Bugno al Fiandre '94 - Questione di millimetri


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Bugno: «Se vinco il Fiandre mi fai guidare il pullman della squadra».
Stanga: «D’accordo Gianni, come vuoi tu».

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Rainbow Sports Books ©

Pasqua di passione, prima ancora che di resurrezione. Dopo il suo anno (forse) più buio. Ma tutto questo, degregorianamente, “Alice” Gianni Bugno (ancora) non lo sa.

Il Fiandre numero 76 è la solita festa nazionale belga, e al foglio-firma si respira la consueta atmosfera da sagra di strapaese.

Euforia, e risate sguaiate, a fiumi. Come la birra. 

Lo speaker su di giri che in fiammingo introduce - e incalza - via via i corridori, specie i più pericolosi (per gli idoli di casa). 

Col nostro Franco Ballerini, in campagna del nord cliente sempre scomodissimo (specie per gli idoli di casa), ci va giù pesante: «Franco, dicci: come si chiama quella sostanza che fa andare così forte voi italiani?». 
Boato e ilarità generali del pubblico festante.
La pronta risposta del "Ballero" è più gelida del meteo incombente: «Si chiama lavoro, evidentemente qui non la conoscete». Piazza Sint-Niklaas ammutolita. Siore e siori, la Ronde 1994 è già cominciata. Ma anche questo, “Alice” Gianni Bugno, (ancora) non lo sa. 

Il fuoriclasse italiano è ancora uno dei più pericolosi (specie per gli idoli di casa), ma viene da un 1993 horribilis. Per chi ci crede, la classica maledizione della (per lui seconda) maglia arcobaleno. Ormai prossimo alla trentina, in troppi lo danno già così per finito che pure lui ha finito per crederci. In più c’è tempaccio. Quindi, se lo sentiva, per lui la “festa” nazionale belga sarebbe durata poco. 

Lo racconterà lui stesso, quasi trent’anni dopo, nella sua autobiografia, Per non cadere, scritta con Tiziano Marino. «Franz, guarda, non star lì a diventar matto. Non impazzire perché tanto oggi faccio cinquanta chilometri e prima dei muri mi fermo. Con questo tempo non riesco proprio a correre».

“Franz” sta per Francesco Villa, che dalla dipartita del mitico Giovanni Tonoli (26 giugno 1993) gli era succeduto come fidatissimo meccanico di Bugno alla Polti, main sponsor che il giemme Gianluigi Stanga aveva trovato per il ’94 dopo il biennio con il marchio Gatorade.

Fa quasi tenerezza, il Gianni: avvolto come nel Domopak nella sua mantellina anti-pioggia. Mai amati acqua e freddo, lo "Svizzero" (solo di nascita). Sin dalle giovanili. «La bici dev’essere usata solo con il bel tempo», il mantra mattutino che in caso di tempaccio soleva ripetere al dottor Mario Ireneo Sturla. E quello, di rimando: «Tranquillo, Gianni: oggi è solo un po’ uggioso».

Ironia del Caso - divinità perennemente sottovalutata - sotto le nubi minacciose in Grote Markt, la piazza del mercato, è ancora più stridente il contrasto d’immagini al raduno di partenza, fra lui e lo smanicato Lance Armstrong, il texano dal cuore più ancora che gli occhi - di ghiaccio. 
Simili eppure diversissimi da quelli - più da Husky siberiano - di “Diabolik”, come Sturla chiamava Bugno perché così «azzurri e penetranti, scavavano l’anima senza tradire emozioni».

A Oslo ’93, sotto il diluvio, l’istantanea del concetto. Bugno - bicampione mondiale uscente, e sempre nella calura: a Stoccarda prima, a Benidorm poi - tremebondo di andar per terra a ogni curva e persino in salita; Armstrong, a 21 anni e 346 giorni, secondo più giovane iridato del dopoguerra. Il terzo in assoluto dopo, guarda caso, due belgi: Karel Kaers (20 e 76) nel 1934 e il povero Jean-Pierre Monseré (21 e 346) nel 1970. Anche là, senza neppure i manicotti l’Amerikano, come lo chiamava Marco Pantani.

Senza guanti, invece, si presenta al via il Gianni quel 3 aprile altro che uggioso: comincia pure a nevicare. Neanche partiti e chiama l’ammiraglia per recuperarli. La neve fa spazio a un pallido sole, ma il pavé bagnato gli incute persino più timore e gli impone di stare davanti. Mette la squadra a tirare e il primo tratto lo percorre in testa, «ma dopo quattro chilometri - racconta nel libro - mi ritrovai ultimo e staccato, in mezzo alle ammiraglie. Consegnai i guanti a Stanga, poi i miei compagni mi riportarono in gruppo».

Il guaio, come sempre con “Vedremo”, iconica seconda pelle appiccicatagli da Gianni Mura per l’immancabile intercalare d’ogni intervista, è che sul piano psicologico sentiva di non stare bene. Ma poi «la strada si era asciugata e questo mi diede fiducia per cercare di tenermi nelle prime posizioni. Quando mi accorsi di essere rimasto solo con pochi corridori, nella mia testa iniziò la corsa, quella vera».

Il primo muro vero è il quarto, il Vecchio Kwaremont: 2km buoni all’11%. La scremata però la fa una maxi-caduta: MArio Cipollini, per dirne uno, si rialza col telaio piegato a metà. Capiot pare nella forma della vita. Dietro di lui tanta Italia: Fidanza, il Ballero dalla risposta gelida come il maltempo un po’ meno incombente, Bontempi, Bottaro e Cenghialta; annaspano invece Argentin e Chiappucci. Al settimo muro, il Kruisberg, anziché riposarsi si sveglia Bugno, pronto a inseguire il quintetto di lepri: Capiot, Schurer e i tre italiani Bottaro, Roscioli e Bontempi. 

Al muro successivo, il Taaienberg, altra sua setacciata al lotto, ora ridotto a 18 unità. Tra i nomi grossi ci sono l’olandese Frans Maassen, fiamminghi doc come Johan Museeuw, Marc Sergeant e Edwig Van Hooydonck (già due volte “Eddy Bosberg”, ’89 e ’91), e d’adozione come Andrei Tchmil, apolide di penta-nazionalità e in quell’anno ancora moldavo.

Dal Leberg, quintultimo muro ai meno sessanta dal traguardo, si salvi chi può.

Saltano più o meno subito il danese Jesper Skibby, i nostri Bottaro e Roscioli e Peron, uomo di Bugno. E per ultimi Baldato (ds oggi alla UAE Emirates dopo una vita alla BMC), Cenghialta e Capiot, che cede sul Grammont. 

Prima del Grammont però il gruppone si era già sgretolato: dopo due attacchi andati a vuoto di Bontempi e Tchmil, che però scremano il plotone, ci aveva provato Capiot. Dietro si muovono Ballerini e Museeuw, poi Tchmil e infine Bugno.

Stavolta però il totem Muur non fa selezione: salta sì Capiot, fuggitivo iniziale con Bontempi, Bottaro, Schurer e Roscioli, ma gli altri tengono. Ballerini, il meno veloce, tenta l’allungo ma senza fortuna. Bugno sembra sempre lì per staccarsi eppure resiste. I giochi sembrano fatti: a Meerbeke sarà una mano di poker a quattro. 

Prima però c’è ancora il Bosberg, sedicesimo e ultimo muro, a dieci chilometri dalla fine.

Strano ma vero, chi si mette a tirare - e con un rapportino per lui sorprendentemente agile - è proprio lo Svizzero, che ai -2km ci prova anche ad andare via. Ballerini prima fa da stopper e poi ritenta il bluff, ma a un chilometro dal traguardo prima Museeuw, idolo di casa e campione uscente, e poi Tchmil, dato come il più in forma, chiamano “vedo” e chiudono il buco.

Sul rettilineo finale, in leggera ascesa, Bugno parte ai -250 metri, piuttosto "tardi" per lui che amava farlo, in progressione, ai quattrocento. È però avanti di quasi una bicicletta. Convinto di aver (già) vinto smette di pedalare e, controvento, alza le mani per esultare. “Vedremo” se troppo presto oppure no.

Quel volpone di Museeuw, infatti, in piena rimonta e col cuor leggero per il trionfo dell’anno prima (bissato in quello dopo e triplettato nel ’98), con l’ultimo colpo di reni da più scafato dei puncheur sembra averlo sopravanzato. Sembra. Ci vorranno dieci minuti buoni al fotofinish per determinare il vincitore.

Dentro di sé Gianni, nel bene o nel male, sa di averla comunque combinata grossa. 

Nel frattempo, oltre la linea del traguardo, il suo massaggiatore Giuseppe Corna - già rassegnato - cerca invano di consolarlo. Il diesse Claudio Corti invece «prima mi fulminò con lo sguardo, poi mi abbracciò per tranquillizzarmi». 

Un centimetro, il verdetto: Bugno-Museeuw. Nell’ordine. Poi, con lo stesso tempo: Tchmil e Ballerini.

Col palmarès del poi, un non-specialista aveva messo in fila - per sette millimetri, il minor margine nella ultracentenaria storia del Fiandre - un leggendario parterre de rois del pavé: tris al Fiandre e alla Roubaix per il fiammingo, Fiandre e Roubaix per l’apolide, due Roubaix per il toscano. 

Quinto a 1’11” il generosissimo Johan Capiot. Fosse stato al Tour, no-contest numero rosso del più combattivo di giornata. A 1’54”, Fabio Baldato regola la volata dei primi inseguitori con dentro anche Guido Bontempi e Bruno Cenghialta.

L’indomani, il Gianni passa all’incasso. Carica i compagni sul pullman della squadra e li porta a spasso per le vie di Gand. Con lui alla guida. Come la mattina dopo il bis iridato di Benidorm ’92, diciannove mesi prima: la sua ultima grande vittoria. Anche là, «questione di centimetri», per citare l’ingegner Dino Viola e lo storico non-gol di Maurizio Turone. Più Vedremo di così…
CHRISTIAN GIORDANO ©
Rainbow Sports Books © 


Ordine d’arrivo Ronde 1994:
76a edizione, 3 aprile 1994, Sint-Niklaas - Meerbeke, 268 km, media 39,668 km/h
1 Gianni Bugno (Ita) Polti in 6h 45’ 20”
2 Johan Museeuw (Bel) GB-MG Magificio    s.t.
3 Andrei Tchmil (Mol) Lotto-Caloi                 s.t.
4 Franco Ballerini (Ita) Mapei-Clas                s.t.
5 Johan Capiot (Bel) TVM-Bison Kit             1’11”
6 Fabio Baldato (Ita) GB-MG Magl.              1’54”
7 Guido Bontempi (Ita) Gewiss                        s.t.
8 Marc Sergeant (Bel) Novemail                      s.t.
9 Edwig Van Hooydonck (Bel) Wordperfect    s.t.
10 Frank Corvers (Bel) Collstrop                     s.t.

I 16 Muri della Ronde 1994:
1. Tiegemberg 
2. Kluisberg 
3. Knokteberg 
4. Oude Kwaremont 
5. Paterberg 
6. Hoogberg-Hotond 
7. Kruisberg 
8. Taaienberg 
9. Eikenberg 
10. Volkegemberg 
11. Varent 
12. Leberg 
13. Molenberg 
14. Berendries 
15. Muur-Kapelmuur 
16. Bosberg

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