Giancarlo Perini, dalla Terra alla Luna (e ritorno)
«È stato meraviglioso. L’uomo che più di tutti ha determinato il risultato»
– Alfredo Martini
Settecentomila chilometri percorsi in carriera, a star bassi (in senso metaforico e no), come dalla Terra alla Luna e ritorno.
Un Giulio Verne a due ruote, Giancarlo Perini da Carpaneto Piacentino.
Anche lombrosianamente, con quel naso aquilino a stagliarsi sull’ampia pelata e le gote incavate da fame atavica, l’effigie stessa del Gregario d’antan.
Che corridore però, il Pero.
Classe ’59 per appena un mesetto (è nato il 2 dicembre), professionista dal 1981 al 1995, una carriera al servizio degli altri, mai una soddisfazione per sé; a parte la vittoria – cercata per una vita eppure mai inseguita –, e arrivata quasi alla fine: la Cerignola-Crispiano, Giro di Puglia ’93.
L’anno prima, la sua stagione di grazia, lui, storico luogotenente del Chiappa, ha fatto (ri)vincere il mondiale a Bugno.
Fu lui a chiudere il buco nell'unica vera fuga (l'allungo di Leblanc, Echave, Boltz e Bruyneel), e a bestemmiargli nell’orecchio di stargli a ruota per poi lanciarlo fino ai duecentocinquanta metri in quell’ultimo, magistrale chilometro.
Attenzione, però: la rivalità di Bugno col Diablo è stata più cavalcata che reale. Il vero antagonista del Gianni nazionale, cordialmente ricambiato, è sempre stato Maurizio Fondriest. Mai troppo amato, anche in gruppo, il Professore meno trentino dei trentini.
Al Pero, invece, impossibile non voler bene.
Vado a trovarlo nel suo negozio di bici un freddo e piovoso lunedì pomeriggio di febbraio. È nel retrobottega, lavora in officina col figlio, che è ancora convalescente dopo una grave caduta in allenamento.
Per la lunga chiacchierata attraversiamo la strada per spostarci nella sede del Team Perini, la squadretta dilettantistica che il Pero ha fondato e dirige. Con lui parliamo di ciclismo di ieri e di oggi, di come e quanto sia cambiato e continui a farlo. In sella come in ammiraglia.
Nell'’87 Perini al Giro non c’era, e quindi Sappada resta sempre sullo sfondo, un po' sfuocata; ma al Tour sì, e quindi di quella Carrera lui può parlare con cognizione di causa. Non si sbilancia né si sbottona granché, il Pero; non sarebbe nel suo stile, ma a saperne interpretare gli sguardi e soprattutto i sospironi, qualcosa se ne cava. E ti rimane. Eccome.
Perini Sport
Carpaneto Piacentino (Piacenza), lunedì 5 febbraio 2018
- Allora, Giancarlo Perini, va bene se ti chiamo Giancarlo o devo chiamarti Duca?
«No, va bene Giancarlo. Va bene, va benissimo».
- Allora spieghiamo, magari per i più giovani, chi e che cosa è stato il "Duca di Benidorm"».
«Mah, cosa è stato… [ridacchia, nda] È stato un ciclista che ha corso tanti anni fa. Ha fatto quindici anni da professionista, disputato undici [in realtà otto, nda] Giri d’Italia, dieci Tour, due mondiali. Circa 700 mila chilometri nella mia carriera…».
- Da qui alla Luna e ritorno…
«Non mi son preso tutte le soddisfazioni che magari potevo prendermi però ho partecipato a tante vittorie di tutti i miei capitani, e anche queste ti appagano. E con la squadra ho fatto parte di tantissime vittorie».
- Ti butto lì due, tre tuoi capitani. Dimmi tu se vuoi aggiungerne o toglierne qualcuno: Giovanni Battaglin, so che per te è un nome molto importante, Gianni Bugno – un nome importante per tutti noi visto quel che avete fatto in nazionale – e magari te ne butto lì altri due: Roberto Visentini e Stephen Roche…
«Be’, diciamo che dovessi scegliere come persona, come uomo “più umano”, quello con cui mi sono trovato meglio, devo dire che è Giovanni Battaglin. Te l’ho già detto e lo ripeto. Perché era uno che sapeva farsi amare, farsi voler bene dai suoi compagni di squadra. È una cosa fondamentale. Te l’ho detto prima, che uno invece di dare cento dà anche centodieci quando viene ripagato da una parola gentile, da un gesto, da insomma da tante cose fondamentali dopo una tappa quando arrivi che sei morto che hai fatto tutto quello che potevi fare per far sì che il tuo capitano facesse risultato, quando sei in camera che te lo vedi venire in camera e che ti dice certe parole, insomma, io penso che a un chiamiamolo gregario, chiamiamolo come vuoi io penso che faccia piacere, ecco. Almeno, a me faceva molto piacere questa cosa».
- C’è invece qualcuno con cui hai più faticato a legare, magari il rapporto è stato di lealtà però magari solo professionale.
«Mah, diciamo che tra i nomi che hai detto tu, diciamo quello con cui forse ho legato meno è che secondo me era Roche. Era Stephen Roche, forse è stato quello che ho legato un po’ meno. E sono stato anche in camera con lui perché ho fatto dei Tour in camera con lui…».
- Compreso quello (dell’87) che avete vinto?
«Sì, compreso quello che abbiamo vinto».
- Ma nell’87 lui non era in camera con Eddy Schepers, che era il suo gregario “preferito”, chiamiamolo così?
«Allora, c’è stato un periodo che alla Carrera “ruotavano” un po’ le camere, perché Boifava non voleva che si creasse…».
- ...il clan?
«Il clan, ecco, il gruppetto… e così ho fatto delle notti, è stato in camera con…».
- Be’, insomma, poi alla fine qualche clan è nato, mi pare, no, trentun anni fa?
«E beh, insomma… Poi, è inevitabile che in una squadra, un in un gruppo ci siano poi quelli con cui ti trovi meglio e quelli con cui ti trovi peggio. Questa è una cosa inevitabile. Penso anch’io avevo quelli con cui mi trovavo meglio che erano Ghirotto, Bontempi, eravamo quei tre o quattro con cui facevamo un po’ più gruppetto, con cui ci trovavamo meglio, no? Con cui ci confidavamo, insomma… con cui c’era più affiatamento».
- Anche per via della lunga militanza insieme, si era creato questo blocco storico, un po’ con i bresciani che si allenavano magari insieme perché abitavano a pochi chilometri di distanza, poi proprio appunto perché voi eravate i grandi vecchi della Carrera/ex Inoxpran, eravate sempre stati con Davide. Da questo punto di vista, uno come Chiappucci e poi magari successivamente è successo un po’ con pantani comunque questi campioni che ancora campioni non erano ma personalità forti all’inizio magari l’impatto com’è stato con i vecchi?
«Eh non è stato… anche perché con un tipo come Chiappucci…».
- Anche perché attaccava, pronti-via e attaccava e vi rendeva la vita difficile…
«Ovviamente, soprattutto con un… peperino come Chiappucci, perché sai è uno che… uno da ammirare, uno che piaceva perché era uno che attaccava, uno che anche se poi “prendeva la balla”, come si suol dire, o saltava, così, però lui dava anima e corpo e insomma era uno che ha sempre attaccato e allora sai, i vecchi, quelli della vecchia guardia…».
- Ti butto lì un nome, Guidone Bontempi: non era uno che le mandava a dire… [ridiamo, nda]
«Eh. Non era molto ben visto… e insomma ogni tanto c’era qualche screzio però, dai, poi…».
- Ma al di là della corsa, anche dal punto di vista umano? Non voglio parlare di nonnismo, passami il termine forzato, hai capito cosa voglio dire? C’è questo giovane che freme e magari i vecchi ti dicono: okay, hai la gamba, sei forte ma magari devi imparare a correre… devi imparare a stare al tuo posto.
«Una volta, adesso forse il nonnismo come hai detto tu, una volta c’era molto, molto, molto, molto di più. Perché io mi ricordo quando io son passato io non ero nessuno però quando son passato c’erano quei tre o quattro – posso fare anche i nomi: Simone Fraccaro, “Pacho” Lualdi, siam passati io, Bontempi, [Giuliano] Biatta, in quattro eravamo passati, l’altro il mi ricordo più chi era nell’81 – non è che ci vedevano tanto di buon occhio, anzi ci portavano – ricordo ancora abbiam fatto il ritiro in Sicilia il primo anno – c’han portato al largo c’han piantato lì, ride, nda e menavano di brutto. Eh insomma…».
- Insomma è stata una scola, e come tutte le attività…
«Una scuola di vita anche questa no insomma».
- Cioè per tenere la cresta bassa, anche se allora non si portava.
«Indubbiamente. Loro poi si mettevano d’accordo e ti facevano soffrire, ti facevano far fatica».
- Ma tu, a tua volta, hai fatto la girare la ruota quando tu eri uno dei vecchi o no.
«Cominciava già a cambiare, il ciclismo. Certo, con qualcuno che “passava” che se vedi che uno passa professionista che però capisce già il meccanismo, non alza la cresta, non insomma si adegua a tutto il meccanismo del ciclismo. Se invece uno alza la cresta, anch’io…».
- Gliel’abbassavate un po’…?
«Eh, cercavamo un po’ di abbassargliela un po’. Ma sicuramente non come quando son “passato” io…».
- C’è anche un altro aspetto. Nel ciclismo che stava cambiando, cominciavano ad arrivare anche magari per qualcuno ingaggi che, per la vostra generazione, erano impensabili. Pensa a Fondriest: pronti-via campione del mondo giovanissimo, nell’88, magari in gruppo qualche invidia c’era perché poi, in fondo dicevano sì questo qui ha vinto il mondiale – e in circostanze un po’ così con la caduta di Criquielion – però deve dimostrare ancora tanto, e magari all’inizio era un po’ osteggiato. Dico Fondriest per fare un nome che la gente conosce però magari può valere anche per altri casi.
«Beh, indubbiamente. Maurizio è stato poi piano piano non un grossissimo campione però è stato uno che si è fatto valere, ha vinto delle belle gare, è stato un bel corridore. Certo in quegli anni lì’ c’è stata una buona evoluzione del ciclismo ma più avanti si è ancora evoluto molto ma molto, molto, ma molto di più. E purtroppo la vita è questo, no? Ci sono dei cambiamenti enormi in tutte le cose. E c’è stato anche nel ciclismo questo cambiamento».
- E invece come era visto un ragazzo di buona famiglia, perché comunque era benestante era bello, magari quando veniva alle corse in Ferrari, mi riferisco a Roberto: c’erta un po’ di invidia in gruppo? O è una cosa che magari è stata ingigantita dai media perché era una bella storia da raccontare? Perché poi alla fine si diceva ah troppo bello, non ha fame – sai rispetto magari ai ciclisti di una generazione prima – il ciclismo è sempre stato uno sport passami l’espressione tra virgolette “povero”, no? Dove la gente correva per migliorare anche il proprio status sociale. Invece Roberto non correva per soldi, correva per passione. E qualcuno magari qualche malalingua quando vedeva questo bel ragazzo, sembrava un predestinato, mondiale da junior subito – il primo mondiale di categoria a Losanna ’75, campione italiano a cronometro. Questo qua un fenomeno, forse gli va tutto dritto. In realtà non era così… lo chiedo a te che c’eri…
«Mah, secondo me questa cosa è stata un po’ ingigantita, no?, dai giornalisti, da tante cose perché io Roberto c’ho corso assieme diversi anni, l’ho conosciuto bene, non era uno che con la cresta alta, non era uno che si vantava, non era uno… era una persona normale che economicamente stava bene che però gli piaceva molto andare in bicicletta. Gli è sempre piaciuta la bici. Gli è sempre piaciuto questo sport. Forse l’unico punto debole suo di Roberto, te l’ho detto anche prima, era un po’ l’insicurezza. Era un po’ questa insicurezza che aveva, un po’ l’indecisione, un po’… Se avesse avuto la testa di… Io penso che con la classe e le doti che aveva Roberto, se avesse avuto la testa di certi campioni… Ecco, per esempio, con la testa di Chiappucci, un Roberto Visentini avrebbe potuto fare secondo me molto ma molto, molto di più, avrebbe potuto fare...».
- La grande domanda è se gli interessava davvero fare moto ma molto di più? Magari voleva vivere la sua vita così come l’ha vissuta...
«Eh [emette un sospirone, nda] questa … questa è una risposta molto difficile».
- Ma anche per Bugno si può fare questo discorso...
«Questa è una risposta molto difficile. Forse per Visentini sì, per Gianni, secondo me lui avrebbe voluto fare di più, però, non lo so, aveva delle carenze a livello… come doti, ripeto, anche lui era uno di quelli…».
- Bugno si prende in giro da solo, si schernisce, dice: ma no, io non ho mai saputo andare in bicicletta. Però il colpo di pedale di Gianni e la bellezza di Roberto in bicicletta, metti insieme 'ste cose fai il corridore perfetto in laboratorio. E invece vedevi il Chiappa che forse aveva una determinazione tale che lui si sentiva più forte di quello che era, no? Magari andava allo sbaraglio, ci ha regalato imprese straordinarie, ma non era un fuoriclasse di livello degli altri due, in quanto a classe pura…
«Se tu pensi alla tappa che ha vinto a Sestriere… Chiappucci al Giro o al Tour».
- O alla Sanremo che è riuscito a vincere, e in quella maniera…
«O alla Sanremo che è riuscito a vincere. Lui l’ha vinta con la testa, non l’ha vinta con le gambe... lui quelle gare lì le ha vinte soprattutto con la testa perché aveva un carattere che se un Visentini un Bugno avessero avuto un carattere che aveva Chiappucci, sarebbero stati dei grossissimi campioni però, purtroppo, sai, non si può prendere un pezzo di uno e metterli assieme e…».
- Veniamo al punto così ci togliamo sto dente e via. Tu non eri al Giro ’87 perché mi raccontavi grave caduta al Giro di Svizzera ’86 la stessa dove si fece male Chiappucci, clavicola e piede sinistro, tu mi hai detto per il ginocchio destro, che è il doppio del sinistro, poi magari me lo racconti, quindi non fai quel Giro perché non sei pronto ma vai a quel Tour.
«Sì».
- Com’era quell’anno lì in Carrera? È vero se c’era questo patto non so se non scritto o non detto: Visentini capitano perché aveva vinto l’anno prima al Giro e al servizio di Roche al tour e viceversa. È vero, non è vero? Dimmi tu…
«Beh sì, che c’era il patto è vero. Che c’era questo patto è vero che uno faceva il giro e l’altro il Tour».
- Con i gradi di capitano, diciamo così.
«Con i gradi di capitano. Sì. Roche doveva fare il Tour e Visentini sarebbe partito per fare classifica al Giro d’Italia. Però lo sai anche tu che durante una corsa a tappe le cose si possono stravolgere».
- Decide la strada…
«È la strada che decide. Le cose si possono stravolgere, sai…».
- Aspetta, facciamo un passo indietro, tu nell’86 sei stato fermo quasi tutto l’anno per quell’incidente, no?
«Sì».
- Ma anche perché era stato fermo quasi tutto l’anno perché lui era caduto alla Sei giorni di Parigi nel novembre ’85. Tutto l’anno fermo o quasi, due operazioni, gli specialisti italiani che gli sdicono:; guarda che tu con le corse hai finito, poi la schiena, insomma non guariva mai con stoi ginocchio. Boifava gli dava un fior d’ingaggio e gli dice. Guarda, magari ci veniamo incontro, si parlava di un taglio dello stipendio…
«È vero».
- Quindi lui aveva una determinazione in più perché gli scadeva la seconda e ultima stagione di contratto, e quindi doveva trovarsi squadra, intanto parlava con la Fagor, parlava con la Panasonic, parlava con lo stesso Boifava. E aveva bisogno di vincere. E veniva da una primavera importante. Visentini dopo il Giro ’86 non aveva più vinto niente. Roche invece aveva vinto la Volta Valenciana, aveva fatto gran Parigi-Nizza – forò nel momento decisivo, e Kelly ne approfittò facendo tirare i suoi e non solo i suoi –. Ha buttato via la Liegi facendosi fregare, lui e Criquielion, dalla rimonta di Argentin nel finale; ha vinto il Romandia; cioè: una serie di risultati che facevano dire, sai, questo qui ha più gamba… E l’altro magari neanche mi aiuta. Dimmi tu come sono andate le cose.
«Mah, come sono andate le cose… Eh, te l’ho detto prima…».
- Quindi mi confermi che il patto c’era?
«Il patto c’era. Poi c’è stata un po’ questa, diciamo, una diceria. Che dopo se non è stata neanche una diceria – che da Roberto me lo aspetto [ride, nda], conoscendo Visenta, magari l’ha detto per fare una battuta, ma se aspetta che io vada al Tour, io vado al mare quel periodo che c’è il tour, non vado al tour ad aiutare Stefano. Allora magari a Stefano gli è giunta all’orecchio anche questa cosa è stato uno stimolo ancora in più per…».
- Ma tu ci credi a questo piano studiato a tavolino in camera con Schepers? O secondo te è un’esagerazione anche quella?
«No, io non ci credo a questo piano studiato a tavolino».
- Anche perché era un po’ difficile da realizzare.
«Era un po’ difficile...».
- Avrebbe dovuto conoscere anche la discesa verso Sappada, per dire.
«Era moto difficile da realizzare questo piano. E poi, ripeto, non è stato lui il primo ad attaccare a Sappada, ha inseguito degli altri che avevano attaccato. Ha inseguito, perciò io sono convinto che questa fuga di Sappada, questa tappa di Sappada è stata una cosa strana, una cosa che è avvenuta così, come dal nulla, nata in corsa, senza una tattica iniziale. È stata… lui ne ha approfittato di questa fuga, è entrato con quei due davanti, Stefano. Dietro purtroppo il gruppo si è “fermato”, nessuno voleva tirare e…».
- C’era Quintarelli sulla prima ammiraglia, cioè quella davanti, e Boifava sulla seconda. E cosa è successo nelle due ammiraglie?
«E Boifava sulla seconda. Eh, cosa è successo… È successo che poi, a un certo momento, Roche, davanti, dava qualche cambio anche lui. Si era messo a tirare. Perché, dice, al limite vado a vincer la tappa, no? Dietro, non tirava nessuno e allora Boifava [gli scappa un sorriso, nda] diceva a Quintarelli di andare a dire a Roche di non tirare, assolutamente di non tirare. E gliel’ha detto una volta, gliel’ha detto due, gliel’ha detto tre, quello là invece tirava…».
- Ma è una leggenda che gli ha detto: vai, sennò lo butti giù con la macchina?
«Gliel’ha detto davvero. Lui, ride, non so se Boifava glielo ha detto scherzando o no, ma a Quintarelli però gli ha detto: se continui a tirare, vagli addosso con la macchina. Magari gliel’ha detto così scherzando, però… sai, quando sei lì, che sei un po’ a tutta, che sei davanti che puoi vincere la tappa, uno che ti dice: Guarda che se continui a tirare ti vengo addosso con la macchina, non è che…».
- E all’arrivo quella famosa frase “Stasera qualcuno va a casa”, ti risulta che il Visenta l’abbia detta, arrivato al traguardo, lì sotto al palco Rai, vicino a Giorgio Martino & company?
«Sì, mi risulta».
- L’ha detta, quindi?
«Secondo me, sì. Io l’ho chiesto ai miei compagni e loro han detto che lui l’ha detta. Lui l’ha detta. Lui l’ha detta ma, sai, io penso che finita una tappa così, dopo una tappa così, bisogna anche vedere, ragionare un po’ il dopo, perché subito dopo l’arrivo, a caldo, uno gli può anche scappare la parola, può anche… A volte succede. È successo anche a me di… mandare a quel paese qualche mio compagno di squadra perché magari non è venuto a tirare o perché, cazzo, tutto il giorno son là che mi faccio il mazzo, dove sei stato tutto il giorno, tutto il giorno tu a ruota, insomma ci sta, no? Ci sta dopo… E conoscendo Visenta, penso proprio che l’abbia detta quella…». [ride, nda]
- Prima parlavamo di ciclismo che è cambiato, ai tempi i giornalisti, ma non solo, arrivavano i corridori al traguardo ed erano lì, c’era un rapporto umano, oggi ci sono mille filtri, medico, massaggiatore, addetti stampa, quindi un Visenta che dice “Stasera qualcuno va a casa” non potrebbe nemmeno dirlo, perché verrebbe preso prima e portato via nella zona riservata.
«Hai ragione. Non farebbe in tempo a dirlo».
- È un alto mondo. E se lo dice, lo dice a orecchie amiche, diciamo così.
«Sì. non potrebbe neanche dirlo».
- Ma quindi tu quel Giro dove lo guardavi, da casa?
«Sì».
- Non eri con loro, né in albergo né alle tappe…
«No-no-no, però la sera magari ci sentivamo per telefono».
- Per dire, della visita dei Tacchella che cosa ti han detto?
«Di quello so poco. Però secondo me non è che fossero stati tanto contenti».
- L’atmosfera era un po’ pesantina?
«Eh sì. Secondo me atmosfera molto pesante».
- C’è una curiosità che in pochi ricordano. Quei giorni lì c’era in quelle zone lì visita il presidente americano Ronald Reagan.
«Sì».
- E i fratelli Tacchella arrivano in elicottero e per motivi di sicurezza li fanno atterrare lontano quindi devono andare a prendere una macchina e arrivano a Sappada tipo alle nove (e c’è chi dice alle undici) di sera, una roba così…
«Non lo sapevo».
- E in albergo c’era un mortorio. Tutti, specie il Chiappa, credevano stasera ci mandano tutti a casa. Poi chiappa come te veniva dall’incidente e diceva se mi mandano a casa, non ho il contatto per la prossima stagione quindi sai c’era anche un po’ di sana stizza…
«Indubbiamente, indubbiamente… Eh sì».
- Poi invece i Tacchella dicono: qua bisogna portare a casa la maglia rosa…
«Però sai, è questo mi è stato detto che loro hanno detto in ogni caso qua la maglia rosa, o Visentini o roche bisogna portarla a casa, la maglia rosa perciò cercate di… questo m’è stato riferito».
- Ma per te fu tradimento, nel ciclismo ce ne sono stati però il compagno che attacca la propria maglia rosa non s’era mai visto, e in maniera così plateale. Attacca o perlomeno diciamo non difende, mettiamola così…
«Questo è vero, hai ragione».
- Per te, fu tradimento, o una scelta di corsa? Perché se tu chiedi a giornalisti e addetti ai lavori UK, loro la chiamano business choice, una scelta di corsa.
[Fa un sospirone, nda]
«È difficile da interpretare una cosa del genere, secondo me un vero tradimento non è stato anche perché, l’ho detto prima…».
- …se non altro perché non era pianificato?
«No, perché la cosa non era pianificata e poi è sempre meglio averne due davanti che possono vincere il Giro che averne uno solo. Perché uno che non si sa mai, ti capita la volta che fori, ti capita la volta che cadi, ti capita la volta che… hai il jolly da poterti giocare. Infatti, così è stato».
- Quando dici, sai, puoi cadere, poi alla fine Visenta, quel giorno lì, probabilmente andò in crisi di nervi – magari me lo confermerai anche tu – quindi non si alimentò, andò in crisi di fame eccetera, prese 6’47” in una salita sì dura ma pedalabile...
«Sì, sì ma lui era uno che difficilissimo che prendesse i venti o trenta o quaranta secondi, lui se perdeva, perdeva minuti. Perché aveva queste crisi, in bambola. Poi te l’ho detto prima che ea un insicuro, uno che quando perdeva venti metri era già in braghe di tela, come si suol dire. Perché il morale andava sotto i piedi e non vai più avanti, cominciava a scuotere la testa. Stavo dicendo prima, sai, il Visenta ha fatto di quelle cose che… segava la bici con tutti i pezzi lunghi trenta centimetri li mise in una busta e la buttò nel giardino di Boifava. Adesso corri tu, no? perciò da Visenta c’è da aspettarsi, ci si può aspettare di tutto. Anche questo. Sai…». [sorride, nda]
- Al Tour dopo voi – tu al giro non c’era ma siete partiti e la squadra come l’hai trovata? Come se non fosse successo niente? Come se fosse un’altra squadra?
«La squadra era totalmente diversa rispetto al Giro d’Italia, praticamente era come se non fosse successo niente, anche perché là Visentini non c’era, c’era solo Roche e l’atmosfera , il clima era tutto diverso, no? E poi sai eravamo andati là per provare a vincere il Tour. Perciò… bisognava partire col piede giusto».
- La squadra di quel Tour era così forte?
«Eh insomma, era…».
- Eccola, la Carrera del Tour ’87: 11 Stephen Roche (Irl), 12 Guido Bontempi, 13 Davide Cassani, 14 Massimo Ghirotto, 15 Erich Maechler (Svi), 16 Jørgen Pedersen (Dan), 17 Giancarlo Perini, 18 Eddy Schepers (Bel), 19 Urs Zimmermann (Svi).
E questa è quella del Giro 1987: 1 Roberto Visentini, 2 Guido Bontempi, 3 Stephen Roche (Irl), 4 Bruno Leali, 5 Massimo Ghirotto, 6 Davide Cassani, 7 Eddy Schepers (Bel), 8 Francesco Rossignoli, 9 Claudio Chiappucci. In comune 5/9: Roche, Bontempi, Cassani, Ghirotto, Schepers.
- Con la squadra del Giro avete ammazzato tutti, li avete asfaltati. C’è una foto bellissima: alcuni di voi nella cronosquadre, qualcuno con gi occhiali qualcuno col caso, qualcuno con le lenticolari.
«Ma eravamo andati forte anche alla cronosquadre al Tour, quella che abbiam fatto 54 [km/h] di media. Quella che partiva da Berlino».
Seconda semitappa del 2 luglio, 40,5 km: vinse la Carrera in 44'50" con 8” sulla Del Tongo, 27” sulla Panasonic, 36” sulla Toshiba, 37” sulla Système U, 1’00" sulla Peugeot a 1'00", 1’01” sulla PDM, 1’06” sulla Roland-Skala, 1’24” su 7-Eleven-Hoonved e Superconfex…
- Prima di entrare in Francia, cinque giorni nel caldo torrido della Germania…
«Sì, sì, c’era un caldo… Mi ricordo».
- E ti ricordi la tappa di La Plagne con Roche che all’arrivo svenne e fu soccorso con l’ossigeno?
«Eeehhh! Mi ricordo quella tappa lì, anche quella una tappa durissima, dura dura… ma sai lui era uno che in gara riusciva sempre a dare tutto quello che aveva, soprattutto quando c’erano arrivi in salita lui arrivava all’arrivo un po’ stremato, sfatto e penso che la sua fortuna, la se sue doti erano il recupero bestiale, perché magari oggi arrivava sfatto però il giorno dopo era già diciamo quasi a posto. E anche quella tappa lì finì mi ricordo che è arrivato all’arrivo che era veramente. Ha tirato fuori… mi ricordo anche le foto che avevano pubblicato su Bicisport e così, con la maschera dell’ossigeno…».
- Nel ciclismo di oggi quello con le radioline, l’srm eccetera, tutti fissati co rapporto peso potenza, se potrebbe succedere una Sappada o una La Plagne?
Mi spiego: alla fine quella tappa eroica con lui che finisce con l’ossigeno, oggi nel ciclismo gli direbbero: Guarda che non ti serve, perché lui è arrivato a pochi secondi da Delgado…
«Oggi non sarebbe possibile».
- Roche poi aveva a proprio favore la crono di Digione, e con un minuto e mezzo lo avrebbe psicologicamente ammazzato, Delgado; in quel finale di tappa neanche avrebbe dovuto fare quello sforzo sovrumano per arrivargli addosso…
«Be’, le radioline in gara aiutano molto. Anche perché ti danno dei riferimenti che altrimenti non avresti. Come faresti ad avere certi… Anche perché non è che la macchina la fan passare ogni…».
- Soprattutto con duecento corridori in gruppo.
«…soprattutto con duecento corridori in gruppo Secondo me le radioline aiutano moto, e guidano anche i capitani, però io non sono… forse perché sono ancora uno della vecchia guardia…».
- Cioè ammazzano lo spettacolo?
«Io penso che la gara sarebbe più bella senza le radioline. Secondo me».
- C’è un altro partito di gente della vecchia guardia che dice: ormai le radioline ci sono, non possiamo tornare indietro…
«Io non dico che bisogna torna indietro. Io non ho mai detto questo. Anzi: è vero, non si può più torna indietro. Solo dico che senza le radioline secondo me ci sarebbe più spettacolo, sarebbe più bello, il ciclismo».
- Per salvare capra e cavoli, che cosa si potrebbe fare?
«Poi sai, certo le radioline danno sicurezza, fora uno subito alla macchina dicono che ha forato, succede una caduta, la macchina sa subito che questo è caduto, non so, c’è un inconveniente in strada lo sanno subito. Le radioline sono utili, inutile negarlo. È vero: non si può più tornare i dietro. Però se uno vuole la mia opinione, la mia opinione è che senza le radioline il ciclismo sarebbe moto più bello. Meno sicuro ma più bello».
- C’è anche chi dice: teniamo le radioline, per tutto quello che hai detto tu, ma togliamo in corsa – non in allenamento, ma in corsa – i misuratori di potenza, perché tu sai già che quello – andando a quel wattaggio – lo vai a prendere in tot km. Questo è un partito. Tu che ne pensi? Forse però anche lì non si può tornare indietro.
«Sarebbe già una buona cosa, però sai come fai, devi mettere una legge, sai son tante cose che… [fa un sospirone, nda] Non lo so, la vedo molto dura perché c’è sempre una evoluzione di queste cose, poi ci vanno di mezzo gli interessi…. È inutile nasconderlo o negarlo, eh. Perché poi le aziende che producono queste cose sono sponsor del ciclismo, degli eventi e vogliono…».
- …il loro tornaconto. E quindi non conviene a nessuno?
«Secondo me, no. Secondo me, non conviene a nessuno».
- Mi ha parlato della Carrera, volevo chiederti se era un gruppo sportivo così all’avanguardia. Intanto non aveva alle spalle come sponsor uno mobilificio che magari aveva interessi locali ma andava a prendere… esempio il patron il Giro di Puglia che il Tour, perché all’epoca la forbice tra Tour e Giro non era così ampia come ai giorni nostri che il Tour è un mondo a parte.
«Eh be’, sì».
- La Carrera produce jeans e andava prendere i migliori corridori internazionali, i Tacchella volevano un corridore – forte – per ogni Paese commercialmente di loro interesse: Roche per l’Irlanda, Schepers per il Belgio, il nucleo degli svizzeri, il look: il Chiappa mi ha detto una coa molto bella: «La nostra era una maglia, non era un giornale», cioè con mille sponsor piccolini, era immediatamente riconoscibile, con questi colori fantastici, primi a portare i pantaloncini non neri…
«Color jeans».
- La maglia la vendono ancora oggi, è una chicca per collezionisti, anche trenta, quarant’anni dopo… tutto questo per chiederti una cosa: eravate così all’avanguardia? Da potervi permettere i migliori corridori, prima o seconda squadra italiana ad avere il pullman per corridori insieme a quella di Stanga. Quanto eravate avanti, voi come Carrera, rispetto al resto?
«Ma, sai, i Tacchella la vedevano da lontano, poi non solo loro. Penso che anche Boifava ci abbia messo del suo. Perché Davide è sempre stato un team manager all’avanguardia».
- Già all’Inoxpran…
«…già all’Inoxpran. Poi sai col passare degli anni anche lui ha mollato un po’ le redini come si suol dire, perché è un impegno notevole. Poi si è creata la Podium con le biciclette, ha seguito forse un po’ di più il discorso Podium».
- Ma come funzionava: Tacchella alla Carrera, ma dopo si è staccata una costola per fare la Podium? È solo di Boifava?
«Ma penso che la Podium sia di Boifava però una percentuale sia ancora dei Tacchella. Da quello che so io è così, poi, sai, negli ultimi anni non è che abbia avuto molti apporti con Boifava. Ci sentiamo tutti gli anni, però, sai, non è che vado a chiedere a Davide se la Podium è tutta sua…».
- Anche perché adesso siete concorrenti…
«No, beh, io le ho vendute per diversi anni le biciclette Carrera, poi ho fatto una celta di vendere bici col mio marchio. E vendo solo quasi esclusivamente, fino a quest’anno, vendevo quasi esclusivamente biciclette Perini. Quest’anno ho preso anche Ridley, che è un marchio belga, anche per avere un marchio alternativo. Non mi sono buttato sulle bici americane perché ormai ce li hanno tutti, tipo Cannondale Trek, Specialized. No, mai noi eravamo uno squadrone, una delle squadre più forti».
- C’era così tanta distanza con le altre più forti? Ti faccio un esempio, dimmi tu se campato in aria o no: si può dire che voi eravate un Team Sky di oggi con trent’anni di anticipo? Oppure, la ribaltiamo: il Team Sky la Carrera di oggi?
«Io devo dire che la squadra forse più forte del momento era la Panasonic. Perché erano forse i più forti: [Gert-Jan] Theunisse, ricordo che un giorno è andato a fare l’Alpe d’Huez non so se l’ha fatta sei o sette vote in un giorno per provare l’arrivo dell’Alpe d’Huez, sì, sì… Ma mi ricordo ancora, all’epoca. C’era insomma… era la squadra da battere la Panasonic, ma poi era forte nelle classiche era forte dappertutto. Era una delle… allora, è la squadra è la Sky del momento».
- E voi come vi collochereste, come Carrera, facendo un parallelo oggi, era una Sky del momento anche come budget troppo più alto rispetto alle altre? E di che ordine di grandezza parliamo? Due, tre volte voi?
«Eh, sai, allora… Due volte la Carrera era la Panasonic. E aveva anche.. noi eravamo, te l’ho detto, eravamo in pochi, quei dodici o tredici, undici, son passato il primo anno eravamo in undici, dodici-tredici-. Quattordici corridori, loro viaggiavamo già in venti corridori perciò sai facevano anche doppia attività, già allora. Noi no. erano un’altra squadra, erano molto meglio organizzati. Be’, nonostante noi come Carrera fossimo una delle squadre migliori».
- E in Italia oltre a voi sullo stesso livello chi c’era?
«La Del Tongo era squadra che non era male., la Del Tongo era una bella squadra, anche quella. Supermercati Brianzoli».
- Per dirti, l’Atala del primo Cribiori era piccolina, no?
«Una squadrettina, sì».
- Anche se aveva uno come Bugno anche se all’inizio.
«Eh, però ne hai uno di corridori, già altri poi chi c’era, adesso non mi ricordo, [Mario] Noris».
- Per esempio magrini era diesse della Magniflex, un’altra squadra piccolina, col giovane Rodolfo Massi e Antonio Santaromita. Un’altra era la Selca di Bruno Reverberi, che riuscì a portare in maglia bianca Roberto Conti. L’Italia era un po’ l’epicentro del mondo ciclistico dell’epoca. Perché le squadre italiane, i corridori italiani – Moser e Saronni un tour in carriera – perché non ci andavano?
«Perché non li prendevano».
- Non li pendevano o perché il mercato dei nostri sponsor era quello che dci dicevamo prima…
«Un po’ per quello. Un po’ perché Del Tongo non è che gli interessasse il mercato francese ma un po’ anche perché al Tour non li prendevano. Perché poche squadre prendevano poche squadre italiane. Perché anche adesso, adesso c’è il discorso del World Tour tutte 'ste storie qua, se non sei una squadra di pro tour col cavolo che t prendono, no? ma già allora mi ricordo che molte squadre avrebbero anche voluto farlo ma non le prendevano. E perché c’era anche un limite.
- Quando è cambiato tutto? Quando sono arrivati prima gli americani po i colombiani… quando il Tour si è davvero internazionalizzato?
«Be’, sì con l’arrivo anche delle squadre americane, prima con LeMond [che però non correva per squadre americane, nda] poi con Armstrong, poi sono arrivati i colombiani come hai detto tu, insomma, si è, ha preso ancora più forza, ancora più, una potenza… e che purtroppo noi italiani non siamo riusciti a fare crescere in questo modo».
- Nonostante molte volte il Giro sia molto più bello, più combattuto, perché può esserci un’imboscata in ovunque in qualunque tappa...
«Mi ricordo quando correvo io c’erano al Giro d’Italia, c’erano cento giornalisti accreditati. Al Tour ce n’eran novecento».
- Uno a nove il rapporto?
«Sì. Una sala stampa, montavano i tendoni, quei tendoni militari mega galattici con un computer per ogni giornalista, tutti i giorni monta e smonta e monta e smonta è una roba indescrivibile. Io non ci sono mani andato ma…».
- Un’altra cosa: belle tutte ’ste montagne ma le mettono a tenta chilometri dal traguardo, e le annulli. Ma il punto è che ormai la macchina è così grossa che tra carovana pubblicitaria, media coi mega pullman camion delle tv con le parabolone (in gergo, fly, nda) che vedi, dove le parcheggi ’ste robe qua? Ci vorrebbe una città intera.
«Ci vorrebbero tutti degli arrivi come all’Alpe d’Huez…».
- Eh, ma quanti ce ne sono di arrivi così? Li mettono lontane perché non c’è modo di far defluire la carovana…
«È vero, è vero».
- È malato di gigantismo, è vittima del proprio successo. Veniamo alla attualità, trent’anni dopo sei andato alla festa di Caldiero per celebrare il trentennale dei trionfi delll’87?
«Sì, ci sono andato».
- Com’è andata?
«Bah…». [emette un sospirone, nda].
- Intanto com’è nata l’idea: Rolf Sørensen?
«È stato Sørensen. A me è arrivata la mail da Sørensen però da quello che potevo leggere nella mail secondo me la festa doveva essere diversa. Poi, all’ultimo momento…».
- Cioè diversa intendi solo per voi corridori?
«Sì. Quasi ed esclusivamente per noi corridori. Invece poi all’ultimo momento mi sono trovato là con una marea [gli scappa un sorriso, nda] di gente, no, di tutto e di più».
- C’erano persino i giornalisti…
«Eh, magari il giornalista perché si magari ci può anche stare perché il giornalista è quello che dà le notizie, quello che insomma ci può anche stare…».
- E quindi ti sei sentito un po’ ospite in casa tua, non so come dire: ti sei sentito un po’ a disagio?
[altro sospirone, nda] «Non lo so, non mi viene neanche il termine perché alla fine della fiera erano due tre personaggi quelli che contavano e gli altri come se non ci fossero. Insomma ’sta cosa qua non è che… a me può anche star bene perché io non ero nessuno ma agente come non so come vedi come hai detto tu prima vedi un Bontempi, vedi gente che ha vinto tantissimo, di tutto e di più praticamente è come se non si fosse presentata».
- Ma perché?
«Mah, non lo so…».
- Ma tu ci sei rimasto male o malissimo, come qualcuno invece?
«No, ci son rimasto male ma non malissimo, perché sai, capisco anche i Tacchella. Perché secondo me 'sta cosa qual di allargare tutto a tutti è venuta più dai Tacchella che da Sørensen. Che ha montato in piedi tutta ’sta baracca qua è stato Sørensen, che voleva una rimpatriata, riabbracciarsi tutti noi ciclisti, ’na mangiata insieme, dire quattro “balle”, se vogliamo raccontarci qualche storia e…».
- E Boifava in tutto questo, secondo te? Era più per farla solo per i corridori o magari gli è un po’ scappata di mano?
«Secondo me hai ragione tu, gli è un po’ scappata di mano., ha dovuto, è stato forse un po’ costretto ad ascoltare… ad ascoltare i Tacchella, ecco…».
- È diventata un po’ una vetrina?
«Hai detto il termine giusto. È diventata un po’ una vetrina Carrera, sì».
- Mi parli anche del mondiale? Te lo chiedono tutti e anch'io non posso non chiedertelo…
«Ma sai, il mondiale diciamo che è stato un po’ il fiore all’occhiello della mia carriera. Non dimentichiamo che quell’anno lì [il 1992, nda] ho fatto ottavo al Tour davanti a Roche che è arrivato nono, secondo Chiappucci, ottavo io. Adesso non è che voglia adesso esaltare le mie doti ma quell’anno lì, da come andavo, sarei potuto arrivare sul podio. Perché io mi son dovuto fermare spesso e volentieri ad aspettare Roche. L’arrivo di tappa a Sestriere ho fatto quinto, ho tirato per cinquanta chilometri per Roche. Ero in fuga m’hanno fermato, ho aspettato per quattro minuti. L’ho aspettato. Però io sapevo che il mio ruolo era quello del gregario, perciò non potevo recriminare niente. Io sono partito al Tour per fare da gregario. Facendo da gregario ho fatto ottavo in classifica generale, non penso che non sia cosa da poco arrivare ottavo a un Tour».
- In quel Tour poi, in particolare…
«In quel Tour sì che era stato, duo, duro durissimo. E poi dover sempre lavorare per gli altri. E poi quando ti fanno tirare non è che poi hai la forza per fare il tuo risultato».
- Devi preoccuparti di finire entro il tempo massimo e, se ce la fai, di non finire nel gruppetto. Ma quello era il “secondo” Roche, che era tornato in Carrera. Che differenze hai trovato il “primo” Roche, se ne hai trovate?
[altro sospirone, nda].
«Beh, non era più il Roche di prima, diciamo. Non era più il Roche di prima però…».
- Però ha saputo mettersi al servizio di Chiappucci, che dice che roche lo ha aiutato molto…
«In che senso l’ha aiutato?
- Il vero capitano era Chiappucci a quel punto lì, no?
«Sì».
- Con l’esperienza o magari…
«Sicuramente lui sera uno che in gara sapeva darti i consigli giusti perché Roche era uno molto tattico, era uno che non lasciava niente al caso. Era uno che molte volte ha vinto con l’intelligenza e con l’astuzia, non con le gambe. Perché Roche non era così forte con… io un Visentini ad esempio aveva una classe superiore a roche. Però dove non c’arrivavano le gambe, Roche ci arrivava con la testa, secondo me. E questo un campione è molto importante per un campione avere anche la mentalità, la testa giusta per poter ottenere, per fare questi risultati».
- Invece del mondiale del ’92 cosa ti ricordi?
«Eh, cosa mi ricordo… [sospirone, e ride, nda] Una scena che mi ricordo bene è quando ho passato l’ultimo giro sulla salita che c’è stata l’accelerata di Indurain, di Rominger. che siamo rimasti quei quindici-sedici lì davanti a un chilometro e mezzo dallo scollinamento, ho passato Ghirotto, ci siamo guardati in faccia e m’ha fatto questo me lo ricordo ancora e quando vedo glielo dico sempre...».
- Lui non ne aveva più?
«Mi ha fatto un cenno di no, con la testa che lui non aveva più. Io in quel momento i ho reagito e sono riuscito a rimanere sui primi con Gianni e Gianni quel giorno aveva una gamba strepitosa, aveva. Però, anche lì…».
- …bisognava convincerlo…
«Anche lì, se tu guardi il video, anche lì quando stavano tirando i francesi, perché poi ci son stati quei quattro che son andato via, io mi son messo davanti al gruppetto, ho chiuso il buco, ho ripeso tutti a te chilometri dall’arrivo e poi a un chilometro e mezzo dall’arrivo si son messi in testa i francesi, che erano in quattro loro, perché c’ea anche Jalabert con noi. Si son messi davanti i francesi a tirare per… e io mi son messo a ruota ai francesi. Mi son messo a ruota e c’era Jalabert. A un certo momento a un chilometro all’arrivo, mi giro, Bugno è penultimo del gruppetto… Gli ho tirato quattro bestemmie sull’orecchio e gli ho detto: "Cazzooo, vieni a ruotaaaa" [imita l’urlaccio di allora, nda]. Se io in quel frangente non mi giro e non vedo che è là penultimo... Lui aveva la gamba per poter vincere, però, sai, un arrivo in leggera salita, dove se in quindici o sedici, uno ti stringe, l’altro ce l’hai davanti non puoi passare, l’altro… ehhh… Puoi anche essere anche il più forte di tutti ma… La sua fortuna è stata che in quel momento lì mi son girato, è venuto a ruota e in quel momento in cui mi è arrivato a ruota, son partiti per la volata e poi io l’ho guidato fino a duecentocinquanta metri dall’arrivo e lui è riuscito a vincere a braccia alzate ma con una facilità, con un’eleganza, con una cosa che... solo lui sapeva fare».
- E poi tutti in piscina con ancora i calzoncini…
«Ride… dopo poi c’era un caldo, c’eran più di trenta gradi quel giorno lì. E poi correvamo su, si faceva un circuito con un salita dove c’era stato un incendio giorni prima. Era tutto bruciato. Non c’era più neanche una pianta, me lo ricordo ancora, questo, non c’era più. Un caldo infernale, quello che piace a me. Io mi son sempre trovato bene col caldo».
- E perché quell’anno lì volavi?
«Eh… [sospira, nda] È stato un ano di grazia. Io penso che nella carriera, nella vita di ogni ciclista, di ogni maratoneta… anche nel ’93, per me gli ultimi anni son stati quelli che son andato diciamo un po’ meglio…».
- Hai avuto modo di maturare. Molte volte ti tirano il collo ancora prima di arrivare nei pro’…
«Beh, tu calcola che il primo anno, nell’81 quando son passato professionista, ho fatto Vuelta e Giro, abbiam vinto Vuelta e Giro con Giovanni Battaglin. Non è che mi hanno dato tante possibilità di… se calcoli che alla Vuelta me lo ricordo ancora faccio tredici giorni di maglia amarillo Giovanni e abbiamo lavorato per Giovanni per tredici giorni. Io Ho finito la Vuelta ero finito, dico una parola volgare, ero finito come una carogna. C’era una settimana allora, perché la Vuelta allora si faceva ad aprile, si faceva prima del Giro d’Italia [Perini ricorda male: fine Vuelta il 10 maggio, inizio Giro il 13 maggio, nda]. Pensando di partire una settimana dopo per il Giro d’Italia, mi veniva il vomito, mi veniva, eppure… Eppure ce l’ho fatta. Sai, dopo cose del genere non è facile ma poi allora alle squadre gli interessava poco che vincessero i gregari. Non è come adesso che c’è più libertà, c’è più… Allora dovevan vincere i capitani, e basta. Si lavorava per il capitano. Fine. Era quello. Era quello, si lavorava…».
- C’è chi dice che invece oggi, una volta magari ti facevano fare la visita parenti, se uno era fuori classifica ti lasciavano andare in fuga,. Invece oggi al Tour pronti-via, tutti a tutta, per stare davanti, quindi non è un po’n una contraddizione, questo? Tu dici allora non c’era spazio perché dovevano vincere i capitani. Oggi forse ce ne anche meno.
«Beh sì, questo è vero che ce n’è anche meno, però il ciclismo moderno di adesso è così. Forse perché ci sono più corse magari. Molte più corse. Comunque io ero uno che faceva cento centocinque centodieci giorni di gara, cioè in un anno non è che corressi poco eh…».
- In un anno vuol dire uno ogni tre…
«Giro, Tour e classiche e tutto il Belgio, per loro non c’era molto ricambio, eh. Eravamo quelli che correvamo. E c’era ancora le gare eh non è che si andava in Australia, come si va adesso, non si andava in Malesia, non si va all’Oman però le gare… c’erano allora che i corridori di adesso non sanno neanche che esistevano. C’era il Sardegna, c’era la Sassari-Cagliari, la Sicilia, Puglia. Io ho vinto una tappa al Giro di Puglia ad esempio [la sua unica vittoria in carriera, nda], insomma c’era una marea di gare anche allora. Allora si andava giù in Sicilia, ce n’eran due, una a Siracusa [il Provincia di Siracusa, il Pantalica a febbraio o marzo dal 1975 al 2003 con l’eccezione del 1993, organizzato da Franco Mealli, per scalatori ma preparazione alla Milano-Sanremo, nda], il Giro dell’Etna e il Trofeo Pantalica. Se tu parli, del trofeo Pantalica, nessuno sa cos’era».
- Forse neanche più il Laigueglia, se è per questo... Dimmi di ’sta benedetta vittoria che non voleva mai arrivare, dai. Quanto l’hai sognata?
«Eh va be’ [gli scappa una risatina sbuffata, nda] dopo tanti anni, nel 93 alla ZG son riuscito a, forse anche perché ero un po’ più libero di far la mia gara lì con Savio ed è arrivata sta vittoria al Giro di Puglia. È arrivata».
- Raccontami magari non per forza i campioni ma anche i diesse o gli avversari che ricordi per qualche motivo positivo o negativo. Per esempio dei diesse che hai avuto qual era quello con cui hai più legato o che ti ha insegnato di più? O che tu hai insegnato a lui magari, perché succede.
«Beh, no. Allora diciamo che Davide [Boifava], i primi anni, era il team manager però faceva anche il direttore sportivo, non c’era tutta questa suddivisione dei compiti, diciamo il più simpatico di tutti, quello con cui potevi scherzare era Quintarelli. Anche se magari ne sapeva un po’ meno di ciclismo, però…».
- È vero che Bontempi una volta gli ha tirato una mela, che si è spiaccicata sul muro?
«Sì, sì. [ride, nda] Quello con cui potevi scherzare di più, che potevi... Quello da cui forse ho imparato di più è stato Davide Boifava, i primi anni da professionista».
- E il “Principe” Gianni Savio, invece?
«Be’, il Principe… È una brava persona perché alla fine della fiera non è cattivo, però secondo me non è uno da far soprattutto con il ciclismo di adesso non è uno da fare il direttore sportivo. Il principe va bene da team manager».
- Perché lui è bravo in quello, è bravo nelle PR…
«È bravo nelle pr, come team manager c’è dal lasciarlo stare sì perché è moto bravo, proprio. Un altro che da team manager è Stanga, secondo me. Stanga secondo me. Uno…».
- Anche di lui mi puoi fare quel discorso lì, meglio da team manager che da direttore sportivo?
«Secondo me, sì».
- Perché pensi che da uno come Bugno magari un altro avrebbe potuto tirar fuori di più o qualcos’altro?
«Sai, è sempre difficile. Non avendolo mai avuto, Stanga, come direttore sportivo».
- Però hai avuto Bugno come compagno…
«Sì, però è difficile diciamo far delle valutazioni non avendolo mai avuto come ds. È molto difficile».
- E tu nella veste che invece occupi adesso magari non so…
«Io ho fatto il DS per diversi anni, ho vinto il giro del Portogallo con Serpellini [nel 1997 alla Brescialat, nda], ho vinto delle classiche, ho fatto il ds a uno che sta corendo ancora adesso che avrà 45 anni o 46 o 47 anni, a Davide Rebellin, gli ho fatto da dierttore sportivo quando correva alla Liquigas. Io gli ho fatto da ds. Quando era Bordonali alla Liquigas non so se te la ricordi, eravamo io, c’era ecco uno che secondo me che non l’ho avuto da diesse però secondo me una persona abbastanza valida è Amadio. Che era il diesse con me alla Liquigas quell’anno lì che c’era Rebellin».
- Lui è passato giovanissimo Sagan che c’era Amadio in Liquigas.
«Questo non me lo ricordo, sinceramente».
- E di Rebellin cosa mi dici continua a correre perché? Non certo per soldi.
«Io non la so la sua situazione economica sinceramente. Ma non lo so. L’ho sentito dire anch’io però penso di no. Non lo so. Spero di no. Spero che non continui uno come lui con tutta la carriera che ha avuto, porca miseria. Lui continua a die che va in bici per passione, perché gli piace.
- O magari anche perché non sa smettere. Tu come ti sei trovato quando hai smesso? Anche se magari smesso-smesso non hai perché comunque sei nell’ambiente, perché hai fatto il diesse, hai un negozio di bici, hai una squadra… Com’è stato il passaggio?
«Be’ i primi anni sicuramente son difficili perché sei abituato a un tipo di vita, a uno stile di vita, a una cosa tutta diversa e sicuramente i primi anni son stati difficili. Poi però piano piano ci fai l’abitudine. E bisogna essere consapevoli».
- Tu ti eri un po’ preparato il distacco?
«Io ho aperto il negozio qualche anno prima di smettere, venivo quando correvo gli ultimi anni ogni tanto in negozio, diciamo mentalmente e psicologicamente mi sono anche preparato abbastanza. Comunque è sempre difficile smettere. Smettere è una cosa così bella perché io il ciclismo l’ho praticato per tantissimi anni, da undici anni che ho iniziato ad andare in bici e ci sono andato fino a trentacinque anni, ci sono andato, ci vado tuttora non è che dici “sono andato”… L’ho praticato agonisticamente, diciamo, fino a 35 anni. Sai, smettere di colpo non è facile. Non è facile…».
- E come ti sei trovato a fare il direttore sportivo?
«Però forse è stato meno traumatico perché ho smesso di correre ma non ho mai smesso di andare in bicicletta. Io tuttora quei dieci dodicimila chilometri l’anno me li faccio. Ed è quello che, forse, mi fa stare bene».
- E da diesse? Com’era stare dalla parte di là della barricata?
«Mah, com’era…».
- Cioè una figura che ti ci vedevi o…?
«Ma sì, era una figura che mi ci vedevo abbastanza come diesse, però forse non è che ho sbagliato. Forse, avendo aperto l’attività che ho ora, alla fine della fiera, dovendo curare l’attività a casa e dovendo fare il direttore sportivo, alla fine della fiera, se vogliamo dire, il termine giusto, non facevi bene né una cosa né l’altra. E allora a un certo momento ho dovuto fare una scelta perché ho dovuto fare una scelta. E ho detto: son tanti anni che son in giro per il mondo, proviamo qua a stare un po’ a casa, godermi un po’ i miei figli, godermi un po’ la mia famiglia, godermi un po’ mia moglie. Perché, sai, quando andavi via stavi via anche dei mesi da casa, no? A volte venivo a casa mio figlio non mi riconosceva neanche, si metteva a piangere, dopo un mese di Giro o di Tour, che non ti vedeva da un mese, no? Queste cose un po’ ti pesano, sicuramente. È stato un po’ forse quello che m’ha frenato un po’ e m’ha fatto prendere questa decisione. Non sono pentito però della decisione che ho preso, perché mi sono goduto di più i miei figli, mi sono goduto di più la mia famiglia».
- Tutto quello che hai costruito, insomma.
«Sì, sì».
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