HOOPS MEMORIES - The Game


Gara5 delle Finali 1976 è stata “La Partita” per antonomasia nella storia della NBA. Al Garden, i favoriti Celtics battono i carneadi Suns dopo tre supplementari incredibili. E sullo slancio, due giorni dopo, conquistano il secondo anello in tre anni…

di Christian Giordano ©
HOOPS MEMORIES - Momenti epici di basket USA
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Più che una partita, un film: magari di John Landis («Tutto in una notte») o di Wolfgang Petersen («La storia infinita»), perché di tutto e di più è stata Gara5 delle Finali NBA 1976. Secondo molti, quel Boston-Phoenix 128-126 è La Partita per antonomasia nella storia della Lega; e stando agli almanacchi, la prima di una serie per il titolo a protrarsi per tre-dicasi-tre tempi supplementari. Ma non è solo per l’eccezionale durata, 3 ore e 8 minuti, che “The Game” è entrata nella leggenda e nel ricordo, indelebile, dei 15320 privilegiati presenti quel 4 giugno, un venerdì sera, al Boston Garden. Lo ha fatto, piuttosto, per l’incredibile susseguirsi di eventi e circostanze che l’hanno caratterizzata: invasioni di campo, risse (tra giocatori, tifosi, tifosi e arbitri), decisioni arbitrali discusse e discutibili, scelte tattiche sul filo del regolamento e anche oltre, “eroi” più o meno probabili e, ovvio, polemiche à gogo. Il tutto condito da un pathos senza precedenti.

Del resto, che sarebbe stata una stagione storica per la National Basketball Association del neo-Commissioner Lawrence O’Brien, subentrato a Walter Kennedy, si era capito ben prima della gara d’apertura. In giugno il suo miglior giocatore – di fatto ma non di nomina: il premio era andato a Bob McAdoo di Buffalo –, Kareem Abdul-Jabbar, dopo sei stagioni, tre premi di MVP e un anello NBA (1971), aveva chiesto e ottenuto di essere ceduto dai Bucks ai Lakers. Per riportarlo a Los Angeles, e fargli rinverdire i fasti da lui vissuti ai tempi del college, con UCLA, i gialloviola rinunciarono al centro Elmore Smith, alla guardia Brian Winters e a due prime scelte, lo swingman Junior Bridgeman di Louisville e l’ala Dave Meyers da UCLA. Le cose però non andarono come previsto. Mentre i nuovi arrivati trascinarono Milwaukee dall’ultimo al primo posto nella Midwest Division, a Ovest, Kareem mise assieme cifre da sogno (27.7 punti, 16.9 rimbalzi e 5 assist di media), ma i Lakers fallirono i playoff nell’ultima settimana di regular season.

Inoltre, a inizio campionato i New York Nets e i Denver Nuggets, le più forti squadre della derelitta American Baseball Association (ABA), la lega concorrente, avevano presentato la domanda per passare alla NBA. Curioso, ma non troppo, giudicando col senno del poi, che un’annata aperta da due eventi epocali sia stata chiusa da una maratona cestistica – “Hoopathon” la chiameranno i posteri, con ovvio riferimento alla celebre corsa podistica che Boston vanta dal 1897 – anch’essa destinata a fare epoca. 

Sulla carta, anche per via dei confronti diretti stagionali (4-0 per Boston), la Finale sembrava già scritta e in modo ben diverso dal 2-2 raccontato nei primi quattro capitoli: anello ai Celtics, strafavoriti, e Suns, già contenti di evitare lo “sweep”, il cappotto.
 I primi erano cambiati parecchio rispetto alla squadra che coach Tom Heinsohn aveva portato al titolo nel 1974 ma erano ancora una potenza da 54 vittorie in regular season, buone per il secondo record della Lega e per il primo della Eastern Conference; nessuna sorpresa quindi nel vederli battere senza troppe difficoltà (4-2) Buffalo e Cleveland per tornare in finale.
I secondi, nati da otto anni come squadra d’espansione, avevano cominciato male, proseguito peggio (18 sconfitte su 24 gare) e chiuso in crescendo la stagione regolare (10 successi nelle ultime 13 partite); tuttavia il 42-40 conclusivo e il terzo posto nella Pacific Division certo non potevano far presagire l’imprevedibile postseason che li avrebbe visti sbarazzarsi in sei partite dei SuperSonics e in sette (con Gara4 vinta al secondo overtime) dei Golden State Warriors campioni in carica. 

Proprio il successo su Rick Barry & C., vittoriosi contro Washington l’anno prima in una delle Finali più sorprendenti di sempre e dominatori (59-23) nella disastrata Western Conference, di fatto aveva sancito il passaggio di consegne: la vera Cinderella-team, squadra-cenerentola, erano diventati i Suns, presto ribattezzati “Sunderella-team” dai media, increduli che una squadra potesse arrivare così lontano schierando un complicato mix di veterani prossimi al tramonto quali Dick Van Arsdale, Pat Riley (sì, quel Pat Riley, ndr) e Keith Erickson e due matricole, seppure d’impatto immediato, come la guardia Ricky Sobers e il centro 21enne Alvan Adams, “Rookie of the Year” a 19 punti e 9 rimbalzi a partita. 

Dai Celtics campioni due anni addietro se n’erano andati Don Chaney (nella ABA), Steve Downing, Henry Finkel, Phil Hankinson, Art Williams e, a inizio stagione, la guardia tiratrice Paul Westphal, ceduta proprio ai Suns in cambio di un’altra guardia, il leggerino ma talentuoso Charlie Scott. Al loro posto, a completare la rotazione accanto ai confermatissimi Dave Cowens e Paul Silas sotto le plance, John Havlicek e Don Nelson sulle corsie esterne, Jo Jo White in regia e Steve Kuberski in panchina, c’erano adesso Jerome Anderson, Jim Ard, Tom Boswell, Glenn McDonald, Ed Searcy e Kevin Stacom.

La squadra era forte ma non fortissima. Nel backcourt, la non facile coesistenza fra White e un “chatterbox” di debordante personalità come Scott, lingua affilata quanto la sua difesa, sembrava rendere necessario giocare con due palloni. In più il roster mostrava evidenti limiti di statura e di stazza (Cowens, il centro, era “solo” 2.04) ai quali gli uomini di Heinsohn cercavano di sopperire giocando duro, alla vecchia maniera, arpionando i rimbalzi (più di tutti nella Lega) e difendendo di squadra come mai visto prima né dopo; a testimoniarlo, la nomina nel Primo quintetto difensivo dell’intera frontline: Havlicek-Silas-Cowens.

Una delle mosse-chiave azzeccate dal coach fu l’adattamento di Silas – un passato importante e un presente fatto comunque di 10.7 punti e 12.7 rimbalzi a partita – a lunghi periodi come sesto uomo. «Era un All-Star e noi gli chiedevamo di partire dalla panchina – spiega Heinsohn – Dovetti convincerlo – che il suo era davvero un compito speciale: fare il sesto uomo a Boston, dove tutti sanno bene che cosa significa. Gli dissi che non conta chi comincia la gara, ma chi la finisce».


Tutt’altra situazione c’era invece a Phoenix. I Suns erano un gruppo di comprimari il cui destino sarebbe stato deciso dall’unica stella, Westphal, tiro sublime, mei movimenti e discreta difesa, che lasciato il Massachusetts da terza guardia con 9.8 punti a partita si era ritrovato in Arizona leader da 20,5 di media in regular season e addirittura 23 nei playoff. Quando però capitan Van Arsdale si ruppe un polso, in febbraio, per coach John MacLeod tutto sembrava perduto.
A togliergli le castagne dal fuoco contribuirono l’arrivo a metà torneo di Garfield (Gar) Heard e il chiarimento a muso duro, avvenuto dopo la sconfitta (114-111) a Chicago del 17 febbraio, fra Riley e un paio di compagni a suo giudizio troppo molli. Da lì in poi ci fu la svolta che portò i Suns fino all’ultimo atto. Dove però ad aspettarli c’erano nientemeno che i Celtics, la più blasonata franchigia della Lega. Al vecchio Garden, tradizione, concetti intangibili ma presentissimi come “pride” e “mistyque” – intraducibile miscela di orgoglio per le proprie origini, abitudine a non fallire quando conta, fame di vittorie e, massì, buona stella – si respiravano come il pout-pourri di odori di birra e pop corn che da sempre impregnavano le mura del tempio col parquet incrociato. 

Come non bastasse, da quelle parti tirava aria di riscatto per la finale sfuggita l’anno prima nonostante le 60 vittorie in regular season. «Avevamo parecchio da dimostrare nel 1976, visto che nel ’75 non eravamo stati capaci di ripeterci campioni come avremmo dovuto e potuto» dirà anni dopo Silas. «Con la nuova stagione, avevamo ritrovato la giusta concentrazione, e ci sarebbe servita perché quell’anno i playoff furono più duri che mai. Sin dall’inizio: con Buffalo fu una serie dura, per non parlare di quella con Phoenix per il titolo, una delle più sofferte di sempre». 

Eppure era iniziata benissimo per Boston, che in casa vinse facilmente Gara1 (98-87 con Phoenix costretta al 38% dal campo) e Gara2 (105-90 sull’onda di un terrificante 20-2 nel terzo periodo). Il 4-0 sembrava a due passi, ma dal Veteran Memorial Coliseum, domenica 30 maggio – partita anticipata al mattino per esigenze televisive (roba di 18 anni fa, quindi non inventata da Sky, ndr), sarebbero arrivati segnali diversi. Nel secondo quarto i Suns non fecero segnare Boston per cinque minuti, si portarono sul 33-17 e tennero botta al tentativo di rimonta dei bostoniani, spuntandola per 105-98 con un Adams stellare: 33 punti e 14 rimbalzi.
Era il segnale: i Celtics, nel finale privi di Cowens e Scott, usciti per falli, non erano invincibili e a nulla valevano le polemiche sollevate da Heinsohn sulla presunta parzialità della direzione di gara. Tre giorni dopo, sempre in Arizona, la riprova dell’assunto: Boston vessata dagli arbitri (21 falli fischiati in appena 10’, tanti, anche se quei Celtics teneri non erano) e padroni di casa vittoriosi 109-107. White aveva avuto in mano il pallone che poteva valere il supplementare, ma lo aveva sprecato. La serie tornava al Garden, ma con molte meno certezze.

La partita che sarebbe passata alla storia come la più grande di ogni tempo cominciò in tono dimesso. Al 9’ Boston è avanti di 20, all’intervallo di 15. Ma nel secondo tempo Phoenix comincia a difendere sul serio: ai 38 punti concessi nel solo primo quarto, fanno seguito i 34 lasciati nell’intera ripresa, anche se a 4’ dalla fine i Suns inseguono ancora di 9. Completata la rimonta, Phoenix ha la chance di vincere nei regolamentari spedendo in lunetta Curtis Perry, ma la spreca.
Dall’altra parte lo imita il monumento John Havlicek, alla 12esima stagione in maglia Celtics e zoppicante. A 19” da quella che doveva essere l’ultima sirena, il 36enne “Hondo”, limitato per tutti i playoff dalla solita fascite plantare che già nel primo turno gli aveva fatto saltare due match contro Buffalo, aveva fatto solo uno su due ai liberi e così la partita si era fossilizzata sul 95-pari. Sul finire dell’overtime, con le squadre arenate a quota 101, la loro brava occasione di vincere stavolta l’avevano avuta i Suns.
Ma – colpo di scena – a sfilargliela di mano aveva provveduto il primo arbitro Richie Powers che aveva ignorato i reiterati gesti coi quali Silas aveva chiesto un timeout a cui i Celtics, che li avevano esauriti, non avevano diritto. Powers non lo assegnò e così venne meno il conseguente fallo tecnico contro Boston che per i Suns avrebbe significato il tiro libero potenzialmente vincente e, nel caso, il ritorno a Phoenix, per Gara 6, in vantaggio per 3-2. «Non volevo che Boston perdesse in quel modo», ammetterà a cose fatte Powers, trincerandosi dietro l’alibi di ferro del tempo ormai scaduto, e provate a immaginare un identico fattaccio accadere al di qua dell’Atlantico. 

Anche al di là però, qualcuno, vedi coach MacLeod, ex University of Oklahoma, ai Suns dal ’73, noto nella Lega per gli abiti sgargianti e le doti di motivatore, non la prese benissimo: la strategia del lamento del più esperto Heinsohn cominciava forse a pagare?

In ogni caso è per il secondo, incredibile overtime che “The Greatest Game Ever” passerà alla storia. A 15 secondi dal termine Boston è sopra di 3, e lo scorrere del tempo è scandito sulle tribune del Garden dal coro «We’re Number One». Nessuno può immaginare che negli ultimi cinque secondi saranno segnati la bellezza di sette punti. Van Arsdale riavvicina i Suns e sul possesso successivo Westphal, assieme a Scott l’altro grande “ex”, recupera un pallone, si fionda in contropiede e va al tiro, lo sbaglia ma il rimbalzo è preda di Perry che in jumper firma il sorpasso: 110-109 a -4”. Havlicek replica a fil di sirena con un gancio in sospensione, scoccato dai 4-5 metri cadendo all’indietro e dopo aver inutilmente allargato il gomito per attirarsi un fallo. La palla va dentro appoggiandosi al tabellone: +1 Boston. Sulla rimessa effettuata da Nelson, White e Cowens sono marcati, così “Nellie” cerca Havlicek, a secco dai tempi regolamentari. In condizioni fisiche appena normali “Hondo”, il prototipo del moto perpetuo, sarebbe la prima opzione offensiva ma scala a terza per via dell’infortunio; e pensare che non doveva neanche giocare. «Non riuscivo neanche ad allenarmi – ricorda – ed ero praticamente fuori forma, così andai al Garden molto in anticipo per lavorare un po’ sul tiro. Quello, almeno, volevo recuperarlo. Pensavo di scendere in campo una ventina di minuti, invece ci restai per 58». Per di più, segnando 22 punti.

Vista la palla entrare, centinaia di tifosi superano il servizio di sicurezza e invadono il parquet, i giocatori cercano la via più breve verso gli spogliatoi, compreso Havlicek che se ne va a braccia alzate. «The ballgame is over! John Havlicek won it!» grida Brent Musburger dai microfoni della CBS, l’emittente televisiva che per l’occasione ha ingaggiato un opinionista d’eccezione: Rick Barry. Sul tabellone del Garden, come dagli schermi della CBS, il messaggio è inequivocabile: «Boston 111, Phoenix 110. Final score». Tutti pensano che la partita sia finita, tutti tranne gli arbitri, secondo i quali c’è ancora un secondo da giocare. Il cronometro va riposizionato e quando questo accade, un tifoso biancoverde attacca proprio Powers, quello che ignorando la richiesta di timeout di Silas aveva consentito a Boston di sopravvivere per l’overtime. 

A questo punto ecco il colpo di teatro. Per rimettere da metà campo, anziché dalla linea di fondo, Westphal imita Silas (ma a differenza dell’avversario, consapevolmente) e chiama timeout per i Suns: un timeout che sa di non poter avere. Stavolta la richiesta è impossibile da ignorare, anche per Powers. White, precipitosamente rientrato dagli spogliatoi dove già si era tolti scarpe, calze e fasciature alle caviglie, converte il libero: 112-110, ma con i Suns già a metà campo pronti per il tiro della disperazione. Rimessa di Perry per Heard, che riceve palla spalle a canestro, in posizione frontale. Giro-e-tiro dai 6 metri, nonostante la mano in faccia messagli da Nelson in affannoso recupero, e parabola altissima che brucia la retina in un Garden improvvisamente ammutolito. In 11 stagioni NBA, Gar Heard scoccherà in totale 2846 tiri. Ma da quel momento nessuno ne ricorderà gli altri 2845: nella memoria comune resterà solo “The Shot Heard ’Round the World”, il tiro sentito in tutto il mondo, come verrà definito con un banale gioco di parole sul cognome di chi, realizzandolo, aveva mandato The Game al terzo supplementare. 

Fu allora che con una bella fetta di giocatori-chiave fuori per falli, Scott, Silas e Cowens da una parte e Adams (più il suo back-up Awtrey) dall’altra, emerse un protagonista inatteso: Glenn MacDonald, ala 24enne poco impiegata da Heinsohn che in stagione gli aveva concesso appena 13’ di media, ripagati con 5.6 punti a partita. Cambio di Silas in eterno ed eroe per un giorno (l’anno successivo, dopo 9 partite fu tagliato dai Bucks e salutò la Lega), in quell’overtime MacDonald segnò sei punti e in coppia con White, degno MVP delle Finali, trascinò Boston alla vittoria per 128-126. Neanche due giorni dopo, i Celtics regolavano a domicilio i Suns 87-80 e portavano a casa il loro 13° titolo NBA, il secondo in tre anni. Più che la storia infinita, fine della solita storia. 
Christian Giordano

Finale NBA 1976 
Boston Celtics - Phoenix Suns 4-2 

Gara 1. Boston-Phoenix 98-87                 (1-0 Boston)
Gara 2. Boston-Phoenix 105-90               (2-0 Boston)
Gara 3. Phoenix-Boston 105-98               (2-1 Boston)
Gara 4. Phoenix-Boston 109-107             (2-2)
Gara 5. Boston-Phoenix 128-126 (3 OT) (3-2 Boston)
Gara 6. Phoenix-Boston 80-87                 (4-2 Boston)



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