizzato…
«Ma figurati, non c’entrerebbe niente».
- Lo prenderebbero…
«Sì, a pesci in faccia. Per lui la qualità era assoluta, era valore assoluto. Lui era famoso perché magari Il Giornoaveva un buco di un giocatore al Milan, magari che a Milanello si era infortunato, però lui magari aveva una grande storia, una grande intervista, un grande commento. Lui era avanti. Il famoso giornalismo, adesso, commentato, di opinione…».
- Più che famoso, il famigerato storytelling…
«Bravo... Bravo! Sì, sì: lui lo faceva trent’anni fa».
- E che mi dici dei “Giovani Leoni”? Bergonzi, Galdi, Viberti e Crosetti fra loro si chiamavano così…
«Quello, non lo sapevo. Vedi quante cose non so… Quelli sono arrivati in quel periodo là, agli inizi. Quelli arrivano dopo, negli anni ’89-90…».
- Sì, per Galdi (Ansa) e Bergonzi (Gazzetta dello Sport) il primo Giro fu quello dell’87…
«Sì, lui [Bergonzi] ha cominciato… Noi siamo quelli arrivati un po’ dopo».
- Quando sei arrivato hai trovato una casta, una “chiesa” dei vecchi suiveur, oppure no? Mi han raccontato che c’era un po’ un muro dei veterani del mestiere: sai, ognuno protegge il proprio orticello… Oppure per te l’impatto con l’ambiente è stato morbido?
«Guarda, sinceramente, io mi son fatto i cazzi miei. No, io avevo la passione. Mi piaceva. Però devo dire che non ho trovato neanche… Sì, un po’ c’era questa… Una pseudo-atmosfera da caserma, con i vecchi che fan le vecchie, ma c’è sempre. C’è in tutti i giornali. C’è in tutti gli ambienti. Io, poi, in quel periodo lì, con Grigoletti, ho fatto tutti gli sport. Ho fatto la Formula Uno. Facevo l’ambiente, il colore. E quindi lui mi mandava a Monza sulla Formula Uno».
- Perché tu? Era più nelle tue corde? O fu lui a battezzarti così?
«Sì, sì. E lui mi faceva scrivere… Io poi non son mai stato un tecnico di niente, anche perché la [sola] tecnica non mi piace. Ne capisco, e mi piace. Però a me non piace il giornalismo tecnico. Mi è sempre piaciuto raccontare l’umanità».
- Di quegli anni lì, di quel ciclismo lì, che cosa ricordi? Cosa ti piaceva di più e magari di meno? Com’è cambiato in questi trent’anni?
«Guarda, io comincio in pratica all’epoca di Indurain, Bugno, Chiappucci. Son stati anni bellissimi, in cui c’era tutta un’altra umanità e non era ancora arrivata la… Nonostante si dica che con Moser, con Conconi, lì sia cominciato il ciclismo scientifico…».
- Forse hai beccato l’ultimo sprazzo di umanità, vero?
«Sì-sì-sì: sì, perché poi ho vissuto tutte le stagioni, e quello è stato l’unico. C’era Pantani, e comunque era un’umanità poetica, naïf. E poi, basta».
- Che cosa ci ha portato, come movimento italiano, dal centro dell’impero in cui eravamo al non dico neanche la periferia, ma forse al sottoscala in cui ci siamo oggi?
«La mondializzazione».
- Però questo vale anche per gli altri Paesi come il nostro. Non è un po’ un alibi di comodo? E ce la raccontiamo un po’… O no?
«Guarda, quando il ciclismo lo facevano “quattro” Paesi…».
- Passi per Francia e Spagna ma Olanda e Belgio son più piccoli di noi. Eppure…
«Però tieni conto che, quando io ho cominciato a fare il ciclismo, non si sapeva manco che… Cioè: il colombiano era un elemento di colore. Era un elemento di colore. Per dirti…».
- E che in gruppo ne faceva pure cadere tanti…
«L’idea di parlare degli “inglesi” era… Francesi, spagnoli, italiani e quelli del nord per le classiche: punto. Finito. Non c’eran manco i sovietici. I sovietici sono un grande arrivo con Primo Franchini, che li porta qui per… [sbuffa in un sorriso, nda] Come una cosa estemporanea, quasi eccentrica, in quegli anni Novanta, per cui allora… Poi, guarda, ti dico la sincera verità: io credo anche molto nella ciclicità, per cui questa è una fase così. E c’è poi anche una crisi, una congiuntura economica, tanto è vero che la nazionale di calcio sta vivendo la sua stagione peggiore, la Ferrari sta vivendo un periodo bruttissimo. Adesso salta fuori uno sciatore, però non è che… È un po’ come il sistema-Paese. E il ciclismo…».
- …non fa eccezione. Però non credo che non possiamo metterci anche noi una Deucenink-Quick Step: cioè come sponsor un’azienda di serramenti, ancorché specializzata nelle finestre in thermofibra. Non credo sia quello il punto, no?
«Però se tu vuoi avere una grande squadra nel ciclismo adesso devi spendere almeno 30 milioni l’anno. Per cui non è facile, in una… Il sistema delle squadre che nascono con la passione del patron, del “Carrera” che faceva i jeans ma gli piaceva aver la squadra; l’Ariostea che faceva le piastrelle ma aveva la passione del ciclismo. No, se non hai un grande budget o un grande gruppo dietro…».
- Quel ciclismo lì, è finito. Con quelle figure, e non parlo solo dei patron mecenati ma anche dei direttori sportivi carismatici che facevano tutto da soli, “alla Ferretti”, per farti un nome…
«E noi venivamo da un ciclismo molto dal taglio umano. Perché, se ti ricordi, dai tempi della Salvarani, di Molteni eccetera: è tutta una storia di famiglie, di passione diretta».
- I Prandelli con la Inoxpran…
«Sì, sì, sì: i patron erano gente che partecipava, metteva i soldi ma volevapartecipare, esserci, e adesso è tutto stravolto… Questo non vuol dire che il grande gruppo italiano non… Però l’Enel s’impegna sulla bici elettrica, e non so se e quando entrerà…».
- E s’impegna a sponsorizzare il grande evento, come il Giro, non una squadra…
«Bravo: e non una squadra. E queste, comunque, sono anche le tossine lasciate dal doping, questo tsunami…».
- Un po’ come in Germania con l’uscita della Deutsch Telekom come squadra e la rinuncia delle tv a trasmettere il Tour, ricordi?
«Sì, sì. Noi l’abbiam subito tantissimo. Noi, fino a Pantani abbiamo retto alla grande; dopo, le scorie lasciate da questo tsunami continuo, reiterato, protratto…».
- Ha avvelenato i pozzi, parafrasando il Gigi Garanzini sui veleni di José Mourinho…
«Sì, sì, sì».
- E il ciclismo ti diverti ancora a guardarlo, a seguirlo?
«Sì, perché a me piace la bicicletta. Io vado in bicicletta da quarant’anni, da quando ho smesso di andare in moto. Io facevo i fuoristrada in moto, che dalle mie parti, a Bergamo, era uno sport molto seguìto… Dopo con la bicicletta ho smesso perché studiavo: l’università, non avevo più tempo. Ho cominciato ad andare in bicicletta, non ho più smesso. E ti dico: mi diverte ancora, perché quando tu vedi l’ultimo quarto d’ora alla Sanremo, oggi, il perché-percome mi attira. Come invece non mi attira più la Formula Uno, per dirti. Io ho seguìto il periodo, per dire, ma senza far sempre del reducismo, quello sport: lo sport dei Senna. A parte che ero là quando è morto, però, di là di quello, era divertente. Come lo è la MotoGP adesso. Io vado matto a veder la MotoGP».
- E il nostro mestiere: morto e sepolto? Voi almeno qualche maestro ancora l’avevate, noi a chi guardiamo? È dura, eh…
«Questa è una conclusione amarissima, però questo è il “sistema”. Che oramai è il sistema-internet, dove contano velocità, quantità, superficialità. Poi il discorso è legato anche allo scadimento del gusto generale. Tu guarda anche nel cinema, alla canzone: ancora stiamo a risentirci le canzoni degli anni Settanta. I ragazzi d’oggi ascoltano Battisti… Alla mia età, quando avevo vent’anni io, se mi facevan sentire, non so, Fred Buscaglione, Wanda Osiris, chi eran questi qui?, ma noi li buttavam dalla finestra, i nostri genitori. Vedere che i nostri figli ascoltan ancora le nostre canzoni è un segnale: ti dà proprio il senso che il gusto va sempre più in basso, per cui anche la qualità giornalistica, il bell’articolo, il bell’approfondimento non viene neanche più percepito, è quasi inutile farlo, perché è fuori mercato. La gente vuole roba veloce, masticabile, tanta, di tutto…».
- Come il fast food: il Mac-giornalismo.
«Sì, eh: bravo. Sì. Guarda, questo non è un modo di dire, un luogo comune, è la pura verità. Chi è, adesso, che legge ancora il giornale col gusto di fermarsi a una pagina e di scegliere quei due-tre giornalisti che ti fan godere? Il libro? È tutto un mondo diverso. Poi non esiste che sia migliore o peggiore, però, il nostro ambiente, il nostro mondo è lo specchio di questa grande… È una crisi ma non intesa nel senso negativo, tante crisi lo sono di cambiamento, no? Come avviene nella fisica e nella chimica: c’è un momento di “crisi” in cui gli elementi… Con l’arrivo dell’informazione di internet noi abbiamo subìto… E non c’è più nessuno che cerchi la qualità, la profondità. È come il mare: tu hai un mare, bellissimo, tutto uguale, “bello”… Se pensiamo a quanto, invece, c’è sotto, sul fondo… Però chi guarda più giù?».
- E come se ne esce? Con la ciclicità cui ti riferivi prima?
«Secondo me, sì».
- Sperando che cambi il vento.
«Ma noi non ci saremo più…».
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