Ennio Vanotti: «Vicino al capitano fino all'ultimo»


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Gregario dentro, fino all’ultimo. 
E non potreste fargli complimento migliore. Ennio Vanotti ha il cuore grande come le sue montagne bergamasche.
S’intuisce già dalle indicazioni che mi dà per raggiungerlo a casa sua, un piovigginoso pomeriggio di febbraio che sul far della sera vira forte sul nevischio. 
«Non verso la Roncola», m’avverte al telefono per non farmi sbagliare strada, come invece puntualmente faccio salendo fino in centro di San Bartolomeo, l’Almenno sbagliato. 
Ennio Vanotti è stato, «fino all’ultimo», “il” gregario nel senso più compiuto e più completo del termine. Sutter, Corti, Baronchelli-Contini-Prim, Saronni, Moser, Bugno, Rominger i suoi capitani. Tutti “serviti” con impegno e dedizione, lealtà e generosità a volte ai limiti dell’autolesionismo: perfino quel Moserone da cui, per quasi tutta la carriera, non aveva voluto saperne di andare perché il Cecco, con i suoi domestique, sarà anche sempre stato di parola, ma tenero – ed educato – quello proprio no. Mai.
Non una vita fortunata, quella di Ennio. O forse sì. Perché è quel suo gran cuore la sua fortuna, e chi gli sta accanto: a Ennio è impossibile non voler bene. 
Non per caso, ogni anno orde di ex e professionisti ancora in attività fanno a gara per non dirgli di no o autoinvitarsi alla sua “Pedalando con i campioni”, gara benefica non competitiva nata nel 2006 e ormai diventata una classica per cicloamatori.
Perché sono andato a trovarlo per Sappada? Perché pochi meglio di lui possono spiegare il significato dell’essere gregario. Vicino al capitano «fino all’ultimo».

Almenno San Salvatore (Bergamo), lunedì 26 febbraio 2018

- Ennio Vanotti, per chi all’epoca magari era troppo giovane, lei che corridore è stato?

«Un gregario fedele, penso, fino all’ultimo. Non avevo tante velleità di vittoria. Ero proprio “dedicato” ai miei vari capitani, nell’arco della mia storia, negli anni Ottanta, fino ai Novanta. Ero proprio uno fedele, perché quando mi davano un compito, cercavo di svolgerlo al meglio, di dare tutto quello che potevo dare, fino all’ultimo. Quella, sicuramente, è un’impronta della mia persona… Ero sempre molto vicino al capitano, fino all’ultimo». 

- Questa generosità, che lei ha dentro, è anche figlia della sua storia personale e famigliare? Mi racconta la storia della sua famiglia e di come lei si è avvicinato al ciclismo? 

«Beh, la mia famiglia, e parlo già dei miei nonni, che io ho conosciuto pochissimo, perché ero piccolissimo. So che mio nonno è partito da Lucerna per vedermi, aveva settant’anni…».

- I suoi nonni erano italiani che si erano trasferiti là?

«Si erano trasferiti, emigrati in Svizzera, a Lucerna, dove poi si è trasferito anche mio papà, con i miei fratelli, per motivi di lavoro, e addirittura mia mamma, lasciandomi qua con una delle mie sorelle». 

- Quanti fratelli siete?

«Io sono l’ultimo di otto fratelli. La famiglia era grossa, bisognava cercare di guadagnare, per mantenere tutti. E allora i miei han dovuto trasferirsi in Svizzera, e in parte anche tre miei fratelli, mentre una delle mie sorelle gestiva me che ero piccolissimo, fino a sei anni. Poi sono ritornati in Italia. Mio papà poi è andato in pensione, i miei fratelli in parte han lavorato anche là poi son rientrati anche loro, però, ecco, tornando al nonno, è partito da lì, il ciclismo».

- Il primo appassionato, quindi, è stato suo nonno?

«È stato il nonno, ma non i Vanotti, nonno Sandi: Luigi Sandi, papà di mia mamma, che ha creato questo gruppo a Lucerna, da lì è nata la società Concordia, in cui han corso anche i mie fratelli. Anche mio papà era appassionato, ha fatto qualche corsa però non tantissime, i mei fratelli han corso per dieci anni là».

- E dai nipoti poi ne è venuto fuori anche uno buono, no?

«Be’, poi son cresciuto io, ho tramandato in famiglia la mia passione ed è uscito Alessandro Vanotti, che ha corso, fino a due anni fa, nell’Astana, la sua ultima squadra».

- Ale Vanotti: altro storico gregario di Vincenzo Nibali, assieme a Valerio Agnoli.

«Un gregario che è stato molto vicino a Nibali: otto anni, per quanto ne so io. Ha fatto una buona carriera. Ha corso 17 grandi giri, in questo abbiam pareggiato…». [sorride, nda]

- Ah sì, siete pari?

«Sì, siamo pari. Abbiam corso 17 grandi giri, sia uno sia l’altro. Lui ha avuto la soddisfazione di vincere una tappa alla Settimana Lombarda (la 5ª del 2007, partenza e arrivo a Bergamo, nda), io ho avuto la soddisfazione di vincere una tappa al Giro di Svizzera (in maglia Zonca la 4ª tappa del 1979, la Porentruy-Steffisburg, nda). Siamo pari anche lì. Anche lui è cresciuto nell’ambiente perché io ho creato un gruppo, qua. Non l’ho creato io, l’ha creato uno dei miei fratelli che è scomparso, Raimondo. Dal lontano 1978, da una società in paese di sei ragazzini, tra cui tre miei nipoti, poi, a lungo andare, si è allargato, fino a oggi…».

- E oggi quanti ne avete?

«Al giorno d’oggi abbiam fatto un abbinamento fra i due Almenno [San Bartolomeo e San Salvatore, nda]. Abbiam fatto una fusione: prima era solo Vanotti, adesso è Vanotti Impresa Rota Nodari. Attualmente abbiamo 43 corridori. E tre categorie. Fino all’anno scorso ne avevamo quattro: giovanissimi, esordienti, allievi e junior. Quest’anno abbiamo deciso di no per gli junior, perché avevamo un corridore soltanto, allora l’abbiamo trasferito in una società vicina. Tra due anni però penso che riprenderemo a fare gli juniores, sempre se tutto ce lo concede, perché, sai, economicamente è un impegno… grande».

- Questo per il Vanotti dirigente, ma c’è anche un Vanotti organizzatore che a una corsa è particolarmente legato, no?

«Sì, sul lavoro è nata una storia… Quando ho intrapreso il lavoro qui a Bergamo, perché prima ero ai mercati a Milano poi son tornato a Bergamo, in questo gruppo dove lavoravo c’era un appassionato di ciclismo. Appassionatissimo. Faceva parte del consiglio e mi ha chiesto cosa potevan fare, per inventare, per far un qualcosa di nuovo come UC Casazza. Nello stesso tempo mi hanno tesserato come amatore, come socio onorario. E lì è nata l’idea, da parte mia, di creare una corsa per gli ex professionisti. L’avevo già fatta, a Locate, vicino casa mia, però con i professionisti ancora in attività. È nata questa idea e abbiamo fatto una “ex prof”, con un amatore dell’UC Casazza. Siam partiti con ventidue squadre quell’anno lì, nel lontano 2006. Dodici anni fa abbiam fatto questa prima edizione: ventidue squadre, ventidue ex professionisti, uno per squadra con un amatore dell’UC Casazza solamente. Da lì la cosa ogni anno si è allargata. Quest’anno siamo arrivati a 120 squadre, 120 ex professionisti con seicento corridori. In poche parole, sì, ogni anno è cresciuta: 35 squadre, 45, 55, 85, 95. Siamo arrivati ormai a un limite – penso – massimo, e quest’anno faremo la tredicesima edizione, con 120 squadre, che ancora è fattibile. Gli sponsor han già confermato che per il 7 ottobre [2018] ci saranno». [nell’edizione successiva, il 13 ottobre 2019, le squadre al via saranno 130 per un totale di ottocento amatori, nda]

- Sempre il giorno dopo il Lombardia? 

«Facciamo il giorno dopo il Lombardia, altri anni l’abbiam fatta due settimane dopo. Adesso, siccome a Bergamo c’è anche un’altra gara importante, la “Padre e Figlio”, ci siamo un po’ messi d’accordo, uno la fa una settimana prima, uno la fa la settimana dopo, il Lombardia il giorno prima, non riusciamo, ecco, a fare…». [nel 2018, la 30ª edizione sarà invece annullata a causa delle troppe le prescrizioni contenute nel decreto-Minniti sulla sicurezza nelle manifestazioni pubbliche, nda],

- E magari beccate anche una delle ultime belle giornate autunnali…

«Nell’arco dei dodici anni siamo stati molto fortunati. L’anno scorso, stupendo. Due anni fa, idem. Tre anni fa, così-così. Però, ecco, nell’arco dei dodici anni – quest’anno è il tredicesimo – siamo stati molto fortunati, sì».

- Torniamo all’animo generoso che si mette al servizio del capitano: è una cosa lei ha sempre avuto dentro?

«Sì. Quando ho capito che non potevo fare il capitano…».

- Quando l’ha capito? Subito?

«Io sono entrato dalla Zonca-Santini nel lontano ’78. C’era Claudio Corti campione del mondo dilettanti. C’era Gavazzi. Io avevo vinto il Val d’Aosta, Corti aveva vinto il Giro d’Italia, campionato del mondo, insomma aveva vinto tantissimo. E in squadra mi avevano affiancato in parte a Ueli Sutter e in parte a Giancarlo Bellini, però con un occhio di riguardo a Claudio Corti, che era campione del mondo. Io non dovevo fare il Giro. Non dovevo fare corse importanti – il Romandia, il Giro d’Italia – Dovevo fare corse un po’ secondarie. Quando invece, dopo una Tirreno-Adriatico, han visto il lavoro che ho fatto per la squadra – ai tempi i corridori si poteva spingerli, tirarli per le maglie e così via –, lavoravo per la squadra e poi arrivavo ancora con i primi, da lì è nato il mio primo Giro di Romandia. Poi il Giro d’Italia. Poi il Giro di Svizzera…».

- Claudio Corti racconta d’aver sofferto come un cane i primi due anni da professionista. Era così grande il salto da dilettante ai pro’? Sia fisicamente sia mentalmente?

«Sììì, lui ha sofferto. Doveva dimostrare quello che era, e non gli è stato facile, perché arrivava da campione del mondo, con questa maglia pesante, un leader. Era un leader. Purtroppo, in quei due anni lì, Claudio non reggeva».

- Ha anche pensato di smettere.

«È arrivato al punto di smettere. E ti dirò: secondo me l’ha salvato il direttore sportivo, perché lui il terzo e il quarto anno ha quasi fatto fatica ad accasarsi. È andato a correre per la Mobili San Giacomo-Benotto (1980) di Carlino Menicagli. È andato a correre per lui perché era quasi in procinto di lasciare. E invece han creato fiducia, ancora, in parte per lui… Io, ti dirò, mi allenavo molto con lui. Un ragazzo serio in tutti i sensi, si allenava, è che in quei due anni proprio non aveva più gambe. Forse aveva dato tantissimo nei dilettanti. Ha fatto il Giro, ha vinto il mondiale, un mucchio di corse, sempre a tutta. E ha pagato lo sforzo di questi due-tre anni. Con la sua buona volontà è riuscito a risalire la china. Ha vinto il campionato italiano. Nel periodo estivo lui andava fortissimo, quando c’erano 35 gradi, lui risaliva la china, io calavo, per dirti, e avevo un rendimento del trenta-quaranta percento in meno, lui invece saliva... È riuscito a vincere una corsa in Toscana, se non vado errato, e da lì in poi ha risalito la china, ha cominciato a migliorare e ha vinto poi l’italiano, poi l’ha rivinto [1985 e 1986, nda], è andato forte a un Giro d’Italia [quinto nel 1986, nda]. Ha fatto secondo a un mondiale [a Barcellona ’84, dietro al belga Claude Criquielion, nda], e via via è stato… Però posso dirti che è stato per la sua volontà, la sua capacità di risalire la china che…».

- E quindi il primo grande capitano di Vanotti è stato Corti?

«Diciamo che in parte l’ho aiutato ma non ero affidato a lui, ero più vicino a Sutter, Bellini e Gavazzi, un altro corridore che poi ha vinto un campionato italiano con me, nel lontano 1978 [davanti a Moser e Saronni; Gavazzi lo vincerà altre due volte: nel 1982 su Claudio Torelli e Gibì Baronchelli, e nell’88 sullo stesso Saronni e Fondriest, nda]. Gli sono stato molto vicino. Ha vinto l’italiano, lì, però, ecco, per farti capire, anche al Giro d’Italia avevo il Sutter, che ha vinto la maglia verde [allora del leader degli scalatori, nda], ero sempre là e non solo per lui eccetera. Lì è nato il mio “gregariato”, poi ho avuto la fortuna… Ho fatto un buon Giro e mi hanno mandato a fare il Giro di Svizzera. Dovevo chiudere invece mi hanno fatto fare la Milano-Roma. Pensavo di rimanere a casa, mia moglie aspettava un bimbo di lì a poco, e invece mi han detto: Ennio stai bene, c’è qualcun altro che sta male e dobbiamo mandarti. E in parte è stata la mia fortuna perché [nel 1979] ho “rischiato” di vincere il Giro di Svizzera. Son arrivato quinto. Ho vinto una tappa e… puntini-puntini… Non posso dire altro. C’è stato qualcosa che non ha funzionato, sennò avrei potuto vincere…».

- Qualcosa non ha funzionato all’interno della squadra, o ci fu dell’altro?

«Nella squadra. Noi avevamo Ettore Milano, però, ecco, è mancata la squadra. Quella settimana era importante, lui è dovuto rientrare, noi eravamo un po’ allo sbando e…».

- Ettore Milano, storico ex gregario di Fausto Coppi, che ruolo aveva in quella squadra?

«Direttore sportivo. È rientrato…».

- E chi ne faceva le veci?

«Le facevamo noi…». [ride, nda]

- E lì qualcosa non ha funzionato?

«C’è stato un qualcosa che non ha funzionato, perché io quel Giro di Svizzera lo potevo vincere…».

- E questo è il rammarico della carriera che le è rimasto?

«Il rammarico della carriera è che [quel Giro di Svizzera] avrei potuto vincerlo. Sinceramente sì, perché son sempre stato forte, in tutte le tappe». [Vanotti chiuse quinto nella generale, a 6’54” dal vincitore, il belga Wilfried Wesemael, nda]

- Son cambiate le “gerarchie”, mettiamola così?

«Son cambiate le gerarchie, e io ero giovane. Ero al secondo anno da prof».

- E il capitano designato magari non aveva gamba?

«No, non han capito la situazione. È stato un errore tecnico, io avevo valutato giustamente mentre lui [Ettore Milano] l’ha vista in un altro modo. Io ero giovane e son stato zitto. E ho perso, perché fino lì ero a pari merito con un corridore svizzero; non era un mio compagno di squadra, era [Erwin] Lienhard e… È andata via una fuga… Allora, per tornare indietro: sul passo Nufenen, siam arrivati su io e [Josef] Fuchs [alla fine quarto nella generale, a 6’47” dal vincitore, nda], a scendere si doveva arrivare a Bellinzona, ottanta chilometri ad andare giù, però in parte discesa. Quando abbiam capito che non valeva la pena continuare, noi due abbiam aspettato il gruppo, dietro, di una decina di corridori con i migliori. Quando son rientrati, noi ci siam fermati perché la “classifica” era tutta lì, eran rientrati altri trenta corridori fra cui qualcuno della mia squadra, compreso Gavazzi. Nel frattempo, mancava poco all’arrivo, venti chilometri, da Bellinzona-Locarno a scendere, [settima tappa, da Verbier/Le Châble a Locarno, nda], e la strada scendeva. È andata via questa fuga, in contropiede, è andata via, ci stava bene: c’era dentro Mazzantini della mia squadra, e andava bene, però il fatto è che poi, a seguire, ci siam completamente fermati. La squadra con la maglia, la squadra di Lienhard [la Willora-Piz Buin-Bonanza, nda], non voleva più tirare. Io ho detto: Tiriamo, teniamoli lì, a un minuto, un minuto e mezzo, non “escono” dalla classifica, perché se andiamo avanti così… Invece qualcuno ha detto: No, non si tira. Allora noi ci siam fermati, quelli là son arrivati e noi siam arrivati a sette minuti. Lienhard ha perso la maglia, io da primo in classifica son andato ottavo e poi son risalito al quinto posto. Vabbè. Bastava contenere. Rimanevamo noi, perché se noi davamo una mano a questo gruppo, bastava tenerli lì e la classifica rimaneva quella».

- Mancava molto alla fine?

«Mancavano quattro tappe, ma io non ho mi perso un colpo, eh. Son arrivato sempre con i primi. Per di più, Lienhard è stato trovato positivo, due volte. E se anche non lo avessi battuto per il tempo, automaticamente il Giro lo avrei vinto io. Non è una bella cosa da dire, però, beh… È un rimpianto. Comunque, ecco, tornando all’Ennio Vanotti, da lì, al di fuori delle squadre grosse, c’è stata tanta richiesta per avere in squadra l’Ennio Vanotti: tipo la Bianchi, la Sanson e via via a seguire tutti squadroni. Mi han richiesto, è stata un po’ la mia fortuna. E ho deciso di andare da un mio ex direttore sportivo da dilettante che mi ha consigliato la Bianchi».

- Chi era quel suo ex direttore sportivo da dilettante?

«Povero… Un caro direttore sportivo che è morto con due ragazzi dilettanti in un incidente [Wladimiro Rota e Antonio Cividini del G.S. Conti di Fara d'Adda, a Lacchiarella nel gennaio 1981, nda], si chiamava Mario Abantichi. Mi ha consigliato di entrare alla Bianchi. Io alla Bianchi ci tenevo. Per me la Bianchi era importantissima: Gimondi, ero un po’ un tifoso della Bianchi. Era come andare all’Inter o al Milan, per dirti».

- Con l’aggiunta che Gimondi era di qua vicino…

«…di qua vicino, e così via. Mi hanno contrattualizzato, e ho rinunciato alla Sanson di Moser. Ho scelto la Bianchi perché anche lo staff tecnico, in parte, era bergamasco: il meccanico Piero Piazzalunga, Gimondi, [Athos] Pirovano massaggiatore. Ero vicino a casa. Avevo la base qua, tutto qua…».

- Le condizioni contrattuali erano buone?

«Ho perso qualcosa rispetto alla Sanson, però ho preferito la Bianchi».

- È stata la scelta giusta?

«Secondo me, sì».

- Quella era la Bianchi del tridente Baronchelli-Contini-Prim: tre galli in pollaio. Troppi? 

«Sinceramente, è difficile».

- Pure troppo simili, forse. Vero?

«In parte simili, sì. Contini un po’ più veloce. Però a livello corsa a tappe, erano molto simili, sia Baronchelli sia Contini sia Tommy Prim erano “vicini”, come corridori; qualcuno con uno spunto un po’ più veloce, qualcuno un po’ di più a cronometro, qualcuno un po’ di meno in salita…».

- Prim era più un cavallone da fughe, un che prendeva e partiva…

«Tommy Prim, sicuramente. Ecco, il discorso era quello: che forse, a sentirsi accompagnati da tutta la squadra, non divisa, eran più forti. Diciamo questo, ecco».

- La squadra era divisa?

«La squadra, in parte, era divisa, perché non potendo… Dovevamo stare attenti a tutti e tre, in poche parole. In squadra eravamo in nove, però sei eran gregari e tre potevan essere capitani. E quando uno dei tre aveva un problema, la squadra alcune volte, com’è successo, si divideva. Io, per dirti una delle prime volte, con Baronchelli, sul monte Gèrola mi son fermato di mia volontà. Eravamo cinque o sei “Bianchi”, però io ho visto che s’è staccato e, d’istinto, mi son staccato anch’io: lo aspetto. E mi son fermato su di lui, capito?».

- Vanotti doveva seguire uno dei tre in particolare oppure no?

«Baronchelli e Contini. Però, ti ripeto: in qualsiasi evenienza, in caso di necessità, il gregario doveva essere disponibile per tutti e tre. Un esempio: Tommy Prim, a scendere il Monte Grappa, ha forato e gli ho dato la ruota; Contini ha forato, e son rimasto senza ruote, prima una e poi l’altra e via via, insomma, ecco, per farti capire. In caso di necessità ero sempre a disposizione per uno o per l’altro o per quell’altro».

- E dal punto di vista caratteriale, non mi dirà che ha legato con tutti e tre allo stesso modo?

«Quello “di più”, diciamo, era Contini, per me. Con Baronchelli, ti dirò, eravamo molto vicini però con il Contini ho avuto una carriera, una storia sportiva di otto anni e quindi direi un qualcosa in più col Contini, che m’ha voluto sempre con lui. E m’ha fatto tanto piacere».

- Mi racconta un po’ di Contini? È vero che il vostro diesse Ferretti, se vedeva che nell’albergo c’era la piscina, girava al largo sennò Contini ce lo buttava dentro?

«[Contini] era un po’ scherzoso, sì. Era più scherzoso, Baronchelli era un po’ più… Però, ti dirò che il Tista ha avuto poca fortuna, secondo me. Qualcosina in più avrebbe vinto. E però purtroppo…».

- Certo che trovarsi contro quell’Hinault lì, al mondiale di Sallanches ’80…

«E Merckx al Giro (74, nda)… Ha avuto tutte piccole cose che purtroppo l’han penalizzato. È un peccato. Peccato perché è una persona seria, un uomo determinato, convinto. Alcuni dicono: Mah, era un po’ titubante, un po’ pauroso… Non è vero. Non è vero».

- Sul “pauroso” non sono d’accordo. E forse era anche troppo sensibile, no?

«Forse anche un po’ sensibile, perché alcune volte magari perdeva corse che non doveva perdere». 

- È stato anche abbastanza sfortunato, anche per via degli infortuni, come Contini.

«Per una cosa e l’altra, son stati un po’ penalizzati».

- Poi, siccome Contini era anche un bel ragazzo, allora s’inventavano che non faceva vita da professionista, ma non era vero niente: è che davanti aveva Hinault…

«Non era vero niente. Quando preparava le corse, le preparava. Erano molto seri, sia l’uno sia l’altro. Anzi: tutti e tre».

- Contini poi si è pure sposato giovanissimo, quindi…

«Ancora oggi penso che con sua moglie sia molto legato. Per me è stato un grande, perché, ti dirò, a me ha dato tanto…».

- E poi c’è questa storia in comune tra voi, che dopo il ciclismo avete fatto tutt’altro nella vita. Silvano s’è reinventato un mestiere, specializzandosi in un particolare settore d’infissi.

«Sì, sì. E da quanto so io lavora sodo anche. È ripartito bene, ecco. Ha fatto una bella cosa».

- Altri capitani, Ennio? Del Beppone nazionale parliamo adesso o dopo?

«Il Saronni, poi a seguire ho avuto Bugno e Rominger, però io ero più “dedicato” a Rominger: ’87 Saronni, ’88, ’89, ’90 con Rominger e Bugno».

- Nel ’90 Bugno ha vinto il Giro restando in rosa dalla prima all’ultima tappa.

«Io però purtroppo non c’ero…». [ride amaro, nda]

- E lì i premi sarebbero stati alti, eh…

«Ti dirò, il rammarico… Una delle cose peggiori che mi siano successa nella mia carriera».

- Proprio quell’anno lì…

«Devo dirti un aneddoto negativo. Ho fatto tredici anni da professionista, ho fatto dodici Giri d’Italia e con i miei vari capitani – senza ritornare, come hai sentito prima, a Contini, Baronchelli e Prim e Saronni e ai tempi il Corti – e non ho mai vinto il Giro d’Italia. Il tredicesimo ho deciso, anche per scelta, di non fare il Giro. Non avevo mai fatto il Giro di Spagna, ho chiesto a Stanga se me lo faceva fare e m’ha detto: Guarda, hai detto giusto, Rominger ti vuole assieme, vai con lui in Spagna, salti il Giro e poi vediamo nel prosieguo della stagione». 

- Il Giro di Spagna era ancora era ad aprile, no?

«Sì, non era come oggi. Ho deciso per questo ed è stata la mia sfortuna perché, tra l’altro, i miei compagni han preso 63 milioni di lire a testa. Ed io ho preso settecentomila lire. Ho dovuto ancora… Purtroppo son stato penalizzato, ecco». [sorride amaro, nda]

- Come andò quella Vuelta? Alla fine la vinse Marco Giovannetti…

«Andò male perché Rominger, in una cronoscalata adatta a lui, pioveva, è andato in crisi, ha avuto una giornata-no e ha perso… È andato fuori classifica, è arrivato 14°. Poi alla fine ho preso, ti ripeto, settecentomila lire, mentre se stavo qua, mi prendevo un appartamentino piccolino… Invece ho dovuto lavorare fino a oggi». 

[la cronoscalata era la 15ª tappa, la Ezcaray-Valdezcaray di 24,1 km, vinse Jean-François Bernard; Rominger finì la Vuelta 1990 al 16° a 13’33”]

- Per dire, gli snodi della vita…

«Vabbè…».

- Torniamo alla sua Del Tongo al Giro ’87. Se le dico “Sappada”, visto che lei in gruppo c’era, che ricordi ha?

«Adesso non ricordo bene la tappa, chi l’ha vinta?».

- L’ha vinta Johan van der Velde ma trent’anni dopo ancora se ne parla per via del tradimento – o presunto tale – di Roche nei confronti di Visentini. 

«Sì, ero in gruppo. Ero con Visentini. Mi ricordo che non stavo un granché bene, avevo un po’ di bronchite, mal di gola, così nel finale mi son staccato. Però nella parte in cui Visentini ha dato un po’… fuori, io c’ero. E purtroppo…».

- Di Roche in fuga, e della Carrera che dietro tirava, avete saputo da radiocorsa?

«Sì, l’abbiam sentito per radio. E poi in parte l’ho vissuta perché per un bel pezzo son stato con loro. E si vedeva che Visentini non era tranquillo. Smaniava, andava alla macchina, ritornava e via via. Poi, nel finale, come ripeto, io mi son staccato perché non stavo un granché bene…».

- Roberto prese quasi sette minuti…

«Sì, io son arrivato anche più indietro, purtroppo. Vabbè. Però per lui che doveva vincere il Giro è stata una giornata-no. Era molto nervoso. Quello che posso dirti è che era molto nervoso. So che poi…».

- E all’arrivo, quel famoso «Stasera qualcuno va a casa».

«Avrà detto delle parolacce, un po’ tutte, ecco… [sorride, nda] Roche ha vinto, purtroppo per Roberto. Roche quell’anno lì ha vinto Giro, Tour e mondiale, quell’anno lì è stato... Per Visenta è stata una giornata-no. Secondo me non aveva… Non stava un granché bene. È logico, se Roche era con lui, Roberto forse era più tranquillo, meno nervoso, magari in parte avrebbe ricucito lo strappo che aveva sugli altri…».

- Quando avete capito la situazione, voi della Del Tongo come vi siete mossi? Perché voi facevate corsa ancora per Saronni prima che per Giupponi o Piasecki, no?

«Sì, be’, Saronni quel giorno lì – quell’anno lì – non c’era… Piasecki era un cronoman ma per quello cui dovevamo puntare noi… Saronni, nella tappa del Fedaia [il giorno dopo, nel finale della Sappada-Canazei, vinta anch’essa da Van der Velde, che conquistò anche il gpm, nda], aveva perso altro tempo e così via. Non era il suo anno, non era il miglior Saronni».

- Come ex gregario, che cosa pensa del comportamento di Eddy Schepers, fedele al suo capitano Roche anziché alla sua maglia rosa Visentini? Lo stesso Schepers che poi, l’anno dopo, Roche si è portato alla Fagor…

«Io avrei fatto una scelta diversa. Nel mio carattere, non avrei mai mollato Visentini, gli sarei stato più vicino, come mi è successo alcune volte con Silvano [Contini]. Anche lui ha avuto delle crisi un po’ particolari, ma fino all’ultimo non l’ho mai mollato. La tappa di Montecampione: lui è maglia rosa, avevamo Tommy Prim e Baronchelli davanti, poi vabbè Hinault li ha staccati, però io son stato vicino a lui, per il morale, per tante cose. Penso che avere vicino un gregario, o due, il capitano si sente un po’ più tranquillo, anche se non ha gambe. E anche se non ha gambe, però con due persone vicine o che, il morale sale e lui perde meno che a lasciarlo come Schepers ha lasciato Visentini».

- Schepers ha ammesso di essere sempre stato fedele a Roche perché Roche se lo portava sempre dietro, in squadra e ai circuiti. E infatti l’anno dopo, erano alla Fagor con Robert Millar, lo scozzese ex Peugeot che più che per Breukink, suo capitano alla Panasonic, quel Giro lo corse per Roche...

«Io non ero così. Io non pensavo ai circuiti a seguire, e poi magari…».

- Vanotti però non rischiava mai di restare senza squadra e per lo stesso motivo: perché era leale, no?

«Io, di carattere, sapendo che il mio capitano era in crisi, proprio d’istinto mi fermavo. E facevo il possibile per rimediare a qualsiasi inconveniente, ecco. Magari una foratura, una caduta… Non è che su queste cose sorvolavo. Nei momenti di crisi essere più vicino era importante». 

- Lo chiedo a chi era in gruppo: quanto contava, se contava, che Schepers e Roche fossero stranieri in una squadra italiana, per di più piena di bresciani, dal direttore sportivo al nucleo storico dei vari Leali, Bontempi eccetera? Gli stranieri facevano un po’ gruppo a parte?

«Sì, può essere che l’abbian fatto. Però, secondo me, stava a chi il gruppo lo gestiva dire: è un obbligo che vi fermiate con Visentini. È un obbligo: voi vi dovete fermare. Stop». 

- Boifava e Quintarelli ci hanno anche provato a fermarli ma non ha funzionato…

«Non si son fermati. Che non abbian obbedito agli ordini, questo non lo so, non lo posso dire. Però, secondo il mio modo di vedere, deve essere un obbligo. La maglia rosa si era staccata, e loro dovevano essere vicini. Se poi invece loro pensavano a un’alternativa, allora è giusto così».

- Chi era il diesse della Del Tongo nell’87 [Pietro Algeri]. E alla Chateau d’Ax poi cosa è successo?

«Alla Chateau d’Ax io mi son trovato bene. Ho fatto gli ultimi tre anni, con Stanga, ero considerato, come corridore. Ho lavorato tanto per uno, per l’altro, per quest’altro. Sono riuscito bene, secondo me. L’ultima non è stata una grande annata, proprio perché era il mio ultimo anno, però, ecco, dai, posso dire che non sono andato male in quei tre anni. Ho avuto la sfortuna, nell’89, di cadere alla prima tappa al Giro d’Italia, a Catania. Mi sono rotto una scapola, ho fatto pochissimi chilometri, trentacinque chilometri, e m’han portato in ospedale».

- E il Giro è finito lì.

«Finito lì. Ho dovuto prender l’aereo e tornare a casa. Ero un po’ amareggiato perché uscivo dal Romandia bene. Avevo fatto un bel Giro di Romandia, ero arrivato non per il piazzamento ma facendo il mio solito lavoro. Ero arrivato in condizioni ottimali, ed essere caduto m’è dispiaciuto molto».

- A proposito di rimpianti, torniamo all’87: dopo il gran lavoro fatto al Giro, invece di andare in vacanza… 

«…m’hanno mandato al Tour. E niente, son andato al Tour un po’ così. Non stavo male eh, perché fino a tre quarti di Tour avevo una buona condizione. Avevamo Luciano Loro che andava fortissimo, Saronni si era ritirato, eravamo arrivati secondi nella cronometro a squadre, dietro la Carrera. Io non ero un Superman, però non stavo male. Ma la terzultima tappa, con dentro il Galibier, ho avuto problemi d’intestino. Ho avuto tante problematiche e ho nel finale di gara fatto un errore. Diciamo la verità: mi sono attaccato, addirittura slanciato, a una macchina della giuria, per due, tre volte. Mancavano tre, quattro chilometri e ho fatto due, tre volte questo gesto, prima a una poi all’altra, perché avevo rimesso anima e corpo. Non mi han capito e mi hanno mandato a casa e questa per me è stata… una cosa che non avrei mai voluto. Ma purtroppo è successa, e m’ha lasciato tanto amaro. Mancavano tre giorni soli, era l’ultima tappa dura. Potevo arrivare a Parigi, e per me sarebbe stata una bella soddisfazione personale».

- Si ricorda, di quel Tour, la tappa di La Plagne? Quella in cui Roche al traguardo svenne e fu soccorso con la maschera dell’ossigeno…

«Non me la ricordo bene». 

- Nel ciclismo scientifico di oggi – con le radioline, l’srm – una Sappada, o anche una La Plagne, non succederebbero…

«Noi avevamo una lavagnetta con cui ci davano i tempi. Oppure era il ds che, quando vedeva la malparata, veniva subito sull’ultimo uomo della squadra, e l’ultimo uomo della squadra risaliva per dire: Guarda che è così e così, gli ordini son questi… Nel ciclismo attuale la cosa è un po’ più precisa, ma non vedo neanche giusto che un corridore non debba correre con la propria testa e capire i momenti difficili e quelli non difficili, in modo da limitare i danni. Secondo me era meglio il nostro ciclismo. Era più fantasioso. Più un po’ così, ecco. Dovevamo essere molto attenti. Non eravamo guidati dalle macchine, dovevamo essere noi molto attenti, sia come singolo sia come squadra. Capire i momenti difficili. Capire i momenti in cui si poteva attaccare, oppure i momenti in cui bisognava essere furbi a dimostrare che eravamo forti quando forti non eravamo. Perché alcune volte avevamo il capitano in crisi…».

- …saper bluffare…

«Saper bluffare. Bravo: è la parola giusta. Invece oggi cosa fanno? Dalla macchina dicono, danno ordini, quando parte subito una fuga, se il corridore è distratto viene subito aggiornato, mentre noi dovevamo essere attenti, esserci con la testa. E cercare di non mancare, di non mancare in nulla».

- C’è poi un altro aspetto. Oggi, conoscendo con i wattaggi, dall’ammiraglia ti dicono: teneteli lì, tanto li riprendiamo fra tot chilometri, ne mettono cinque o sei davanti a tirare ai cinquanta orari e ciao…

«Lo facevamo anche noi, però non era un calcolo così preciso, scientifico. Noi avevamo largamente un’idea sui minuti che ci davano sulla lavagnetta».

- Come in quel Giro di Svizzera, no?

«Eh sì. Dovevamo stare molto attenti e capire bene se andarli a prendere o no. Oggi sono… Hanno una precisione incredibile».

- Si diverte ancora a guardare il ciclismo, o no?

«Sì».

- Nonostante tutto?

«Io ho smesso, però non ho mai mollato il ciclismo. Sono entrato a far parte del gestire i ragazzini, allenare e così via. Son rimasto nell’ambiente per tanti anni ancora, e ancora oggi sono dentro. La passione c’è».

- La passione, lo so. Volevo sapere se le piace il ciclismo che vede in tv. O se magari l’annoia, perché troppo monotono…

«No, mi piace. Purtroppo però non ho così tanto tempo di seguirlo, è quello il problema. I miei orari alcune volte mi fanno… Devo riposare. Devo recuperare un po’ le energie, perché il mio lavoro è un po’ duro, ecco…». [sorride, nda]

- Ecco, già che ci siamo arrivati in modo naturale: l’Ennio Vanotti di oggi che cosa fa, a parte organizzare corse per beneficenza e formare giovani corridori?

«Quando ho smesso, a fine ’90, ero già al lavoro al mercato ortofrutticolo di Milano. Poi, dopo otto anni, sono entrato a far parte del mercato di Bergamo. E alterno, dagli anni Novanta a oggi, ho fatto due lavori diversi. Uno, il direttore sportivo alla Index con Savoldelli. Abbiam vinto il Giro d’Italia [2002]. Non l’ho mai vinto da corridore, l’ho vinto da direttore sportivo. Purtroppo però m’han penalizzato anche lì. Per di più sono dovuto andare a cercarmi il lavoro perché avevo disdetto quello che avevo. Ho dovuto ritrovarmi un lavoro perché…».

- Facciamo un passo indietro: il passaggio dal mercato ortofrutticolo di Milano a quello di Bergamo coincide con quel periodo o non c’entra niente? E l’altro lavoro qual era?

«Non c’entra niente. Allora: ho fatto prima Milano/Bergamo, poi alla Nolan caschi».

- E alla Nolan che cosa faceva?

«Il verniciatore. Ho imparato a fare il verniciatore di caschi».

- Il mestiere l’ha imparato lì?

«L’ho imparato lì, alla Nolan. Mi ha dato la possibilità… La mia vita non è tanto fortunata… [lo dice allargando un sorriso amaro e insieme dolcissimo, ma del tutto privo di autocommiserazione, nda] La ditta in cui ero, a Bergamo, purtroppo ha fatto un “buco” a livello non solo nazionale ma internazionale quasi, e siam rimasti senza lavoro. Io ero tornato dalle vacanze e a casa ho trovato la lettera di fallimento. Non sapevo… Sapevo che le cose non andavano tanto bene, ma non da arrivare al fallimento…».

- E nessuno dell’azienda vi ha chiamato, se non altro per avvertirvi?

«Niente. Sono tornato dal mare e ho trovato la lettera di fallimento. A casa, nella posta. E son dovuto partire a cercarmi lavoro. Ho trovato, tramite persone, un posto di lavoro alla Nolan. Ho fatto sei mesi di apprendistato. Ho imparato a verniciare. Facevo i turni: sei-due, due-dieci; alcune volte ho fatto le notti. E devo ringraziare la Nolan, eh. Devo ringraziare, tramite queste persone, perché mi hanno dato la possibilità, mi han dato lavoro e tutto. Dopo che avevo imparato, nel 2001 ho avuto una richiesta. Io ho il tesserino di terzo livello, il [Giovanni] Fidanza mi chiede: Ennio ma a te non piacerebbe farmi da secondo nella mia squadra, la Index? E allora mi dice: Se vuoi, se hai delle ferie, ti porto con me a fare il Giro di Germania. Mi dai una mano, vedi come va e poi se ti fa piacere… Ho fatto il corso di quarto livello. Son stato promosso e ho preso il tesserino come direttore sportivo di prof. Ho deciso di provare. Ho vinto il Giro d’Italia. Ho perso soldi [sorride amaro, nda]. E a inizio 2003 è subentrato il fallimento dello sponsor».

- Ma i premi del Giro 2002 vinto li avete poi presi?

«Ma noi con i premi del Giro non c’entravamo. I direttori sportivi non c’entrano niente. Io ho perso i soldi dello stipendio che dovevo prendere: 2003, dovevo andare in Malesia, come il primo anno, avevo fatto la mia prima gara in Malesia. Ho dato io le dimissioni perché capivo che [i soldi] non arrivavano, che non c’era nulla. Già lì avevamo dei debiti, dei soldi da ricevere e non si prendevano. Oltre a quello, il team manager, senza far nomi, "ricattava" tutta la squadra. Ha detto: se volete continuare, questi sono gli stipendi che io vi do. Ci ha portato a un ribasso di stipendi a tutti. Lì ho detto: da oggi do le dimissioni, ho preso e sono andato via. Il giorno dopo, ero al mercato di Bergamo. A lavorare. Ho chiesto il giorno dopo se mi prendevano a una ditta, sono andato a due tre parti, m’han detto: Ennio, se vuoi cominciare domani, il posto di lavoro per te c’è. Ho iniziato di nuovo a fare il mio lavoro. E mi è dispiaciuto per la Nolan perché, ti dirò, m’ha dato tanto, e io a loro ho dato poco, a essere sincero. Però poi, quando ho smesso e son ripartito per fare una scelta di lavoro, preferivo andare all’aria libera, anziché stare in uno stabilimento. Non è che mi dispiacesse, però ero… boh. Mi sentivo…».

- Un leone in gabbia?

«Eh, non era per me. Anche se in parte lavoravo meno, avevo più tranquillità… Però preferivo stare all’aria libera. Ho preferito quello». 

- Perché quello un corridore ce l’ha dentro, vero?

«Forse sì. C’è anche più dialogo, più tutto, invece lì era più un lavoro di catena. Gestivo dieci ragazze. Io dovevo verniciare, e dare loro l’input: pulizia, non pulizia, tutte queste cose. Però, ecco, ho fatto una scelta definitiva, di andare là, anche perché oltre a quello potevo allenare, potevo stare con i ragazzini, potevo andare alle corse. Avevo la possibilità di fare ancora il mio sport».

- La vita di Ennio.

«Sì».

- In che cosa consiste il lavoro che fa adesso? Com’è la giornata-tipo del Vanotti attuale. O forse dovrei dire la nottata-tipo…

«In parte è un facchinaggio. La mattina presto, all’una e mezzo o alle due, due e mezza arrivano i camion, bisogna scaricare. Bisogna piazzare in mostra la merce. Da lì viene venduta, ritirata, pesata, consegnata all’interno del mercato. Ed io faccio parte di questo gioco, ecco. La mattina metto il banco, vado a far le consegne, con il carrello, nel mercato. Se non ho il carrello, magari uso il muletto. So scaricare. So usare il muletto, ho il patentino anche per questo. E niente, la mia giornata è così. Se [il mercato] è finito, si ritira la merce, si mette in frigo, si sistema e via via».

- A che ora si libera, di solito? 

«In questo periodo, facciamo una media di nove-dieci ore al giorno. Dalle otto».

- Poi riposino e i pomeriggi con la squadra lunedì, mercoledì e venerdì?

«No: riposino, e martedì e giovedì e domenica mi dedico ai ragazzi». 

- E la domenica le gare?

«Adesso alle gare non vado più. Adesso alleno fino all’inizio delle gare, poi però non ci vado più».

- Perché non ci va più?

«Perché devo stare un po’ con la famiglia [sorride, nda] Ho una nipotina. Sono tre-quattro anni che la domenica non vado più. Ho una nipotina, ho una famiglia che un po’ ho trascurato». 

- Quanto le pesava star via, prima da corridore e poi da direttore sportivo? Quanto stava via, tra gare e trasferimenti, duecento giorni l’anno?

«Eh sì. Più o meno, sì».

- Le pesava dal punto di vista degli affetti, star via così a lungo?

«Ma, sai, noi uomini siamo un po’ zingari. Per le mogli, purtroppo, lasciarle a casa, non è proprio così… Io mia moglie la lasciavo qua. Non è che ti dà “fastidio” però, ecco, per loro è penalizzante. Per noi, è il nostro mondo, è tutto bello. Però alcune volte… Certo, quando correvo, quando erano piccoli, mi mancavano i miei figli, la moglie… Partivo per certe gare e sapevo che stavo via trenta giorni, però era il mio lavoro. La cosa più brutta è stata quando stava lì lì per nascere il bimbo e son partito per il Giro di Svizzera. Son dovuto – obbligatoriamente – andare, ecco. Mentre altri invece stanno a casa, con la moglie, a darle morale e tutto, ecco…». [sorride, anche qui, amaro, nda]

- Altre cose brutte viste nel ciclismo? Quello che si può dire…

«Non possiamo dirlo, dai. Doping, purtroppo».

- Solo quello?

«Sì, alcune cose… [sbuffa, nda] Il brutto-brutto è quello. Poi, il resto, non è male. Non è male, l’ambiente del ciclismo. Perché, come vedi, negli stadi succedono cose negative, mentre nel ciclismo le cose son positive. Quando si trovano migliaia di persone su per le montagne…».

- C’è un’aria di festa.

«L’aria di festa. Mangiano. Bevono. Si creano gruppi. Si offrono panini uno con l’altro. È una festa unica».

- Tranne poche eccezioni. E di una di queste, lei che era in gruppo, vorrei mi parlasse: durante il Giro ’87, dopo la tappa di Sappada, Roche fu preso a insulti, gli tiravano brandelli di carne, gli sputavano addosso. Al Giro dell’84 un tifoso sputò in faccia a Visentini. Prim ancora, i tifosi di Moser che se la prendevano con Baronchelli e lo stesso Visentini… Non belle pagine del tifo italiano. Se le ricorda?

«Posso ricordarmi di Moser/Baronchelli, perché da quel lato lì, alcune volte, c’erano un po’ di insulti o parolacce o qualche sgarbo. Però, ecco, se dobbiamo fare il rapporto con altri sport, è un minimo proprio… piccolo».

- Volevo sapere però se in corsa queste cose le ha viste.

«Io le ho viste. Alcune volte per Moser/Baronchelli… Sì, sono cose negative. Però, ecco, son cose piccole, e non tantissime. Se dobbiam guardare nell’arco di un anno, di una stagione, si vedono pochissime cose negative e qualche “tipo” particolare. Però, ecco, quello che succede in altri sport, nel ciclismo non esiste. Cioè: c’è un buon andare, dai».

- Di Visentini che ricordi ha?

«Io con Roberto c’ho corso contro da dilettante. Io di due anni più anziano, lui del ’57, io del ’55, però era forte e mi ha battuto varie volte. Ed è diventato un campione, io son rimasto un gregario [ridacchia, nda], ecco. Ma con lui ho avuto comunque delle sfide dirette, posso dirlo. Tipo la Trento-Bondone: lui è arrivato primo, io terzo. A lago di Pusiano lui primo, io secondo. Da quegli scontri diretti si capiva che era un campione».

- Era un predestinato? Campione del mondo al primo mondiale juniores, a Losanna ’79…

«Le qualità c’erano. Io un campionato del mondo non l’ho mai vinto. Son stato un buon corridore. Ho vinto una corsa importante, il Val d’Aosta, e c’eran dei grossi corridori, ti dirò. I primi dieci, nell’arco degli anni, son professionisti tutti. Quell’anno lì era il mio anno…».

- Per lei è com’è stato il passaggio nei pro’? Rispetto ad altri ha fatto meno fatica?

«Mah… Io ho fatto un po’ fatica nella prima parte ma poi mi sono adattato bene». 

- Prima mi parlava delle mogli che rimangono sole. Una volta sceso di bici, con lei a casa tutti i giorni, l’adattamento alla nuova vita com’è stato?

«Sicuramente un poco meglio. Un poco meglio».

- Qualcuno invece s’è trovato male, perché nella vita di tutti i giorni magari tutta quella adrenalina delle corse non c’è…

«Mia moglie purtroppo si è dovuta adattare anche al mio modo di stare ancora nell’ambiente, perché lavoravo però tre volte la settimana allenavo i ragazzi, e poi andavo anche io in bici. Facevo ancora un po’ la vita del corridore. Perché per star con loro – avevo prima gli junior e poi gli Under – e per star con loro, dovevo mantenermi un po’ a regime. Poi, al lavoro che avevo dovevo andare… Praticamente, in parte, l’ho penalizzata ancora. Sicuramente ero un po’ più vicino, ecco, in settimana, però la domenica tornavo un po’ sul tardi. La vita era ancora un fac-simile [di quella da corridore]… Una cosa che dimenticavo di dirti: del ’90 al ’94 ho corso in mountain-bike».

- E andava piuttosto fortino, ho letto.

«Sì, andavo. Nella mia categoria, bene o male ero il migliore o uno dei migliori a livello provinciale o regionale. Ho vinto tante gare, in mountain-bike. Non ero molto tecnico, pagavo le discese e nel tecnico potevo soffrire, però mi divertiva. Ero ancora nella Bianchi e la mia vita era ancora, in parte, nel mio sport preferito. Anche se era diversa, però…».

- C’era già Massimo Ghirotto in Bianchi nella mountain bike, no?

«Sì, Ghirotto è direttore sportivo [la Bianchi MTB chiuderà a fine 2019, nda] e gestisce la squadra mountain bike ormai da anni». 

- Prima le ragazze e poi la MTB…

«Ecco, un rammarico è che non son mai stato… A parte Fidanza, che mi ha dato la possibilità di entrare a fare [il direttore sportivo]…».

- E oggi non le piacerebbe rientrare? O è troppo tardi?

«Adesso come adesso, no. Adesso basta. Non entro più, sto mollando. E ti dirò, l’anno prossimo non allenerò più».

- Per via del troppo impegno o perché subentrano altre esigenze?

«Per stare un po’… Primo, comincio ad avere una certa età. Secondo, è bene che anche i giovani vengano avanti. Rimango nella squadra, cercando di portare avanti il gruppo, di trovare qualcosa per aiutare a mantenere il gruppo a livello finanziario. Andrò a vederli ogni tanto, ma non sempre, di continuo, tipo il martedì, il giovedì, la domenica».

- Questa lucidità di capire sempre quando è il momento di…

«…di staccare».

- Ecco: è una cosa che ha dentro? Le viene naturale? È una dote rara, eh.

«Ti dirò, quando sono arrivato, nel ’90, ho capito che cominciavo a perdere un po’ non gli stimoli – gli stimoli no: avevo grinta e tutto – però ero un po’ stanco mentalmente. Mentalmente, avevo corso tantissimo negli ultimi quattro anni. Tornando al discorso di prima, le classiche (Liegi, Freccia, Amstel), facevo il Giro di Romandia, il Giro d’Italia, il Giro di Francia e insomma era dura, ecco. Ho fatto quattro anni consecutivi così. E sono arrivato a fine ’90, anzi a metà stagione del ’90, a dire basta. La mente era stanca. Non tanto il fisico, ma come mente. Poi viaggiare in continuazione, tornare, ripartire m’ha fatto dire: è il momento di chiudere. Avevo trentacinque anni. È anche un’età che, se continuo, magari mi penalizza la mia vita a seguire. E niente, mi sono avvicinato un po’ di più, come si diceva prima, alla famiglia. Qualcosa in più rispetto a prima, perché prima ero sempre in giro. E ora son arrivato a sessantatré anni a decidere dopo… – quanti anni sono dal ’90 a oggi? – ventotto anni come direttore sportivo, come aiuto nel mio gruppo, come vicepresidente, come presidente e via a seguire, di chiudere come direttore sportivo, come allenatore. Lascio spazio ai giovani. Abbiamo alle spalle qualche giovane, lascio a loro la facoltà di gestire. Ho dato già un po’ di dritte su come, secondo me, devono fare, però, ecco, lascerò a loro. Dovranno imparare, gestire e fare».

- Lei è rimasto all’ambiente, Roberto invece non ha più voluto saperne. Secondo lei perché?

«Mah… Non l’ho mai capito, il Roberto. È vero. Ti dirò: Roberto son riuscito a portarlo a Casazza…». [ride di gusto, nda]

- È uno dei rarissimi inviti che accetta…

«È vero. È strano ma vero. Non so se è stato per una forma di amicizia, di rapporto di conoscenza, perché abbiamo corso tanto insieme. Io ho avuto l’occasione di trovarlo al Trofeo Laigueglia amatori. Ci aveva invitato Bruno Zanoni. Non ricordo più se era il decennale o qualcosa del genere e avevano invitato tanti ex professionisti a partecipare. Eravamo ospiti e c’era anche Visenta ma Visenta ha fatto cinquecento metri e poi ha salutato tutti. Molto famoso il trofeo Laigueglia amatoriale. E noi abbiam proseguito. Abbiam fatto una parte, una bella parte del percorso…».

- Con “cinquecento metri” dice così per dire o davvero è andato via subito?

«Sì, cinquecento metri. Non ha fatto un chilometro. È partito poi è tornato, Visenta. E allora lì ho avuto occasione di dirgli: Dai, Robi, vieni da me che organizzo una gara e così così, mi farebbe tanto piacere… Ci risentiamo e niente, ci siam risentiti e lui ha partecipato, qua, quattro-cinque volte alla mia manifestazione».

- Verrà ancora?

«Adesso son due anni che non viene. Un anno fa ha avuto un problema, s’era storto una caviglia. L’anno scorso ha fatto un qualcosa di particolare e non è venuto, però ci conto che venga ancora». [Roberto ci sarà sia nel 2018 sia nel 2019, nda]

- Con i giornalisti invece…

«Lui snobba».

- Non è vero però che non ne vuol sapere più del ciclismo. Roberto è ancora innamorato della bici, no? Quello che magari non sopporta è l’ambiente, o “certo” ambiente. 

«Secondo me sì. Lui ha sempre fatto vita da atleta. Fin da quando l’ho conosciuto lui secondo me ha sempre fatto il corridore. Ha sempre fatto il corridore. Ti ripeto: ho corso contro di lui da dilettante, ed era uno che sapeva andare. Vinceva perché sapeva preparar le corse, non perché … La gente ne ha parlato male ma secondo me lui faceva veramente il corridore».

- E perché in gruppo correva in decima, quindicesima posizione a destra o a sinistra, sempre vento in faccia?

«Correva sempre con paura a stare in gruppo». 

- E spesso cadeva…

«Non so se era sfortuna o no. Però, ecco, è entrato in tante cadute, che è strano perché, quando uno corre così all’esterno, è difficile che non veda le cadute o che. Invece lui, sfortuna o che, ogni tanto… Distrazione. Lui era un po’ distratto, perché ogni tanto parlava con l’uno, scherzava con l’altro. Era un po’ particolare».

- Davide Cassani, che al Giro ’87 era suo compagno di stanza, mi ha detto: «Ero io il suo garibaldi». Visenta era un po’ così…

«Sì, è vero. Da quanto ne so io era un po’… Aveva le persone che facevan per lui. Lo guidavano, in poche parole».

- E il fatto che corresse quasi soltanto in Italia? A lui interessava il Giro, forse la Tirreno…

«Quello. Lui arrivava a un certo punto e diceva basta. Andava al lago. Forse la zona in cui lui abita, sai, ti portava a distrarsi un po’. A parte nel periodo che magari c’era la maglia azzurra, e doveva cercare di esserci, però, ecco, magari mollava un po’ troppo. Da quel lato lì, sì».

- A proposito di maglia azzurra, il rapporto fra Vanotti e la nazionale?

«Male. Ti dirò, un rimpianto… Ecco, una delle cose negative è che non mi han mai portato. Ma penso che non stia a me dirlo…».

- Ai tempi gli Sceriffi contavano, e i fedelissimi se li sceglievano loro, no?

«Purtroppo io non ho avuto questa fortuna di partecipare. Ti dirò: nel periodo delle premondiali avevo sempre un calo, perché lavoravo tantissimo e dovevo esserci in tutte le gare, e io ero così. Però ci son stati degli anni che, secondo me, potevano portarmi. Non mi hanno portato. Ero nella lista dei dieci della rosa azzurra, poi venivo escluso anche se non lo meritavo».

- Si può dire, dopo tanti anni, che Martini – gran persona e gran Ct, intendiamoci – era anche, in senso buono, un ottimo politico? Perché è inutile nascondersi: in nazionale devi anche accontentare quello, quell’altro, la tal casa di biciclette…

«Io mi aspettavo che mi portasse. Non mi ha mai portato. Mi diceva: Vedi…».

- Vanotti non era abbastanza “protetto”, si può dire così?

«Secondo me, sì. Avevo un Contini a fianco, con cui lui [Martini, nda] ha avuto anche degli scontri e purtroppo… Ho pagato un po’ gli uomini, i mei personaggi che andavano per la maggiore. Non sono stato mai accontentato ma non è colpa dei mei capitani, però: quello, no».

- Ma in quel ciclismo gli sceriffi contavano così tanto?

«Una volta gli sceriffi erano pochi però eran buoni, nel senso che c’erano veri sceriffi, secondo me. I Moser, i Battaglin, i Saronni…».

- Hinault.

«Bravo: Hinault. I Delgado, i Fignon… Cioè, questa gente. Erano dei veri sceriffi. Persone che facevano cose che altri non sapevano fare. Sceriffo era sceriffo».

- C’era anche chi sceriffo si credeva ma magari non ne aveva il carisma: Moreno Argentin?

«Per fare lo sceriffo? No, poteva esserlo però non nelle corse a tappe. Sceriffo nelle corse in linea. Sceriffo nelle corse a tappe non poteva farlo, secondo me, perché era un corridore…».

- Ci sono stati, nelle corse a tappe, sceriffi che si sentivano tali e non lo erano?

«No. Secondo me, no. I nomi che abbiam detto prima erano tutti personaggi che potevano vincere un [grande] giro».

- Visentini l’ha pagata questa cosa di metterseli contro gli Sceriffi, Torriani eccetera? Se vedeva le spinte a Moser, era uno che non le mandava a dire…

«Lui andava contro un po’ tutte le correnti, eh. Non è che teneva la lingua chiusa e lasciava perdere. E forse veniva anche un po’ penalizzato. Perché a un certo punto poi qualcuno si vendicava dei piccoli screzi che faceva con gli altri».

- Per esempio, al via del Giro ’87 Visentini disse che per misurare i distacchi di Argentin ci sarebbe voluta «la sveglia»…

«Sì, diceva cose che non doveva dire. Sicuramente. È sempre stato un po’ così. Caratterialmente lui era un po’… su. Non guardava nessuno [ride, nda]. Se c’era da dire un qualcosa, anche a Moser o che, non aveva peli sulla lingua».

- Quando fu annullato lo Stelvio, fu anche perché Moser contava e quel Giro bisognava farglielo vincere?

«Mah… La gente dice che Moser dovevano farlo vincere e così cosà. Però io non la vedo proprio così. Anche se qualche dubbio te lo danno». 

- Qualche scia delle moto, l’elicottero nella crono finale da Soave a Verona...

«Sì, han parlato dell’elicottero. C’ero anch’io quell’anno lì. Però non lo so… Sì, è vero: c’era l’elicottero che magari poteva “spingere”. Quello che secondo me è la diversità è che il Moser aveva le ruote lenticolari e il Fignon non le aveva. La resa è diversa, secondo me. Lì è il lato tecnico, secondo me, a parte l’elicottero. Perché se tu provi le ruote lenticolari – non so se hai avuto mai l’occasione di usarle – ti danno una sensazione… Ti danno una spinta maggiore. E Fignon aveva le ruote normali, giusto o sbaglio? Eh! E dan qualcosa in più».

- Lo stesso accadde con LeMond al Tour ’89…

«Io c’ero a quel Tour lì, e Fignon era sul palco a guardare la tappa, in parte. Fignon è arrivato e s’è buttato per terra. Ha dato l’anima. Però sì, è vero: le appendici servono. Però servono anche le gambe».

- In quel Tour, che perse per otto secondi, Fignon fu anche sfortunato per via della ferita al soprassella…

«Sarà stato quello, non si sa».

- Con Fignon i suoi rapporti com’erano?

«Un ciao semplice. Io avevo più feeling con Hinault. Bernard Hinault ogni tanto mi chiedeva come stavo, io lo chiedevo a lui…».

- È vero che Hinault in Italia era una cosa e in Francia un’altra, cioè patron assoluto?

«Io l’ho visto forte in tutte e due le parti».

- Intendevo dire che in Italia cercava alleanze, qualche amico, in Francia comandava lui.

«In Francia aveva un’altra gamba. In Italia era forte, ma non forte come in Francia. A me impressionava». 

- Il più grande che ha visto?

«Negli anni della mia carriera, sì».

- E nelle corse di un giorno?

«Corse di un giorno, Moserone. Un grande, secondo me. Corse di un giorno: uno che dava l’anima, uno che provava sempre a vincerle. Corse importanti eh, non corsette. Provava a vincerle».

- Un bel cagnaccio.

«Un cagnaccio».

- Era un cagnaccio anche con i suoi gregari, per referenze chiedere a Mario Beccia…

«Io inizialmente non ho mai voluto andare con Moser. Per il carattere suo. Quando vedevo che i corridori li sgridava molto diretto, diretto, molto brusco, anche con parole, alcune volte... Tanto per farti un esempio: questi lavoravano, a un certo punto mollavano, andavano dietro, lui era là che tirava o che, poi si sfilavano, no? E poi rientravano. Li vedeva lì, li sgridava: Oh, vieni avanti a tirare, sennò staccatiiii! [sottovoce ne imita l’urlo, nda] Io questo non lo sopportavo. E non ho mai voluto andar con lui. Era una mancanza di rispetto, secondo me. Per la mia mentalità, quando avevo fatto il mio lavoro e cercavo di tenere, dicevo: magari se fora, non sono inutile perché posso dargli una ruota o posso fare una tirata di trecento metri. Cioè lui pensava… Gli dava fastidio se un corridore non era là al top a fare il lavoro che voleva lui».

- E il gregario non lo faceva mica apposta a staccarsi, dava quello che aveva.

«Davi quello che. È il suo carattere… Però molto leale. Molto leale. Non era una bandierina. Quello che ti doveva dire ti diceva. Te lo diceva e poi finito. Finita lì».

- Non portava rancore. E quel che prometteva manteneva.

«Non portava rancore. Manteneva quello che ti diceva, magari anche ingiustamente. Perché il gregario, sai, dopo, magari la sera, a quanto ne so io, lui andava là e lo... Qualcun altro – non faccio nomi – invece era più bandiera: ti diceva che eri bravo, poi dietro ti parlava alle spalle. Invece lui, da quel lato lì, era molto leale».

- Mi ha detto che all’inizio lei non è mai voluto andare in squadra con Moser. A fine carriera però se lo è ritrovato alla Chateau d’Ax. Che cosa le ha fatto cambiare idea?

«Riguardo il Moser, sì, ho corso con lui. Cioè: ha fatto la foto con noi in squadra, però non abbiam più corso insieme. Ci siam trovati nella Chateaux D’Ax [nel 1988, nda] l’ultimo suo anno e uno dei miei ultimi. Niente, ho un ricordo suo con la maglia Chateaux D’Ax però non son mai stato il suo gregario, dai».

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